Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 5857, del 6 dicembre 2013
Acque.Discrimine tra nozione di “scarico industriale” e “rifiuto”
Quale sia la definizione normativa di “scarico” si evince dall’art. 74 ff) del d.lgs. n. 152: qualsiasi immissione di acque reflue in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. L’art. 2, c. 1, d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, recependo l’elaborazione giurisprudenziale, ha aggiunto agli elementi della definizione la presenza di un “sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore”. Questa è quindi, la definizione di scarico: essa è indipendente dalla natura inquinante delle acque destinate ad essere immesse nel corpo recettore (“indipendentemente dalla loro natura inquinante”).
Delle acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell'ambito degli interventi di bonifica di un sito si occupa invece l’art. 243 del d.lgs. n. 152, collocato, nella parte relativa ai rifiuti e alla bonifica. La qualità delle acque che possono essere reimesse nei corpi recettori, se sconta l’applicazione della normativa dedicata alle acque reflue industriali, non è sottratta al rispetto delle altre normative comunitarie e nazionali, tra le quali la stessa normativa relativa ai rifiuti contenuta nel d.lgs. n. 152, il cui art. 185, nel testo vigente all’epoca dei fatti, nell’escludere dal campo di applicazione della parte quarta gli scarichi idrici, espressamente fa eccezione per “i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue”. Va inoltre considerato che ai sensi del comma 5 dell’art. 108 del medesimo decreto legislativo, proprio in relazione alle acque reflue industriali, “l’autorità competente può richiedere che gli scarichi parziali contenenti le sostanze della tabella 5 del medesimo Allegato 5 siano tenuti separati dallo scarico generale e disciplinati come rifiuti”. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 05857/2013REG.PROV.COLL.
N. 08057/2009 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8057 del 2009, proposto dalla Syndial s.p.a., in persona del legale rappresentante in carica rappresentata e difesa dall'avvocato Stefano Grassi, presso lo stesso elettivamente domiciliata in Roma, piazza Barberini, 12;
contro
Il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in persona del rispettivi ministri in carica, la Capitaneria di porto di San’Antioco in persona del legale rappresentante in carica, il Comando generale delle Capitanerie di porto in persona del legale rappresentante in carica; l’Ispesl-Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro in persona del legale rappresentante in carica, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
la Provincia di Oristano, in persona del presidente in carica, rappresentata e difesa dall'avvocato Angelo Serra, con domicilio eletto presso il signor Giulio Murano in Roma, via Angelo Brofferio, 7;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. SARDEGNA - CAGLIARI: SEZIONE II n. 549/2009, resa tra le parti, concernente bonifica aree industriali di interesse nazionale.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni in epigrafe indicate; Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 ottobre 2013 il consigliere Roberta Vigotti e uditi per le parti l’avvocato Grassi, l'avvocato dello Stato Andrea Fedeli e l'avvocato Serra;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
La società Syndial, proprietaria di una vasta area nel polo industriale di San Gavino Monreale, chiede la riforma della sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tribunale amministrativo della Sardegna ha respinto tre ricorsi (nn. 946 del 2006; 531 del 2007 e 602 del 2008) proposti avverso le determinazioni delle conferenze di servizi decisorie relative al sito di bonifica di interesse nazionale del Sulcis Iglesiente Guspinese, nel quale rientra il suddetto polo industriale, e dei provvedimenti connessi e conseguenti, fino alle prescrizioni di messa in sicurezza d’emergenza delle acque di falda dettate dalla conferenza di servizi del 13 marzo 2008.
I) La sentenza impugnata, riuniti i gravami, ha annullato i verbali delle conferenze di servizi del 31 maggio 2005 e dell’11 novembre 2005, nonché il decreto in data 5 aprile 2007 del Ministero dell’ambiente, nella parte in cui tali atti impongono alla società ricorrente la realizzazione di un barrieramento fisico della fonte inquinante, quale misura integrativa di messa in sicurezza d’emergenza. Il Tribunale ha invece respinto le censure relative alla qualificazione delle acque emunte dalla falda come rifiuto liquido e al relativo trattamento, all’obbligo di attivazione delle misure di sicurezza dei suoli, all’obbligo di provvedere agli interventi di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica della falda e dei suoli, ai vizi procedurali nei lavori delle conferenze e dei relativi decreti di approvazione.
