Brevi considerazioni sulla giurisdizione in materia di tutela climatica 
di Leonardo PASANISI

Pubblicazione dell'Ufficio Studi Giustizia Amministrativa 

1 - Introduzione

Il clima, da semplice fattore dell’ambiente (secondo la definizione accolta dal nostro legislatore nella formulazione dell’art. 5, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 152/2006), è ormai diventato, perlomeno dal 1992, e cioè da quando è stata stipulata la Convenzione di Rio sulla lotta al cambiamento climatico (UNFCCC), autonomo valore giuridico, idoneo come tale ad essere adeguatamente tutelato dinanzi agli organi giurisdizionali nazionali e sovranazionali laddove gli Stati contraenti non apprestino misure (o non apprestino misure adeguate), volte a limitare gli effetti lesivi del cambiamento climatico (in gran parte antropogenico, in quanto derivante dalle attività umane) sui diritti umani fondamentali.

La mancata o insufficiente adozione di tali misure, che in larga parte richiedono un intervento di carattere legislativo (in quanto necessariamente correlate all’attuazione di riforme generali di sistema socio-economiche), sta così negli ultimi tempi, soprattutto dopo l’Accordo di Parigi sul clima del 12 dicembre 2015, esponendo gli Stati ad azioni giudiziarie, su iniziativa di singoli o di associazioni, dirette all’accertamento delle responsabilità omissive da inazione climatica (da mancata o insufficiente adozione di adeguate misure di carattere legislativo e/o amministrativo rispetto agli obiettivi individuati e condivisi in sede di stipula degli Accordi internazionali sul clima), al fine di conseguire la condanna degli Stati medesimi alla realizzazione degli obiettivi programmati per la parte in cui essi ne sono destinatari (cd. contenzioso climatico “puro”).

La tutela climatica, pur essendo intervenuta (come materia oggetto di studio e di applicazione pratica) cronologicamente dopo la tutela dell’ambiente, si pone tuttavia come precondizione necessaria di ogni altro tipo di tutela, in quanto il mantenimento di condizioni climatiche non sfavorevoli nel tempo è il presupposto di ogni ulteriore istanza correlata ad attività ed interessi dei singoli e della collettività intera.

Per quanto riguarda in particolare l’Italia, come messo in evidenza dagli studiosi di Fisica del clima, l’incremento delle temperature è superiore del doppio rispetto alla media mondiale e gli eventi estremi, come siccità ed alluvioni, sono sempre più frequenti.

Tali fenomeni, in Italia come nelle altre Nazioni, peraltro, non soltanto pregiudicano il clima e l'ambiente, ma comprimono irrimediabilmente anche i diritti umani fondamentali, i quali non possono evidentemente sussistere ed essere esercitati in un ambiente devastato dagli effetti del cambiamento climatico.

La tutela climatica si intreccia così con la tutela dei diritti fondamentali lesi dall’inazione climatica degli Stati, aprendo nel nostro ordinamento giuridico-processuale scenari del tutto inediti in punto di giurisdizione, alla luce dei nuovi approdi normativi e giurisprudenziali sulla giurisdizione del Giudice amministrativo in materia di diritti fondamentali (e delle più recenti elaborazioni dottrinarie in materia di interessi legittimi fondamentali).

Compito del giudice amministrativo, che è sempre stato al passo con l’evoluzione del diritto e della società, è quello di affrontare la nuova sfida che i tempi forse gli richiedono di raccogliere.

2. La giurisdizione del Giudice amministrativo sui diritti fondamentali.

Negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, i diritti fondamentali erano configurati come diritti soggettivi assoluti, inaffievolibili ed incomprimibili, incapaci di essere “compressi” e “degradati” a interessi legittimi a fronte dell’esercizio del potere pubblico e quindi pacificamente attribuiti alla giurisdizione del giudice ordinario (Cassazione, Sezioni Unite, 9 marzo 1979, n. 1463 e 6 ottobre 1979, n. 5172).

