Consiglio di Stato Sez. IV n. 1882 del 5 marzo 2025
Ambiente in genere.Fatti di inquinamento addebitabili a società e responsabilità degli amministratori
Non è esclusa la possibilità che gli amministratori di una società rispondano anche dei fatti di inquinamento addebitabili alla società. Tuttavia, per armonizzare la responsabilità con i principi e le regole che vigono nel diritto commerciale, sarà necessario accertare o l’uso distorto dello schema societario (secondo il parametro dell’abuso della personalità giuridica) o il contributo causale ed efficiente ai fatti di inquinamento. Nel caso in cui la società non sia responsabile dell’inquinamento le norme di riferimento saranno quelle che l’ordinamento prevede per il proprietario incolpevole e prioritariamente risponderà col bene di cui è proprietaria. In questa ipotesi gli amministratori non potranno rispondere col loro patrimonio se non al ricorrere dei presupposti e delle circostanze prima enunciate in via generale, ossia se come persone fisiche hanno dato causa all’inquinamento (e in tal caso saranno da annoverare tra i soggetti responsabili dell’inquinamento con le relative responsabilità) o se, con dolo o colpa, non hanno fatto quanto dovevano nell’interesse della società.
Pubblicato il 05/03/2025
N. 01882/2025REG.PROV.COLL.
N. 08219/2023 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8219 del 2023, proposto da -OMISSIS- e -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati Giuseppe Mariani e Raffaele Emilio Padrone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Comune di Altamura, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Giampaolo Sechi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Prima) n. -OMISSIS-.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Altamura;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 novembre 2024 il Cons. Luigi Furno e uditi per le parti gli avvocati come da verbale;
FATTO
Gli odierni appellanti - che hanno ricoperto, in epoche diverse, l’incarico di legale rappresentante della società fallita -OMISSIS-. s.r.l. – con ricorso di primo grado hanno impugnato, domandandone l’annullamento:
- l’ordinanza del Comune di Altamura del 23 marzo 2022, n. 18, con cui è stato è stato ingiunto loro di realizzare le misure di prevenzione e messa in sicurezza della discarica per rifiuti urbani “Le Lamie” di Altamura, di proprietà della fallita -OMISSIS-.;
- ogni altro atto presupposto, connesso e conseguente, ancorché non conosciuto e comunque lesivo.
L’ordinanza citata ha intimato, tra gli altri, agli amministratori che si sono succeduti nel periodo successivo all’adozione dell’ordinanza di chiusura definitiva del Commissario Delegato n. 54/D del 31 gennaio 2007 <<di porre in essere “ad horas”, con effetto immediato e con il carattere dell’urgenza, le necessarie misure di prevenzione/messa in sicurezza dei luoghi, in riferimento alla discarica per rifiuti urbani sita in agro di Altamura in località “Le Lamie”, individuabile in catasto al foglio di mappa n. 224, particella 91 (ente urbano della superficie di ha 12.19.57), di proprietà della società -OMISSIS-. S.r.l., assegnando specifica priorità alle seguenti azioni ulteriori rispetto all’intervento avviato e svolto dal Comune di Altamura, in via sostitutiva al soggetto inadempiente all’ordinanza sindacale n. 28/2020:
1. rilievo dei livelli di percolato dai pozzi di raccolta e successiva estrazione al fine di portare al minimo il battente idraulico del percolato;
2. estrazione forzata del biogas e gestione della torcia di combustione installata;
3. verifica e controllo dell’integrità della recinzione della discarica al fine di impedire l’accesso;
4. sfalcio delle erbe infestanti sul corpo dei rifiuti, al fine di evitare eventuali incendi che potrebbero danneggiare il telo in HDPE;
5. riparazione di eventuali discontinuità nel telo in HDPE e regimentazione delle acque meteoriche al fine di minimizzare eventuali infiltrazioni di acque meteoriche e ridurre la formazione di percolato;
6. gestione e contenimento dei fenomeni di trasudazione di percolato lungo la scarpata di confine del lotto 4, posta a sud-est, e in corrispondenza del margine sud-ovest del lotto 5, prevedendo specifici interventi di impermeabilizzazione di tali superfici al fine di arginare le fuoriuscite di percolato, che sono oggi raccolte nella vasca presente sul lato sud dell’impianto e gestite come rifiuto;
nonché tutte le indagini necessarie al fine di verificare lo stato di qualità ambientale complessivo del sito e porre in essere, in presenza di una potenziale contaminazione, le conseguenti azioni di ripristino per contrastare la minaccia per la salute e/o l’ambiente, il tutto in ossequio a quanto previsto dalle norme vigenti in materia e comunque innanzi richiamate. Resta inteso che, in considerazione del sequestro delle aree, i soggetti responsabili dovranno preventivamente chiedere all'autorità giudiziaria l'autorizzazione all'accesso al sito per dare seguito alla presente ordinanza e che le attività dovranno essere eseguite in modo tale da non interferire né entrare in contrasto con gli interventi già avviati dal Comune di Altamura in via sostitutiva, per l’inadempimento all’ordinanza n. 28 del 07.05.2020 da parte degli obbligati>>;
- avvertendo altresì che, “qualora i responsabili non provvedano direttamente agli adempimenti disposti avviando gli interventi nel più breve tempo possibile e comunque non oltre il termine di gg. 15 (quindici) dal ricevimento della presente, gli interventi saranno eseguiti in via sostitutiva dal Comune di Altamura e/o Enti competenti, in danno dei soggetti responsabili con recupero delle somme;
- che il Comune di Altamura si riserva di procedere alla ripetizione degli oneri sostenuti per le attività eseguite e in corso di esecuzione in via sostitutiva al soggetto inadempiente all’ordinanza sindacale n. 28/2020, anche nei confronti dei soggetti destinatari della presente ordinanza”.
Tanto premesso, i fatti rilevanti per la presente controversia possono essere ricostruiti come segue.
La discarica in esame è di proprietà della -OMISSIS-. s.r.l. (dichiarata fallita dal Tribunale di Bari con sentenza -OMISSIS-) ed è sempre stata gestita dalla medesima società sulla base dell’autorizzazione regionale datata 30 settembre 1987, n. 8412.
La società ha operato in questo modo fino al 2007, allorquando è stato disposto l’avvio della fase di chiusura con ordinanza del Commissario delegato n. 54/CD del 31 gennaio 2007, con termine per il completamento al 31 dicembre 2007, poi prorogato di ulteriori tre mesi (e cioè fino al 31 marzo 2008) in forza dell’ordinanza della provincia di Bari n. 40/DP del 27 dicembre 2007 “al fine del necessario raggiungimento del profilo complessivo finale”.
La cessazione dei conferimenti ha determinato l’obbligo, in capo al gestore del sito, di avviare le procedure di chiusura finale e di attuare la fase della post gestione secondo quanto disposto dalla normativa in materia (decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36).
La società proprietaria dell’impianto non ha ottemperato ai suddetti obblighi, nonostante i solleciti della Provincia di Bari.
In seguito, sul sito della discarica sono stati compiuti più sopralluoghi su iniziativa della Curatela fallimentare e dei Carabinieri del Nucleo operativo ecologico.
I sopralluoghi hanno riscontrato una situazione di sostanziale abbandono del sito.
È stato di poi avviato un procedimento penale nei confronti degli amministratori della società (n. -OMISSIS- R.G.N.R. Procura della Repubblica di Bari) nell’ambito del quale si è provveduto a disporre il sequestro preventivo dell’impianto (con decreto del GIP del Tribunale di Bari del 22 novembre 2019).
Il successivo 5 dicembre 2019, presso gli uffici regionali, si è tenuto un incontro all’esito del quale la regione Puglia, considerati “i superamenti rilevati nelle acque di falda nei pozzi a valle idrogeologica” e lo “stato di abbandono generale dell’impianto” ha suggerito di emanare un’ordinanza sindacale di necessità e urgenza ai sensi dell’art. 50 del decreto legislativo 18 luglio 2000, n. 267.
Il Comune di Altamura ha, quindi, adottato, ai sensi dell’art. 50, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, l’ordinanza contingibile e urgente n. 28, del 7 maggio 2020, con cui ha ingiunto alla società -OMISSIS-. s.r.l. e ai soci di porre in essere con effetto immediato e con carattere di urgenza le necessarie misure di prevenzione/messa in sicurezza dei luoghi, nonché le attività di post gestione della discarica.
Detto provvedimento è stato impugnato dai soci della società fallita e, separatamente, dalla stessa società innanzi al T.a.r. Puglia, Bari, che, con le sentenze n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS-, ha respinto entrambi i ricorsi.
In sede d’appello, questa Sezione, con la sentenza dell’-OMISSIS-, previa reiezione del quarto motivo, ha accolto il terzo motivo dell’appello proposto dai soci e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, ha annullato l’ordinanza del Comune.