L’appello contesta la sentenza nella parte in cui sono stati respinti i motivi proposti avverso le prescrizioni relative al trattamento delle acque di falda come rifiuti liquidi e all’obbligo di rispettare allo scarico i limiti della bonifica, e nella parte in cui ha respinto i motivi attinenti alla illegittimità dell’iter procedimentale e istruttorio.
Si sono costituite in questo secondo grado del giudizio i soggetti in epigrafe indicati: di questi, conformemente a quanto essi richiedono, va dichiarata la carenza di legittimazione passiva dell’Ufficio locale marittimo di Portoscuso, del Comando generale delle Capitanerie di porto, dell’Ufficio circondariale marittimo di Sant’Antioco, del Ministero dei trasporti e dell’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, in quanto Amministrazioni estranee all’ambito di competenze coinvolte nella controversia, né parti in alcun modo dei procedimenti sfociati negli atti oggetto del giudizio.
II.a) La prima questione sottoposta all’esame del Collegio riguarda la qualificazione delle acque di falda emunte durante la fase della messa in sicurezza d’emergenza e della bonifica dei siti contaminati: più precisamente, se tali acque possano (o meglio, debbano) essere considerate come rifiuti liquidi, e rispettare quindi la normativa dettata per i relativi impianti di smaltimento e per i limiti di emissione.
Come ha rilevato il Tar, nel corso dei lavori delle conferenze di servizi del 31 maggio 2005, dell’11 novembre 2005, dell’11 luglio 2006 e del 13 marzo 2008 era stato precisato che le suddette acque dovessero essere trattate come rifiuti liquidi, per cui i relativi impianti di trattamento si sarebbero dovuti autorizzare ai sensi degli artt. 27 e 28 del d.lgs. n. 22 del 1997 (ora sostituiti dagli artt. 208 e seguenti del d.lgs. 152 del 2006), e i relativi scarichi avrebbero dovuto rispettare i limiti di emissione di cui all’allegato 5 del d.lgs. n. 22 del 1997 (ora sostituito dall’art. 101 del d.lgs. n. 152 del 2006).
La sentenza impugnata ha condiviso tale prospettazione dell’Amministrazione, rilevando che già la presenza di uno iato temporale e materiale tra la fase di emungimento e quella di trattamento, consistente nello stoccaggio delle acque in attesa della destinazione finale, depone per la qualificabilità delle acque in termini di “rifiuto liquido”, laddove la nozione di “scarico” implica la continuità tra la generazione del refluo e l’immissione nel corpo recettore. Inoltre, secondo il Tar, le acque emunte da una falda inquinata rientrano nella nozione comunitaria e nazionale di “rifiuto liquido”, come si evince dalla direttiva 2006/12/CE e dalla sentenza della Corte di giustizia CE 7 settembre 2004. Infine, la disciplina introdotta dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale, d’ora in avanti anche: ‘Codice’), non smentisce la suddetta conclusione, posto che l’art. 243, comma 1, su cui fa leva la ricorrente nel sostenere che le acque di falda emunte per finalità di disinquinamento godrebbero di un regime derogatorio rispetto alla generale disciplina dei rifiuti liquidi, equiparato a quello proprio dei reflui industriali destinati allo scarico in acque superficiali, sconta appunto la dimostrazione di tale modalità di scarico, per la quale la ricorrente non ha invece dato alcuna indicazione.