Tuttavia, negli anni successivi, inizia un percorso evolutivo che conduce, sotto la forte spinta innovativa della giurisprudenza e con gli interventi normativi di codificazione del processo amministrativo, ad una diversa configurazione dei diritti fondamentali, che diventano sempre più, nel confronto con il pubblico potere, oggetto di cognizione del Giudice amministrativo.

I momenti rilevanti di tale percorso sono da individuare:

- nella sentenza della Cassazione, Sezioni Unite, 22 luglio 1999, n. 500, che riconosce la risarcibilità della lesione dell’interesse legittimo (individuando però nel giudice ordinario il giudice dotato di giurisdizione sulle relative controversie);

- nella legge 21 luglio 200, n. 205, che amplia le forme e gli strumenti di tutela della giustizia amministrativa, con l’attribuzione al Giudice amministrativo della giurisdizione sulle domande concernenti il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo e con l’introduzione, nel processo amministrativo, della tutela cautelare monocratica presidenziale, della sentenza breve in sede cautelare e della consulenza tecnica d’ufficio;

- nelle sentenze della Corte Costituzionale 6 luglio 2002, n. 204 e 20 luglio 2006, n. 191, che affermano, con riferimento alla giurisdizione esclusiva, che il giudice amministrativo è idoneo ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell'esercizio della funzione amministrativa;

- nella sentenza della Corte Costituzionale 27 aprile 2007, n. 140, con la quale è stato affermato che non esiste <<alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario – escludendone il giudice amministrativo – la tutela dei diritti costituzionalmente protetti>>(e che<<Legittimamente, pertanto, possono essere riconosciuti esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche una tutela risarcitoria, per equivalente o in forma specifica, per il danno asseritamente sofferto anche in violazione di diritti fondamentali in dipendenza dell'illegittimo esercizio del potere pubblico da parte della pubblica amministrazione>>);

-nel d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, recante approvazione del codice del processo amministrativo, ed in particolare nell’art. 55, co. 2 (il quale, nel prevedere che la concessione o il diniego della misura cautelare non possa essere subordinata a cauzione <<quando la domanda cautelare attenga a diritti fondamentali della persona o ad altri beni di primario rilievo costituzionale>>, evidentemente presuppone l’esistenza della giurisdizione - generale di legittimità - del giudice amministrativo in tale materia) e nell’art. 133, lett. “p” (che stabilisce espressamente che rientrano nelle materie di giurisdizione esclusiva <<le controversie aventi ad oggetto le ordinanze e i provvedimenti commissariali adottati in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell'articolo 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, nonché gli atti, i provvedimenti e le ordinanze emanati ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 4 della medesima legge n. 225 del 1992 e le controversie comunque attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, quand'anche relative a diritti costituzionalmente tutelati>>).

Il 2010 rappresenta dunque il punto di arrivo di questa parabola evolutiva, dal momento che viene definitivamente riconosciuta, nel codice del processo amministrativo, la giurisdizione del Giudice amministrativo, sia esclusiva, sia generale di legittimità, sui diritti fondamentali incisi dal pubblico potere (la cui presenza è ovviamente presupposto necessario ai fini della configurazione della giurisdizione amministrativa).

Nello stesso tempo, rappresenta tuttavia il punto di partenza di un ulteriore processo evolutivo di trasformazione dei diritti fondamentali, oramai proiettati, sulla spinta delle acquisizioni normative e giurisprudenziali nazionali ed europee, verso nuove elaborazioni interpretative che hanno condotto, in questi ultimi anni, alla configurazione di una nuova, autonoma, situazione giuridica, del tutto inimmaginabile fino a pochi decenni orsono, quella dell’interesse legittimo fondamentale.

