ILVA, ATTIVITA’ SOCIALMENTE UTILI E CASSAZIONE

a cura di Gianfranco Amendola

 

Credo che la questione ILVA stia assumendo una valenza storica per il nostro paese anche per quanto concerne i rapporti tra magistratura e politica.
Ci sarà modo di riparlarne ma, proprio a questo proposito, vorrei mettere sul piatto della discussione una questione che già ho posto più volte e che ora mi sembra ancor più rilevante.
Per quanto possa sembrare minimale, mi riferisco alla applicazione dell’art. 674 c.p. che tanto spesso, in presenza della pessima normativa ambientale oggi vigente, costituisce l’ultimo baluardo a difesa del popolo inquinato.
Come è noto, nel 2008, sovvertendo un orientamento ormai consolidato, decidendo dull’inquinamento elettromagnetico provocato da Radio Vaticana, la Cassazione depositava la sentenza Cass. Pen., sez. 3, 26  settembre 2008 (ud. 13 maggio 2008), Pres. Lupo, est. Franco, n. 36845, Tucci, in cui, andando ben oltre la questione sottopostale, riteneva che l’art. 674 c.p., se pure formalmente diviso in due parti, non si riferisce a due distinte ipotesi di reato, ma ad un  solo reato di cui la seconda ipotesi – ove è contenuto l’inciso “nei casi non consentiti dalla legge” - non sarebbe altro che una specificazione della prima (e, comunque, si tratterebbe di analogia in bonam partem). In tal modo, tutte le fattispecie previste dall’art. 674 c.p. (prima e seconda parte) rientrerebbero  nell’ambito di una unica ipotesi di reato, che non sarebbe configurabile nel caso in cui getto o emissioni provengano da attività regolarmente autorizzata o da una attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali e siano contenuti nei limiti previsti dalle leggi di settore o dagli specifici provvedimenti amministrativi che li riguardano, il cui rispetto implica una presunzione assoluta di legittimità del comportamento. Quindi, per la configurazione del reato, vi sarebbe la necessità che “qualora si tratti di attività considerata dal legislatore socialmente utile e che per tale motivo sia prevista e disciplinata, l’emissione avvenga in violazione delle norme o prescrizioni di settore che regolano la specifica attività”.
In particolare, la Cassazione parte dalla premessa che “proprio a seguito delle modifiche intervenute nel sistema normativo con l’introduzione di una legislazione speciale, non sembra possa continuarsi ad attribuirsi valore decisivo, come criteri ermeneutica, al principio di precauzione ed alle finalità di tutela di cui all’art. 32 Cost. Questo principio e queste finalità, infatti, risultano attualmente tutelati….. attraverso la previsione di limiti di esposizione e di valori di attenzione ….”, e più volte evidenzia che, in sostanza, occorre privilegiare una interpretazione che non dia luogo ad “un sistema normativo del tutto incongruo ed irrazionale”, ribadendo che “l’elemento che caratterizza e giustifica la previsione speciale è costituito dal riferirsi ad una attività socialmente utile e quindi disciplinata e non già dalla natura dell’oggetto dell’emissione (gas, vapori o fumo)” e che, proprio per questo, nessun reato è configurabile “qualora le emissioni, pur quando abbiano arrecato concretamente offesa o molestia alle persone, siano state tuttavia contenute nei limiti di legge”.
Già in altre sedi ho espresso il mio avviso nettamente contrario mettendo in evidenza, fra l’altro, che in tal modo si perviene, in sostanza, ad <<una totale ed obbligata soggezione, nel campo delle attività inquinanti, del giudice penale (e della legge penale) rispetto all’autorità amministrativa (ed alle norme di settore, così spesso raffazzonate, confuse e pasticciate), anche se fosse provata la lesione o la messa in pericolo del bene giuridico protetto da una norma penale. Perché, a questo punto, se si accettano le osservazioni della Cassazione nella sentenza Tucci, sempre in nome della razionalità del sistema e della analogia in bonam partem, sembra che si possa andare ben oltre l’art. 674 c. p. ed applicare questo principio a qualsiasi reato, incluso l’omicidio o il disastro; con la conseguenza che una ancora incerta  interpretazione relativa ad una limitata fattispecie penale (la seconda parte dell’art. 674 c.p. relativa alle emissioni di gas, vapori e fumo) diventa principio generale, valido per qualsiasi reato commesso nell’ambito di una “attività socialmente utile”>>
Oggi mi sembra che il caso ILVA riproponga con forza anche questo interrogativo: non a caso, si accusa la magistratura di volersi sostituire all’Autorità amministrativa competente a rilasciare l’autorizzazione e le prescrizioni, affermando che, se interviene il magistrato, la P.A. verrebbe addirittura espropriata del potere di stabilire la politica industriale del paese, e si fa balenare la minaccia di un conflitto tra istituzioni. Anche se basta leggere la bella ordinanza del GIP di Taranto per scoprire che l’autorizzazione (AIA) e le prescrizioni erano, -come, del resto, è evidente-, del tutto carenti ed inadeguate a garantire la salute dei lavoratori e dei cittadini. Con buona pace del principio di precauzione, e del diritto alla salute costituzionalmente garantito, che la sentenza Tucci ritiene non abbiano “valore decisivo” rispetto alle attività economiche o produttive (“socialmente utili” le chiama la sentenza).
Concludo con l’auspicio che alcuni recenti segni di ripensamento su questa interpretazione della Cassazione abbiano presto la prevalenza e che – ferma restando l’esigenza di indagine connessa con l’elemento soggettivo del reato- si riaffermi con forza il principio secondo cui nessuna regolamentazione amministrativa possa autorizzare la messa in pericolo o la lesione di un bene giuridico protetto con norma penale, tanto più se attiene ad un bene fondamentale dell’individuo.