II.b) Alla ricostruzione operata dal Tar l’appellante oppone che, a partire dall’entrata in vigore dell’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 e del decreto ministeriale n. 471 del 1999, il Ministero dell’ambiente ha sempre ritenuto che le acque di falda emunte nel corso di operazioni di bonifica debbano essere sottoposte sia alla disciplina sui rifiuti ex artt. 27 e seguenti del d.lgs. n. 22, sia a quella sulle bonifiche ex art. 17 del medesimo decreto, e che tali indicazioni ministeriali hanno determinato notevoli incertezze e difficoltà applicative, consistenti principalmente nella necessità di realizzare appositi impianti di trattamento delle acque di falda idonei ad assicurare il raggiungimento dei limiti di cui al decreto n. 471, anziché di quelli di cui all’allegato 5 al d.lgs. n. 152 del 1999, previo rilascio delle autorizzazioni al trattamento dei rifiuti previste dagli artt. 27 e 28 del d.lgs. n. 22.
A fare chiarezza è intervenuto l’art. 243 del Codice dell’ambiente, che ha disciplinato con una disposizione ad hoc il regime delle acque emunte durante le operazioni di bonifica e di messa in sicurezza d’emergenza, specificando che quelle scaricate nei corpi idrici sono sottoposte ai limiti previsti nella parte terza, così evidenziandone la sottoposizione alla normativa sugli scarichi e non a quella sui rifiuti, che è incompatibile con la prima ai sensi dell’art. 185, comma 1, lett. b). Le acque emunte, perciò, costituiscono acque reflue provenienti dal ciclo di bonifica, e non rifiuti e, perciò, sono assimilabili alle acque di scarico.
La sentenza impugnata, inoltre, secondo l’appellante, erra nell’individuare la linea di confine tra la nozione di “scarico” e quella di “rifiuto liquido”: l’art. 74 ff) del Codice, come sostituito dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, offre una definizione di “scarico” che comprende le acque emunte purché venga garantita la continuità dello scarico diretto nel corpo recettore, anche previo trattamento.
L’immissione diretta postula la presenza di un sistema di convogliamento mediante condutture o canalizzazioni anche di fatto tra il luogo di origine e il corpo recettore, la mancanza di una interruzione funzionale, l’irrilevanza della continuità temporale tra l’attività che origina il refluo e lo scarico, condizioni che si rinvengono nella fattispecie in esame, nella quale il sistema di emungimento in corso di predisposizione si configura come una singola unità impiantistica.
In conclusione, la scelta della gestione delle acque come scarico ovvero come rifiuto è delegata agli stessi produttori, che ne dispongono attraverso lo sversamento diretto ovvero lo smaltimento; nella fattispecie, la Syntial ha indicato nella documentazione versata in atti che le acque vengono conferite all’impianto di depurazione consortile di Porto Torres, per essere sottoposte a smaltimento e che nell’ambito degli interventi integrativi di prevenzione, le acque recapitate nell’impianto di trattamento saranno recapitate direttamente in un corso d’acqua superficiale nel rispetto dei limiti relativi agli scarichi industriali. Infine, i reflui non contengono sostanze pericolose, e pertanto non è applicabile la disciplina relativa ai rifiuti prevista, nell’ambito dell’autorizzazione allo scarico, dall’art. 124 del d.lgs. n. 152 del 2006; né in senso contrario depone la disciplina comunitaria ovvero il riferimento al codice CER di cui all’allegato D al medesimo decreto legislativo o la definizione di bonifica di cui all’art. 1, comma 1 lettera e) del decreto ministeriale 471 del 1999, poiché l’oggetto della tutela è la falda e non le acque che da essa vengono estratte.
II.c) Osserva il Collegio che il nodo centrale della controversia concerne il discrimine tra la nozione di “scarico industriale” e di “rifiuto”, alla luce di quanto dispone, in particolare, l’art. 243 del d.lgs. n. 152 del 2006: la stessa società ricorrente afferma infatti di gestire le acque di falda come rifiuti liquidi, pur nella opinabilità del sistema normativo antecedente l’entrata in vigore di tale decreto legislativo, che sarebbe intervenuto a dirimere i dubbi interpretativi.