Quindi, il Comune di Altamura ha adottato, ai sensi dell’art. 50, comma 5 del decreto legislativo n. 267/2000, l’ordinanza contingibile e urgente n. 18 del 23 marzo 2022, contro la quale gli odierni appellanti, originari ricorrenti, hanno promosso ricorso dinanzi al T.a.r. Puglia per i motivi così rubricati:
1.- Eccesso di potere nelle figure sintomatiche del travisamento dei fatti, della carenza di istruttoria, dell’irragionevolezza dell’illogicità manifesta. Difetto di motivazione. In violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 s.m.d. Violazione e falsa applicazione dell’art. 242 T.U.A. nonché dell’art. 2462 del cod. civ. Difetto di legittimazione passiva dei ricorrenti a subire l’ingiunzione sindacale. Non estensibilità dell’obbligo di bonifica gravante sulla -OMISSIS-. s.r.l. e sulla curatela fallimentare anche alle persone fisiche che hanno ricoperto incarichi di amministrazione. Mancanza del nesso di causalità;
2.- Prescrizione decennale della responsabilità ipotizzata a carico di -OMISSIS- per inutile decorso del termine di 10 anni dalla cessazione dell’incarico;
3.- Eccesso di potere nei confronti di -OMISSIS-, quale Presidente del Consiglio di Amministrazione della -OMISSIS-. s.r.l.;
4.- Eccesso di potere nei confronti del ricorrente -OMISSIS-.
Il T.a.r Puglia, con la decisione -OMISSIS-, ha dichiarato il ricorso infondato.
In proposito, richiamate le considerazioni sviluppate nella decisione del Consiglio di Stato -OMISSIS-, e, in particolare, il principio di diritto secondo cui <<principio generale di diritto europeo che regola la materia della responsabilità per danno ambientale. Si tratta del principio “chi inquina paga”, espresso dal primo considerando della direttiva n. 2008/98/CE. Il principio è stato applicato, da ultimo, anche alla materia fallimentare (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 26 gennaio 2021, n. 3). Le coordinate esegetiche disegnate dal legislatore europeo e recepite dal legislatore interno si basano su criteri estremamente precisi, chiari e rigorosi nell’attribuzione della responsabilità per danno ambientale, e segnatamente:
a) il quadro giuridico europeo risultante dai principi generali del Trattato e dal diritto derivato non esige lo stretto accertamento dell’elemento psicologico e del nesso di causalità fra la condotta di detenzione del rifiuto in ragione della disponibilità dell’area e il rischio ambientale dell’inquinamento;
b) la normativa nazionale deve essere interpretata in chiave europea e in maniera compatibile con canoni di assoluto rigore a tutela ambiente. Nella sostanza, la sentenza della Adunanza Plenaria n. 3 del 2021 ha incentrato la tutela dell’ambiente intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione.
La responsabilità del proprietario del sito, in tal caso, non rinviene necessariamente la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì anche, eventualmente, in quello della detenzione o del possesso (corrispondenti, rispettivamente, al contenuto di un diritto personale o reale di godimento) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto, dal momento che grava su colui che è in relazione con la cosa l’obbligo di attivarsi per fare in modo che la cosa medesima non rappresenti più un danno o un pericolo di danno (o anche di aggravamento di un danno già prodotto).
La responsabilità in questione è pur sempre ascrivibile secondo i canoni classici, comuni alle tradizionali costituzionali degli Stati, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole, dal momento che la personalità e la rimproverabilità dell’illecito risiedono nel comportamento del soggetto che volontariamente sceglie di sottrarsi o, il che è lo stesso, di non attivarsi anche per mera negligenza, per ripristinare l’ambiente.
c) La responsabilità dell’autore materiale del fatto originario generatore del danno ambientale non costituisce un’esimente, né elide, tantomeno in via successiva, la responsabilità di coloro che divengono proprietari del bene o che vantano diritti o relazioni di fatto col bene medesimo.
d) L’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario>>, ha concluso nel senso della correttezza della
individuazione tra i soggetti destinatari dell’ordinanza sindacale di che trattasi anche “negli amministratori che si sono succeduti nel periodo che segue l’ordinanza di chiusura definitiva del Commissario Delegato n. 54/CD del 31.01.2007”, non avendo “gli odierni ricorrenti in concreto dimostrato di essere esenti da colpa nella causazione dello stato di sostanziale e grave abbandono in cui si è venuta a trovare la discarica, non adeguatamente gestita”.
Gli originari ricorrenti hanno proposto appello per i motivi riportati nella parte in diritto.
Nel giudizio di appello si è costituito il Comune di Altamura, chiedendo di dichiarare l’appello infondato.
La causa è stata decisa all’esito dell’udienza del 7 novembre 2024.
DIRITTO
Con un primo mezzo di gravame gli appellanti lamentano l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha accolto il motivo con il quale in primo grado era stato fatto valere il loro difetto di legittimazione passiva e la non estensibilità dell’obbligo di realizzare le misure di messa in sicurezza della discarica.
In particolare, assumono gli appellanti che il Comune di Altamura non avrebbe soddisfatto l’onere probatorio di dimostrare la loro personale responsabilità <<essendosi limitato ad individuare la serie degli amministratori della -OMISSIS-. s.r.l., dall’epoca di chiusura della discarica ed inizio della fase di post gestione, senza dedurre, in motivazione, alcun “quid pluris”, rispetto all’attività posta in essere dalla società -OMISSIS-. s.r.l., per dimostrare che i ricorrenti sono responsabili non in quanto organi della fallita -OMISSIS-, ma per aver posto in essere un sovrappiù di efficienza causale nella determinazione dell’inquinamento ovvero nella cattiva gestione post operativa della discarica, che vada al di là della ordinaria attività produttiva riferibile genericamente alla società rappresentata>>.
A sostegno di questa conclusione, gli appellanti invocano la sentenza della Cassazione penale, Sezione Quarta, -OMISSIS-, secondo cui “il responsabile dell’inquinamento - su cui grava l’obbligo di attivare la procedura di bonifica - si identifica, in virtù del rapporto di immedesimazione organica, non con il singolo amministratore, ma con l’ente medesimo, salvo che l’amministratore abbia agito di propria ed esclusiva iniziativa ed in contrasto con gli interessi della società”; “In sostanza, l’obbligo di bonificare è del soggetto collettivo, mentre, per la sua inosservanza, occorre distinguere tra il profilo patrimoniale, del quale risponde la società, e quello della responsabilità penale, che riguarda l’organo rappresentativo”.
Mancherebbe, nella prospettiva in esame, la prova di uno specifico nesso causale tra i comportamenti degli appellanti, quali ex amministratori della società fallita, e il danno ambientale lamentato dal comune di Altamura, di cui non potrebbe che essere responsabile dapprima la -OMISSIS-. e, per il periodo successivo alla sentenza dichiarativa di fallimento, la Curatela fallimentare.
In relazione all’elemento soggettivo dell’illecito, gli appellanti censurano l’inversione dell’onere della prova cui avrebbe dato luogo la decisione impugnata, la quale ha, al riguardo, rilevato che “la responsabilità per cui è causa è certamente imputabile agli amministratori … che si sono succeduti nel periodo che segue l’ordinanza di chiusura definitiva del Commissario Delegato del 31.01.2007”, non avendo gli “odierni ricorrenti in concreto dimostrato di essere esenti da colpa nella causazione dello stato di sostanziale e grave abbandono in cui si è venuta a trovare la discarica, non adeguatamente gestita”.
Tale inversione dell’onere probatorio, nella prospettiva degli appellanti, non sarebbe legittima, dovendo, di contro, la prova dell’elemento soggettivo, al pari di quella relativa al nesso di causalità, gravare sul Comune di Altamura.
Gli odierni appellanti invocano, inoltre, ad ulteriore sostegno delle loro conclusioni la sentenza del 4 marzo 2015 C-524/13, secondo cui “affinché il regime di responsabilità ambientale sia efficace, è necessario che sia accertato dall'autorità competente un nesso causale tra l'azione di uno o più operatori individuabili e il danno ambientale concreto e quantificabile”.
Il motivo è fondato nei sensi e nei limiti di seguito indicati.
L’esame del merito delle questioni sollevate con il primo motivo di appello presuppone una breve ricognizione del quadro normativo di riferimento e dello stato della giurisprudenza interna ed eurounitaria sui principi coinvolti dalle questioni medesime.
All’indomani dell’entrata in vigore del “Codice” del 2006 (il quale, fra l’altro, ha recepito nell’ordinamento interno la direttiva 2004/35/CE, attuativa del principio “chi inquina paga” di cui all’art. 191 TFUE) la materia della bonifica di siti contaminati risulta disciplinata in modo piuttosto compiuto dalla Parte IV, Tit. V (articoli da 239 a 253).
In via di estrema sintesi, il relativo quadro normativo può essere così ricostruito:
i) l’art. 242 (rubricato “Procedure operative ed amministrative”) individua gli obblighi ricadenti sul soggetto responsabile della contaminazione per ciò che riguarda (inter alia) le misure di prevenzione, di ripristino e di messa in sicurezza di emergenza dell’area. La disposizione in questione non riferisce alcun obbligo al proprietario dell’area;
ii) l’art. 244 (rubricato “Ordinanze”) disciplina il caso in cui la contaminazione dell’area abbia superato i valori di concentrazione della soglia di contaminazione (CSR). In tali ipotesi la provincia territorialmente competente diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi degli artt. 242 e seguenti. L’ordinanza in questione viene comunque notificata anche al proprietario dell’area “ai sensi e per gli effetti dell’articolo 253” (ovvero al fine di rendere operative le disposizioni che impongono oneri reali e privilegi speciali sull’area);
iii) l’art. 245 (rubricato “Obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione”) consente al proprietario incolpevole – ma in assenza di un obbligo specifico – di attivare gli interventi di messa in sicurezza di emergenza e bonifica dell’area. Il comma 2 fa carico al proprietario il quale abbia rilevato il superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) di darne comunicazione alle amministrazioni competenti e di attuare le necessarie misure di prevenzione. Lo stesso comma 2 stabilisce che è comunque riconosciuta al proprietario la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in propria disponibilità;
iv) l’art. 250 (rubricato “Bonifica da parte dell’amministrazione”) stabilisce che, qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti di legge ovvero non siano individuabili e non vi provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all’articolo 242 sono realizzati d’ufficio dalle amministrazioni competenti, “avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza pubblica”;
v) da ultimo, l’art. 253 del “Codice” (rubricato “Oneri reali e privilegi speciali”) stabilisce che gli interventi di messa in sicurezza e bonifica sulle aree oggetto di contaminazione «costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati d’ufficio dall’autorità competente ai sensi dell’articolo 250» e che l’onere reale viene iscritto a seguito della approvazione del progetto di bonifica e deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica. Ai sensi del successivo comma 2 le spese sostenute per gli interventi di cui sopra sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime (art. 2748, cpv. c.c.). Dal canto suo, il comma 3 stabilisce che «il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell’inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell’autorità competente che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità». Infine, il comma 4 stabilisce che «(…) il proprietario non responsabile dell’inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato (…) le spese degli interventi adottati dall’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell’inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito».
