Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1936, del 16 aprile 2014
Acque.Legittimità autorizzazione provvisoria allo scarico delle acque provenienti da attività alberghiera e da attività di ristorazione

Lo scarico delle acque è stato autorizzato in quanto provenienti da attività alberghiera e da attività di ristorazione assimilate a quelle domestiche, quindi rientrano non solo nella disciplina del D.P.R. 19 ottobre 2011, n. 227, ma ancor prima di quella delineata nel Piano regionale delle Acque, approvato con delibera del consiglio regionale del Veneto n. 107 del 5 novembre 2009 (art. 34, comma 1, lett. e), secondo cui ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche quelle aventi caratteristiche equivalenti a quelle domestiche, tra cui le acque reflue provenienti dagli insediamenti adibiti ad attività alberghiera e della ristorazione ricreativa, turistica e scolastica, come puntualmente rilevato dall’amministrazione comunale. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 01936/2014REG.PROV.COLL.

N. 03343/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso iscritto in appello al numero di registro generale 3343 del 2013, proposto da: 
DE JACOB ROCCO, BOSCARO VALERIA e SOCIETA’ RI.VA. di DE JACOB ROCCO & C- S.A.S. in persona del legale rappresentante in carica, tutti rappresentati e difesi dagli avv. Gabriele Pafundi, Alfredo Bianchini e Francesca Busetto, con domicilio eletto presso l’avv. Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, n. 14;

contro

ZARAMELLA TERESA, rappresentata e difesa dagli avv. Gianluca Tessier e Lucio Anelli, con domicilio eletto presso l’avv. Lucio Anelli in Roma, via della Scrofa, n. 47;

nei confronti di

COMUNE DI MIRA, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Cristina De Benetti, con domicilio eletto presso Stefano Vinti in Roma, via Emilia, n. 88;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. VENETO – VENEZIA, Sez. II, n. 615 del 24 aprile 2013, resa tra le parti, concernente autorizzazione allo scarico;



Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della sig. Teresa Zaramella e del Comune di Mira;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 dicembre 2013 il Cons. Carlo Saltelli e uditi per le parti gli avvocati Busetto, Pafundi, Tessier, Anelli, e Fedeli, per delega di De Benedetti;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.



FATTO

1. Riscontrando favorevolmente la richiesta avanzata in data 23 giugno 2011 il Responsabile del Servizio Ecologia del Comune di Mira, all’esito dell’articolata istruttoria esposta nelle motivazioni, ha rilasciato alla ditta Ri.Va. di De Jacob Rocco & C. s.a.s., con atto prot. 19748 del 19 aprile 2012, l’autorizzazione provvisoria allo scarico delle acque reflue domestiche relativamente all’insediamento sito in via Malpaga – Borbiago, n. 114 (in cui insiste un ristorante “Do Ciacole” ed un annesso relais di campagna con piscina), con le prescrizioni indicate.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sez. II, con la sentenza n, 615 del 24 aprile 2013, nella resistenza del Comune di Mira, della società Ri.Va. di De Jacob Rocco & C. s.a.s., del sig. Rocco De Jacob e della sig. Valeria Boscaro, ha accolto il ricorso proposto dalla sig. Teresa Zaramella ed annullato la predetta autorizzazione.

Riconosciuta innanzitutto in capo alla ricorrente, quale proprietaria di fondi immediatamente adiacenti al fosso in cui le acque reflue sarebbero state sversate, la sussistenza dell’interessa ad agire in ragione del potenziale pregiudizio che tale situazione potrebbe derivare alle sue colture, il predetto tribunale ha ritenuto fondata la dedotta censura di carenza d’istruttoria per l’omesso adeguato accertamento della natura giuridica e della proprietà del fosso in cui si sarebbero riversati i reflui ai fini della corretta individuazione del ruolo e delle competenze del Consorzio di Bonifica delle Acque Sorgive e della disciplina applicabile; ciò senza contare che non risultava prodotta dalla società richiedente neppure l’autocertificazione di cui all’art. 1 del d.P.R. 19 ottobre 2011, n. 227, per l’esistenza della sua qualificazione di piccola o media impresa (indispensabile ai fini dell’equiparazione dei reflui prodotti a quelli domestici) e che era mancata la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (che avrebbe, sempre secondo i primi giudici, consentito l’esatta definizione dell’ambito degli interessi coinvolti dall’emanazione del provvedimento impugnato).

