Tribunale Milano sent. 146588 del 20 gennaio 2009
Est. Caccialanza Imp. Fisinghelli
Rifiuti. Smaltimento in pubblica fognatura di rifiuti pericolosi ed altro

Osserva in fatto e in diritto
 
Con decreto del 12 settembre 2006 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano disponeva il giudizio nei confronti di Frisinghelli Guido Dante Lodovico, in atti generalizzato, contestandogli i seguenti reati:
 
A)    Artt.61 n.3 e 81 c.p., 51 I comma lett. b) e II comma D. Lg. 22/97
 
per avere – con più atti esecutivi del medesimo disegno criminoso, nonostante la previsione dell’evento – in qualità di amministratore unico della ditta , smaltito presso la sede dell’insediamento sito in Milano, via C. Bazzi n.12, in tempi diversi e senza autorizzazione rifiuti speciali altamente pericolosi, costituiti da bagni galvanici contenenti nichel, cromo ed altre soluzioni e sostanze chimiche pericolose che si trovavano contenute all’interno delle apposite vasche ivi installate e quindi provveduto a cementare sia i pozzetti di scarico che la pavimentazione ove erano posizionate le vasche, nonchè riempito con ghiaia e cementato in superficie altre vasche interrate nel cortile della ditta, al fine di tentare di occultare le tracce del reato aggravandone le conseguenze. In particolare per aver sversato nel suolo e sottosuolo sino a contaminare la falda acquifera, nonchè direttamente immesso nella rete fognaria (dopo aver smantellato il sistema di spurgo e depurazione delle acque del pozzo-piezometro presente nella ditta) avente quale terminale il pubblico depuratore di Milano San Rocco, una quantità rilevante ed imprecisata di detti rifiuti, in elevate concentrazioni (rilevate dalla relazione del 21.9.2005 a firma del dott. Paolo Perfumi dell’ARPA come segue: - al prelievo ai pozzetti dell’insediamento eseguito in data 27.5.2005, pari a 400 mg/l per Cromo totale e Cromo VI, a fronte di un valore max ammissibile di 2 e 0,2 mg/l; - al prelievo in falda, tramite piezometro successivamente posizionato nell’insediamento in data 6.9.2005, pari a 334 mg/l di Cromo totale e 315 mg/l di Cromo VI, a fronte dei valori limite ammessi di 50 e 5 mg/l), ampiamente superiori ai limiti stabiliti dalle leggi vigenti con riferimento alla tab.3 del D. Lgs 152/99, causando serio e tutt’ora in itinere (come confermato dai prelievi eseguiti in data 1 e 2 febbraio 2006 e dalle successive analisi che confermavano al piezometro V valori di cromo VI pari a 325 mg/l, attribuibili allo scarico proveniente dall’insediamento in oggetto) inquinamento della falda acquifera, con grave ed attuale pericolo per la salute ed incolumità pubblica. Detta condotta criminosa veniva posta in essere con l’intento di trarre maggior profitto da un’eventuale cessione dell’azienda, in situazione fallimentare, al potenziale acquirente ed evitare i costi relativi al regolare smaltimento dei rifiuti presenti nell’insediamento; fatti commessi in Milano, dal maggio al luglio 2005
 
B)    Art.340 c.p.
 
per avere, con la condotta e qualità descritta al capo che precede, turbato la regolarità di un servizio pubblico causando, per più giorni ed in diverse occasioni, interruzioni al regolare funzionamento dell’impianto pubblico di depurazione delle acque di Milano San Rocco. In particolare per aver sversato i rifiuti descritti al capo A) direttamente nella pubblica fognatura in percentuale tale – come evidenziato da Metropolitana Milanese spa Gestore dell’impianto nelle diverse note prodotte ed in quella riepilogativa del 27.7.2005 in atti – da danneggiare la flora batterica presente negli impianti ed inibirne e impedirne in diverse occasioni e per più giorni (in un caso continuativamente dal 6 al 28.5.2005) il corretto funzionamento; fatti commessi in Milano, dal maggio al luglio 2005
 
C)    Art.635 cpv. n.3 c.p.
 
per avere, con la condotta e qualità descritta ai capi precedenti, danneggiato un bene pubblico quale la falda acquifera sotterranea ed il sistema di depurazione a batteri dell’impianto pubblico di depurazione delle acque di Milano San Rocco; fatti commessi in Milano, dal maggio al luglio 2005
 
D)    Artt.449 e 434 c.p.
 
per avere, con la condotta e qualità descritta ai capi precedenti, commesso per colpa un fatto diretto a cagionare un disastro ambientale causato dal rilevante inquinamento della falda acquifera superficiale (come evidenziato nella perizia tecnica depositata in data 16.11.2005 dal C.T.U. incaricato geologo Alessandro Ummarino e confermato e descritto nella relazione del 30.11.2005, a firma del dott. Perfumi dell’ARPA, inerente il raffronto delle analisi dei campioni delle acque di falda prelevati in data 17.11.2005 a monte e a valle della fonte d’inquinamento, ove si evidenzia una concentrazione di cromo esavalente pari a 5 mg/l a monte dell’insediamento contro una concentrazione della stessa sostanza, riscontrata a valle dell’impianto, pari a 389 mg/l) con conseguente pericolo per l’incolumità pubblica; in particolare, cagionava l’inquinamento con sostanze tossiche delle acque della falda superficiale, utilizzate per vari usi sia dall’utenza pubblica che da quella privata, con potenziale interessamento di quella sottostante destinata al consumo umano di acqua potabile tramite emungimento da pozzi pubblici e privati, nonchè di quelle destinate, in uscita dal depuratore Milano San Rocco, all’irrigazione dei campi coltivati, con grave ed attuale pericolo per la salute pubblica; fatti commessi in Milano, dal maggio al luglio 2005
 
E)     Art.51 bis (in relazione all’art.17 II comma) D. Lg. 22/97
 
per avere, a fronte dell’inquinamento cagionato con la condotta e qualità descritta ai capi che precedono, omesso di dare corso, entro i termini previsti ed a proprie spese, agli interventi previsti dall’Ordinanza, emessa in data 9.8.2005 dal Settore Ambiente del Comune di Milano ai sensi degli artt.14 e 17 del D. Lgs. 22/97, che gli imponeva di:
-         procedere, entro 48 ore, alla messa in sicurezza del sito e degli impianti fonte dell’inquinamento;
-         smaltire, entro 20 giorni, i rifiuti presenti;
-         presentare, entro 30 giorni, il piano di caratterizzazione per la successiva bonifica necessaria all’avvio della successiva fase di ripristino ambientale.
Commesso in Milano in data 9 settembre 2005
 
Il procedimento, fissato per la prima udienza dell’11 luglio 2007, veniva immediatamente differito all’udienza del 28 novembre 2007, in considerazione del fatto che l’imputato era stato tardivamente notificato e le parti offese non avevano neppure ricevuto notificazione.
 
Alla successiva udienza, in presenza del Frisinghelli, si costituivano parte civile la Provincia di Milano, il Comune di Milano e la Metropolitana Milanese s.p.a..
 
Nuovi rinvii venivano quindi effettuati alle udienze del 10 marzo 2008 e 23 giugno 2008, al fine di consentire alle parti civili di valutare i danni conseguenti alle condotte contestate all’imputato e a tutte le parti di considerare l’entità delle opere di bonifica necessarie.
 
Nel frattempo, su richiesta del P.M., il giudice emetteva tre ordinanze di sequestro conservativo dei seguenti beni di proprietà dell’imputato, a garanzia dei crediti di cui all’art.316 c.p.p. e, ai sensi del III comma di tale norma, anche a favore delle parti civili:
ordinanza 6 ottobre 2007:
-         quote parte del fabbricato sito in Leivi (GE), via al Castello n.2, indicato nelle note di trascrizione n.4664, n.1078 e n.11154 della Conservatoria dei RR.II. di Chiavari;
-         immobile sito in Como, via Castel Baradello 27, indicato nelle note di trascrizione n.12054, n.3470 e n.21852 e nella nota di iscrizione di ipoteca n.12055 della Conservatoria dei RR.II di Como;
-         immobili siti in Fabriano - frazione Nebbiano (AN), indicati nella nota di trascrizione n.4262 della Conservatoria dei RR.II. di Ancona;
ordinanza 7 novembre 2007:
-         saldo attivo del conto corrente n.4089, acceso dall’imputato presso la Banca Intesa San Paolo di Como, agenzia 2 (saldo ammontante, alla data del 17 ottobre 2007, ad euro 4.135,33);
ordinanza 14 febbraio 2008:
-         quote parte della società CA.BA. s.r.l., con sede in Milano, via Abbondio Sangiorgio 12, di proprietà dell’imputato, per un valore nominale di euro 15.000,00, come da visura della Camera di commercio di Milano del 6 dicembre 2007.
 
Sin dall’udienza del 28 novembre 2007 l’imputato, presente, prospettava tramite il difensore l’intenzione di chiedere un rito alternativo; all’udienza del 31 ottobre 2008, pertanto, il difensore chiedeva che il procedimento si svolgesse nelle forme del rito abbreviato e il giudice, ammesso il rito, sulle conclusioni delle parti decideva come da separato dispositivo.
 
Risulta dagli atti che tra i mesi di febbraio e maggio del 2005, in più occasioni, la s.p.a. Degrémont, gestore dell’impianto di depurazione di Milano San Rocco, aveva segnalato alla Metropolitana milanese s.p.a. (Servizio idrico integrato della città di Milano) l’arrivo al depuratore di scarichi anomali tali da creare gravi disfunzioni nell’esercizio delle fasi di pretrattamento dell’impianto.
A sua volta la Metropolitana milanese aveva comunicato tali inconvenienti al comune di Milano (settore Ambiente ed energia), allo scopo di definire le procedure da adottare.
 
Tra il 6 e il 7 maggio 2005 (si vedano le note della Degrémont del 9 e 10 maggio 2005), l’anomalia era stata di tale gravità, da rendere in parte inefficace il processo biologico di depurazione: si legge, infatti, che “i batteri responsabili del processo depurativo hanno subito un forte shock dovuto alle sostanze inquinanti o disinfettanti contenute nello scarico… in conseguenza di ciò si è verificata la moria di parte dei fanghi attivi e l’inibizione di alcuni processi biologici… purtroppo, quando delle sostanze tossiche compromettono il metabolismo della biomassa batterica, si può solo attendere che la microfauna riprenda vitalità e cominci ad attuare nuovamente l’azione depuratrice”.
Le analisi effettuate su tale scarico avevano mostrato “la presenza di cromo e rame in concentrazioni molto elevate e tali da aver prodotto effetti negativi sulla efficienza della fase di nitrificazione, che dopo una fase di arresto, è ripresa gradualmente a partire dal 18 maggio” (cfr. nota della Metropolitana milanese del 23 maggio 2005). Il cromo totale, in particolare, era presente nella misura di 26 mg/l (contro un limite di legge di 4 mg/l); il rame, nella misura di 0,71 mg/l (contro un limite di legge di 0,4 mg/l).
 