In relazione al delineato quadro normativo interno (come si dirà fra breve, solo in parte di diretta scaturigine europea), la giurisprudenza nazionale si era profondamente divisa circa la possibilità di imporre al proprietario incolpevole l’adozione delle misure di prevenzione e di riparazione di cui alla Parte IV, Tit. V del “Codice dell’ambiente”.
In particolare, in base a un primo – e minoritario – indirizzo tale possibilità doveva senz’altro essere ammessa sulla base di alcuni indici normativi e sistematici.
I fautori di tale orientamento osservavano, in particolare: i) che la più ampia e rigorosa applicazione del principio “chi inquina paga” porta ad escludere (persino nelle ipotesi-limite in cui non sia identificabile il responsabile dell’inquinamento) che gli oneri di bonifica ambientale possano essere addossati alla collettività; ii) che la tradizione giuridica nazionale (nonché di altri Paesi dell’Europa continentale) ben conosce ipotesi di imposizione al proprietario dell’area di specifici doveri di protezione e custodia connessi al mero dato della relazione con la res (in base a una sorta di pura e semplice “responsabilità da posizione”); iii) che il richiamo normativo alla figura dell’onere reale (art. 253 del “Codice dell’ambiente”) testimonia la volontà del Legislatore di individuare il proprietario attuale come soggetto su cui gravano i richiamati obblighi.
Essi osservavano, inoltre: iv) che la più recente dottrina e giurisprudenza in ambito civilistico hanno ormai riconosciuto che il principio colpevolistico rappresenta uno soltanto dei possibili criteri di imputazione delle conseguenze del danno (ben potendosi affiancare ad esso un diverso criterio di imputazione basato sulla mera relazione con la res, al pari di quanto previsto nel caso di danno da cosa in custodia ex art. 2051 c.c.);
v) che «in coerenza col fondamento stesso del principio “chi inquina paga”, il “chi” non andrebbe inteso solo come colui che con la propria condotta attiva abbia posto in essere le attività inquinanti o abusato del territorio immettendo o facendo immettere materiali inquinanti, ma anche colui che – con la propria condotta omissiva o negligente – nulla faccia per ridurre o eliminare l’inquinamento causato dal terreno di cui è titolare».
Secondo un orientamento di segno contrario, il pertinente quadro normativo nazionale ostava a una ricostruzione volta a far gravare in capo al proprietario incolpevole della contaminazione gli obblighi di cui alla Parte IV, Tit. V del “Codice” del 2006.
In particolare, in tale diverso ordine di idee, si evidenziava che: i) il principio di matrice eurounitaria “chi inquina paga” (art. 191 TFUE) deve essere correttamente inteso secondo le categorie tipiche della responsabilità personale, senza che sia possibile fare ricorso ad indici presuntivi o a forme più o meno accentuate di responsabilità oggettiva; ii) le disposizioni di cui al richiamato Tit. V impongono chiaramente al proprietario incolpevole dell’inquinamento un novero piuttosto limitato di comportamenti (come l’adozione delle misure di prevenzione di cui al comma 2 dell’art. 245), la cui individuazione sembra insuscettibile di interpretazioni di carattere estensivo, atteggiandosi quale tendenziale numerus clausus; iii) deve essere valorizzato l’art. 245 del “Codice” il quale contempla come semplice “facoltà” quella per cui il proprietario dell’area ritenga di realizzare egli stesso le necessarie misure di ripristino ambientale; iv) deve essere parimenti valorizzato il successivo art. 250 il quale (con evidente previsione “di chiusura”) stabilisce che l’obbligo di realizzare “in ultima istanza” le misure in questione gravi sugli enti pubblici competenti e non sul proprietario dell’area (sul quale ricadranno, al contrario, le sole conseguenze di carattere patrimoniale di cui al successivo art. 253); v) nell’ordinamento interno le ipotesi di responsabilità oggettiva per danno ambientale costituirebbero pur sempre un numerus clausus, tendenzialmente inestensibile in via interpretativa ed applicativa.
Con due ordinanze sostanzialmente “gemelle” (si tratta della n. 21/2015 e della n. 25/2015), l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha esaminato in modo approfondito i termini del richiamato contrasto giurisprudenziale e ha concluso nel senso che il pertinente quadro normativo interno debba essere inteso nel senso di non consentire alle Autorità nazionali di imporre al proprietario incolpevole l’adozione delle misure di cui alla Parte IV, Tit. V, “Codice dell’ambiente”.
Inoltre, l’Adunanza plenaria ha evidenziato alcuni possibili contrasti con il principio “chi inquina paga”, nonché con i principi di precauzione, dell’azione preventiva e della correzione in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente da comportamenti di operatori economici.
L’Adunanza Plenaria ha, quindi, rivolto alla Corte di Lussemburgo il seguente quesito interpretativo: «se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, [del TFUE] e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004 (…) – in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica».
La Corte di Giustizia, con la decisione del 4 marzo 2015, C-524/13, ha, in primo luogo, chiarito che : i) che il principio “chi inquina paga” di cui all’art. 191, par. 2 del TFUE si limita a definire gli obiettivi generali dell’Unione in materia ambientale; ii) che esso è rivolto in primis a regolare l’azione dell’Unione (e solo in via mediata quella degli Stati membri); iii) che quindi «detta disposizione non può essere invocata in quanto tale dai privati al fine di escludere l’applicazione di una normativa nazionale, quale quella oggetto della causa principale, emanata in una materia rientrante nella politica ambientale, quando non sia applicabile nessuna normativa dell’Unione adottata in base all’articolo 192 TFUE»(il riferimento va alle previsioni della direttiva 2004/35/CE che ha declinato in prescrizioni puntuali il richiamato principio generale “chi inquina paga”).
Correlativamente, la Corte ha evidenziato che l’art. 192 TFUE non può essere invocato dalle autorità nazionali al fine di imporre al proprietario incolpevole misure di prevenzione e riparazione in assenza di un fondamento giuridico nazionale (e, prima ancora, europeo).
Tanto chiarito dal punto di vista dell’applicazione (in senso oggettivo) del diritto europeo, la Corte ha sottolineato che, ai sensi del diritto UE derivato esiste una rilevante distinzione fra:
i)da un lato, le ipotesi di cui all’art. 3, par. 1, lett. a), (si tratta del danno ambientale causato da una delle attività professionali “sensibili” elencate nell’allegato III). In tali ipotesi, il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale è di carattere rigidamente oggettivo e prescinde dalla necessaria verifica di una volontà colpevole da parte dell’operatore (c.d. responsabilità ambientale oggettiva);
ii)(dall’altro) le ipotesi di cui all’art. 3, par. 1, lett. b) (si tratta del danno alle specie e agli habitat naturali protetti causato da una delle attività professionali non elencate nell’allegato III, «in caso di comportamento doloso o colposo dell’operatore» (cd. responsabilità ambientale soggettiva).
Tanto premesso, la Corte ha sottolineato che, pur dovendosi dare atto del più rigido criterio di imputazione della responsabilità che attinge l’operatore nelle ipotesi di “responsabilità ambientale oggettiva”, nondimeno viene sempre richiesta – perché una forma di responsabilità sia configurabile – la sussistenza di un nesso di causalità fra la condotta dell’agente e l’evento lesivo per l’ambiente.
In tal senso la Corte di giustizia ha tratto argomento dall’art. 8, par. 3 della direttiva secondo cui «non sono a carico dell’operatore i costi delle azioni di prevenzione o di riparazione adottate conformemente alla presente direttiva se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno: a) è stato causato da un terzo, e si è verificato nonostante l’esistenza di opportune misure di sicurezza (…)».
Da quanto osservato discende che l’Ordinamento UE (e segnatamente la direttiva 2004/35/CE, che ha tradotto in disposizioni puntuali il generale principio di cui all’art. 191 TFUE), dunque, non conosce alcuna ipotesi in cui la responsabilità per il danno ambientale possa essere fatta gravare su un operatore il quale non abbia cagionato – sotto il profilo causale – il danno di cui si discute.
Resta salva, nel ragionamento sviluppato dalla Corte di giustizia, naturalmente, la possibilità che il Legislatore nazionale, avvalendosi della clausola di maggior rigore di cui all’art. 16 della direttiva, decida in via autonoma di dotarsi di una normativa interna che preveda una siffatta forma di responsabilità “da mera posizione”.