L’art. 243 citato, nel testo vigente ratione temporis, prevede al primo comma che “le acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell'ambito degli interventi di bonifica di un sito, possono essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali di cui al presente decreto”; il secondo comma dispone che, in deroga a quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 104, che vieta lo scarico diretto nelle acque sotterranee e nel sottosuolo, “ai soli fini della bonifica dell'acquifero è ammessa la reimmissione, previo trattamento, delle acque sotterranee nella stessa unità geologica da cui le stesse sono state estratte, indicando la tipologia di trattamento, le caratteristiche quali-quantitative delle acque reimmesse, le modalità di reimmissione e le misure di messa in sicurezza della porzione di acquifero interessato dal sistema di estrazione/reimmissione. Le acque reimmesse devono essere state sottoposte ad un trattamento finalizzato alla bonifica dell'acquifero e non devono contenere altre acque di scarico o altre sostanze pericolose diverse, per qualità e quantità, da quelle presenti nelle acque prelevate”.
La norma in esame non attiene, peraltro, alla disciplina degli scarichi: il decreto legislativo n. 152 contiene, nella parte terza, norme per la difesa del suolo e la lotta alla desertificazione, la tutela delle acque dall'inquinamento e la gestione delle risorse idriche; in tale parte trova collocazione la disciplina degli scarichi. Nella parte quarta, dedicata alla gestione dei rifiuti e alla bonifica dei siti contaminati, trova invece collocazione l’art. 243 appena citato, il quale dunque attiene ad un diverso ambito, inserito in una parte dedicata, come si è detto, ai rifiuti e alla bonifica di siti inquinati. Scarichi industriali e rifiuti sono quindi, nel sistema legislativo, concetti diversi, disciplinati da norme diverse e specifiche.
Quale sia la definizione normativa di “scarico” si evince dall’art. 74 ff) del medesimo d.lgs. n. 152: qualsiasi immissione di acque reflue in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione.
L’art. 2, comma 1, d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, recependo l’elaborazione giurisprudenziale, ha aggiunto agli elementi della definizione la presenza di un “sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore”.
Questa è quindi, la definizione di scarico: essa è indipendente dalla natura inquinante delle acque destinate ad essere immesse nel corpo recettore (“indipendentemente dalla loro natura inquinante”).
Ed infatti, lo stesso art. 74 citato distingue lo “scarico” dalle “acque di scarico”, definite alla lettera gg) come “tutte le acque reflue provenienti da uno scarico”. Emerge allora l’erroneità dell’assunto dell’appellante, che identifica lo “scarico” con le sostanze scaricate, cioè le acque emunte.
Delle acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell'ambito degli interventi di bonifica di un sito si occupa invece l’art. 243 del d.lgs. n. 152, collocato, come si è detto, nella parte relativa ai rifiuti e alla bonifica: ma è evidente che la qualità delle acque che possono essere reimesse nei corpi recettori, se sconta l’applicazione della normativa dedicata alle acque reflue industriali di cui al medesimo decreto, non è sottratta al rispetto delle altre normative comunitarie e nazionali, tra le quali la stessa normativa relativa ai rifiuti contenuta nel d.lgs. n. 152, il cui art. 185, nel testo vigente all’epoca dei fatti, nell’escludere dal campo di applicazione della parte quarta gli scarichi idrici, espressamente fa eccezione per “i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue”.
Va inoltre considerato che ai sensi del comma 5 dell’art. 108 del medesimo decreto legislativo, proprio in relazione alle acque reflue industriali, “l’autorità competente può richiedere che gli scarichi parziali contenenti le sostanze della tabella 5 del medesimo Allegato 5 siano tenuti separati dallo scarico generale e disciplinati come rifiuti”. Tra le sostanze contenute nella predetta tabella spiccano, per quanto rileva in specie, gli "Oli minerali persistenti e idrocarburi di origine petrolifera persistenti", che figurano tra gli inquinanti presenti sull’area di pertinenza della Syntial.