Ulteriori scarichi anomali, dello stesso tipo, erano avvenuti la sera del 20 maggio 2005 e il 24 maggio 2005 (si vedano le note della Degrémont del 23 e 24 maggio 2005), ma le analisi, pur evidenziando in relazione al cromo una presenza talora superiore ai limiti di legge, non erano state così allarmanti come le precedenti.
 
Indagini successivamente compiute, riassunte nella comunicazione di notizia di reato della Polizia municipale (nucleo ambiente) del 26 luglio 2005, avevano portato a individuare come possibile autrice degli scarichi la s.r.l. Arturo Lorenzi di MIlano, via Bazzi 12, avente come amministratore unico Guido Frisinghelli. La società, infatti:
► era una delle imprese autorizzate, che presentavano denuncia di scarichi produttivi destinati al depuratore di Milano San Rocco (si veda l’elenco di tali imprese, allegato alla nota della Metropolitana milanese del 30 maggio 2005);
► svolgeva attività galvaniche con l’utilizzo di sostanze compatibili con quelle rilevate dalle analisi;
► era ricompresa nell’area dalla quale provenivano gli scarichi anomali di cromo e di rame;
► aveva scaricato quantitativi di cromo di gran lunga superiori al limite consentito, come si era accertato sia attraverso il posizionamento di campionatori di inquinanti nel tratto di fognatura corrispondente alla società, sia attraverso prelievi effettuati il 18 luglio 2005 negli scarichi fognari, che avevano evidenziato la presenza di cromo nella misura di 69 mg/l (si veda anche il fascicolo fotografico composto in pari data).
 
Tale era stata l’anomalia dello scarico del 18 luglio 2005, che il gestore dell’impianto di depurazione di Milano San Rocco aveva deciso di interrompere il trasferimento delle acque depurate ad uso irriguo, considerando i possibili effetti negativi sulla qualità dell’effluente dall’impianto; l’alimentazione delle rogge era rimasta interrotta sino al 28 luglio 2005, quando, con il rientro nella norma delle caratteristiche qualitative delle acque trattate, il pompaggio era ripreso (v. nota della Metropolitana milanese s.p.a. del 27 ottobre 2005, alle pagine 271 ss. atti P.M.).
 
Il 25 luglio 2005, personale della Polizia municipale e dell’ARPA Lombardia si recava in via Bazzi 12, per effettuare un sopralluogo presso la società Arturo Lorenzi.
Il risultato del sopralluogo è compiutamente descritto nella comunicazione di notizia di reato del 26 luglio 2005 (pagg.6-12 atti P.M.) e nei fascicoli fotografici ad esso allegati. Da tali atti si rileva:
► che l’insediamento, avente una superficie di 2.000 metri quadrati, “si presentava in stato di dismissione, in quanto nei tre capannoni presenti erano stati asportati gran parte dei macchinari comprese le 4 vasche galvaniche contenenti soluzioni pericolose, quindi rimanevano 3 vasche, di cui una contenente una parte di soluzioni di Nichel, mentre nelle altre due erano presenti solo dei fanghi di colore biancastro in stato solido, quali residui di lavorazione”;
► che “al centro del piazzale scoperto, la cui pavimentazione era interamente cementata, si trovavano tre pozzetti di scarico collegati alla pubblica fognatura. Si rilevava in corrispondenza degli scarichi, le tracce di sostanze acide sversate al suolo, che avevano corroso parte della pavimentazione in cemento, rilasciando un colore biancastro indelebile che confluiva in particolar modo nel pozzetto centrale”;
► che “si scoperchiavano i pozzetti ed all’interno di essi si riscontrava la presenza di sostanze liquide di colore giallo paglierino” che a dire del responsabile dell’Ufficio bonifiche ambientali dell’ARPA dott. Perfumi dimostravano la presenza di “tracce di cromo giacente negli scarichi”; “anche nei capannoni ove erano presenti le vasche galvaniche contenenti cromo, sia i pavimenti che i muri perimetrali presentavano delle efflorescenze di colore giallo che evidenziavano la presenza di cromo assorbito per capillarità dai manufatti”;
► che “nel capannone centrale si aveva modo di constatare che di recente, per occultare le tracce di tali sostanze inquinanti, erano stati cementati in modo grossolano sia i pozzetti di scarico presenti, sia la pavimentazione ove erano installate dette vasche; inoltre l’intero impianto di depurazione, le cui vasche si trovavano interrate sotto il piano di calpestio del cortile, erano state completamente riempite con ghiaia e cementate in superficie, rendendo così difficoltoso se non impossibile le indagini ambientali del sottosuolo relative alla ricerca di sostanze pericolose quali il cromo esavalente, da sempre utilizzato nelle lavorazioni della ditta”;
► che “nella parte posteriore dell’insediamento era presente una vasca dalla capacità di circa 10 mc., contenente circa 3 mc. di cromo; la stessa era munita di un rubinetto posto nella parte inferiore”.
 
Sentito a s.i.t., Frisinghelli spiegava che l’attività della società, consistente in prevalenza nell’effettuazione di lavori di cromatura e nichelatura su cilindri da stampa, era cessata il 29 aprile 2005, in quanto la società si era venuta a trovare “in una situazione prefallimentare”. I bagni galvanici, privati delle soluzioni, erano stati smaltiti presso la s.r.l. “Centro del recupero”; le soluzioni contenute nei bagni galvanici erano state travasate nella vasca ancora presente all’interno dell’insediamento.
 
L’accertato smaltimento abusivo di cromo e nichel tramite pozzetti destinati alla fognatura, ubicati all’interno del cortile, comportava il sequestro dell’intero insediamento.
 
Ad integrazione della comunicazione di notizia di reato del 25 luglio 2005, la Polizia municipale trasmetteva:
► un esposto datato 21 luglio 2005 e sottoscritto da un imprenditore, Giovanni Inselvini, legale rappresentante della s.r.l. Immobiliare Insel, che nel mese di aprile 2005 aveva contattato Frisinghelli, per l’acquisto dell’azienda della Arturo Lorenzi, muri esclusi. Si legge nell’esposto che a seguito delle trattative economiche l’Inselvini aveva iniziato lo smontaggio dei materiali da inviare alla propria impresa, quando “i miei collaboratori notavano che vasche di materiali vari venivano portate via. Dopo alcuni giorni, quando potei rientrare nell’azienda, notai che i dipendenti della ditta Lorenzi srl e il sig. Frisinghelli stesso continuavano a vuotare nei buchi lasciati dalle vasche asportate parecchie centinaia di litri di acido cromico, di liquido per bagno di nichel, liquido per bagno di stagnatura e di liquido (contenuto in una vasca di circa 10.000 litri) di cromo ed altri componenti chimici (su brevetto del sig. Frisinghelli) per cromatura alluminio, provocando serio inquinamento del terreno... In occasione di una visita a clienti, mio figlio Alberto Inselvini si è recato presso la A. Lorenzi srl ed è riuscito a fotografare parti dell’azienda inquinata dai vari liquidi pericolosi. Alberto Inselvini ha notato il sig. Guido Frisinghelli, il quale fermava autocarri che transitavano sulla strada carichi di calcinacci, li faceva entrare nell’azienda e faceva riempire con i calcinacci i buchi lasciati dalle vasche di cromatura asportate. Mio figlio non è riuscito a salire al piano superiore dell’azienda perchè dalla soletta pioveva letteralmente acido cromico ed ha notato inoltre che venivano versati bidoni di liquido di cromo nei tombini del capannone”;
► una nota dell’ARPA, concernente il sopralluogo del 25 luglio 2005, nella quale si ribadiva:
-         che “le vasche che la ditta adibiva a bagni galvanici poste all’interno dei capannoni… risultano rimosse; al loro posto la pavimentazione appare ricoperta di recente con calcestruzzo (alcuni sacchi di cemento sono ancora presenti su un bancale in legno posto in vicinanza delle pavimentazioni cementate”;
-         che in un cortile laterale “è presente una vasca, rialzata rispetto al piano campagna, in buono stato di conservazione e chiusa con adeguata copertura, contenente ancora prodotto (soluzione cromica per impiego in bagni galvanici) per un volume di circa 4 (quattro) metri cubi”;
-         che “l’impianto di depurazione delle acque di scarico risulta smantellato, così come anche gli impianti di depurazione aria (aspirazione e abbattimento)”;
-         che “in più punti le mura dei capannoni, sia nei locali fuoriterra che in quelli interrati, appaiono significativamente impregnate da cromo esavalente con la tipica colorazione a macchie di colore giallo/giallo ocra”;
-         che “nei pozzetti di raccolta delle acque di piazzale è stata rilevata la presenza di acque con colore giallognolo da ascrivere con evidente probabilità alla presenza di cromo”;
-         che negli stessi pozzetti “risultano confluire, almeno parzialmente, anche le acque delle coperture, il che comporta in caso di precipitazioni la possibile diluizione delle acque di scarico dei piazzali”;
-         che pertanto andava effettuato, nel più breve tempo possibile, “lo svuotamento dei pozzetti di raccolta delle acque di piazzale, onde evitare che a seguito di precipitazioni meteoriche i residui ivi contenuti vengano trascinati in fognatura senza passare dall’impianto di depurazione (che come detto risulta smantellato) e quindi sostanzialmente senza alcun possibile controllo sulla loro possibile dannosità”.
 
In data 29 luglio 2005 il Gip disponeva il sequestro preventivo dell’insediamento della s.r.l. Arturo Lorenzi, considerando:
-         che dagli elementi acquisiti appariva configurabile a carico di Frisinghelli “il reato di cui all’art.51 comma I e II legge 22/1997, per avere – quale A.U. della predetta s.r.l. – smaltito nella sede di via Bazzi n.12 rifiuti pericolosi costituiti da bagni galvanici contenenti nichel, cromo ed altre sostanze chimiche, parte dei quali veniva versata nel suolo e nel sottosuolo ed immessa nella rete fognaria collegata al depuratore di Milano San Rocco, sì da impedire per più giorni il corretto processo biologico del menzionato depuratore”;
-         che “la libera disponibilità dei beni anzidetti può aggravare o protrarre le conseguenze del reato, in quanto i bagni galvanici sono stati immessi anche nel condotto fognario tanto da causare danni per il depuratore e provocare pericolo per la falda acquifera situata a circa 8 metri di profondità”;
-         che “sussisteva effettivamente una situazione d’urgenza, in quanto nell’attualità vi è la presenza di sostanze nocive nell’insediamento produttivo in parola (vedi vasche di lavorazione, terreno e tombini), situazione che impone il controllo della falda acquifera e lo smaltimento di rifiuti secondo le procedure corrette”.
Il decreto veniva notificato a Frisinghelli il 26 agosto 2005 (v. pag.259 atti P.M.).
 