Tutto questo è stato reso possibile da una rinnovata lettura dell’art. 2 della Costituzione [<<La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale>>], che ha valorizzato la dimensione sociale dei diritti fondamentali, non più riconosciuti ai singoli in un’ottica individualistica ed assolutistica, ma in funzione dell’adempimento degli obblighi inderogabili di solidarietà pure loro imposti dalla norma costituzionale, in vista della realizzazione dell’interesse generale dell’intera collettività nazionale.

In questa prospettiva, i diritti costituzionali degli individui non sono assoluti, ma sono intrinsecamente connessi con il potere pubblico, il quale li deve armonizzare (bilanciare) con gli altri interessi pubblici e privati di pari rango costituzionale, che contemporaneamente fungono da limiti ai diritti dei singoli.

La presenza del pubblico potere come condizione necessaria legittimante l’estrinsecazione dei diritti fondamentali degli individui fa sì che questi assumano la consistenza e la forma di interessi legittimi e che il Giudice dotato di giurisdizione al riguardo non possa che essere quindi il Giudice amministrativo.

Il Giudice amministrativo, quale Giudice naturale della funzione pubblica e Garante della legittimità dei provvedimenti amministrativi, diviene così il Giudice del bilanciamento costituzionale tra esigenze di libertà degli individui e Poteri delle Autorità ed i diritti fondamentali diventano la nuova frontiera della giurisdizione amministrativa. Si pensi, ad esempio, alla tutela dei diritti degli alunni disabili ad un adeguato numero di ore di sostegno o alle vicende giudiziarie determinate dai provvedimenti amministrativi a tutela della salute pubblica restrittivi delle libertà personali durante l’emergenza sanitaria da Covid-19, fattispecie tutte che hanno evidenziato la centralità del ruolo del Giudice amministrativo nelle dinamiche concernenti la risoluzione dei conflitti tra il pubblico potere ed il cittadino, con l’avallo del Giudice della giurisdizione (Cassazione, Sezioni Unite, 25 novembre 2014, n. 25011 e 28 febbraio 2017, n. 5060 nel primo caso e Cassazione, Sezioni Unite, 30 giugno 2023, n. 18540 nel secondo).

3. La tutela climatica

In questo nuovo contesto storico e giuridico, si inserisce la tutela climatica .

L’Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015, stipulato da 195 Paesi (presenti nella XXI Conferenza delle Parti della UNFCCC), come è noto, si prefigge l’obiettivo di <<mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali, e proseguire l’azione volta a limitare l’aumento di temperatura a 1,5° C rispetto ai livelli pre-industriali, riconoscendo che ciò potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici>> (art. 2); prevede inoltre di raggiungere l’equilibrio climatico (tra le fonti di emissione antropogeniche e gli assorbimenti dei gas ad effetto serra) nella seconda metà del corrente secolo, attraverso contributi determinati a livello nazionale, predisposti da ogni Paese al momento dell’adesione all’Accordo (art. 4).

In base all’Accordo di Parigi, pertanto, il ruolo di ciascuno Stato firmatario si concretizza nei Piani generali nazionali per l’azione climatica: ogni Stato decide autonomamente le misure necessarie per raggiungere gli obiettivi pattuiti, frutto però di un’attività di coordinamento da svolgere ogni cinque anni.

Pur nella consapevolezza che la lotta al cambiamento climatico antropogenico richiede un impegno globale della comunità di Stati, la Convenzione UNFCCC e gli Accordi internazionali sul clima si fondano sul principio di responsabilità comuni ma differenziate e sulle rispettive capacità degli Stati. Di conseguenza, ogni Stato ha una propria quota di responsabilità nell’adottare misure per fronteggiare il cambiamento climatico.

La lotta al cambiamento climatico è anche uno degli obiettivi prioritari dell’Unione Europea in materia ambientale (come solennemente proclamato dall’art. 191, comma 1, T.F.U.E.).