Tuttavia, la Corte di Giustizia osserva che l’Ordinamento italiano non si è ad oggi avvalso della facoltà di introdurre le richiamate disposizioni di maggior rigore (quanto meno, per ciò che riguarda i criteri di imputazione della responsabilità per danno ambientale).
Si tratta, d’altronde, soggiunge la Corte di giustizia, di una scelta di fatto comune a quella operata dai principali Stati membri dell’Unione (Francia, Germania, Spagna) i quali – pur nella diversità delle scelte nazionali di recepimento – hanno escluso la possibilità di coinvolgere il proprietario incolpevole in forme di responsabilità per il danno ambientale cagionato da altri sulle aree successivamente acquisite. La sentenza in esame risulta di notevole importanza sistematica in quanto riconferma in termini quanto mai netti che, al fine di configurare una responsabilità per danno ambientale, è sempre necessaria la sussistenza di un nesso di causalità fra la condotta dell’operatore e l’evento dannoso.
In definitiva, conclude la Corte nella decisione in esame, l’Ordinamento UE consente – a talune condizioni – che la sussistenza di un siffatto nesso di causalità possa essere dimostrata facendo ricorso a meccanismi presuntivi, ma non ammette in alcun modo la configurabilità di forme di responsabilità “da mera posizione”.
Nel solco dei principi elaborato dalla Corte di giustizia, di recente, la Cassazione, con la decisione a Sezioni Unite, 1° febbraio 2023, n. 3077 ha escluso che la misura della «messa in sicurezza di emergenza», di cui all'art. 240, comma 1°, lett. m), d. legis. n. 152/2006, possa ricondursi sotto l'indice delle «misure di prevenzione», di cui alla lett. i), le quali soltanto possono giustificare, per gli effetti di cui al successivo art. 245, comma 1°, obblighi di facere in capo al proprietario (o ad altro soggetto interessato) non responsabile della potenziale contaminazione.
In particolari, le Sezioni Unite hanno chiarito che il proprietario non responsabile dell'inquinamento è solo tenuto, ai sensi dell'art. 245, comma 2°, t.u. ambiente, ad adottare le misure (iniziali) di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1°, lett. i), ma non le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui alle lett. m) e p) della stessa disposizione, di fatto respingendo quel diverso orientamento, il quale, richiamandosi al principio di precauzione ammette, invece, l'inerenza (anche) di tali misure a quelle preventive (di cui alla lett. i), come tali potenzialmente gravanti anche sul proprietario (o detentore), in quanto tale. Nel loro impianto argomentativo, le Sezioni Unite (in chiave critica) prendono le mosse dall'opzione interpretativa, più volte seguita anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ritiene di poter ricondurre le misure di messa in sicurezza d'emergenza (m.i.s.e.) nell'ambito degli strumenti cautelari di cui all'art. 240, comma 1°, lett. i), t.u. ambiente, avuto riguardo alla invariante connotazione oggettivo-funzionale, costituita dalla comune finalità preventivo-riparatoria.
Solo in relazione ad un contesto di prevenzione e riparazione anticipatoria del danno ambientale, si giustificherebbe, infatti, una forma di responsabilità oggettiva fondata sulla mera relazione del proprietario (o detentore qualificato) con il sito da cui possono scaturire i danni all'ambiente, nella sentenza gravata ritenuta coerente con quel modello di imputazione ricavabile dalla dir. n. 2004/35/CE, da assumersi come un «criterio guida» rivolto alla legislazione nazionale (cfr. punto 9 della sentenza in commento).
A giudizio delle Sezioni Unite, tuttavia, non è rinvenibile, né nella dir. n. 2004/33/CE, né nella legislazione interna, alcun obbligo del proprietario, ove non sia autore della condotta contaminante, di adottare interventi di messa in sicurezza d'emergenza, non potendo questi ultimi neanche transitare tra le misure di precauzione (o special-preventive); né potrebbe richiamarsi, al riguardo, la previsione di cui all'art. 2051 cod. civ., in ragione del carattere speciale e derogatorio della responsabilità ambientale, nell'ambito della quale si trasfigura il modello di cui all'art. 2050, secondo caratteristiche del tutto peculiari.
I soggetti «non responsabili», di là dagli obblighi di segnalazione alle competenti autorità, sono tenuti ad adottare, quindi, per gli effetti di cui all'art. 245 t.u. ambiente, esclusivamente le misure di prevenzione iniziali atte a fronteggiare una «minaccia imminente per la salute o per l'ambiente», di cui all'art. 240, comma 1°, lett. i), come prescrizione del diritto domestico coerente e compatibile con il principio di precauzione e dell'azione preventiva, di cui alla citata dir. 2004/33/CE, che reca in sé certamente l'esigenza della «correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni all'ambiente» (già presente nei trattati, cfr. art. 191 TFUE), ma secondo il principio «chi inquina paga», ponendo l'accento, quindi, sull'«operatore», alla cui attività si ascrive il danno ambientale o la sua minaccia imminente (cfr. considerando 2 e 8, dir. n. 2004/33/CE e art. 298-bis, comma 1°, t.u. ambiente.
Nella ricostruzione di un adeguato modello di responsabilità ambientale, le Sezioni Unite muovono, come è stato attentamente notato anche in dottrina, da una considerazione anche di analisi economica del diritto, nella misura in cui giustificano, sotto il profilo dell'efficiente allocazione del rischio, la responsabilità dell'inquinatore-operatore professionale, addossandogli (con l'obbligo di riparazione diretta) le esternalità negative della sua attività, evitando che, per questo verso, si inneschino dinamiche di destrutturazione del mercato, conseguenti ad una (inaccettabile) politica di monetizzazione dell'inquinamento.
A tale ultimo riguardo, mentre il regime di responsabilità per l'«operatore» (secondo la definizione di cui all'art. 302, comma 4°, t.u. ambiente), la cui attività professionale sia inclusa nell'elenco allegato alla direttiva, assume connotati tendenzialmente oggettivi, in ragione del peculiare modello di imputazione del danno (o della sua minaccia imminente), che si risolve sul piano funzionale (eventualmente attraverso l'utilizzo di presunzioni circa la ricorrenza del nesso di causalità, quali la vicinanza dell'attività dell'operatore all'area incisa ovvero alla corrispondenza tra sostanze inquinanti e quelle del processo produttivo), per gli altri operatori (non inclusi in quell'elenco) troverebbe spazio, invece, il modello tradizionale dell'illecito civile, dovendo il sindacato di responsabilità rigorosamente scontare, in questo caso, il criterio della colpa (o del dolo) e del nesso di causalità.
Le Sezioni Unite si soffermano, quindi, sul nesso causale, per un verso constatando l'assenza nelle fonti europee di un criterio univoco, per altro verso, prendendo atto della discrezionalità riconosciuta agli Stati membri nel ricostruire un modello di imputazione coerente al sistema di illecito domestico, purché compatibile con il principio «chi inquina paga».
Assume un ruolo centrale, quindi, nell’itinerario argomentativo delle Sezioni Unite, l'esclusione di un'indicazione comunitaria, neanche implicita, che consenta di ipotizzare un obbligo di riparazione del danno a carico di un soggetto diverso dall'«operatore», assumendosi quella peculiare relazione dinamica che si instaura con la sua attività come indice della ricorrenza del nesso di causalità, il quale resta, anche nel sistema dell'illecito ambientale, uno degli elementi costitutivi della fattispecie, che non potrebbe ritenersi positivamente scontato sulla scorta dalla mera relazione dominicale.
Sul punto, in particolare le Sezioni Unite riprendono il precedente della Corte di Giustizia sopra riportato, con il quale si è chiarito come, neppure una lettura marcatamente oggettiva del principio «chi inquina paga» potrebbe tradursi in una deroga della disciplina nazionale in ordine al nesso di causalità, che nella specie si instaura tra l'attività dell'«operatore», cui sono dirette le misure di riparazione, ed il fenomeno inquinante, in ragione del collegamento tra l'attività produttiva dallo stesso esercitata e l'inquinamento, che svaluta altre (diverse, non previste) forme relazionali meramente indirette (quale quella dominicale), atteggiandosi tale previsione, ad un tempo, come criterio selettivo della responsabilità e come limite alla discrezionalità dei pubblici poteri.
Al «proprietario» del sito, non responsabile della contaminazione, già per questo verso non potrebbero, dunque, essere imposte misure di prevenzione e di riparazione (come obblighi di facere), essendo soltanto tenuto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente, peraltro nei casi e con i limiti di cui si è detto, secondo un'opzione che sembra declinare quella «soglia bassa di reattività» verso il proprietario non responsabile, che si confronta, come si dirà subito, con la previsione di cui all'art. 16, dir. n. 2004/35/CE (cfr. punto 19 della sentenza in commento).
In base a tale prospettiva ermeneutica, il sindacato operante nell'ambito della responsabilità oggettiva dell'operatore, la cui «attività» sia inclusa nell'elenco di cui allegato 5, parte VI, t.u. ambiente, non chiama in causa, dunque, per gli effetti di cui all'art. 298-bis, comma 1°, lett. a), il criterio della colpa (e del dolo), al quale sono soggette, invece, le attività «diverse» (di cui alla lett. b), ma al pari di queste ultime, invece, richiede il nesso di causalità, secondo quel preciso significato pratico e normativo che assume nel sistema del diritto ambientale, e che attiene alla relazione (normativamente) instaurata tra tale soggetto (l'«operatore»), in ragione dell'attività professionale esercitata, ed il sito interessato dal fenomeno inquinante.