In data 9 agosto 2005 il Comune di Milano (Settore ambiente ed energia – Servizio bonifiche ambientali) emetteva un’ordinanza con la quale imponeva a Frisinghelli:
-         ai sensi dell’art.7, comma 2, del DM 471/99, effettuare entro 48 ore dal ricevimento del presente atto un intervento di messa in sicurezza d’emergenza, consistente nello svuotamento dei pozzetti di raccolta delle acque del piazzale, al fine di evitare che i residui ivi contenuti siano trascinati, a seguito di eventuali precipitazioni meteoriche, in fognatura”;
-         ai sensi dell’art.14 del Dlgs 22/97, effettuare un’immediata messa in sicurezza della vasca ancora presente nella parte posteriore dell’insediamento e del suo contenuto”;
-         smaltire a norma di legge entro 20 giorni dal ricevimento del presente atto le tre vasche ancora presenti nell’area e il contenuto delle stesse”;
-         ai sensi dell’art.10 del DM 471/99”, presentare “entro 30 gg dalla notifica della presente ordinanza un piano della caratterizzazione relativo al sito in oggetto”, allegando l’elenco dei mappali sui quali insiste l’insediamento.
L’ordinanza veniva notificata a Frisinghelli il 26 agosto 2005 (v. retro pag.252 atti P.M.).
 
In data 22 agosto 2005 l’ARPA trasmetteva alla Polizia locale di Milano (Nucleo operativo ambiente) il referto analitico relativo al campione di acque prelevate nel sopralluogo del 25 luglio 2005 dal tombino di raccolta delle acque di piazzale della ditta; le analisi confermavano la presenza di “elevati valori di Cromo VI, pari a 400 mg/l a fronte di limiti agli scarichi ex Dlgs. 152/99 di 0,2 mg/l”.
 
In data 6 settembre 2005 l’ARPA prelevava dal piezometro presente nella s.r.l. Arturo Lorenzi campioni di acqua di falda, le cui analisi consentivano di stabilire “il superamento dei limiti previsti dal DM 471/99 e precisamente per la percentuale di e rispettivamente in microgrammi/litro 334 (valore massimo consentito 50) ed in microgrammi/litro 315 (valore massimo consentito 5)” (v. pagg.264-268 atti P.M.).
L’entità della contaminazione induceva l’ARPA a chiedere al Comune di Milano e alla Provincia di Milano:
-         di informare l’ASL competente e il gestore dell’acquedotto della situazione in essere;
-         di predisporre una verifica di dettaglio della piezometria locale e direzione di flusso per posizionare una barriera idraulica quale misura di messa in sicurezza di emergenza.
 
In data 17 ottobre 2005 il P.M. disponeva consulenza tecnica volta a individuare “la direzione di flusso delle acque di falda in corrispondenza del sito ove sono state sversate le soluzioni galvaniche”.
 
In data 2 novembre 2005, il P.M. disponeva un ulteriore ispezione dell’area in sequestro, al fine di effettuare ulteriori campionamenti sull’acqua di falda che scorre sotto l’area dove erano stati effettuati gli sversamenti e dove era attiva la s.r.l. Arturo Lorenzi (v. pag.236-237 atti P.M.).
Con successivo decreto del 14 novembre 2005 il P.M. disponeva effettuarsi “prelievo e analisi di campioni di acque di falda in corrispondenza del sito ove sono state sversate soluzioni galvaniche ed in particolare, una volta individuato il piano di scorrimento della falda, campionatura sia delle acque in entrata, sia delle acque in uscita, verso e dal sito contaminato” (v. pagg.26/124 ss. atti P.M.).
 
I prelievi venivano effettuati il 17 novembre 2005 (v. pagg.246/102 atti P.M.).
Con nota del 30 novembre 2005 (in atti alle pagine 438 ss. del fascicolo del P.M.) l’ARPA comunicava i referti analitici relativi ai campioni prelevati dai piezometri PZL, PZM, PZV, realizzati a monte e valle della ditta: “Dall’esame dei valori emerge un chiaro incremento monte-valle di cromo esavalente in falda, che passa da concentrazioni di 5 µg/l nel piezometro PZM di monte a 389 µg/l nel piezometro PZV di valle, confermando una inequivocabile ingente contaminazione delle acque di falda derivante dalle attività svolte e occorse nella ditta in questione”.
Si legge nella nota che fenomeni di contaminazione da cromo esavalente in falda nell’area della ditta erano stati rilevati anche in anni passati, con conseguente richiesta di terebrazione di pozzo/piezometro (ingiunzione del comune di Milano, settore ecologia, igiene ambientale, parchi e giardini n. AI-21598/94/ecol del 19 ottobre 1994) e successiva richiesta di messa in spurgo di tale pozzo/piezometro e depurazione delle acque emunte prima del loro scarico in fognatura (ingiunzione del comune di Milano, settore ecologia, igiene ambientale, parchi e giardini n. 6385/95/ecol del 28 aprile 1995).
 
In data 19 dicembre 2005 la Polizia locale (Nucleo ambiente) trasmetteva alla Procura della Repubblica una nuova nota, concernente lo sviluppo delle indagini. Risulta da tale documento:
► che i bagni galvanici contenenti acido cromico, zinco, nickel, cadmio e le sostanze per la sgrassatura dei metalli erano stati eliminati tra la fine di aprile e l’inizio di maggio 2005, come riferito dai testi Inselvini Giovanni, Barbieri Bruno, Zagari Antonio e Inselvini Alberto, che come già si è detto (si veda l’esposto di Giovanni Inselvini del 21 luglio 2005, sopra riportato) si erano recati alla Arturo Lorenzi per prelevare i macchinari acquistati dalla Insel[1]
► che i tombini della s.r.l. Arturo Lorenzi erano stati cementati il 10 giugno 2005, da dipendenti della Arturo Lorenzi, su disposizione dello stesso Frisinghelli (si vedano le sommarie informazioni rese da Alloni Walter, dipendente della società Lombarda Calcestruzzi, che aveva fornito il materiale utilizzato per la copertura).
 
In data 21 gennaio 2006 il comune di Milano (settore ambiente ed energia) riferiva che l’ordinanza del 9 agosto 2005 non era stata ottemperata da Frisinghelli.
 
Con nota del 10 marzo 2006 l’ARPA di Milano comunicava l’esito di ulteriori prelievi, effettuati l’1 e il 2 febbraio 2006. Si legge in tale documento (pagg.731 ss. atti P.M.) che le analisi eseguite “hanno evidenziato la presenza di significative concentrazioni di Cr VI unicamente nei piezometri Pz V (cod. SIF 0151462803) con 325 µg/l e nel piezometro Pz I (cod. SIF 0151461781), 30 µg/l, situato a circa 750 metri a valle del primo in direzione del flusso di falda… L’areale di contaminazione risulta pertanto definito e correlabile in ragione della direzione di flusso della falda alla ditta Lorenzi quale fonte dell’inquinamento… La contaminazione riscontrata nel piezometro più a valle (Pz I), considerata la distanza dalla fonte, è riferibile a eventi occorsi circa una quarantina di anni addietro… mentre i valori rinvenuti nel Pz V sono da attribuire ad eventi decisamente più recenti (da uno a due anni al massimo) e riferibili direttamente allo scarico avvenuto nella primavera 2005 e/o ad un continuo rilascio da fonti secondarie di contaminazione da ricercarsi presumibilmente nei terreni su cui poggia l’attività”.
 
Queste essendo le risultanze processuali, ritiene questo giudice di dover affermare la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati di cui ai capi A (abusivo smaltimento di rifiuti speciali pericolosi), B (disastro colposo) ed E (omessa bonifica del sito).
 
Da quanto si è detto, emerge con evidenza che tra i mesi di maggio e luglio 2005 Frisinghelli, amministratore unico della s.r.l. Arturo Lorenzi, ha smaltito grossi quantitativi di soluzioni contenenti acido cromico e metalli pericolosi, versandoli sul suolo e, attraverso i tombini posti all’interno della sua impresa, direttamente in fognatura, così causando il guasto prolungato e ripetuto del depuratore di Milano San Rocco.
 
Le condotte dell’imputato sono dimostrate dal contenuto dei verbali di s.i.t. dei testi Giovanni Inselvini, Bruno Barbieri, Antonio Zagari e Alberto Inselvini, che mentre si trovavano presso la Arturo Lorenzi per smontare i materiali che lo stesso Giovanni Inselvini aveva acquistato, avevano visto Frisinghelli disfarsi delle pericolose soluzioni, versandole appunto “nei buchi lasciati dalle vasche asportate” e “nei tombini del capannone”; anche dall’elaborato integrativo della consulenza disposta dal P.M.il 17 ottobre 2005, redatto dal geologo dott. Ummarino il 15 novembre 2005 (in atti alle pagine 246/99 ss. del fascicolo del P.M.) si rileva che “l’analisi degli elementi acquisiti con la realizzazione dei tre piezometri… con la quotatura dei punti di indagine, con l’esame speditivo del materiale di risulta e con un prelievo di campioni d’acque di falda” ha compiutamente riscontrato un incremento di contaminati nelle acque di falda tra i campioni prelevati prima dell’area della Arturo Lorenzi s.r.l. e quelli prelevati in uscita da essa.
Lo stesso imputato, nell’interrogatorio reso al P.M. il 27 novembre 2007, ha ammesso “di aver sversato in fogna il contenuto delle vasche nel 2005 due volte a maggio e a luglio”.
 
L’entità degli sversamenti, quale risulta dalle dichiarazioni dei testi sopra indicati, è quanto mai rilevante (si parla di centinaia e migliaia di litri di liquidi, di interi bidoni che venivano svuotati). Le modalità della condotta appaiono ancor più impressionanti, ove si pensi che il materiale colava anche dalle vasche rialzate e che – come illustrato dalle fotografie – ha ampiamente impregnato le pareti e i pavimenti dell’insediamento, poi coperti dall’imputato in tutta fretta con uno strato di cemento. Il grado dell’inquinamento è dimostrato dall’esito delle analisi compiute sui prelievi; in particolare:
-         il 18 luglio 2005, nel tratto di fognatura esterno alla società, era presente cromo totale nella quantità di 69 milligrammi/l;
-         il 25 luglio 2005 nel tombino di raccolta delle acque del piazzale della ditta, era presente cromo esavalente nella quantità di 400 milligrammi/l;
-         il 6 settembre 2005, nelle acque di falda sottostanti la ditta, erano presenti cromo totale nella quantità di 334 microgrammi/litro e cromo esavalente nella quantità di 315 microgrammi/litro;
-         il 17 novembre 2005, nelle acque di falda subito a valle della ditta, erano presenti 389 microgrammi/litro di cromo esavalente.
Se si pensa che il D. Lg. 11 maggio 1999, n.152 (Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento), alla tabella A, imponeva valori massimi di cromo totale pari a 2 milligrammi/l per le emissioni in acque superficiali e a 4 milligrammi/l per le emissioni in fognatura; che la stessa tabella imponeva valori massimi di cromo esavalente pari a 0,2 milligrammi/l per le emissioni sia in acque superficiali che in fognatura; che il D.M. 25 ottobre 1999, n.471 (Regolamento recante criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell’art.17 D. Lg. 22/1997), all’allegato I, imponeva valori di concentrazione limite, nelle acque sotterranee[2], pari a 50 microgrammi/litro per il cromo totale e a 5 microgrammi/litro per il cromo esavalente, ben si percepisce l’entità degli scarichi e la gravità delle condotte dell’imputato, reiterate nel tempo. In sostanza, mentre per il cromo totale le emissioni sono rimaste “contenute” in diciassette volte il limite consentito rispetto alle fognature e in sei-sette volte il limite consentito rispetto alle acque sotterranee, per il cromo esavalente le emissioni in fognatura hanno raggiunto un livello duemila volte superiore al massimo consentito e le emissioni in acqua di falda hanno raggiunto un livello settantotto volte superiore al massimo consentito.
 