Il Regolamento UE 2021/1119 del 30 giugno 2021 sul clima, andando oltre gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, secondo un ambizioso progetto di intervento europeo sul clima (cd. Green Deal europeo), prevede la realizzazione della neutralità climatica entro il 2050, con un obiettivo intermedio, al 2030, della riduzione di almeno il 55% delle emissioni di gas serra esistenti nel 1990. L’obiettivo di riduzione dell’Italia è del 43,7% rispetto al 2005, da attuare con il P.N.I.E.C. (Piano Nazionale Integrato per l’Energia ed il Clima).

Sulla base di queste premesse, si sta sviluppando presso le Corti nazionali europee un rilevante contenzioso avente ad oggetto l’accertamento giudiziale della responsabilità dello Stato da inazione climatica, che sembra andare verso la direzione del riscontro positivo dell’accertamento di tale responsabilità.

Il primo precedente riguarda l’Olanda ed è costituito dal cd. caso Urgenda, dal nome della Fondazione ricorrente (Urgenda, sincrasi delle parole “Urgent” e “Agenda”), conclusosi con la sentenza n. 19/00135 del 20 dicembre 2019 della Suprema Corte di Cassazione, che ha visto la condanna definitiva dello Stato dei Paesi Bassi a ridurre del 25% le emissioni di CO2 nell'atmosfera entro la fine del 2020 e del 40% entro il 2030, in esecuzione degli obblighi assunti con l’adesione all’Accordo di Parigi. Le obbligazioni dello Stato olandese sono state rinvenute all'esito di una analisi congiunta di una pluralità di norme costituzionali e sovranazionali, tra cui gli articoli 2 (“Diritto alla vita”) e 8 (“Diritto al rispetto della vita personale e familiare”) della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, da cui deriverebbe, secondo la Suprema Corte, un obbligo dello Stato olandese di protezione dei propri cittadini e quindi la necessità di adottare tutte le misure pertinenti volte a prevenire i cambiamenti climatici che cagionano, in base alle evidenze scientifiche, con l'inquinamento atmosferico ed il surriscaldamento globale, la lesione dei beni tutelati da tali norme.

La notevole rilevanza di tale sentenza, a prescindere dal suo decisum concreto, sta nell’aver affrontato la questione dell’osservanza del principio della separazione dei poteri, che era stata opposta dal Governo olandese (secondo cui l’accoglimento della domanda, con conseguente condanna dello Stato a ridurre le emissioni inquinanti, tramite l’imposizione di un obbligo positivo di legiferare, si tradurrebbe in un’inammissibile ingerenza del potere giudiziario nelle attribuzioni proprie del potere politico). In realtà, la Corte Suprema (confermando l’impostazione già offerta sul punto nei primi due gradi di giudizio dalla Corte distrettuale e dalla Corte d’Appello) ha superato la questione, rilevando che non sussiste violazione del principio di separazione dei poteri perché con la sentenza non viene ordinato allo Stato di adottare una misura specifica, ma viene fissato un obiettivo (peraltro già individuato dall’Accordo di Parigi) e si lascia pienamente libero lo Stato circa la scelta delle misure concrete ritenute più idonee a raggiungerlo. Dalla vincolatività delle norme sovranazionali e dalla necessità di misure concrete volte a contrastare il cambiamento climatico deriva dunque la possibilità per l’apparato giudiziario di condannare lo Stato alla loro adozione.

Il secondo caso (denominato Affaire du siècle) riguarda la Francia e concerne un procedimento giudiziario instaurato innanzi al Tribunale amministrativo di Parigi nel 2019, culminato in una pronuncia del 3 febbraio 2021, con la quale è stata riconosciuta la responsabilità omissiva dello Stato francese nella gestione della crisi climatica in ordine al danno ecologico causato dal mancato raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Il Tribunale amministrativo francese ha ritenuto sussistere un dovere costituzionalmente rilevante di tutela dell'ambiente facendo riferimento agli articoli 3 e 4 della Charte de l'environnement, norma avente rango costituzionale, contemplante espressamente un dovere generalizzato di tutela dell'ambiente.