Tale relazione «dinamica», che si instaura con colui che esercita una «attività professionale», non potrebbe essere sostituita, quindi, in ragione del ruolo connotativo che assume nel sistema dell'illecito ambientale, da quella «statica» con il proprietario del sito, neanche sulla scorta dell'art. 16, dir. n. 2004/35/CE (i cui limiti operativi si sono chiariti); quest'ultimo resta, dunque, assoggettato al modello di imputazione tradizionale della responsabilità per colpa (o dolo), senza alcuno spazio operativo per il modello di cui all'art. 2051 cod. civ., in ragione della circostanza che quest'ultimo fa leva sulla qualificata relazione con la res, la cui rilevanza viene decisamente esclusa nel sistema dell'illecito ambientale.
Dal quadro normativo e giurisprudenziale in precedenza delineato si ricava, dunque, che i soggetti che possono rimanere coinvolti in un evento di inquinamento, con o senza contaminazione del sito, sono: l'autore materiale dell'atto, l’impresa cui l’autore fa capo, il proprietario (se diverso dai primi due) e il titolare di un altro diritto reale o di godimento sull’area interessata, estraneo all’evento.
La figura del proprietario incolpevole assume, in particolare, rilievo solo quando tale soggetto non sia egli stesso l’esercente l’attività pericolosa e quindi l’effettivo responsabile della contaminazione pericolosa, negandosi in via di principio che al proprietario incolpevole possano essere imposti obblighi di bonifica, di messa in sicurezza e di ripristino ambientale paragonabili a quelli che gravano sul soggetto responsabile dell’inquinamento.
Tutto ciò premesso, ritiene il Collegio che quando, come nel caso in esame, l’autore dell’illecito è individuabile in una società di capitali, non possa stabilirsi un parallelismo diretto e automatico tra la responsabilità di quest’ultima e quella concorrente degli amministratori che per essa hanno operato.
In linea di principio, infatti, non può ammettersi un’estensione automatica dei doveri in materia ambientale gravanti sulla persona giuridica titolare anche alle persone fisiche che in essa hanno rivestito e svolto funzioni decisorie di amministrazione.
Il principale argomento a sostegno di questa conclusione si ricava, ad avviso del Collegio, nel fatto che, in virtù del rapporto di immedesimazione organica, che lega l’amministratore alla società, il destinatario dell’obbligo di messa in sicurezza va individuato nell'ente medesimo, salvo che l'amministratore abbia agito di propria ed esclusiva iniziativa ed in contrasto con gli interessi della società, ovvero abbia contribuito con il proprio anomalo comportamento ad aggravare (o male prevenire) il rischio di inquinamento agendo, per così dire, quale inquinatore diretto.
La dottrina più accreditata e la giurisprudenza di legittimità (Cassazione, Sezioni Unite 20 gennaio 2017. n. 1545) ritengono, infatti, che il rapporto di amministrazione debba essere ricondotto al c.d. rapporto organico nel quale si riscontra una immedesimazione (appunto organica) tra soggetto designato ed ente e, conseguentemente, una identificazione tra società e suo amministratore, nei rapporti esterni, per cui la volontà sociale si identifica in quella del soggetto agente.
Si è, in tale ordine di idee, chiarito che «Il rapporto che intercorre tra società ed amministratore è di immedesimazione organica e l’opus di amministrazione che egli si impegna a fornire non è determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività di impresa, costituita da un insieme variegato di atti materiali, negozi giuridici ed operazioni complesse (massima non ufficiale)» (Cass. 4 marzo 2021. n. 6056).
Su tali basi, il Collegio intende, dunque, precisare ed ulteriormente sviluppare quanto statuito dalla Sezione nella decisione -OMISSIS-, secondo cui “La responsabilità della Curatela non elide, comunque sia, la responsabilità della società o dei soggetti che, agendo per essa, hanno materialmente commesso, contribuito o agevolato la verificazione della situazione di danno o di pericolo per l’ambiente”,
Non vi è dubbio, infatti, che, in astratto, almeno in alcuni casi, in ragione dei poteri gestori e di rappresentanza di cui sono titolari, gli amministratori, ai sensi dell’art. 2476 c.c., possono essere ritenuti responsabili dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società.
Parimenti il Collegio non dubita in ordine al fatto che, al ricorrere di determinati presupposti, tra questi doveri vanno annoverati certamente anche quelli ambientali.
Nondimeno, l’individuazione di tali presupposti, idonei a configurare una responsabilità concorrente degli amministratori, deve essere effettuata in conformità al quadro normativo e sistematico di riferimento.
In linea generale, come si è avuto in precedenza modo di argomentare, dai più recenti formanti giurisprudenziali, interni ed eurounitari, emerge un indirizzo interpretativo sempre di più orientato a delimitare in maniera rigorosa l’individuazione dei soggetti responsabili in materia ambientale.
In tale contesto, rileva il Collegio che, sul piano dell’interpretazione letterale e sistematica, dal combinato disposto degli artt. 2476, comma 7, e 2395, cod. civ., si ricava che, ai fini della integrazione di una fattispecie di responsabilità risarcitoria in capo agli amministratori occorre provare la ricorrenza quanto meno dell’elemento soggettivo della colpa, oltre a tutti gli altri elementi che compongo l’illecito aquiliano.
L’art. 2395 cod civ., in particolare, prevede che «Le disposizioni dei precedenti articoli non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori».
Due sono i presupposti comunemente riconosciuti, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, per configurare una responsabilità di tal fatta: il compimento da parte degli amministratori di un atto illecito nell’espletamento del loro ufficio (c.d. atto di mala gestio); la produzione di un danno diretto al patrimonio del terzo, indipendentemente dal fatto che ne sia derivato anche un danno al patrimonio della società (Cassazione 27 giugno 1998, n. 6364). Dalla comune riconduzione di tale modello di responsabilità al paradigma dell’illecito aquiliano, un costante orientamento giurisprudenziale ne fa discendere la necessità che il terzo danneggiato sia tenuto a provare non solo l’esistenza di un danno-conseguenza, ed il nesso di causalità tra il comportamento dell’amministratore e l’evento di danno, ma anche la colpa (o il dolo) dell’amministratore stesso (Cassazione 3 aprile 2007, n. 8359; Cass. 3 dicembre 2002, n. 17110).
Ne consegue che, anche con riferimento ai doveri ambientali, affinché si possa ipotizzare una concorrente responsabilità degli amministratori della società proprietaria del sito, l’Amministrazione pubblica deve compiere uno sforzo probatorio aggiuntivo e ulteriore, diretto a dimostrare che la condotta delle persone fisiche amministratrici abbia aggiunto un sovrappiù di efficienza causale, tale da aggravare (o male prevenire) il rischio di inquinamento, oltre che l’imputabilità di tale anomalo contegno quanto meno alla colpa del singolo amministratore.
Tale conclusione, che implica, per ragioni di carattere sistematico, un adattamento del peculiare sistema di responsabilità in materia ambientale all’altrettanto peculiare posizione degli amministratori di società, si impone, ad avviso del Collegio, in base alla fondamentale considerazione di sistema, secondo cui la costituzione di una società di capitali comporta che questa acquisisca una personalità giuridica a sé stante rispetto a quella degli amministratori che per essa operano.
La norma cardine in tal senso, per quanto di rilievo nel presente giudizio, è quella di cui all’art. 2462, cod. civ., per la quale nelle società a responsabilità limitata per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio.
Alla stregua di tale diposizione, che più in generale rimanda al concetto normativo di persona giuridica, l’esistenza di un mero rapporto di immedesimazione organica, che lega gli amministratori alla società, e che consente alla seconda di operare nel mondo giuridico attraverso i primi, non può implicare, in via automatica, una concorrente responsabilità degli amministratori per tutti gli illeciti posti in essere dalla società, pena il dissolvimento stesso del particolare regime di separazione patrimoniale in cui il concetto stesso di persona giuridica si risolve. Tale separazione patrimoniale, se nelle società di capitali è da intendere in maniera integrale rispetto ai soci, non può non avere riflessi, sia pure meno intensi, in relazione alla posizione degli amministratori. E in effetti, coerentemente all’assunto da ultimo formulato, se la disposizione da ultimo citata, in relazione alle obbligazioni sociali, non distingue in alcun modo la posizione dei soci da quella degli amministratori, sul fronte della eventuale responsabilità extra-contrattuale, gli artt. 2394 e 2395, cod. civ., delineano solo per gli per gli amministratori un regime di responsabilità conforme al paradigma di cui all’art. 2043, cod. civ.
Un importante indice normativo che, sul piano sistematico, conferma le conclusioni sinora raggiunte si ricava dall’art. 192, comma 4, t.u. ambiente.
In effetti, pur nel quadro della diversa fattispecie relativa al divieto di abbandono di rifiuti, la disposizione in esame, dopo aver disciplinato al comma 3 gli obblighi di rimozione e di ripristino a carico del soggetto responsabile, al successivo comma 4 prende espressamente in considerazione la posizione degli amministratori di persone giuridiche, stabilendo, in particolare, che: “Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni”.
Ebbene, tale disposizione, in consonanza con le indicazioni di sistema ricavabili dagli artt. 2476, comma 7, e 2395, cod. civ, sopra esaminati, richiede che il fatto illecito debba essere “imputabile” alla condotta degli amministratori, il che, all’evidenza, accade quando costoro sono gli autori materiali dell’evento.