Come è noto, il cromo esavalente è un particolare stato di ossidazione del cromo, metallo instabile in ossigeno, i cui composti sono molto tossici se introdotti nell’organismo: si legge in letteratura che la dose letale di composti di cromo esavalente è di circa mezzo cucchiaino da tè, che la maggior parte dei composti del cromo esavalente è irritante per gli occhi, la pelle e le mucose, e che una esposizione cronica ad essi può causare danni permanenti agli occhi, se non adeguatamente curati. Si legge anche che il cromo esavalente è un noto agente cancerogeno per l’uomo e che sin dal 1958 l’Organizzazione mondiale della sanità aveva prospettato una concentrazione massima ammissibile per il cromo esavalente pari a 0,05 milligrammi per litro nell’acqua potabile, sulla base di misure di salvaguardia per la salute; tale raccomandazione è stata rivista molte volte, ma il valore fissato non è mai stato elevato.
Studi compiuti dall’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro hanno dimostrato che mentre la forma trivalente del cromo è caratterizzata da una tossicità relativamente bassa ed è considerata un nutriente essenziale, il cromo esavalente, presente in diversi composti di origine industriale (in particolare cromati e tiolati), è considerato altamente tossico e sulla base di evidenze sperimentali ed epidemiologiche è stato classificato dalla IARC come cancerogeno per l’uomo. Il principale bersaglio dell’azione tossica e cancerogena del cromo esavalente è l’apparato respiratorio, ed è dimostrato che l’esposizione a cromo esavalente è una delle possibili cause di tumore al polmone; è ben vero che l’ingestione è meno critica, per via dell’alta capacità riducente dello stomaco e dell’intestino dalla forma esavalente ad altre forme; ciò non toglie, però, che – come si legge negli stessi studi – è stato dimostrato che, a livello intracellulare, la tossicità del cromo esavalente “si manifesta soprattutto con le numerose alterazioni molecolari e strutturali provocate dalle forme instabili [Cr(V) e Cr(IV)] e stabili [Cr(III)] derivanti dal processo di riduzione. E’ stato infatti dimostrato che il cromo in questi diversi stati di ossidazione è in grado di legarsi a proteine e DNA causando mutazioni geniche, aberrazioni cromosomiche, alterando il normale ciclo cellulare ed inducendo i geni responsabili dell’apoptosi[3]. Si suppone inoltre che la forma pentavalente sia fortemente coinvolta nello sviluppo di specie reattive dell’ossigeno e quindi sia in grado di indurre stress ossidativo” (così si legge in un articolo pubblicato sul sito www.ispesl.it/informazione/argomenti/campagna2006-2008).
 
Come si è detto, le condotte di smaltimento poste in essere dall’imputato hanno avuto pesantissime ripercussioni negative sul depuratore di Milano San Rocco.
 
Dagli atti di un recente convegno organizzato dal comune di Milano il 23 aprile 2008, intitolato “Scenari di qualità ambientale nel sistema di depurazione di Milano” (reperibili sul sito www.comunemilano.it/portale/wps/wcm), si ricava che il sistema di depurazione di Milano risulta articolato su tre impianti, a servizio dei tre bacini scolanti del territorio comunale: Milano Peschiera Borromeo (bacino orientale, per una superficie di circa 2.230 ettari, avente come ricettore il fiume Lambro settentrionale); Milano Nosedo (bacino centro-orientale, per una superficie di circa 6.900 ettari, avente come ricettori la roggia Vettabbia e il cavo Redefossi); Milano San Rocco (bacino occidentale e comune di Settimo Milanese, per una superficie di circa 10.130 ettari, avente come ricettori il colatore Lambro meridionale, la roggia Pizzabrasa e la roggia Carlesca[4]). Il comune di Milano, poi, ha stipulato con il Consorzio di Bonifica Est Ticino-Villoresi un atto transattivo per cui lo stesso Consorzio si impegna ad agire quale unico interlocutore nei confronti delle utenze interessate all’uso in agricoltura delle acque depurate dagli impianti di Milano San Rocco e Nosedo, con l’obiettivo di migliorare la gestione delle risorse idriche in agricoltura; la stagione irrigua, negli anni 2005-2007, ha avuto mediamente una durata di circa quattro mesi, con inizio nel mese di maggio e chiusura nei primi giorni di settembre.
I limiti di emissione di ogni impianto sono riferiti a quelli stabiliti dal D. Lg. 152/2006 (tabella 2 dell’allegato 5 alla parte III) e dal D. Min. Ambiente n.185/2003 per i seguenti parametri: BOD5, COD, solidi sospesi totali, azoto totale, azoto ammoniacale, fosforo totale, tensioattivi totali, escherichia coli.
 
Per quanto concerne l’impianto di Milano San Rocco, i dati di progetto indicano:
-         una popolazione massima servita di 1.050.000 abitanti equivalenti[5];
-         una portata media in tempo secco di 4 metri cubi al secondo (ossia 345.600 metri cubi al giorno) e di 12 metri cubi al secondo in periodo piovoso;
-         una portata massima ammissibile alla fase biologica pari a 9.000 metri cubi al secondo;
-         una portata massima sottoposta a disinfezione pari a 9.000 metri cubi al secondo.
 
Il sistema di collettamento all’impianto è costituito da un collettore principale, che raccoglie le acque reflue scaricate da diversi sottobacini dell’area scolante occidentale della città.
Il processo depurativo prevede le seguenti fasi:
► Pretrattamenti (grigliatura grossolana, grigliatura fine, dissabbiatura, disoleazione);
► Trattamento biologico aerobico a biomassa sospesa, c.d. “processo a fanghi attivi” (denitrificazione, ossidazione, nitrificazione, chiarificazione finale);
► Trattamenti terziari (defosfatazione, filtrazione a sabbia a gravità, disinfezione finale con impianto a raggi ultravioletti con lampada a bassa pressione di vapore di mercurio);
► Ciclo di trattamento dei fanghi (ispessimento dinamico, stabilizzazione aerobica, condizionamento chimico, disidratazione meccanica con filtropresse a piastre, essiccamento termico).
I fanghi di depurazione vengono in parte disidratati meccanicamente e destinati in agricoltura previo trattamento di compostaggio e in parte essiccati termicamente e in parte smaltiti presso cementifici e utilizzati come combustibile di sostituzione nel processo di cottura del clinker prodotto, in parte destinati in agricoltura previo trattamento di compostaggio. Grigliato e sabbia vengono smaltiti in discarica; le sostanze galleggianti (oli e grassi) hanno come destinazione l’inceneritore.
 
Individuate, così, caratteristiche e funzione dell’impianto di Milano San Rocco, la nota della Metropolitana milanese s.p.a. del 27 ottobre 2005 (in atti alle pagine 271 ss. del fascicolo del P.M.) offre essenziali spunti di riflessione, precisando che l’ingresso nel depuratore degli scarichi anomali del 6 maggio 2005, 20 maggio 2005, 24 maggio 2005 e 17 luglio 2005 ha comportato la creazione di fanghi fuori specifica a causa dell’elevata concentrazione di cromo; dai formulari di smaltimento di tali fanghi si evince “che il 7 ottobre 2005 è stato l’ultimo giorno in cui sono stati smaltiti fanghi fuori specifica”.
Si legge nella nota:
La gestione del problema fanghi, che in un primo momento sembrava essersi conclusa alla data del 24 settembre 2005, in realtà è proseguita fino al giorno sopra citato, e di ciò siamo stati informati da Degrémont nel corso di una riunione tenutasi il giorno 25 ottobre u.s..
Sulla base di quanto convenuto con ARPA Lombardia, durante l’ingresso nell’impianto degli scarichi anomali sopra indicati tutti i reflui sono stati accolti nell’impianto stesso.
Il ciclo di depurazione non è stato né ridotto, né interrotto.
In generale gli scarichi nocivi hanno avvelenato e/o inibito la biomassa batterica che opera il processo di depurazione biologica.
In conseguenza del primo scarico anomalo (6 maggio 2005), è stata riscontrata una moria di batteri che si sono accumulati sulla superficie del comparto biologico; inoltre si è registrata per alcuni giorni la inibizione del delicato processo di nitrificazione-denitrificazione, con il conseguente superamento dei limiti previsti allo scarico per i composti dell’azoto. In particolare l’impianto non è stato in grado di trattare l’ammoniaca nel periodo compreso tra il 7 e il 15 maggio e l’azoto totale nel periodo 7-23 maggio 2005.
In conseguenza degli scarichi verificatisi il 20 e il 24 maggio 2005 non sono stati riscontrati fenomeni di elevata inibizione batterica e i parametri di controllo all’uscita sono rimasti compresi entro i limiti per lo scarico in acque superficiali.
Lo scarico del 17 luglio 2005 ha invece nuovamente compromesso il processo di nitrificazione-denitrificazione, oltre all’abbattimento dei tensioattivi, causando il superamento dei limiti previsti per lo scarico ad uso irriguo per i composti dell’azoto e dei tensioattivi. In particolare l’impianto non è stato in grado di trattare l’ammoniaca e l’azoto totale nei giorni 18 e 19 luglio, e i tensioattivi il giorno 19 luglio. Inoltre, sempre nei giorni 18 e 19 luglio, il valore di cromo totale in uscita dall’impianto ha superato il limite per l’utilizzo irriguo”.
 
A parere di questo giudice, le circostanze appena esposte portano a ritenere che le attività di smaltimento compiute dall’imputato, riferite al particolare oggetto degli sversamenti (il cromo esavalente) ed alle conseguenze provocate all’impianto di depurazione (sia per la durata del mancato funzionamento, sia per la tipologia del processo di depurazione concretamente inibito, sia per i prodotti che l’impianto non è stato capace di trattare) e – a valle – ai suoi recettori (si pensì, dal punto di vista spaziale alla vastità del bacino interessato dal Lambro meridionale e dalle rogge Pizzabrasa e Carlesca, e dal punto di vista temporale al particolare periodo in cui le condotte sono avvenute, coincidente con la stagione irrigua), siano effettivamente riconducibili alla previsione, fortunatamente di rara applicazione, del disastro colposo, di cui agli articoli 434 e 449 c.p., come ben si evince dal confronto con altri casi in questi anni esaminati dalla giurisprudenza.
 
Il reato di cui all’art.434 c.p., intitolato “Crollo di costruzioni o altri disastri dolosi” è inserito tra i delitti contro l’incolumità pubblica e, in particolare, tra quelli di comune pericolo mediante violenza; esso prevede una condizione obiettiva di punibilità (“se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità”) e l’art.449 c.p. prevede un’ipotesi autonoma di disastro, punita a titolo di colpa.
 