Il terzo precedente riguarda la Germania (cd. caso Neubauer), ove la Corte costituzionale tedesca (sentenza 24 marzo 2021 1 BvR 2656/18) ha dichiarato la parziale incostituzionalità della legge federale sui cambiamenti climatici (Bundes-Klimaschutzgesetz), adottata nel 2019 per soddisfare i requisiti dell'Accordo di Parigi, che avrebbe creato rischi sproporzionati in ordine alle libertà degli individui, non soltanto per la collettività attuale, ma anche per le future generazioni (cd. responsabilità intergenerazionale).

Alle sentenze appena menzionate, occorre inoltre aggiungere la sentenza del 9 aprile 2024 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, relativa alla causa promossa dall’associazione Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera, in cui le parti attrici (l’associazione “Anziane per il clima” e quattro cittadine svizzere ultraottantenni) hanno sostenuto che l'inazione del governo svizzero in materia di cambiamento climatico comportasse una violazione dei diritti alla vita e alla salute delle donne svizzere anziane, dati gli effetti particolarmente gravi del riscaldamento globale sulle persone anziane.

Con tale sentenza, la Corte ha affermato preliminarmente che la legittimazione ad agire richiede il possesso dello stato di vittima ai sensi dell’art. 34 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e che tale stato, per le speciali caratteristiche del cambiamento climatico, deve essere escluso per le quattro donne anziane, perché per esse non sono immediatamente percepibili gli effetti negativi sulla vita e sulla salute ad opera dell’azione o dell’inazione governativa in materia climatica. La Corte ha invece affermato la legittimazione attiva delle associazioni non governative (<<legalmente stabilite nella giurisdizione interessata>> e <<che abbiano dimostrato di perseguire uno scopo specifico in accordo con i propri obiettivi statutari>>), in quanto le associazioni agiscono anche per la tutela delle generazioni future (le quali non hanno nessuna possibilità di partecipare ai processi decisionali attuali, dalle cui scelte finali dipenderanno tuttavia le loro sorti).

Al riconoscimento della legittimazione in favore delle sole associazioni, la Corte ha poi logicamente riconnesso la violazione della sola norma di cui all’art. 8 della Convenzione (non dell’art. 2, in quanto l’oggetto della protezione di tale norma, il diritto alla vita, non può che evidentemente riguardare le sole persone fisiche).

Nel merito, per quanto concerne gli obblighi positivi degli Stati in materia climatica, la Corte EDU (sostanzialmente richiamando il ragionamento della Suprema Corte olandese sul caso “Urgenda”) ha osservato che sussiste un margine di apprezzamento ridotto in relazione agli obiettivi complessivi di riduzione dei gas serra in conformità con gli impegni accettati dalle Parti contraenti per raggiungere la neutralità carbonica, mentre sussiste un margine di apprezzamento ampio in relazione alla scelta dei mezzi per realizzare tali obiettivi. Ha quindi affermato che dalle disposizioni della Convenzione EDU è possibile ricavare la sussistenza di un’obbligazione climatica degli Stati (di protezione effettiva dei cittadini dai gravi effetti negativi del cambiamento climatico), il cui inadempimento è suscettibile, entro determinati limiti, di sindacato giurisdizionale.

Orbene, a prescindere dal problema dell’eseguibilità e della coercibilità di tali pronunce delle Corti nazionali e della Corte EDU nei confronti dello Stato che continui ad essere inadempiente riguardo ai propri obblighi (sostanzialmente riservata alla buona volontà dello Stato soccombente nel primo caso e rimessa al controllo del Comitato dei Ministri, ex art. 46 della Convenzione, nel secondo), il dato complessivo che emerge da tutte tali pronunce è che in nessun caso si è pensato che la materia della responsabilità dello Stato da inazione climatica non rientrasse nell’ambito della giurisdizione di un giudice nazionale (in quanto ad esempio riservata in via esclusiva alla sfera della Politica e della Legislazione).