2. I signori Rocco De Jacob e Valeria Boscaro, nonché la società Ri.va. di De Jacob Tocco & C. s.a.s. con rituale e tempestivo atto di appello hanno chiesto la riforma di tale sentenza, deducendone l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua di sei motivi di gravame.

In particolare gli appellanti:

- con il primo motivo, rubricato “Inammissibilità ed irricevibilità per carenza di interesse al ricorso”, hanno rilevato l’erroneo rigetto della preliminare eccezione di inammissibilità ed irricevibilità del ricorso di primo grado per difetto di interesse, non essendo sufficiente in tal senso la mera adiacenza dello scolo ai fondi di proprietà della ricorrente, circostanza che di per sé, in mancanza di qualsiasi elemento probatorio, non poteva neppure costituire, come apoditticamente affermato dai primi giudici, un potenziale pregiudizio per le ragioni della ricorrete;

- con il secondo motivo, denunciando “Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà manifeste. Difetto di motivazione”, hanno sottolineato la contraddittorietà della motivazione della decisione impugnata che, dopo aver rilevato che ai fini della decisione non era necessario l’accertamento dell’assetto proprietario del fosso in cui avveniva lo scolo, ha ritenuto illegittima l’autorizzazione impugnata proprio per la asserita carenza di istruttoria sulla proprietà del fosso, senza per contro apprezzare la completezza e l’esaustività dell’attività istruttoria posta dall’amministrazione in ordine al riscontro di tutti gli elementi legittimanti l’autorizzazione, ivi compresa la natura consorziale dello scolo, il consenso allo scolo di tutti i proprietari della zona e l’inesistenza di una servitù in danno alla ricorrente;

- con il terzo motivo, lamentando “Difetto di giurisdizione. Carenza di interesse”, hanno sostenuto che non appartiene alla giurisdizione del giudice amministrazione la domanda per l’accertamento della illegittima costituzione di una nuova servitù o dell’aggravio della servitù a carico dei fondi della ricorrente e che conseguentemente il giudice amministrativo non avrebbe avuto nel caso di specie giurisdizione, essendo stato richiesto l’annullamento di un’autorizzazione, asseritamente connotata e collegata a violazione di diritti di proprietà e diritti reali;

- con il quarto motivo, rilevando “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 D.P.R. 227/2011 in relazione alla DGR n. 141/2011. Omessa denuncia”, hanno evidenziato, quanto all’omessa produzione della autocertificazione di cui all’art. 1 del d.P.R. n. 227 del 2011 (carenza che costituirebbe un profilo sintomatico, secondo i primi giudici, del difetto di istruttoria che avrebbe inficiato il provvedimento impugnato), che detta certificazione non sarebbe stata necessaria per effetto della peculiare attuazione (giusta deliberazione della Giunta regionale n. 842 del 15 maggio 2002 e del relativo allegato B) nella Regione Veneto del ricordato regolamento statale;

- con il quinto motivo, deducendo “Violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e seguenti della legge 241 del 1990. Eccesso di potere”, hanno decisamente escluso che la ricorrente potesse essere un soggetto nei cui confronti il provvedimento richiesto (autorizzazione) era destinato a produrre effetti diritti, bensì solo riflessi, il che escludeva la sussistenza del vizio inopinatamente riscontrato dai primi giudici;

- con l’ultimo motivo, “Abitanti equivalenti (illogicità manifesta). Violazione e falsa applicazione dell’art. 21 del Regolamento allegato sub D alla DGR 842 del 15 maggio 2012”, hanno infine sottolineato che, come emergeva dalla documentazione in atti, non sussisteva la violazione in esame, inopinatamente accolta senza il necessario apprezzamento del materiale probatorio.

Il Comune di Mira, costituitosi in giudizio, ha dedotto anch’esso la erroneità e l’ingiustizia della sentenza, insistendo per l’accoglimento dell’appello.