In una recentissima sentenza, la Suprema Corte, occupandosi di un caso assolutamente simile a quello di cui qui si discute, ha affermato che “requisito del reato di disastro di cui all'art. 434 cod. pen. è la potenza espansiva del nocumento unitamente all'attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane”: così Cass. pen. sez.III, 16 gennaio 2008, n.9418, mass. 239160. La vicenda era anche in quel procedimento caratterizzata da una imponente contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi, costituiti dai fanghi derivanti dal ciclo di depurazione delle acque e da rifiuti liquidi di navi approdate nel porto di Napoli; tali rifiuti, destinati a centri di compostaggio, invece di subire il necessario trattamento, erano smaltiti illecitamente, venendo quasi tutti sparsi su terreni agricoli o nei corsi d'acqua. Si legge nella sentenza che “il requisito che connota la nozione di "disastro" è la "potenza espansiva del nocumento" e la "attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità", come emerge dai lavori preparatori del codice penale. Una recente sentenza della Cassazione (sezione 5 n 40330/2006), che ha affrontato in modo approfondito l’esegesi della norma, ha precisato che il termine disastro implica sia cagionato un evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità "straordinariamente grave e complesso", ma non "eccezionalmente immane"; pertanto "è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone" (conf. Cassazione Sezione 5 sentenza 11486/1989)”. Nel caso concreto, la Corte considerava che l'accumulo sul territorio e lo sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi “hanno insita una elevata portata distruttiva dell’ambiente, con conseguenze gravi, complesse ed estese ed hanno una alta potenzialità lesiva tanto da provocare un effettivo pericolo per la incolumità fisica di un numero indeterminato di persone. La durata in termini temporali e l'ampiezza in termini spaziali delle attività di inquinamento giustificano la sussunzione della fattispecie concreta nella contestata ipotesi di reato di disastro innominato; questo delitto comporta un danno, o un pericolo di danno, ambientale di eccezionale gravità non necessariamente irreversibile, ma certamente non riparabile con le normali opere di bonifica”.
 
Altrove (Cass. pen. sez.IV, 20 febbraio 2007, n.19342, mass. 236410) si è rilevato che “per la configurabilità del reato di disastro innominato colposo di cui agli articoli 449 e 434 cod. pen. è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti. A tal fine, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere, con valutazione "ex ante", accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l'evento dannoso non si è verificato: ciò perché si tratta pur sempre di un delitto colposo di comune pericolo, il quale richiede, per la sua sussistenza, soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per l'incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno”. Il procedimento traeva origine dall’incendio di un enorme cumulo (circa 60.000 metri cubi) di rifiuti ammassati dagli imputati e dallo sprigionamento di imponenti fumi che avevano rivelato la presenza nell'aria di una quantità di acreolina, gas tossico intensamente irritante, altamente volatile, capace di raggiungere considerevoli distanze e rimanere inalterato nel suo potere di tossicità, dall'odore pungente, con effetti lacrimatori e punto di combustione a 234 gradi centigradi. La sentenza della Suprema Corte si diffondeva sulla necessità di “ancorare l'accertamento del requisito essenziale del delitto non già all'avvenuto verificarsi dell'evento dannoso, collegato eziologicamente alla condotta colposa degli imputati, bensì alla effettiva capacità diffusiva del pericolo per la pubblica incolumità, dalla quale l'evento, per assumere le dimensioni del disastro, deve essere caratterizzato”. Si legge nella motivazione che “la prospettiva ex ante dell'accertamento, al fine di verificare se un certo fatto abbia avuto attitudine a mettere in pericolo un numero non definito di persone e di cose, si pone in logica correlazione con la nozione di pericolo come realtà futura che si presenta necessariamente incerta, anche se probabile. Muovendo da tale premessa, è corretta la logica conclusione che la prova del pericolo non debba essere traslata da quella dell'avvenuto danno cagionato dalla condotta colposa, in quanto si andrebbe incontro inevitabilmente ad una contraddizione in punto di diritto, quella cioè di travisare la vera natura del delitto di disastro innominato (alias, altro disastro) colposo, di cui all'art. 449 c.p., negandone l'appartenenza al genus dei delitti colposi di comune pericolo, il quale richiede - per effetto del richiamo alla nozione di altro disastro preveduto dal capo 1^ del titolo 6^ del libro 2^ del codice di rito, del quale fa parte l'art. 434 c.p. - soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per la incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno”. Parametri di giudizio per affermare la sussistenza del reato erano tratti dall’ampiezza del territorio esposto ai gas tossici (si trattava di una frazione del comune di Rovigo, la cui popolazione era stata esposta a reale e grave pericolo per la resistenza nell'aria di rilevanti percentuali di acreolina), dalle conseguenze immediate del fatto (nei fumi sprigionati dall'incendio erano presenti anche altri composti chimici sotto forma di aldeidi, oltre l'acreolina, sicché l'effetto sinergico della miscela di gas nocivi aveva legittimato la decisione delle autorità preposte alla tutela dell'igiene pubblica di predisporre il monitoraggio permanente del sito e, addirittura, anche un piano di evacuazione di tutta la popolazione residente), dall’effettività dell'inquinamento del terreno e delle acque circostanti la discarica (dimostrata dalle analisi in atti, dalla testimonianza di un consulente che aveva riferito di avere personalmente constatato la completa essiccazione degli alberi siti al confine della discarica e la loro decorticazione, nonché dall'iniziativa del Servizio di Igiene Pubblica locale di allertare il Consorzio di bonifica del Polesine, al fine di impedire ogni nocumento alla salute pubblica che derivasse dall'utilizzo irriguo di quelle acque).

Anche un’altra sentenza (Cass. pen. sez.V, 11 ottobre 2006, n.40330, mass. 236295) afferma che “ai fini della configurabilità del delitto di disastro ambientale colposo (artt. 434, comma secondo, e 449 cod. pen.) è necessario che l'evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità sia straordinariamente grave e complesso ma non nel senso di eccezionalmente immane, essendo necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo collettivamente un numero indeterminato di persone e che l'eccezionalità della dimensione dell'evento desti un esteso senso di allarme, sicché non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva; in tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo”. In questo caso si trattava di una serie indeterminata di delitti concernenti il traffico illecito organizzato di rifiuti non pericolosi e pericolosi (tra cui rifiuti cancerogeni), la falsificazione di documenti di trasporto dei predetti rifiuti, l'abbancamento dei rifiuti in luoghi non idonei in modo tale da mettere in pericolo la pubblica incolumità; il reato di disastro veniva ricollegato allo “sversamento continuo e ripetuto in diverse aree non autorizzate, e cioè su terreni a destinazione agricola, ovvero in acque, di rifiuti speciali pericolosi (rifiuti di origine industriale aventi codice CER 190813, consistenti in "fanghi contenenti sostanze pericolose prodotti da altri trattamenti delle acque reflue industriali", contenenti cioè oli minerali "con fase rischio R45", idonei a provocare il cancro; rifiuti pericolosi costituiti da code di distillazione 070701 – 070101; rifiuti pericolosi costituiti da "terre e rocce" aventi codice CER 170503; amianto; oli minerali esausti contenenti PCB, ovvero rifiuti cancerogeni)”. La Suprema Corte, nel trarre l’accezione di “disastro” indicata nella massima da una costante giurisprudenza (Cass. pen. sez.V, 12 dicembre 1989 – 17 agosto 1990, n.11486; Cass. pen. sez.II, 20 dicembre 1989 – 8 febbraio 1990, n.1686; Cass. pen. sez.IV, 4 ottobre 1983 – 24 febbraio 1984, n.1616), aveva ancora una volta osservato che “quel che caratterizza la nozione di disastro è la diffusione del danno cui è connesso il pericolo per l'integrità alla salute, in guisa "da potersene dedurre l'attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità" (Rel. min. sul progetto del codice penale, 2^, p. 222). Sicché non è richiesto, per l'integrazione dell'illecito, che il fatto abbia direttamente prodotto, collettivamente, morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva (già avvisando che "del danno o del pericolo alle cose si tiene conto solo in quanto da esso possa sorgere un pericolo per la vita o per l'integrità delle persone" la Rel. min. cit., p. 212). Se dunque il concetto di disastro sta nella "potenza espansiva del nocumento" (così il Guardasigilli nella Rel. al Re) alla integrità e alla sanità, ben si comprende come si profili in linea astratta esigua la linea di demarcazione tra disastro e il danno ambientale allorché questo sia costituito da una importante contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana, e come siffatta demarcazione si riveli inesistente allorché l’attività di contaminazione diretta e indiretta (realizzata cioè mediante accumulo nei territori e versamento nelle acque di rifiuti speciali altamente pericolosi nonché mediante diffusione di prodotti di compostaggio destinati alla concimazione contenenti residui pericolosi) assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tali da risultare, in concreto, "straordinariamente grave e complessa"… mentre, occorre ribadirlo, la prova di immediati ed evidentemente "tragici" effetti sull'uomo prodotti dall'evento non può essere assunta a parametro o a misura esclusiva del "disastro" (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 20370 del 20.4.2006)”.
 
A conclusioni diverse da quelle ora raggiunte conduce la valutazione delle imputazioni di cui ai capi B e C, concernenti il turbamento della regolarità dell’impianto di depurazione e il danneggiamento della falda acquifera e del sistema di depurazione a batteri dell’impianto.
Va necessariamente premesso che, in ordine al rischio di un avvelenamento delle acque, il consulente dott. Ummarino, nel già citato elaborato aggiuntivo del 15 novembre 2005, osserva che le attuali conoscenze non permettono un giudizio esaustivo, occorrendo ancor prima stabilire “se e come le acque di prima falda possano miscelarsi con le acque profonde, destinate agli impianti di emungimento dell’acquedotto pubblico, ma che ufficialmente dovrebbero essere separate dalle prime, il che implica di elaborare un modello idrogeologico che necessità di elementi desumibili solo da indagini geognostiche complesse, prolungate e particolari… La questione sull’assetto multifalda degli acquiferi del sottosuolo milanese è un argomento dibattuto nell’ambito delle scienze della terra e non definito, manca peraltro uno studio ufficiale a cui riferire un modello multifalda, mentre si privilegia un sistema a falde separate e con due o tre acquiferi distinti”.
A differenza del reato di disastro colposo, poi, i reati in questione sono dolosi; se è vero che dagli atti di causa emerge che l’imputato ha sversato le soluzioni nel momento stesso in cui cedeva la propria azienda, la negligenza, la leggerezza, l’irresponsabilità e la trascuratezza che hanno accompagnato tali condotte non possono ribaltarsi nella deliberata intenzione di danneggiare l’impianto di depurazione e di interromperne il funzionamento.
Giova, sul punto, richiamare le considerazioni già da tempo svolte dalla Suprema Corte, pur in fattispecie completamente diverse. In una sentenza del 6 novembre 1984, n.2386 (mass. 168272), la Corte di Cassazione (sezione II) aveva per esempio affermato che “l'elemento psicologico del delitto di danneggiamento si ravvisa nella coscienza e volontà di danneggiare e a nulla rilevano il movente o le finalità per le quali il fatto sia commesso. Il reato sussiste anche quando l'azione sia posta in essere non al diretto scopo di provocare danno, bensì quale mezzo per conseguire uno scopo diverso”; nella specie si era ritenuto cheesattamente la Corte di merito avesse ravvisato il dolo eventuale del delitto di danneggiamento nel fatto di un imputato che, tentando di sfuggire in auto ai carabinieri, aveva danneggiato sei veicoli parcheggiati sulla pubblica via, escludendo la colpa con previsione dell'evento, che si configura invece quando l'evento si presenti come possibile e probabile, ma non sia dall’autore nè voluto, nè considerato di sicuro accadimento. Ancora, in una sentenza del 26 novembre 1986, n.2202 (mass. 175169), la Corte di Cassazione (sezione V) aveva affermato che “sussiste l'elemento intenzionale del reato di danneggiamento, nella forma del dolo eventuale, nell'ipotesi in cui l'agente, mediante un colpo violento al viso, cagioni a taluno non solo lesioni personali, ma anche la rottura degli occhiali; infatti, tale forma di dolo si configura quando l'agente si sia rappresentato, come probabile o possibile, anche un evento diverso da quello voluto e, ciò nonostante, abbia agito ugualmente accettando il rischio del suo verificarsi. Ne deriva che, in tale caso, non può farsi luogo all'applicazione dell'art. 83 cod. pen. (evento diverso da quello voluto dall'agente), in quanto l'ipotesi di responsabilità per colpa è configurabile allorquando l'evento diverso, anche se preveduto, non è voluto dall'agente”.
Ne consegue che se è vero che nel delitto di danneggiamento il dolo non è qualificato dal fine specifico di nuocere e che nel reato di cui all’art.340 c.p. l’elemento soggettivo non consiste solo nella specifica intenzionalità diretta a provocare l’interruzione o il turbamento del pubblico ufficio o servizio, per il primo reato è comunque necessaria la coscienza e volontà di danneggiare (così, da ultimo, Cass. pen. sez.II, 14 marzo 2007, n.15102, mass. 236461), e per il secondo quantomeno la consapevolezza che l’azione o l’omissione sono idonee a cagionare l’evento dell’interruzione o della turbativa e l’accettazione del rischio della verificazione di esso (così Cass. pen. sez.VI, 8 aprile 2003, n.33062, mass. 226663). Ma come si diceva, non si ritiene questo l’atteggiamento psicologico dell’imputato, che compì gli sversamenti non curandosi affatto delle conseguenze fortemente pericolose delle sue condotte, nella prospettiva di potere al più presto rivendere le attrezzature che, dato lo stato di decozione della sua impresa, non gli servivano più.
 