La disposizione in esame prevede, inoltre, la concorrente responsabilità solidale della persona giuridica.
La qualificazione, nei termini indicati, dei criteri di imputazione della responsabilità degli amministratori in relazione agli obblighi di rimozione e di ripristino si ricava dal precedente comma 3 (al quale il comma 4 rinvia), nel quale il destinatario di tali obblighi viene individuato nell’effettivo responsabile dell’abbandono o del deposito incontrollati ( commi 1 e 2), il quale sarà tenuto in solido con il proprietario del sito (ovvero nel titolare di un diritto reale o personale di godimento) al quale tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
L’assunto secondo cui l’art. 192, comma 4, si riferisce a comportamenti, per così dire, “ultra vires” degli amministratori si ricava anche dalla considerazione che rispetto a tali comportamenti non opera il normale regime dell’immedesimazione organica, come si ricava dal fatto che il legislatore è dovuto intervenire con una disposizione espressa al fine di estendere, in via solidale, anche alla persona giuridica le conseguenze patrimoniali delle condotte degli amministratori.
Da quanto osservato discende che anche la disposizione appena esaminata, al di là della peculiare fattispecie in cui può trovare applicazione, costituisce, dunque, sul piano dell’interpretazione sistematica, un’ulteriore conferma della volontà legislativa di tenere tendenzialmente separate le sfere patrimoniali e di responsabilità degli amministratori rispetto a quelle della società per cui essi operano.
Tanto premesso, nel contesto delineato, è necessario, ad avviso del Collegio, distinguere, nell’ambito dell’ampia categoria degli amministratori, da caso a caso.
Non tutti gli amministratori sono, infatti, dotati dei medesimi poteri, il che non può essere considerato irrilevante nella ricerca di possibili forme di parallela responsabilità.
In particolare, agli amministratori spettano principalmente i seguenti poteri:
i) il potere di gestione (art. 2380 bis cod. civ.);
ii) il potere di rappresentanza: gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società (art. 2384, 1° comma, cod. civ.), intesa come potere di manifestare nei confronti dei terzi le decisioni adottate e di impegnare la società attraverso contratti e negozi giuridici;
iii) il potere esecutivo vero e proprio, che consiste nel dare esecuzione alle delibere assembleari;
iv) i poteri di iniziativa e di organizzazione dell’impresa, spettando all’organo amministrativo la convocazione dell’assemblea e la determinazione dell’ordine del giorno (art. 2366, 1° comma, cod. civ.); la cooptazione degli amministratori venuti a mancare nel corso dell’esercizio (art. 2386, 1° comma, cod. civ.); la redazione del progetto di bilancio (art. 2423 cod. civ.) e del progetto di fusione e scissione (art. 2501 ter e 2506 bis cod. civ.).
Il potere di gestione (o di amministrazione attività) riguarda l’attività interna e si traduce nel potere di decidere il compimento di un atto. Il potere di rappresentanza riguarda l’attività esterna: è il potere di compiere l’atto in nome e per conto della società, cioè di manifestare esternamente eternamente, nei confronti di terzi, la volontà sociale, obbligando la società nei loro confronti nei loro confronti.
Oggi, contrariamente a quanto si verificava nel regime normativo antecedente alla riforma del 2003, la distinzione tra potere di gestione e potere di rappresentanza emerge chiaramente dal raffronto tra l’art. 2380 bis, 1 comma, ,., per il quale «la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale» e l’art. 2384,1 comma, cod. civ, secondo cui «il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dalla statuto e dalla deliberazione di nomina è generale».
Se ne deduce comunemente che mentre il potere di gestione è connaturato alla qualifica di amministratore, in quanto allo stesso conferito dalla legge, il potere di rappresentanza necessita di una attribuzione espressa contenuta nello statuto o nella deliberazione di nomina. Così, ad esempio, nel caso di nomina di un amministratore delegato, quest’ultimo ha, sia il potere di gestione, sia quello di rappresentanza, mentre nel caso in cui sia previsto solo un consiglio di amministrazione senza un amministratore delegato (o di deleghe conferite dal Consiglio a uno o più consiglieri) si verificherà una scissione tra potere di gestione e potere di rappresentanza: mentre il potere di gestione spetterà, infatti, a tutti i membri collegialmente , il potere di rappresentanza spetterà al presidente del consiglio di amministrazione, con la conseguenza per cui il compimento dell’atto sarà deciso dal consiglio di amministrazione (potere di gestione), mentre colui che porrà in essere l’atto è il rappresentante (potere di rappresentanza).
In generale, il presidente del consiglio di amministrazione (ruolo rivestito dall’appellante -OMISSIS-) ha, in quanto tale, un minimo di compiti: convoca il consiglio, fissandone l’ordine del giorno, regola i lavori consiliari, dichiara l’esito delle votazioni; spetta, inoltre, al presidente di provvedere, nell’imminenza delle sedute consiliari, affinché tutti i consiglieri ricevano adeguate informazioni sulle materie all'ordine del giorno.
Lo statuto può attribuirgli poteri e compiti ulteriori: anzitutto, come normalmente accade, la legale rappresentanza della società, anche in giudizio; attribuzione che, di per sé sola, fa del presidente del consiglio un semplice nuncius, privo del potere di prendere decisioni, abilitato solo a sottoscrivere, con effetto vincolante per la società, atti deliberati in sede consiliare. Si deve però anche considerare che il presidente, in quanto anche amministratore, ha il dovere imposto ad ogni amministratore dall’art. 2392, comma 2°, di impedire il compimento di fatti pregiudizievoli.
Lo statuto può, infine, fare del presidente del consiglio di amministrazione un presidente esecutivo, investito di poteri decisionali: di alcuni o di tutti i poteri di amministrazione che, a norma dell’art. 2381, comma 2°, 3° e 4°, possono essere attribuiti a singoli consiglieri.
Nella società per azioni di grandi o medio-grandi dimensioni il consiglio di amministrazione non attende, di regola, in modo continuo alla gestione sociale: esso esprime dal proprio seno un più ristretto comitato esecutivo, oppure conferisce ad uno o più amministratori la qualità di consiglieri delegati, e delega all’uno o agli altri le proprie attribuzioni, conservando a sé una funzione di generale sovraintendenza sull’amministrazione. Alla delega della funzione amministrativa fa riferimento l’art. 2381, ai sensi del quale, il consiglio di amministrazione, se lo statuto o l’assemblea lo consentono, può delegare le proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti. La delega può essere, e di regola è, una delega globale, comprensiva di tutti i poteri di amministrazione, fatta solo eccezione per quelle attribuzioni che, ai sensi del comma 4° dell’art. 2381, sono non delegabili: l’emissione di obbligazioni convertibili in azioni (art. 2420 ter), la redazione del bilancio (2423), l’aumento di capitale (art. 2443), le attribuzioni spettanti a tutti gli amministratori in relazione alla riduzione del capitale per perdite ( 2446) o al di sotto del limite legale (art. 2447), il progetto di fusione (2501 ter), il progetto di scissione (art. 2506 bis).
Da quanto osservato discende che la delega di funzioni ad un comitato esecutivo o ad uno o più amministratori delegati dà vita ad un ulteriore organo della società, dotato di competenza concorrente con quella del consiglio di amministrazione, ragion per cui, anche ai fini della eventuale concorso nella responsabilità degli amministratori per i fatti di inquinamento realizzati dalla società per la quale operano, occorre muoversi con cautela, distinguendo le diverse posizioni nell’ambito dell’organo amministrativo, ricostruendo, mediante un’istruttoria accurata, i singoli poteri gestori, scartando in radice paradigmi di aprioristica e automatica responsabilità.
Coerente con tali diversificate funzioni è la disciplina della responsabilità degli amministratori.
L’art 2392 stabilisce, al comma 1°, che «gli amministratori debbono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori». Il comma 2° aggiunge che «in ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma 3° dell’art. 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose». Dal che si desume che la presenza di un comitato esecutivo o di uno o più consiglieri delegati vale, da un lato (art. 2392, comma 1°), ad escludere la responsabilità degli altri amministratori per gli atti o le omissioni compiute nell’esercizio delle funzioni delegate , e determina, d’altro lato (art. 2392, comma 2°), il sorgere di un diverso titolo di responsabilità per gli amministratori, i quali possono, più limitatamente, essere chiamati a rispondere per non avere vigilato sull’operato dell’organo delegato o per non avere fatto quanto potevano per impedire il compimento di fatti pregiudizi la società o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.
Recentemente si è giunti alla diversa conclusione di estendere la responsabilità in materia ambientale agli amministratori anche in base alla considerazione che, diversamente ragionando, l’agire attraverso uno schermo societario potrebbe prestarsi ad eludere la normativa in materia ambientale.
In particolare, è stato paventato il rischio che l’estinzione della società, intervenuta a seguito della sua cancellazione dal registro delle imprese, possa comportare il venir meno di qualsiasi responsabilità anche in capo ai suoi organi.
Contro tale obiezione è, nondimeno, possibile in primo luogo replicare che, ai sensi dell’art. 2495 c.c., ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. Ciò significa che, in ipotesi di estinzione societaria a cui consegue la cancellazione dal registro delle imprese, si instaura tra i soci una comunione ordinaria per crediti e debiti residui.