E’ quindi da disattendere l'assunto della società appellante tendente ad escludere a priori, ai sensi dell'art. 243 d.lgs. 152/06, la riconduzione delle acque emunte in attività di disinquinamento della falda dal regime dei proprio dei rifiuti liquidi: al contrario, l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell'oggetto dell'attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto.
L’allegato D alla parte quarta del medesima d.lgs, nell’elencare i rifiuti conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE e all'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi di cui alla decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 e alla direttiva del Ministero dell'ambiente 9 aprile 2002, ha infatti espressamente previsto, sub 19.13.07 e 19.13.08, i “rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda”: la stessa Syntial ha ricondotto i reflui derivanti dalle operazioni di cui è causa ai rifiuti considerati dal codice 19.13.08.
Anche per tale ragione, quindi, risulta smentita l’aprioristica omologazione, dedotta dalla società appellante, dei reflui derivanti da operazioni di bonifica alle acque reflue industriali, come definite chiaramente dall’art. 74, comma 1 lett. h) del d.lgs. citato (con ciò dovendosi discostare dalle conclusioni alle quali era pervenuto questo Consiglio di Stato nella sentenza di questa stessa sezione 8 settembre 2009, n. 5256)
Se, quindi, le acque reflue emunte nelle operazioni di bonifica devono, alla luce di una interpretazione sistematica del quadro normativo nazionale e comunitario (l’art. 1 lett. a della direttiva n. 2006/12/CE non consente dubbi al proposito, come ha evidenziato il Tar), essere considerate rifiuti (restando affidato al solo regime degli scarichi lo sversamento derivante dagli ordinari cicli produttivi: e tali non sono, certamente, le acque di falda emunte nell'ambito dell'attività di disinquinamento, che non derivano certamente ed in via diretta dagli ordinari cicli produttivi), infondato è l’impianto sul quale si basa l’appello; il quale, inoltre, non è condivisibile neppure laddove critica la sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto gli elementi della definizione di scarico nell’impianto della ricorrente.
Come già aveva chiarito la giurisprudenza, recepita poi con il d.lgs. n. 4 del 2008, essenziale, a tal fine, è la continuità dell’immissione, mediante un sistema stabile di collettamento, dal luogo della produzione fino all’esito finale, condizioni che non si verificavano, all’epoca dei fatti, nella fattispecie in esame, in cui le acque di falda emunte dal sito contaminato non passavano direttamente dalla falda al corpo recettore, ma erano convogliate provvisoriamente in appositi contenitori per essere poi trasportate all’impianto di depurazione consortile di Porto Torres al fine dello smaltimento.
Del pari da disattendere è la censura con cui l’appellante oppone che le prescrizioni imposte non assicurerebbero un miglioramento della tutela ambientale ulteriore rispetto a quella già garantita con la disciplina ordinaria in materia di scarichi idrici: invece, una volta accertata la natura di rifiuto liquido dei reflui, la stessa previsione normativa ex art. 210 impone, al fine dell'autorizzazione necessaria, a mente del precedente art. 208, per il progettato impianto di trattamento (avviato il 4 novembre 2010, quindi successivo ai fatti di causa), di adottare peculiari precauzioni in materia di sicurezza e tutela ambientale.
IV) Le ulteriori censure (ri)proposte con l’appello si appuntano contro la legittimità dei decreti direttoriali con i quali l’Amministrazione ha dato esecutività all’esito delle conferenze di servizi impugnate.