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Per quanto attiene al reato di cui al capo E, le risultanze in precedenza svolte dimostrano che nessuna delle prescrizioni stabilite dall’ordinanza del 9 agosto 2005 è stata eseguita dall’imputato: né lo svuotamento dei pozzetti di raccolta delle acque del piazzale (tanto che il 22 agosto venivano ancora prelevati nel tombino di raccolta delle acque del piazzale liquidi contenenti 400 mg/l di cromo VI), né lo smaltimento delle vasche ancora presenti, né la presentazione di un piano di caratterizzazione del sito, come riferito dal comune di Milano in una nota del 21 gennaio 2006.
 
Come è noto, l’art.51 bis D. Lg. 22/97, vigente all’epoca del fatto, puniva la condotta di chiunque cagionasse l'inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento, previsto dall'articolo 17, comma 2, se non provvedeva alla bonifica secondo il procedimento di cui all'articolo 17. In base a tale disposizione, infatti, chiunque cagionasse, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee, ovvero determinasse un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, era tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali derivava il pericolo di inquinamento.
Le diverse tipologie di intervento erano così definite dall’art.2 del D.M. 471/99:
-- messa in sicurezza d’emergenza: “ogni intervento necessario ed urgente per rimuovere le fonti inquinanti, contenere la diffusione degli inquinanti e impedire il contatto con le fonti inquinanti presenti nel sito, in attesa degli interventi di bonifica e ripristino ambientale o degli interventi di messa in sicurezza permanente”;
-- messa in sicurezza permanente: l’insieme degli interventi “atti a isolare in modo definitivo le fonti inquinanti rispetto alle matrici ambientali circostanti qualora le fonti inquinanti siano costituite da rifiuti stoccati e non sia possibile procedere alla rimozione degli stessi pur applicando le migliori tecnologie disponibili a costi sopportabili, secondo i principi della normativa comunitaria”;
-- bonifica: l’insieme degli interventi “atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle sostanze inquinanti presenti nel suolo, nel sottosuolo, nelle acque superficiali o nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori di concentrazione limite accettabili stabiliti dal presente regolamento”;
-- ripristino ambientale: interventi “di riqualificazione ambientale e paesaggistica, costituenti complemento degli interventi di bonifica nei casi in cui sia richiesto, che consentono di recuperare il sito alla effettiva e definitiva fruibilità per la destinazione d’uso conforme agli strumenti urbanistici in vigore, assicurando la salvaguardia della qualità delle matrici ambientali”.
 
La norma è stata sostituita dall’art.257 D. Lg. 152/06, a mente del quale chiunque cagiona l'inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio è punito, se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti.
L’art.242 D. Lg. 152/06, infatti, detta le procedure operative ed amministrative da attuare al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito. In sintesi:
► il responsabile dell’inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione;
► il responsabile dell’inquinamento, attuate le necessarie misure di prevenzione, svolge nelle zone interessate dalla contaminazione un’indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) sia stato superato, anche per un solo parametro, ne dà immediata notizia al comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate;
► nei successivi trenta giorni, il responsabile dell’inquinamento presenta alle predette amministrazioni, nonché alla regione territorialmente competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all'Allegato 2 alla parte quarta del D. Lg. 152/06;
► sulla base delle risultanze della caratterizzazione, al sito è applicata la procedura di analisi del rischio sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR); entro sei mesi dall’approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto responsabile presenta alla regione i risultati dell’analisi di rischio;
► qualora gli esiti della procedura dell’analisi di rischio dimostrino che la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è superiore ai valori di concentrazione soglia di rischio, il soggetto responsabile sottopone alla regione, nei successivi sei mesi dall’approvazione del documento di analisi di rischio, il progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, le ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di contaminazione presente nel sito. La regione, acquisito il parere del comune e della provincia interessati mediante apposita conferenza di servizi e sentito il soggetto responsabile, approva il progetto, con eventuali prescrizioni ed integrazioni entro sessanta giorni dal suo ricevimento.
 
Riflettendo sulla natura giuridica del reato di cui all’art.51 bis D. Lg. 22/1997, la Suprema Corte aveva affermato in un caso, in maniera netta, che esso “si configura come reato omissivo di pericolo presunto, che si consuma ove il soggetto non proceda all’adempimento dell’obbligo di bonifica secondo le cadenze procedimentalizzate dell’art.17 del D. Lgs. n.22 del 1997 (così Cass. pen. sez.III, 7 gugno 2000, n.1783, mass. 216585).
Altrove (Cass. pen. sez.III, 30 maggio-16 settembre 2003, n.35501, mass. 225881) il problema della natura del reato veniva lasciato aperto: “si discute se si tratti di reato commissivo di danno (inquinamento) con causa di non punibilità (se si provvede alla bonifica), ovvero con condizione obiettiva di punibilità (se non si provvede alla bonifica), oppure di reato a condotta mista (cagionare l’inquinamento e non provvedere alla bonifica), oppure di reato omissivo (non provvedere alla bonifica) con un presupposto esterno alla struttura del reato (inquinamento). Ma quale che sia l’inquadramento dommatico corretto, il reato sussiste solo se l’inquinamento del sito ha superato i limiti di accettabilità definiti dall’apposito decreto ministeriale previsto dall’art.17 del D. Lgs. n.22 del 1997, ovvero se esiste un pericolo concreto e attuale di superamento di tali limiti, e se la bonifica del sito non è avvenuta secondo le sequenze procedimentali prescritte dal citato art.17 del D. Lgs. n.22 del 1997 (notifica entro 48 ore della situazione di inquinamento agli organi amministrativi competenti; comunicazione entro le 48 ore successive degli interventi di messa in sicurezza adottati; presentazione al comune e alla regione del progetto di bonifica entro trenta giorni dall’evento inquinante)”.
Successivamente (Cass. pen. sez.III, 14 marzo 2007, n.26479, mass. 237132), si è affermato che “l'omessa bonifica del sito inquinato secondo le cadenze procedimentali disciplinate dall'art. 17 D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 integra una condizione obiettiva di punibilità "intrinseca" a contenuto negativo che incide sull'interesse tutelato dalla fattispecie, in quanto il legislatore ha condizionato la punibilità del reato all'ulteriore condotta omissiva del contravventore il quale, sebbene destinatario di ordinanza di diffida sindacale, non provvede alla bonifica del sito inquinato avendo cagionato l'inquinamento ovvero un pericolo concreto ed attuale di inquinamento”; in motivazione la Corte ha ulteriormente precisato che ciò si giustifica in quanto il mancato raggiungimento dell'obiettivo della bonifica determina un aggravarsi dell'offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice, già perpetrata dalla condotta di inquinamento.
 
Nel confronto tra l’art.51 bis D. Lg. 22/1997 e l’art.257 D. Lg. 152/2006, allo stato, si profila un contrasto giurisprudenziale.
La sentenza appena citata (mass. 237134) afferma che “pur sussistendo continuità normativa tra la fattispecie di omessa bonifica dei siti inquinati prima prevista dall'art. 51 bis D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 ed oggi riformulata dall'art.257 D.Lgs. 3 aprile 2006, n.152, l'evento di inquinamento contemplato dalla nuova disposizione è più grave, differenziandosi rispetto al precedente non soltanto perchè previsto unicamente come evento di danno (inquinamento "tout court") e non come semplice pericolo di inquinamento, ma anche perchè l'inquinamento è attualmente definito come superamento delle concentrazioni soglia di rischio (CSR) indicate negli artt. 240, lett. c) e 242 D.Lgs. n. 152 del 2006 in relazione all'All. 5 della Parte Quarta, livello di rischio superiore ai livelli di accettabilità già definiti dal D.M. 25 ottobre 1999, n. 471.
Viceversa, in un’altra decisione (Cass. pen. sez.III, 29 novembre 2006, n.9794, mass. 235951) si legge che “la nuova disposizione di cui all'art. 257 D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152, in materia di bonifica dei siti, è meno grave della previgente disposizione di cui all'art. 51 bis D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, atteso che viene ridotta l'area dell'illecito e si attenua il trattamento sanzionatorio. Infatti mentre precedentemente l'evento poteva consistere nell'inquinamento del sito o nel pericolo concreto ed attuale di inquinamento, il citato art. 257 configura il solo evento di danno dell'inquinamento; inoltre per aversi inquinamento è ora necessario il superamento della Concentrazione Soglia di Rischio (CSR), che è un livello di rischio superiore ai livelli delle Concentrazioni Soglia di Contaminazione (CSC); infine la sanzione penale è ora prevista con pena pecuniaria o detentiva alternativa, diversamente dalla precedente disposizione che prevedeva la pena congiunta”.
 