In secondo luogo, secondo un’opinione largamente condivisa in sede di teoria generale dell’interpretazione, l’argomento apagogico deve essere inteso quale argomento “di accompagnamento” o di “rinforzo” di un ben più robusto costrutto argomentativo. Esso, dunque, non può avere di per sé la forza di superare, sul piano ermeneutico, i solidi argomenti letterali e sistematici che ostano, per le ragioni in precedenza delineate, ad una generalizzata ed automatica responsabilità degli amministratori di società in materia ambientale.
L’art. 244 del d.lgs.152/2006 stabilisce, infatti, che la provincia territorialmente competente diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi degli artt. 242 e seguenti e tale obbligo grava sull’ente societario in virtù del rapporto organico col soggetto in esso incardinato e della conseguente imputazione alla persona giuridica del suo comportamento e dei relativi obblighi, salvo che sia dimostrato che egli abbia agito di propria ed esclusiva iniziativa e in contrasto con gli interesse della società.
Sul piano sistematico, tale conclusione è confermata, come sopra esposto, dalla disciplina del codice civile in punto di responsabilità degli amministratori sociali verso i terzi, per la ricorrenza della quale occorre che si dia la prova di tutti i presupposti che integrano la fattispecie dell’illecito aquiliano e dall’art. 192, comma 4, t.u. ambiente, sopra esaminato.
Peraltro, come si vedrà oltre, i rischi paventati nella decisione di merito prima citata possono essere più opportunamente governati attraverso lo schema dell’abuso della personalità giuridica, oggetto di sempre più meditate analisi da parte della giurisprudenza più recente.
In linea generale, dunque, in tema di gestione dei rifiuti, qualora l'area in cui è realizzata la discarica appartenga, come nel caso in esame, ad una società di capitali, il responsabile dell'inquinamento - su cui grava l'obbligo di attivare la procedura di bonifica e di messa in sicurezza - si identifica, in virtù del rapporto di immedesimazione organica, non con il singolo amministratore ma con la società stessa, con le eccezioni che si enucleeranno di seguito.
Nel senso di escludere qualsivoglia automatismo tra la responsabilità della società e quella degli amministratori appare, inoltre, orientata anche la giurisprudenza penale, la quale ha precisato che in caso di inosservanza dell'obblighi relativi alla gestione dei rifiuti, la società risponde sotto il profilo patrimoniale, mentre, solo con riferimento alla responsabilità penale (rispetto al quale ovviamente viene in rilievo il principio della personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 cost.) essa grava su colui che ha poteri di gestione dell'ente al momento consumativo del reato (Cass. pen. sez. IV, -OMISSIS-).
Nondimeno, reputa il Collegio che la conclusione fin qui raggiunta deve trovare una prima eccezione nei casi di macroscopico uso distorto dello schema societario che, con riferimento ai soci, prende, come è noto, il nome di “abuso dello schermo della personalità giuridica”.
Riconosciuto in ambito internazionale come “piercing the corporale veil” ossia “perforamento del velo societario”, la nozione di “abuso della personalità giuridica” è stata tradizionalmente intesa, nella cultura giuridica anglosassone, quale forma di godimento da parte di un soggetto di una disciplina di favore in situazioni diverse da quelle che ne giustificano l’applicazione e non è propria solo dell’ordinamento italiano, ma anche altri ordinamenti prevedono nei propri sistemi rimedi all’abuso della personalità giuridica.
A quest’ordine di idee la giurisprudenza anglosassone ha aderito da tempo, con l’affermazione del principio per cui la persona giuridica deve essere considerata un soggetto distinto dalle persone fisiche dei suoi membri fino a quando non sussista un ragionevole motivo per affermare il contrario.
In questa prospettiva, l’abuso della personalità giuridica consiste nell’abuso dei diritti nascenti dalle norme (rectius del regime normativo) che la legge riassume nel concetto di persona giuridica.
L’abuso della personalità giuridica, inteso, dunque, quale uso strumentale, o per meglio dire elusorio, di una diversa soggettività è un fenomeno sul quale a lungo ha riflettuto la più qualificata dottrina, la quale l’ha definito come l’operazione del «trarre cioè illegittimo profitto dall’interpretazione dello “schermo” della persona giuridica», il che «significa, tecnicamente, godere della disciplina speciale in situazioni diverse da quelle che ne giustificano l’applicazione: significa fruire dell’esenzione dal diritto comune oltre i limiti entro i quali il legislatore aveva inteso contenerla».
Il rimedio principale all’abuso della personalità giuridica consiste principalmente nel superare lo schermo della personalità giuridica disapplicando in primis il beneficio della responsabilità limitata nei confronti dei soggetti che vi abbiano abusato, con la conseguente assunzione della responsabilità illimitata e la personale soggezione al fallimento in caso di insolvenza della società.
Più recentemente, nel solco delle riflessioni di autorevole dottrina italiana, anche la Corte di cassazione ha aderito a tale pregevole impostazione concettuale. In particolare, la giurisprudenza italiana ha individuato il rimedio contro gli abusi della personalità giuridica nel superamento (parla significativamente al riguardo della necessità di “bucare” il velo societario, cfr. Cass. civ., 3.11.2021, n. 31319) da parte del giudice dello schermo della personalità giuridica, con l’imputazione degli atti o delle condotte illecite direttamente a coloro che si sono avvalsi strumentalmente di tale istituto.
Un’ulteriore eccezione alla tendenziale irresponsabilità degli amministratori deve rinvenirsi, ad avviso del Collegio, nell’ipotesi in cui costoro abbiano contribuito, sul piano causale all’aggravamento del rischio di inquinamento, ovvero abbiano, nella medesima direzione, agito di propria ed esclusiva iniziativa ed in contrasto con gli interessi della società.
In questi casi è chiaro che non potrà, né dovrà, escludersi la responsabilità degli amministratori, responsabilità che, nel caso di uso distorto dello schema societario, sarà da ricondurre ai parametri previsti dall’ordinamento a seconda che la società sia ‘semplicemente’ proprietaria del sito o sia responsabile dell’inquinamento, non potendo gli amministratori più giovarsi del diaframma societario.
Nella seconda ipotesi – ossia quella legata a iniziative personali in contrasto con gli interessi della società e che abbiano contribuito a far insorgere (ovvero ad aggravare) l’inquinamento, costoro saranno responsabili secondo lo schema previsto per coloro i quali inquinano.
Tanto premesso, dalla ricostruzione in fatto e dall’analisi dalle risultanze acquisite al giudizio si ricava, incontrovertibilmente, che il soggetto responsabile dell’inquinamento, in virtù del cd. fattore della produzione, sia la -OMISSIS-, la quale fin dall’anno 2007 ha gestito la discarica, essendone anche l’esclusiva proprietaria.
Con l’ordinanza contestata, il Comune di Altamura ha, nondimeno, individuato come legittimati passivi delle misure di prevenzione e di messa in sicurezza anche gli “amministratori che si sono succeduti nel periodo che segue l’ordinanza di chiusura definitiva del Commissario delegato n. 54/D del 31.1.2007 ( termine prorogato di tre mesi, fino al 31 marzo 2008, in forza dell’ordinanza della Provincia di Bari n. 40/DP del 27.12.2007) e nella stessa curatela fallimentare”, ordinando loro di eseguire le “necessarie misure di prevenzione/messa in sicurezza dei luoghi, in riferimento alla discarica per rifiuti urbani sita in agro di Altamura in località “le Lamie”.
Ebbene, dall’esame del contenuto dispositivo dell’ordinanza in esame, e delle risultanze compendiate nelle sue premesse, non emergono concreti elementi sulla base dei quali poter fondare specifici profili di addebito nei confronti degli odierni appellanti, sotto il profilo dell’accertamento del nesso causale tra la loro condotta ed un evento di aggravamento del rischio di inquinamento.
In relazione alla prova della specifica responsabilità degli appellanti, il Comune si è limitato a riportare che costoro hanno assunto, in epoche diverse e successive, gli incarichi di legali rappresentanti della fallita -OMISSIS- s.r.l., avendo in particolare: il dott. -OMISSIS-, ricoperto l’incarico di Presidente del Consiglio di Amministrazione della -OMISSIS-, dal 31 gennaio 2007 al 20 ottobre 2008; il rag. -OMISSIS-, ricoperto l’incarico di amministratore unico dal 23 novembre 2009 al 23. Settembre 2014.
In particolare, non emerge con quali modalità gli appellanti avrebbero aggravato (o male prevenuto) il rischio di inquinamento, mentre, come sopra esposto, in ragione della non ammissibile estensione automatica agli amministratori della responsabilità che fa capo alla società per la quale hanno operato, la eventuale, e per certi versi eccezionale, concorrente responsabilità degli amministratori deve essere verificata attraverso un rigoroso accertamento ( dei profili oggettivi e soggettivi dell’illecito) che presuppone una altrettanto rigorosa istruttoria.
In altri termini, e per migliore e maggiore chiarezza, non è esclusa la possibilità che gli amministratori di una società rispondano anche dei fatti di inquinamento addebitabili alla società. Tuttavia, per armonizzare la responsabilità con i principi e le regole che vigono nel diritto commerciale, sarà necessario accertare o l’uso distorto dello schema societario (secondo il parametro dell’abuso della personalità giuridica) o il contributo causale ed efficiente ai fatti di inquinamento.