La sig. Teresa Zaramella ha invece dedotto l’inammissibilità e l’infondatezza dell’avverso gravame, insistendo per il suo rigetto.

3. Con ordinanza n. 1954 del 28 maggio 2013 la Sezione ha accolto l’istanza cautelare e sospeso l’esecutività della sentenza impugnata, fissando per la trattazione della causa l’udienza pubblica del 17 dicembre 2013.

4. Nell’imminenza di quest’ultima le parti, oltre a produrre documenti, hanno altresì illustrato con apposite memorie le proprie tesi difensive, replicando a quelle avverse.

5. Alla pubblica udienza del 17 dicembre 2013, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

6. Devono essere innanzitutto esaminati per il loro carattere preliminare il primo ed il terzo motivo di gravame: essi sono infondati.

6.1. Con il primo, deducendo “Inammissibilità ed irricevibilità per carenza di interesse al ricorso”, gli appellanti hanno sostenuto che i primi giudici avrebbero erroneamente riconosciuto in capo alla sig. Teresa Zaramella l’interesse al ricorso, laddove esso sarebbe in realtà inesistente atteso che lo scarico delle acque reflue, autorizzato con il provvedimento impugnato, non insistendo sui terreni di proprietà della stessa, non avrebbe potuto arrecarle alcun danno, neppure potenziale, essendo anche mancata qualsiasi prova da parte della ricorrente dell’eventuale utilizzazione delle acque del fosso per l’irrigazione dei propri fondi.

E’ sufficiente al riguardo rilevare che, com’è pacifico tra le parti, lo scolo corre in parallelo ad una porzione di terreno di cui è proprietaria la ricorrente in primo grado (oggi appellata) e tale situazione le conferisce un interesse, attuale, diretto ed immediato, ad agire in giudizio per qualsiasi pregiudizio, ancorchè potenziale, che possa derivare da quello scolo, non potendo ammettersi che l’interesse ad agire in giudizio sussista solo quando il pregiudizio o il danno sia certo o addirittura quando esso si sia già verificato, con ciò negandosi lo stesso principio costituzionale del diritto di azione e di difesa ex art. 24 della Costituzione.

L’inesistenza di possibili pregiudizi o danni derivanti dallo scolo ovvero l’idoneità e l’adeguatezza delle prescrizioni tecniche previste per il concreto esercizio dello scolo stesso al fine di prevenire o evitare danni e/o pregiudizi ai diritti dei terzi è questione che attiene al merito del giudizio circa la legittimità dell’autorizzazione allo scolo.

6.2. Con il terzo motivo, rubricato “Difetto di giurisdizione, Carenza di interesse”, gli appellanti hanno eccepito che non appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la domanda, quale sarebbe quella spiegata dalla ricorrente in primo grado, di accertamento della illegittima costituzione di una nuova servitù e/o dell’aggravio della servitù già esistente a carico dei suoi fondi, tanto più che il titolo autorizzatorio contestato era stato rilasciato con salvezza dei diritti di terzi, il che confermava sotto altro concorrente profilo l’insussistenza dell’interesse ad agire.

Sul punto la Sezione deve rilevarsi che, diversamente da quanto prospettato dagli appellanti, il ricorso in primo grado concerne la pretesa illegittimità del provvedimento di autorizzazione allo scarico e non anche l’accertamento dell’esistenza di una servitù e/o dell’aggravio della servitù esistente sui fondi della ricorrente per effetto dello scolo, questione che in realtà è stata ventilata al solo fine di dimostrare il presunto difetto di istruttoria che inficerebbe il provvedimento impugnato.

Non sussiste pertanto il dedotto difetto di giurisdizione, fermo restando in ogni caso che, ai sensi dell’art. 8 c.p.a., il giudice amministrativo nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva può conoscere, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale (comma 1), escluse le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e le capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio, e la risoluzione dell’indicente di falso, che restano riservate all’autorità giudiziaria ordinaria.

