Cass. Sez. III n. 30482 del 15 luglio 2015 (Cc 28 mag 2015)
Pres. Franco Est. Ramacci Ric. Trio
Ambiente in genere.Sequestro e facoltà d'uso di insediamento industriale

L'esigenza  di evitare l'aggravamento o la protrazione delle conseguenze di un  reato, ovvero la commissione di altri reati, perseguita con il sequestro preventivo di un insediamento industriale o di un singolo impianto che operino in assenza dei prescritti titoli abilitativi o, comunque, violando la legge, è incompatibile con la facoltà d'uso degli stessi senza alcuna particolare prescrizione, poiché si pone in evidente contraddizione con le finalità proprie della misura cautelare reale.


RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Lecce, con ordinanza del 24/10/2014 ha rigettato l'istanza di riesame, avanzata nell'interesse di Oronzo TRIO, avverso il decreto di sequestro emesso, in data 26/9/2014, dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale e concernente un opificio industriale nella titolarità della «SALENTO CALCESTRUZZI s.r.l.», della quale il TRIO è legale rappresentante, ipotizzandosi i reati di cui agli artt. 256, 279 d.lgs. 152\06, 650 e 674 cod. pen.
Avverso tale pronuncia il predetto propone personalmente ricorso per cassazione.

2. Con un primo motivo di ricorso lamenta la violazione di legge, osservando che i giudici del riesame avrebbero valutato la sussistenza del fumus del reato di cui all'art. 256 d.lgs. 152\06 sulla base dei soli esiti delle indagini, tralasciando di considerare le allegazioni difensive, attraverso le quali si era dimostrata la sussistenza di un deposito temporaneo e l'esistenza di un impianto di riciclaggio dei residui di calcestruzzo, immotivatamente esclusa nel provvedimento impugnato.
Aggiunge, inoltre, che la qualificazione giuridica della condotta addebitatagli non sarebbe corretta, non rientrando nella gestione di rifiuti la «sola operazione di lavaggio delle betoniere effettuata nel tempo tecnico strettamente necessario alla successiva operazione di totale recupero».

3. Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione id legge in relazione alla ritenuta sussistenza del fumus della contravvenzione di cui all'art. 650 cod. pen., che il Tribunale avrebbe ritenuto travisando i fatti.

4. Con un terzo motivo di ricorso censura il diniego opposto alla richiesta facoltà d'uso dell'impianto, senza considerare la sua imminente regolarizzazione e, comunque, l'impegno assunto con la richiesta di adottare tutte le misure tecniche per evitare ogni situazione di pericolo mediante ricorso alle migliori tecnologie disponibili.
Il rigetto della richiesta, aggiunge, contrasterebbe con i criteri di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, da adottarsi anche nell'applicazione di misure cautelari reali.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.  


CONSIDERATO IN DIRITTO


1. Il ricorso è infondato.
Va preliminarmente ricordato che questa Corte non ha alcun accesso agli atti del procedimento, cosicché, anche ai fini della ricostruzione della vicenda processuale, deve necessariamente basarsi sui soli contenuti del ricorso e del provvedimento impugnato.
Ciò comporta che, nel caso di specie, non è possibile prendere cognizione della provvisoria incolpazione posta a sostegno della misura cautelare, potendosi tuttavia ricavare, dall'indicazione delle risultanze degli accertamenti effettuati dalla polizia giudiziaria, che lo stabilimento sequestrato operava nella totale assenza di qualsivoglia titolo abilitativo per l'effettuazione di attività di gestione di rifiuti e per le emissioni in atmosfera e che la contestazione della contravvenzione di cui all'art. 650 cod. pen. deriva dall'inosservanza di un'ordinanza dirigenziale, con la quale si inibiva l'esercizio di ogni attività, mancando lo stabilimento della necessaria certificazione di agibilità.
Nonostante i diversi reati ipotizzati, il ricorrente concentra la propria attenzione esclusivamente su quelle concernenti la disciplina dei rifiuti e sulla violazione di cui all'art. 650 cod. pen., tralasciando ogni considerazione sulle residue incolpazioni.