Nel caso in cui la società non sia responsabile dell’inquinamento – circostanza questa che non ricorre nel caso di specie – le norme di riferimento saranno quelle che l’ordinamento prevede per il proprietario incolpevole e prioritariamente risponderà col bene di cui è proprietaria. In questa ipotesi gli amministratori non potranno rispondere col loro patrimonio se non al ricorrere dei presupposti e delle circostanze prima enunciate in via generale, ossia se come persone fisiche hanno dato causa all’inquinamento (e in tal caso saranno da nnoverare tra i soggetti repsonsabili dell’inquinamento con le relative responsabilità) o se, con dolo o colpa, non hanno fatto quanto dovevano nell’interesse della società.
Di qui l’accoglimento del motivo appena esaminato, fatta salva l’ulteriore attività dell’amministrazione.
Con un secondo mezzo di gravame la parte appellante lamenta l’erroneità della decisione impugnata nella parte in cui non ha rilevato la decorrenza del termine di prescrizione dell’illecito in ragione del carattere permanente dell’illecito in materia ambientale.
In senso contrario la parti appellanti assumono che, in presenza di un illecito permanente, la permanenza cesserebbe al subentrare di una nuova posizione di garanzia in luogo della precedente.
Il motivo non è fondato.
In senso contrario il Collegio rileva che, ai sensi degli artt. 40 e 41 del codice penale, notoriamente applicabili, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, sia pure con alcuni adattamenti relativi allo standard probatorio (Cassazione, Sez. III, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21619), all’accertamento del rapporto di causalità relativo all’illecito civile e, per quanto di rilievo nel presente giudizio, all’illecito ambientale, il subentrare di una successiva posizione di garanzia elide la rilevanza causale del precedente contributo solo quando integra una condotta di per sé idonea a provocare l’evento, mentre, in linea teorica, e prescindendo da quanto si è detto in precedenza in relazione alle posizioni individuali dei singoli appellanti, nei casi di illecito permanente in materia ambientale ricorre una unico evento di danno che ciascun soggetto garante, con la propria condotta inerte, concorre ad aggravare per il quale, dunque, in base all’art. 2055, cod.civ. dovrà essere chiamato a risponderne. Una interruzione del nesso causale è, di contro, configurabile solo quando la condotta successiva crea un rischio nuovo e molto diverso rispetto a quello originario attivato dalla condotta iniziale del primo garante.
L’analisi dei precedenti giurisprudenziali conferma le conclusioni esposte.
In più occasioni la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che quando l’obbligo di impedire il fatto dannoso, connesso ad una situazione di pericolo, grava su più persone obbligate ad intervenire in tempi diversi “il nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di un altro soggetto parimenti obbligato”(Corte di cassazione 02 febbraio 2021, n. 3922; 22 gennaio 2019, n. 6405; 20 novembre 2019, 1350).
Con un terzo mezzo di gravame gli appellanti lamentano l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha fatto leva, per respingere il ricorso, sulla previsione di cui al primo comma dell’articolo 2476 cc., sulla cui base ha tratto il convincimento secondo cui la responsabilità per cui è causa è certamente imputabile anche agli amministratori “che si sono succeduti nel periodo che segue l’ordinanza di chiusura definitiva del Commissario Delegato del 31 gennaio 2007, non avendo gli odierni ricorrenti in concreto dimostrato di essere esenti da colpa nella causazione dello stato di sostanziale e grave abbandono in cui si è venuta a trovare la discarica, non adeguatamente gestita”.
Assumono gli appellanti che, contrariamente a quanto indicato nella decisione impugnata, l’articolo 2476, c.c., disciplina la fattispecie della responsabilità contrattuale degli amministratori “verso la società”, derivante dall’inosservanza dei doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, fattispecie che, dunque, non può essere confusa con quella extracontrattuale in materia ambientale, per la quale l’onere probatorio incombe esclusivamente sul danneggiato e non sui presunti danneggianti.
Il motivo non è fondato.
Contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante, l’art 2476 non si limita a disciplinare la responsabilità contrattuale degli amministratori per gli atti di mala gestio compiuti nell’esercizio del loro incarico nei confronti della società, posto che al relativo comma 7 si prevede che «Le disposizioni dei precedenti commi non pregiudicano il diritto al risarcimento dei danni spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori».
Più in particolare, come si è avuto modo di evidenziare in occasione dell’esame del primo motivo di appello, la disciplina della responsabilità degli amministratori sociali nei confronti dei terzi si ricava dal combinato disposto degli artt. 2476, comma 7 e 2395, cod.civ.
Di qui l’infondatezza del terzo motivo di appello.
Con un quarto mezzo di gravame, la parte appellate censura l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale sarebbe “incontestata” la situazione di sostanziale grave abbandono della discarica, all’epoca del 2014, in cui era amministratore il ricorrente -OMISSIS-, essendo stata documentata una specifica e puntuale attività di gestione sia di raccolta e smaltimento del percolato che di captazione del biogas dalla quale non può presumersi lo stato di abbandono, e addirittura alla precedente data del 20.10.2008 in cui cessò le funzioni il ricorrente -OMISSIS-.
Il motivo non è fondato.
Al riguardo, è agevole osservare che l’ordinanza sindacale n. 18 del 23 marzo 2022 si pone in sostanziale - e doverosa - continuità funzionale con la precedente ordinanza sindacale n. 28 del 7 maggio 2020, che aveva già ricevuto il vaglio favorevole, quanto ai presupposti sostanziali ex art. 50, comma 5 del decreto legislativo n. 267/2000, da parte della decisione del Consiglio di Stato (Sezione Quarta, -OMISSIS-, resa anche nei confronti della Curatela fallimentare).
In base all’art. 50, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Le medesime ordinanze sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti”;”.
Trattasi delle c.d. ordinanze libere o extra ordinem, le quali, come noto, sono una categoria che ha, oramai, guadagnato una ragguardevole estensione applicativa.
Per fare fronte a situazioni non fronteggiabili attraverso procedimenti tipizzati, la legge conferisce a determinate autorità poteri a contenuto indeterminato, non prestabilito dalla legge, ma rimessi alla valutazione discrezionale dell’organo amministrativo investito della gestione emergenziale.
Esse, come evidenziato dalla dottrina più autorevole, derogano non tanto al principio di nominatività, ma a quello di tipicità, ovvero al principio della predeterminazione del contenuto dei provvedimenti amministrativi.
Il carattere temporaneo delle ordinanze extra ordinem consente di ritenere che le deroghe che esse apportano anche alla legge non le fa assurgere al rango di fonti normative, ma alla categoria dell’atto amministrativo.
La Corte costituzionale (con le sentenze: 2 luglio 1956, n. 8; 27 maggio 1961, n. 26; 14 aprile 1995, n. 127) ha fissato le seguenti condizioni di “tolleranza” delle ordinanze in esame, sotto il profilo della relativa compatibilità con il principio di legalità: efficacia limitata nel tempo; adeguata motivazione; rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico; divieto di intervenire in materie coperte da riserva di legge assoluta (nelle materie soggette a riserva relativa occorre che la legge delimiti la discrezionalità dell’organo a cui il potere è stato attribuito).
In tale quadro s’inseriscono, per quanto più rileva nel presente giudizio, le ordinanze di cui all’art. 50, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000.
In coerente applicazione di tali principi, permanendo lo stato di abbandono della discarica, il Comune ha correttamente adottato l’ordinanza extra ordinem stante “l’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti”, con l’individuazione delle necessarie misure di prevenzione/messa in sicurezza dei luoghi, all’attualità.
Nel caso in esame, l’ordinanza contestata ha dato compiutamente conto delle vicende e delle ragioni che hanno preceduto la sua adozione, ed in particolare:
i) dello stato di grave abbandono in cui è stata lasciata la discarica dopo che la stessa ha esaurito il suo ciclo vitale ed è stata dichiarata chiusa e posta in fase di gestione post operativa;
ii) della grave e perdurante negligenza serbata dalla società proprietaria dalla -OMISSIS-. s.r.l. nel dare avvio a quest’ultima fase, anche nel periodo in cui la stessa era ancora in bonis;
iii) degli esiti dei sopralluoghi compiuti dai Carabinieri del Nucleo operativo ecologico – NOE, che hanno riscontrato una situazione di sostanziale abbandono del sito.
Da quanto osservato discende che lo stato di abbandono in cui si è venuta a trovare la discarica - oramai esaurita e non adeguatamente gestita né dalla proprietà, né dalla Curatela fallimentare - integra il presupposto di fatto descritto dalla norma, e cioè “l’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti”.
Le ragioni che precedono conducono all’accoglimento del primo motivo di appello, e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, all’annullamento dell’ordinanza l’ordinanza del Comune di Altamura del 23 marzo 2022, n. 18, limitatamente alla posizione degli odierni appellanti, fermo restando il potere del Comune di rideterminarsi nel senso indicato in motivazione.
L’accoglimento solo parziale dell’appello, nei sensi dinanzi indicati, giustifica l’integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti e nei sensi di cui in motivazione, e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado e, di conseguenza, annulla l’ordinanza del Comune di Altamura del 23 marzo 2022, n. 18, limitatamente alla posizione degli odierni appellanti; fa salvo il potere del Comune di Altamura di rideterminarsi nel senso indicato in motivazione.
Compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 novembre 2024 con l'intervento dei magistrati:
Vincenzo Neri, Presidente
Silvia Martino, Consigliere
Giuseppe Rotondo, Consigliere
Michele Conforti, Consigliere
Luigi Furno, Consigliere, Estensore