7. Priorità logico – sistematiche impongono poi di esaminare, ancor prima degli altri motivi di gravame, la censure di cui al quinto motivo di appello, con il quale gli appellanti hanno denunciato “violazione falsa applicazione degli artt. 7 e seguenti della legge 241 del 1990. Eccesso di potere”, rilevando che i primi giudici avrebbero erroneamente ritenuto viziata l’impugnata autorizzazione allo scarico delle acque reflue anche per l’omesso rispetto delle garanzie partecipative, non avendo l’amministrazione comunale di Mira dato comunicazione alla sig. Teresa Zaramella dell’avvio del procedimento teso al rilascio dell’autorizzazione stessa.

La doglianza è fondata.

Secondo un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di discostarsi, le previsioni contenute nella legge 7 agosto 1990, n. 241, circa la partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo, non possono essere interpretate ed applicate secondo una logica formale e meramente strumentale, bensì coerentemente con la loro finalità sostanziale, volta all’emanazione di un provvedimento “giusto” e cioè conforme ai principi costituzionali di cui agli articoli 97 della Costituzione, così che alla loro violazione (o omissione) non consegue necessariamente l’illegittimità del provvedimento emanato quando il suo contenuto non sarebbe stato diverso, anche con la partecipazione degli interessati, ovvero anche quando questi ultimi non provino ovvero non forniscano elementi, ancorché indiziari, ma certi, precisi ed inequivoci che quella violazione o omissione non ha consentito la completa emersione degli interessi privati in gioco ed il conseguente corretto, adeguato e completo accertamento del substrato materiale (e giuridico) su cui avrebbe spiegato i propri effetti il provvedimento amministrativo.

Nel caso di specie la ricorrente in primo grado si è limitata a denunciare la violazione dell’articolo 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, senza indicare quali sarebbero stati gli elementi, chiari, precisi ed univoci che a causa di tale violazione non sarebbe emersi nell’istruttoria svolta dall’amministrazione e che ragionevolmente avrebbero condotto al diniego dell’autorizzazione ovvero al rilascio dell’autorizzazione impugnata, con prescrizioni diverse (e più favorevoli ai propri interessi) (Cons. St., sez. IV, 13 maggio 2013, n. 2589).

Peraltro, sotto il profilo in esame, non può neppure sottacersi che la ricorrente non può essere annoverata tra i soggetti cui il provvedimento finale era destinato a produrre effetti diretti, né tra quelli che per legge dovevano intervenire nel procedimento, così che non sussisteva in capo all’amministrazione l’obbligo della comunicazione di avvio del procedimento (Cons. St., sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3458; 26 febbraio 2013, n. 1187).

8. Possono essere esaminati congiuntamente i restanti motivi di gravame (secondo motivo “Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà manifeste. Difetto di motivazione”; quarto motivo “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 DPR n. 227/2011 in relazione alla DGR b. 141/2011. Omessa denuncia” e sesto motivo “Abitanti equivalenti (illogicità manifesta). Violazione e falsa applicazione dell’art. 21 del Regolamento allegato sub D alla DGR 842 del 15 maggio 2012”, con cui gli appellanti negato la sussistenza del vizio di difetto di istruttoria su cui i primi giudici hanno imperniato il giudizio di illegittimità del provvedimento impugnati.

Essi sono fondati nei sensi appresso indicati.

8.1. Con riguardo al vizio di difetto di istruttoria da cui sarebbe stato afferro il provvedimento impugnato per l’asserito mancato accertamento dell’effettiva proprietà del fosso dell’Olmo, la Sezione deve innanzitutto osservare, in punto di fatto, che costituisce circostanza pacifica (come del resto si ricava dalla stessa lettura del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado) che lo scarico delle acque reflue autorizzato non attraversa affatto la proprietà della ricorrente, defluendo poi nel fossato dell’Olmo di cui è stata correttamente accertata, come risulta dalla documentazione versata in atti, la natura di scolo consorziale: in relazione a tale non contestato profilo non può ragionevolmente dubitarsi che un simile accertamento era ed è del tutto sufficiente a individuare i compiti di manutenzione e controllo da parte del Consorzio di Bonifica delle Acque Risorgive (che ha espresso parere favorevole allo scarico) ed consentire l’esercizio, corretto ed adeguato, dei generali poteri di controllo del territorio da parte dell’amministrazione comunali (su cui hanno indugiato i primi giudici).