2. Prendendo quindi in esame il primo motivo di ricorso, concernente l'art. 256 d.lgs. 152\06, va rilevato come lo stesso sia incentrato sulla insussistenza del fumus del reato e sulla non corretta qualificazione giuridica della condotta che sarebbe stata effettuata dai giudici del riesame, i quali avrebbero ignorato specifiche deduzioni difensive.
Tanto il ricorrente quanto il Tribunale richiamano la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, è il caso di ricordarlo,  l’ambito di operatività della competenza del giudice del riesame  è limitato alla verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare, che non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve riguardare anche il controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza ed alla gravità degli stessi (Sez. U, n. 7 del 23/2/2000, Mariano, Rv. 215840 ed altre succ. conf.), pur permanendo l’obbligo di esaminare anche le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del "fumus" del reato contestato (Sez. 3, n. 27715 del 20/5/2010, Barbano, Rv. 248134; Sez. 3, n. 18532 del 11/3/2010, D'Orazio, Rv. 247103).
Si è anche affermato che compito del Tribunale del riesame è pure quello di espletare il proprio ruolo di garanzia non limitando la propria cognizione alla astratta configurabilità del reato, dovendo invece considerare e valutare tutte le risultanze processuali in modo coerente e puntuale, esaminando, conseguentemente, non solo le allegazioni probatorie del Pubblico Ministero, ma anche le confutazioni e gli altri elementi offerti dalla difesa degli indagati che possano influire sulla configurabilità e sussistenza del fumus del reato ipotizzato (ex pl., Sez. 5, n. 49596 del 16/9/2014, Armento, Rv. 261677; Sez. 5, n. 28515 del 21/5/2014, Ciampani e altri, Rv. 260921; Sez. 4, Sentenza n. 15448 del 14/3/2012, Vecchione, Rv. 253508; Sez. III n. 27715\2010 cit.; Sez. 3, n. 26197 del 5/5/2010, Bressan, Rv. 247694; Sez. III n. 18532\ 2010 cit., con ampi richiami ai precedenti).

3. Ciò posto, ritiene il Collegio che il Tribunale abbia fatto buon uso dei principi appena richiamati, non limitandosi, come sostenuto in ricorso, alla sola considerazione dei contenuti dell'annotazione redatta dalla polizia giudiziaria, ma fornendo, invece, puntuale risposta a tutte le censure formulate nella richiesta di riesame.
Per ciò che è dato comprendere dal tenore del provvedimento impugnato, la violazione dell'art. 256 del d.lgs. 152\2006 è stata ipotizzata in relazione alla gestione, in assenza di autorizzazione, dei reflui derivanti dal lavaggio delle betoniere, che venivano raccolti all'interno di una vasca all'uopo predisposta.
Il Tribunale, nell'esaminare tale aspetto della questione, risponde alla deduzione difensiva concernente l'indeterminatezza dell'incolpazione e rileva come non sia dimostrato quanto dedotto circa la esistenza di un «impianto di riciclaggio dei residui di calcestruzzo», dando atto degli elementi in fatto sui quali si fonda tale affermazione e specificando le ragioni per le quali non potrebbe neppure  ipotizzarsi, nella fattispecie, un deposito temporaneo, ribadendo l'assenza di qualsivoglia autorizzazione.

4. A fronte di ciò, appare evidente che, contrariamente a quanto affermato in ricorso, i giudici del riesame hanno preso in considerazione e debitamente confutato le allegazioni difensive con argomentazioni che il ricorrente censura, sostanzialmente, con argomentazioni in fatto e proponendo una lettura alternativa delle risultanze investigative.
In particolare, dopo aver rilevato che il Tribunale non avrebbe considerato quanto evidenziato dalla difesa e, cioè, che «l'ipotesi di reato» (sic) configurabile nella specie, «poteva essere quella del 'deposito' temporaneo» (circostanza non vera, atteso che su tale specifico rilievo i giudici hanno risposto), il ricorrente si sofferma sull'attività svolta, indicata indifferentemente come «recupero» o «riciclaggio», senza tuttavia affrontare l'aspetto rilevante posto in evidenza dal Tribunale e, cioè, l'assenza di titolo abilitativo e l'insussistenza dei presupposti di legge per l'espletamento di attività non soggette alla generale disciplina sui rifiuti.
La infondatezza del motivo di ricorso è pertanto evidente.