In ogni caso, come si è constatato il superamento dei valori massimi stabiliti dal D. Lg. 152/1999 e dal D.M. 25 ottobre 1999, n.471, così risulta superata la concentrazione soglia di contaminazione nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee, stabilita dall’allegato 5 della parte IV del D. Lg. 152/2006. La tabella 1 inserita in tale allegato, infatti, prescrive per il cromo esavalente, nei siti ad uso commerciale e industriale, una concentrazione soglia di contaminazione nel suolo e nel sottosuolo pari a 15 mg kg-1; la tabella 2 prescrive per lo stesso metallo, negli stessi siti, una concentrazione soglia di contaminazione nelle acque sotterranee pari a 5 microgrammi per litro, ossia un limite del tutto identico a quello stabilito dal D.M. 471/99.
Ne consegue che le omissioni contestate all’imputato, come rilevavano ai fini dell’art.51 bis D. Lg. 22/97, continuano a rilevare anche ai sensi dell’art.257 D. Lg. 152/06.
 
Passando ora ai profili sanzionatori, va senz’altro rilevato che i reati commessi dall’imputato sono di forte gravità, avuto riguardo a tutti i parametri stabiliti dall’art.133 I comma c.p.:
-         si tratta di episodi ripetuti nel tempo, assolutamente identici nelle condotte, tutti aventi ad oggetto lo sversamento abusivo e incontrollato, sia nelle fognature che nelle acque sotterranee di falda, di sostanze altamente tossiche, in special modo nel periodo in cui Frisinghelli si stava disfacendo della propria azienda, ma anche in diverse occasioni precedenti, per quantitativi di grande rilevanza;
-         gli sversamenti sono stati di tale entità da provocare la paralisi di un impianto di depurazione come quello di Milano San Rocco, per sè idoneo a trattare un grande quantitativo di reflui, dimensionato sulle esigenze di un grandissimo bacino di utenza (si vedano le considerazioni sopra svolte in ordine alle caratteristiche dell’impianto), con grave danno per la collettività, sia per il guasto causato, sia per l’incapacità dell’impianto di trattare sostanze come l’azoto totale e i tensioattivi e di svolgere la sua funzione di restituire acque utili per l’uso irriguo, sia per la durata delle disfunzioni;
-         il grado della colpa è quanto mai elevato, per la sconsideratezza dell’imputato nel maneggiare i rifiuti, per l’avventatezza degli sversamenti, per il tentativo di nascondere le conseguenze dei gesti ricoprendo con colate di cemento i buchi nei quali le sostanze erano state versate.
 
Nel contempo, una generale valutazione della personalità di Frisinghelli può comunque consentire la concessione delle circostanze attenuanti generiche, avuto particolare riguardo alle sue condizioni di vita individuale e familiare: le dichiarazioni rese nell’interrogatorio del 27 novembre 2007 restituiscono l’immagine di un uomo solo, privato di molteplici affetti familiari sia per la morte dei genitori, sia per tragedie verificatesi nel tempo: mentre egli era bambino, la sorella e uno zio si erano suicidati; il fratello è sottoposto a curatela; lo stesso Guido Frisinghelli, il 10 novembre 2004, aveva tentato di suicidarsi. E’ stata acquisita agli atti una perizia psichiatrica, disposta nel procedimento per bancarotta pendente a carico dell’imputato e datata 21 marzo 2008, che conclude bensì per una condizione di capacità di intendere e di volere “sufficiente”, ma in presenza di un “disturbo bipolare I”, da cui egli è da tempo affetto. Fondata solo sulle risultanze anamnestiche (Frisinghelli non si era presentato all’appuntamento fissato dal perito), la perizia rileva che al tentativo di suicidio, originato da un disturbo depressivo, è seguita bensì una serie di ricoveri ospedalieri e di cure presso i CPS di zona, ma “per tanti aspetti l’adesione alle terapie e anche la capacità dei terapeuti di agganciarlo dal punto di vista terapeutico, sono stati carenti e lacunosi. Spesso il Frisinghelli non si faceva seguire, non assumeva le terapie. Iniziava così un percorso che dopo il tentativo di suicidio è andato progressivamente deteriorandosi”.
Non ne sono seguiti, secondo il perito, né “franchi stati psicotici”, né una “seria o piena compromissione” della capacità di intendere e di volere, ma un “disturbo cronico che, (se) curato in modo efficace con gli stabilizzanti dell’umore, può anche per anni risultare ben compensato dal punto di vista clinico”. Nel caso dell’imputato, purtroppo, “Frisinghelli non sempre si cura adeguatamente e fa resistenza rispetto ad una presa in carico completa sotto il profilo psichiatrico, la qual cosa non ci permette di escludere almeno degli stati parziali o momentanei di sospensione o riduzione significativa della capacità di intendere e di volere. I curanti fanno fatica a creare un’alleanza terapeutica e il paziente contribuisce a peggiorare le cose attraverso la sua scarsa collaborazione, come del resto è avvenuto anche per questa perizia… Non è possibile escludere che almeno in alcuni momenti la capacità di autodeterminarsi del Frisinghelli possa scemare in modo considerevole, ma non ci sono nei documenti clinici esaminati testimonianze chiare in tal senso”.
 
Nella determinazione della pena va tenuto conto, altresì, che tutti i reati sono stati commessi in un arco di tempo ravvicinato e, come si è detto, sono espressione della sconsideratezza, dell’impulsività e della sventatezza della persona, che si è completamente disinteressata della gravità delle conseguenze delle sue azioni; tutte le condotte, poi, sono finalizzate a disfarsi nel più breve tempo possibile dei pericolosi reflui, senza minimamente considerare gli obblighi di bonifica che ne derivano. Può dunque disporsi l’unificazione dei reati contestati ex art.81 c.p., mentre non è possibile accedere alla richiesta difensiva di estendere tale istituto anche al reato di violazione di sigilli commesso dall’imputato in epoca antecedente e prossima al 31 maggio 2006, per il quale il giudice di Milano, con sentenza del 3 maggio 2007, divenuta irrevocabile il 25 maggio 2007, ha applicato la pena di due anni di reclusione e 1.000,00 euro di multa, tenuto conto della distanza temporale dalle condotte di sversamento (un anno) e del fatto che la violazione già giudicata appare espressione di una autonoma decisione, bensì consequenziale al sequestro dell’impianto, ma non ricollegabile – per quanto risulta dagli atti – ad ulteriori sversamenti.
 
Pena equa, pertanto, si stima quella di anni uno e mesi otto di reclusione, così determinata:
-         pena base per il reato di cui agli artt.434 e 449 c.p., contestato al capo D), anni due e mesi sei di reclusione;
-         pena ridotta ex art.62 bis c.p. ad anni uno e mesi otto di reclusione;
-         pena aumentata di mesi otto per la continuazione con il capo A) e di mesi due per la continuazione con il capo E), e così in totale anni due e mesi sei di reclusione;
-         pena infine ridotta per il rito.
 
Non sono concedibili nè la sospensione condizionale della pena, nè l’indulto di cui alla legge 241/06, poichè la commissione del reato già irrevocabilmente giudicato comporterebbe comunque la revoca di entrambi i benefici.
 
Segue alla condanna l’obbligo del pagamento delle spese processuali.
 
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La condanna dell’imputato comporta, infine, l’accoglimento delle domande delle parti civili costituite Provincia di Milano, Comune di Milano e Metropolitana Milanese s.p.a., avuto particolare riguardo al danno provocato al territorio dallo scarico di reflui contenenti una sostanza così pericolosa come il cromo esavalente ed in una tale entità come quella risultata dalle analisi ripetute nel tempo, ed al danno causato all’impianto di depurazione dal prolungato e continuo afflusso di rifiuti così tossici da determinare addirittura, per più giorni, la moria di batteri, l’inibizione del processo di nitrificazione-denitrificazione e il superamento dei limiti previsti allo scarico per i composti dell’azoto e per i tensioattivi.
 
Tutto ciò determina la legittimazione delle parti civili ad ottenere il risarcimento, attesa la pluralità dei ruoli assegnati al Comune e alla Provincia dalla legislazione ambientale e avuto riguardo al ruolo che la Metropolitana Milanese ha secondo il proprio statuto. In estrema sintesi:
-         la normativa concernente la tutela delle acque, agli artt.73 ss. D. Lg. 152/06, assegna agli enti locali rilevanti e precisi ruoli nella tutela delle acque dall’inquinamento e nel perseguimento degli obiettivi di prevenire e ridurre l’inquinamento, attuare il risanamento dei corpi idrici inquinati, conseguire il miglioramento dello stato delle acque, perseguire usi sostenibili e durevoli delle risorse idriche, mantenere la capacità naturale di autodepurazione dei corpi idrici;
-         la normativa concernente i rifiuti, agli artt.197 e 198 dello stesso D. Lg. 152/06, assegna alle Province e ai Comuni precise competenze sulle attività di gestione dei rifiuti medesimi, rispettivamente in tema di controllo (ivi compreso l’accertamento delle violazioni) e in tema di predisposizione delle misure atte ad assicurare la tutela igienico-sanitaria; come in precedenza si è detto, poi, l’art.242 D. Lg. 152/06 stabilisce procedure operative ed amministrative conseguenti anche ad una potenziale contaminazione del sito, tali da richiedere una rilevante partecipazione dei Comuni e delle Province nelle conferenze di servizi convocate dalla Regione;
-         nel definire come danno ambientale, all’art.300, “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”, il D. Lg. 152/06, all’art.309, indica espressamente le regioni, le province autonome, gli enti locali tra i soggetti che, ove colpiti da tale danno, vantano “un interesse legittimante la partecipazione al procedimento relativo all’adozione delle misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino” previste dallo stesso decreto legislativo;
-         la Metropolitana Milanese è per statuto (art.4) gestore del Servizio Idrico Integrato relativo alla raccolta, distribuzione e depurazione delle acque per qualsiasi uso e di tutte le attività ad esso connesse.
 
Nel precisare il contenuto del danno ambientale, la Suprema Corte (Cass. pen. sez.III, 5 aprile 2002, n.22539, mass. 221880) ne ha evidenzito la triplice dimensione: “personale, quale lesione del fondamentale diritto all’ambiente salubre da parte di ogni individuo; sociale, quale lesione del diritto all’ambiente nelle articolazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità umana; pubblica, quale lesione del diritto-dovere pubblico spettante alle Istituzioni centrali e periferiche”. E’ proprio la dimensione pubblica quella che viene in considerazione in riferimento alle parti civili presenti in questa sede, la cui legittimazione a costituirsi e ad ottenere un risarcimento discende dal (sempre più) evidente interesse pubblico che l’ambiente assume, come stabilito, con una norma precettiva e programmatica insieme, dall’articolo 9 della Costituzione.
 
Con più specifico riferimento all’entità del danno, giova ricordare che la Suprema Corte, nella sentenza appena citata (mass. 221879) ha affermato anche che “in materia ambientale, al fine della legittimazione ad agire per il risarcimento del danno da parte dello Stato e degli enti territoriali minori non si richiede che questi abbiano affrontato spese per riparare il danno o che abbiano subito una perdita economica, atteso che la considerazione secondo la quale il diritto al risarcimento sorgerebbe soltanto a seguito della perdita finanziaria contabile nel bilancio dell’ente pubblico, risulta superata dalla funzione di tutela della collettività e delle comunità presenti nell’ambito territoriale di tali Enti, nonché dalla esistenza di interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che fanno capo ai predetti”. In una più recente sentenza (Cass. pen. sez.III, 16 marzo 2004, n.19505, mass. 228885), la Suprema Corte ha affermato che “in tema di reati ambientali compete al Comune, quale ente territoriale, il diritto al risarcimento del danno ambientale derivante dalla inosservanza delle disposizioni in tema di gestione di rifiuti, atteso che questo non consiste soltanto in una compromissione dell'ambiente, ma altresì in una offesa alla personalità umana nella sua dimensione individuale e sociale”.
 