Non risulta pertanto decisiva ed influente ai fini della legittimità dell’impugnato provvedimento autorizzatorio, diversamente da quanto sostenuto dai primi giudici, con motivazione peraltro tutt’altro che rigorosa e convincente, l’accertamento della effettiva proprietà del fosso dell’Ulmo, in cui defluisce lo scarico autorizzato.

In ogni caso dell’esistenza di tale proprietà in capo alla ricorrente quest’ultima non ha fornito alcuna prova, non potendo a tal fine può invocarsi l’art. 897 c.c., giacché quest’ultimo (che peraltro concerne i fossi e non gli scoli, qual è quello di cui si discute, come precisato dal Consorzio nel ricordato parere favorevole), quand’anche fosse effettivamente applicabile al caso di specie, al secondo comma pone solo una presunzione di proprietà del fosso in favore del proprietario che se ne serve per gli scoli delle sue terre o del proprietario del fondo dalla cui parte è il getto della terra o lo spurgo ammucchiatovi da almeno tre anni, così che sarebbe stato necessario, ai fini del relativo accertamento (ancorchè incidenter tantum da parte del giudice amministrativo ex art. 8 c.p.a. e non senza rilevarsi che nessuna delle parti in causa ha neppure avanzato una apposita domanda in tal senso), che la ricorrente avesse fornito elementi probatori, anche solo indiziari, della sussistenza dei fatti su cui tale presunzione si fonda, il che non minimamente avvenuto.

Né ancora è stata fornita prova della indicata decisione del giudice civile circa un’azione di negatoria servitutis che avrebbe riguardato già in passato lo stesso fosso e che si sarebbe conclusa in senso favorevole alla (dante causa della) ricorrente.

Da ultimo deve per completezza rilevarsi che l’autorizzazione de qua è rilasciata in ogni caso con salvezza dei diritti dei terzi e che pertanto la ricorrente, oggi appellata, potrà in ogni caso eventualmente tutelare i propri diritti nelle sedi giudiziarie competenti.

8.2. Circa la natura delle acque il cui scarico è stato autorizzato con il provvedimento impugnato, diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, non è revocabile in dubbio che esse, in quanto provenienti da attività alberghiera e da attività di ristorazione (qual è quella pacificamente esercitata dagli appellanti, sono assimilate a quelle domestiche, rientrando non solo nella disciplina del D.P.R. 19 ottobre 2011, n. 227, ma ancor prima di quella delineata nel Piano regionale delle Acque, approvato con delibera del consiglio regionale del Veneto n. 107 del 5 novembre 2009 (art. 34, comma 1, lett. e), secondo cui ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche quelle aventi caratteristiche equivalenti a quelle domestiche, tra cui (e.1.) le acque reflue provenienti dagli insediamenti adibiti ad attività alberghiera e della ristorazione ricreativa, turistica e scolastica, come puntualmente rilevato nella difesa dell’amministrazione comunale, senza che sul punto alcuna contestazione e controdeduzione sia stata svolta dalla parte appellata (così che in definitiva è priva di qualsiasi rilevanza, oltre che di fondatezza, la pretesa mancata autocertificazione da parte della società Ri.Va. all’atto della presentazione della richiesta del titolo autorizzatorio e fermo restando che tale omissione non avrebbe potuto avere in ogni caso effetto direttamente viziante).

8.3. Anche quanto al difetto d’istruttoria concernente la questione dei c.d. “abitanti equivalenti” la decisione dei primi giudici non può essere condivisa, giacchè, come rilevato dall’appellante, i dati relativi a tale problematica erano contenuti nella relazione prodotta al Comune di Mira sin dal 23 giugno 2011 (documento sub 8 della produzione appellante, di cui il Collegio ritiene l’indispensabilità ai fini della decisione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 104 c.p.a.) e non vi alcun elemento, neppure indiziario, che possa far presumere che essi non siano stati esaminati; peraltro essi, che per converso sono stati evidentemente ritenuti adeguati e sufficienti ai fini del rilascio dell’autorizzazione, non sono stati minimamente contestati dalla parte ricorrente in primo grado (che in appello si è poi limitata a dedurre la loro inammissibile produzione quali nuovi documenti, deduzione che non può essere accolta stante la loro indispensabilità ai fini della decisione in relazione al principio di effettività della tutela giurisdizionale).