Esse concernono:
- l’incompetenza del direttore generale (organo gestionale privo di rappresentatività politico-amministrativa, ai sensi del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) ad adottare la determinazione finale della procedura di bonifica dei siti contaminati, che l’art. 252, comma 4, del Codice attribuisce alla competenza del Ministro dell’ambiente, sentito il Ministro delle attività produttive;
- la mancanza del contenuto minimo del provvedimento di conclusione della procedura di bonifica, specificato dal successivo comma 6 del medesimo art. 252, posto che i decreti impugnati si limitano ad approvare e considerare definitive le prescrizioni dei verbali delle conferenze decisorie; la tardività del decreto del 5 aprile 2007, relativo al verbale dell’11 luglio 2006 e a quelli precedenti, rispetto al termine di 90 giorni normativamente previsto per la conclusione del procedimento;
- la carenza di motivazione dei provvedimenti e la mancata intesa tra tutti i Ministeri interessati, non sostituibile attraverso il modulo procedimentale della conferenza di servizi;
- il mancato coinvolgimento del Ministero dello sviluppo economico, che non ha potuto esprimersi in merito al bilanciamento degli interessi in gioco, anche economici e produttivi, e che invece avrebbe dovuto intervenire al fine dell’adozione dei provvedimenti finali, che non possono essere considerati provvisori ai sensi del comma 8 dell’art. 252 del Codice.
Anche per questa parte la sentenza merita conferma.
Va infatti, innanzitutto puntualizzato (per tutte, cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 30 aprile 2012, n. 3361) che, in forza del generale principio di distinzione tra attività di governo e attività di gestione, gli atti del procedimento di bonifica dei siti di interesse nazionale, compresi quelli conclusivi (tra cui il decreto di recepimento delle conclusioni della conferenza di servizi), rientrano nella competenza tecnico-gestionale degli organi esecutivi (dirigenti) prevista dall’art. 4 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, poiché non contengono elementi di indirizzo politico-amministrativo che possano attrarre detta competenza nella sfera riservata agli organi di governo (i quali definiscono solo gli obiettivi e programmi da attuare, verificandone i risultati, il cui raggiungimento è riservato alla responsabilità dirigenziale).
Merita, inoltre, conferma la considerazione, operata da Tar, che nell’ambito della disciplina generale sulla conferenza di servizi ben si giustifica l’emanazione di decreti che non chiudano l’intero procedimento di bonifica del sito, ma siano relativi a singole fasi sub procedimentali, data l’articolazione prevista dallo stesso art. 242 del d.lgs. n. 152, per cui la mancanza dell’intero contenuto proprio della determinazione finale non costituisce causa di illegittimità dei precedenti provvedimenti. Neppure la contestata tardività del decreto del 5 aprile 2007 rispetto ai lavori della conferenza può essere valorizzato nel senso preteso dall’appellante, poiché l’art. 14 ter, comma 3, della legge n. 241 del 1990 è chiaro nel ricollegare alla inosservanza del termine non l’illegittimità dell’intero procedimento, ma l’obbligo di adottare la determinazione motivata di conclusione del procedimento, che, nel caso di specie, è proprio l’impugnato decreto dirigenziale.
Del pari non condivisibile è il gruppo di censure che si appunta sul mancato coinvolgimento del Ministero delle attività produttive nel procedimento di cui è causa: al contrario, tale Amministrazione è inclusa tra quelle invitate ai lavori della conferenza, come risulta dall’elenco dei destinatari della convocazione; perciò, dato il modulo procedimentale della conferenza di servizi, la cui conclusione “sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare ma risultate assenti” (art. 14 ter della legge n. 241 del 1990, aggiunto dall’articolo 10, comma 1, lettera f), della legge 11 febbraio 2005, n. 15, vigenteratione temporis), risulta soddisfatta anche la previsione posta dall’art. 252, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006, così come risulta soddisfatto l’obbligo di motivazione, avuto riguardo alle considerazioni contenute nei verbali delle conferenze.
V) In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.
Le spese del secondo grado del giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe indicato, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna l’appellante a rifondere al Ministero dell’Ambiente e alla Provincia di Oristano le spese del doppio grado del giudizio, nella misura complessiva di 5.000 (cinquemila) euro, oltre IVA e CPA nelle misure dovute per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 ottobre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Vito Carella, Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere
Roberta Vigotti, Consigliere, Estensore
Bernhard Lageder, Consigliere
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 06/12/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)