5. Il secondo motivo di ricorso è interamente articolato in fatto ed è, ancora una volta, finalizzato alla prospettazione di una lettura alternativa delle emergenze investigative, a fronte di una motivazione, posta a supporto del provvedimento impugnato, che chiarisce, in maniera estremamente puntuale,     sulla base di quali specifiche circostanze si è ritenuta dimostrata la prosecuzione delle attività dello stabilimento nonostante il provvedimento dirigenziale inibitorio che imponeva la immediata sospensione delle attività di produzione stante la mancanza del certificato di agibilità.

6. Per ciò che concerne, infine, il terzo motivo di ricorso, osserva il Collegio che le conclusioni dei giudici del riesame risultano, ancora una volta, pienamente corrette laddove negano la concessione della facoltà d'uso dell'impianto.
Giustamente il Tribunale ha rilevato che la concessione della richiesta «facoltà d'uso» dell'impianto è ontologicamente incompatibile con le finalità del sequestro ed avrebbe, di fatto, consentito la prosecuzione delle attività non autorizzate, frustrando le esigenze di cautela perseguite con l'imposizione del vincolo.
Si tratta di considerazioni del tutto condivisibili che coincidono perfettamente, peraltro, con quanto più volte affermato da questa Corte in materia di violazioni edilizie e, cioè, che la possibilità di utilizzazione residenziale privata di un manufatto sottoposto a sequestro preventivo si pone in evidente contrasto con le stesse finalità della misura cautelare (Sez. 3, n. 16689 del 26/02/2014, P.M. in proc. Squillaci e altro, Rv. 259540; Sez. 3, n. 48924 del 21/10/2009, Tortora e altri, Rv. 245766; Sez. 3, n. 825 del 4/12/2008 (dep. 2009), Violante, Rv. 242156. V. anche Sez. 6, n. 1825 del 26/4/1994, Tripani, Rv. 199538; Sez. 6, n. 2994 del 30/7/1992, P.M. in proc. Montandon, Rv. 191625).
A conclusioni analoghe deve necessariamente pervenirsi con riferimento ad ipotesi quale quella in esame, atteso che il sequestro di un insediamento industriale che opera in assenza di qualsivoglia titolo abilitativo consente di interrompere la condotta in atto ed impedire ulteriori conseguenze per la salute delle persone e l'integrità dell'ambiente derivanti dall'esercizio di un'attività, di fatto, non controllata e non controllabile e la concessione della facoltà d'uso dello stabilimento, peraltro senza alcuna particolare precauzione, si risolverebbe, sostanzialmente, nel consentire la ripresa dell'attività illecita interrotta dall'apposizione del vincolo.
Va peraltro osservato come, proprio per le ragioni appena indicate, non si ponga affatto la questione del rispetto o meno del principio di proporzionalità ed adeguatezza che, dettato dall'art. 275 cod. proc. pen. per le misure cautelari personali, la giurisprudenza di questa Corte è pressoché unanime nel riconoscere come applicabile anche a quelle reali, poiché non si tratta di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva, bensì della sostanziale vanificazione degli effetti e delle finalità della misura applicata.

7. Deve conclusivamente affermarsi il principio secondo il quale l'esigenza di evitare l'aggravamento o la protrazione delle conseguenze di un reato, ovvero la commissione di altri reati, perseguita con il sequestro preventivo di un insediamento industriale o di un singolo impianto che operino in assenza dei prescritti titoli abilitativi o, comunque, violando la legge, è incompatibile con la facoltà d'uso degli stessi, poiché si pone in evidente contraddizione con le finalità proprie della misura cautelare reale.

8. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.



P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in data 28.5.2015