8.4. E’ appena il caso di segnalare poi che la relazione in data 12 novembre 2013, con cui il Comune di Mira ha confermato alla stregua dell’ulteriore attività istruttoria la sussistenza di tutti presupposti per l’emanazione dell’autorizzazione impugnata, non può dar luogo, come richiesto dagli appellanti, alla declaratoria di improcedibilità del ricorso di primo grado, non avendo neppure assunto la veste formale di provvedimento e stante la sua natura meramente confermativa della autorizzazione (ancorchè previa ricognizione della completezza e della esaustività della precedente attività istruttoria).

8.5. Per completezza poi, quanto all’ulteriore profilo istruttorio, cui ha fatto riferimento l’appellata nel suo primo atto difensivo del presente giudizio di appello, concernente il rapporto di diluizione, è appena il caso di rilevare che su di esso si era soffermata l’amministrazione nella relazione prodotta a seguito della apposita sollecitazione dei primi giudici, precisando che il Consorzio di Bonifica, chiarendo nel dicembre 2012, aveva valutato la questione, rilevando in particolare che:” …il fossato denominato “Fosso di Via Olmo” è uno scolo consorziale e che lo stesso è in manutenzione al Consorzio e su di esso sono in vigore i limiti di cui al RD 368/1904 relativi ai corsi d’acqua consorziali. Inoltre viene precisato che il fossato p inserito nell’elenco dei canali consorziale del Piano Generale di Bonifica e Tutela del Territorio Rurale del Consorzio di Bonifica Sinistra Medio Brenta approvato dalla Regione Veneto con DCR n. 28 del 3 – 4 aprile 1996. Nella nota di precisa, inoltre che: il “Fosso dell’Olmo” viene utilizzato per scopi irrigui dai proprietari dei terreni limitrofi; prima della realizzazione del Passante di Mestre tale scolo consorziale era bagnato naturalmente per 12 mesi l’anno, in quanto alimentato naturalmente dallo scolo demaniale Menegon; dopo la realizzazione del Passante, questa naturalità è stata interclusa, per cui è stata realizzata una stazione di sollevamento e le acque vengono pompate al Fosso dell’Olmo nei mesi che vanno da Aprile a Ottobre; per i restanti mesi invernali, il Fosso dell’Olmo ha un flusso significativo d’acqua. Si conferma, quindi, che non trattandosi di fosso non si attua la disciplina dei fossi e l’art. 124 del D. Lgs. 152/2006 in quanto tale corso d’acqua è uno scolo consorziale e non ha una portata nulla per oltre 120 giorni anni”.

Ciò peraltro supporta anche le osservazioni svolte sub. 8.1.

8.6. Infine alcun rilievo ai fini della controversia in questione possono avere il parere consultivo del Consiglio di Stato e la sentenza dello stesso tribunale amministrativo regionale per il Veneto che, quand’anche riferiti alle stesse parti, avevano ad oggetto provvedimenti diversi (e censure differenti).

9. In conclusione alla stregua delle osservazioni svolte l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso proposto in primo grado dalla sig.ra Teresa Zaramella.

La peculiarità delle questioni trattate giustifica la compensazione tra le parti delle spese del doppio grado d giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello proposto dai sigg. Rocco De Jacob e Valeria Boscaro, nonché dalla società Ri.Va. di De Jacob Rocco & C. s.a.s. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Veneto, sez. II, n. 615 del 24 aprile 2013, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, rigetta il ricorso proposto in primo grado dalla sig. Teresa Zaramella.

Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2013 con l'intervento dei magistrati:

Francesco Caringella, Presidente FF

Carlo Saltelli, Consigliere, Estensore

Manfredo Atzeni, Consigliere

Doris Durante, Consigliere

Raffaele Prosperi, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 16/04/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)