Non è certo possibile, in questa sede, procedere ad una liquidazione definitiva del danno, tenuto conto della pluralità delle spese già sostenute e soprattutto di quelle, estremamente rilevanti, che dovranno essere affrontate per procedere ad una compiuta bonifica. Basti pensare che la sola Metropolitana milanese, nella nota già citata del 27 ottobre 2005, ha considerato che “Degrémont S.p.A., in relazione agli oneri sostenuti a causa degli scarichi anomali in questione, che non rientrano tra quelli contrattualmente a suo carico in quanto conseguenti a fenomeno causato da fattori esterni, ha chiesto quale risarcimento economico, a tutto il mese di agosto 2005, la somma di euro 365.200,00 I.V.A. esclusa, riservandosi di notificare, una volta quantificati, gli oneri successivi”.
Deve quindi demandarsi a separato giudizio la liquidazione dei danni patrimoniali, mentre in questa sede può procedersi alla liquidazione dei danni non patrimoniali, che si determinano in via equitativa nella misura di euro 10.000,00 (diecimila/00) a favore della Provincia di Milano, euro 20.000,00 (ventimila/00) a favore del Comune di Milano ed euro 20.000,00 (ventimila/00) a favore della Metropolitana Milanese s.p.a.; sul punto, tenuto conto del tempo trascorso, dell’entità delle spese cui ogni ente andrà prevedibilmente incontro nelle opere di bonifica e del fatto che la procedura fallimentare cui l’imputato è andato incontro dimostra per sè il suo stato di insolvenza, la pronuncia deve essere dichiarata sin d’ora provvisoriamente esecutiva.
 
Alla Metropolitana milanese s.p.a., la sola parte civile ad averne fatto richiesta, va altresì assegnata una provvisionale per danni patrimoniali, immediatamente esecutiva, in una misura che si ritiene congruo quantificare in euro 150.000,00 (centocinquantamila/00), tenuto conto, anche in via prudenziale, dell’entità delle spese esposte dalla Degrémont e sopra riportate.
 
Segue alla pronuncia la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese del giudizio in favore delle parti civili, nella misura indicata in dispositivo, da ritenersi congrua in relazione al numero delle udienze, alla loro durata e all’attività profusa nel dibattimento da tali parti processuali.
 
Da ultimo, vanno disposti:
-         ai sensi degli artt.316 ss. c.p.p., il mantenimento in sequestro conservativo dei beni immobili, delle quote e del saldo attivo di conto corrente, oggetto delle ordinanze di sequestro conservativo del 6 ottobre 2007, 7 novembre 2007 e 14 febbraio 2008, a garanzia dei crediti di giustizia e delle parti civili;
-         ai sensi dell’art.323 IV comma c.p.p., il mantenimento in sequestro dell’insediamento della s.r.l. Arturo Lorenzi, sito in Milano, via A. Bazzi n.12, oggetto di sequestro preventivo emesso dal Gip di Milano in data 29 luglio 2005, a garanzia dei crediti indicati nell’art.316 c.p.p.
 
P.        Q.        M.
 
visti gli artt.533 e 535 c.p.p.
 
dichiara
Frisinghelli Guido Dante Lodovico colpevole dei reati ascrittigli ai capi A), D) ed E), unificati sotto il vincolo della continuazione e, concesse le circostanze attenuanti generiche e tenuto conto della diminuente per il rito abbreviato, lo
 
condanna
alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.
 
Visto l’art.530 II comma c.p.p.
 
assolve
Frisinghelli Guido Dante Lodovico dai reati ascrittigli ai capi B) e C), perchè il fatto non costituisce reato.
 
Visti gli artt.538 ss. c.p.p.
 
condanna
Frisinghelli Guido Dante Lodovico al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite Provincia di Milano, Comune di Milano e Metropolitana Milanese s.p.a., disponendo:
-         la liquidazione in separata sede dei danni patrimoniali;
-         la liquidazione nella presente sede dei danni non patrimoniali, nella misura di euro 10.000,00 (diecimila/00) a favore della Provincia di Milano, euro 20.000,00 (ventimila/00) a favore del Comune di Milano ed euro 20.000,00 (ventimila/00) a favore della Metropolitana Milanese s.p.a.;
 
dichiara
la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale provvisoriamente esecutiva per ciascuna parte civile;
 
condanna
Frisinghelli Guido Dante Lodovico al pagamento di una provvisionale per danni patrimoniali in favore della Metropolitana Milanese s.p.a., provvisionale di euro 150.000,00 (centocinquantamila/00), immediatamente esecutiva;
 
condanna
Frisinghelli Guido Dante Lodovico alla rifusione delle spese del grado in favore delle parti civili costituite Provincia di Milano, Comune di Milano e Metropolitana Milanese s.p.a., spese che liquida nel seguente ammontare:
-         euro 872,00, oltre rimborso forfettario, Iva e Cpa, a favore della Provincia di Milano;
-         euro 1.205,00, oltre rimborso forfettario, Iva e Cpa, a favore del Comune di Milano;
-         euro 1.525,00, oltre rimborso forfettario, Iva e Cpa, a favore della Metropolitana Milanese s.p.a..
 
Visti gli artt.316 ss. c.p.p.
 
dispone
il mantenimento in sequestro conservativo dei beni immobili, delle quote e del saldo attivo di conto corrente, oggetto delle ordinanze di sequestro conservativo del 6 ottobre 2007, 7 novembre 2007 e 14 febbraio 2008, a garanzia dei crediti di giustizia e delle parti civili;
 
visto l’art.323 IV comma c.p.p.
 
dispone
il mantenimento in sequestro dell’insediamento della s.r.l. Arturo Lorenzi, sito in Milano, via A. Bazzi n.12, oggetto di sequestro preventivo emesso dal Gip di Milano in data 29 luglio 2005, a garanzia dei crediti indicati nell’art.316 c.p.p., nominando custode la rag. Laura Pesce.
 
Motivazione entro quaranta giorni.
Milano, 19 dicembre 2008
                                                                                                                       Il giudice
 
 
 


[1] Il teste Giovanni Inselvini, ingegnere chimico con lunga esperienza nel campo galvanico, ha spiegato: “In questo periodo ho assistito, da prima dall’interno e successivamente dall’esterno, attraverso i 2 ingressi, all’eliminazione di tutti i bagni galvanici contenenti le soluzioni chimiche… Dette soluzioni venivano riversate nei tombini presenti nell’insediamento (cortile interno), mentre il cromo che veniva convogliato nei serbatoi presenti sul tetto dell’insediamento colava letteralmente dalle pareti, tanto da investire gli operai alle mie dipendenze. Per tale fatto davo disposizione immediata di allontanarsi dalla ditta, in quanto si era verificato uno stato di pericolo per l’incolumità delle persone… Preciso che le soluzioni galvaniche riversate nell’ambiente erano diverse centinaia di litri, considerando che per un litro di soluzione vengono impiegati 250 grammi di acido cromico e grammi 2,5 di acido solforico”.
Il teste Bruno Barbieri, collaboratore dell’ing. Inselvini, ha dichiarato che mentre svolgeva le operazioni di prelievo dei macchinari aveva constatato che “durante le fasi di smontaggio delle vasche, di due silos contenenti soluzioni galvaniche tutti i liquidi venivano versati sul pavimento. Preciso che nessuna cautela era stata adottata dal sig. Frisinghelli… per evitare i danni all’ambiente, suolo e sottosuolo, poiché tramite pozzetti di scarico posti sul pavimento tali sostanze defluivano in fognatura nel suolo e nel sottosuolo… Durante tutto il periodo della mia permanenza presso l’Arturo Lorenzi, un autocarro di colore rosso… scaricava nei vani ricavati dall’asportazione delle vasche delle macerie edili, per coprire i citati buchi lunghi diversi metri e profondi circa tre metri… Durante le operazioni di smontaggio di un serbatoio di plastica fuori terra, il sig. Frisinghelli lo rompeva dall’alto e a causa della rottura, il liquido fuoriuscito investiva la mia persona, provocandomi delle ustioni agli arti inferiori… non mi recavo presso un Pronto Soccorso”.
Il teste Antonio Zagari, a sua volta incaricato di ritirare i macchinari, ha spiegato che Frisinghelli aveva consentito l’effettuazione di una sola parte di tali operazioni, provvedendo di persona a eliminare in altro modo le apparecchiature. “Potevo notare”, ha dichiarato il teste, “che mancavano dei materiali quadrati e delle vasche che contenevano liquidi. Inoltre vi erano dei suoi dipendenti che stavano smontando altre vasche contenenti cromo; detto liquido veniva, tramite un tubo in gomma collegato ad una pompa idraulica, smaltito in un tombino posto al centro del cortile”.
Il teste Alberto Inselvini, presente presso la s.r.l. Arturo Lorenzi durante le stesse operazioni, ha confermato “che la soluzione galvanica di cromo, che aveva invaso la pavimentazione dell’insediamento, si riversava per pendenza in un tombino a grate larghe, posto pressappoco vicino all’ingresso dell’insediamento”.
[2] Per “acque sotterranee” sia l’art.2 lett. l) D. Lg. 152/99, che l’attuale art.74 lett. l) D. Lg. 152/06 intendono tutte le acque che si trovano al di sotto della superficie del suolo, nella zona di saturazione e in diretto contatto con il suolo e il sottosuolo.
[3] In biologia il termine “apoptosi” indica una forma di morte cellulare programmata, processo ben distinto rispetto alla necrosi cellulare, e che in condizioni normali contribuisce bensì al mantenimento del numero di cellule di un sistema (se l’apoptosi si svolge in modo ordinato e regolato, generalmente porta ad un vantaggio durante il ciclo vitale dell'organismo). Una eccessiva attività apoptotica, però, può causare disordini da perdita di cellule (si vedano ad esempio alcune malattie neurodegenerative, come il morbo di Parkinson), mentre una apoptosi carente può implicare una crescita cellulare incontrollata, meccanismo alla base delle neoplasie.
 
[4] Il colatore Lambro meridionale si immette nel fiume Lambro settentrionale a valle dell’abitato di Sant’Angelo Lodigiano in provincia di Lodi; la roggia Pizzabrasa e la roggia Carlesca vanno a irrigare un vasto comprensorio che si estende nel sud milanese fino alla provincia di Pavia.
 
[5] Per “abitante equivalente” sia l’art.2 lett. a) D. Lg. 152/99, che l’attuale art.74 lett. a) D. Lg. 152/06 intendono “il carico organico biodegradabile avente una richiesta biochimica di ossigeno a 5 giorni (BOD5 ) pari a 60 grammi di ossigeno al giorno”.