In tutti i casi considerati, si è proceduto all’accertamento, nel merito, della fondatezza della pretesa fatta valere e vi è stato poi un riscontro positivo alla domanda di giustizia considerando immediatamente applicabili alla fattispecie le norme costituzionali interne o le norme della CEDU che tutelano direttamente l’ambiente ed il clima.

In Italia, le cose, al momento attuale, stanno in maniera un pò diversa.

Le azioni giudiziarie sino ad ora normalmente proposte sono quelle attinenti propriamente alla sfera amministrativa dei pubblici poteri, per inerzia delle pubbliche amministrazioni nell’adottare misure concrete per il perseguimento degli obiettivi prestabiliti dalle norme di legge o dalle Direttive europee.

In tali fattispecie, sussiste evidentemente la giurisdizione del giudice amministrativo.

Ed il giudice amministrativo non ha mancato di esercitare nel merito il proprio potere giurisdizionale, evidenziando, nei casi che sono stati sottoposti alla sua cognizione (sotto forma essenzialmente di azioni contro il silenzio), l’illegittimità – in un’ottica sostanziale e di risultato - dell’inerzia delle pubbliche amministrazioni che non hanno adottato misure efficaci per la realizzazione degli obiettivi normativamente individuati.

Ci riferiamo, ad esempio, alla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 aprile 2024, n. 3945, con la quale è stato accolto il ricorso (che era stato respinto in primo grado) proposto dalla Lega Italiana Protezione Uccelli contro la Regione Lazio per la declaratoria dell’illegittimità del silenzio serbato da tale amministrazione sull’istanza-diffida di provvedere presentata dalla ricorrente, avente ad oggetto l’adempimento dell’obbligo di adozione delle opportune misure per evitare il degrado degli habitat naturali presenti nel Lago di Vico, zona speciale di conservazione di interesse comunitario.

In tale occasione, il giudice amministrativo d’appello non si è limitato ad un’indagine formale (il mero compimento di attività da parte della Regione in ossequio alla Direttiva Habitat), ma è andato oltre, affermando chiaramente che le “opportune misure” di cui al paragrafo 6.2 della Direttiva, pur se ampiamente discrezionali, devono essere “effettive”, in quanto, nella logica della Direttiva, devono perseguire (e raggiungere) un “risultato”, perché l’obbligo normativo è quello di arrestare il degrado delle zone SIC/ZSC. Inoltre, nell’affermare la possibilità di verificare ex post l’efficacia delle misure in concreto adottate, il Consiglio di Stato ha evidentemente riconosciuto la piena esperibilità del rimedio dell’ottemperanza, aprendo scenari ancora da esplorare quanto alla capacità di penetrazione del giudice amministrativo, attraverso il Commissario ad acta, in un ambito ampiamente discrezionale quale quello della scelta concreta più idonea tra le varie possibili per la realizzazione del risultato finale (obbligatorio) previsto da una normativa a tutela dell’ambiente e del clima.

Negli stessi sensi, la successiva sentenza del Consiglio di Stato, sezione V, 2 agosto 2024, n. 6943 (a proposito dell’area dunale di Sabaudia, nel Parco Nazionale del Circeo, Zona Speciale di Conservazione d'importanza comunitaria), che sottolinea non solo la natura preventiva e anticipatoria delle misure da adottare in ottemperanza alla Direttiva Habitat, ma anche, in caso di degrado già in atto, la necessità di misure attive anticicliche in grado di invertire il processo, che in assenza di iniziative, proseguirebbe irreversibilmente.

Il contenzioso climatico italiano appare dunque sino ad ora porsi ad un livello più basso rispetto a quello degli altri Stati europei, in quanto involge omissioni ed inerzie imputabili a centri decisionali (ed a conseguenti attività) di natura prettamente amministrativa (come tali naturaliter riservate al giudice amministrativo).

Tuttavia, nel 2021 è stata intentata per la prima volta innanzi ad un giudice italiano, il Tribunale civile di Roma, una causa analoga a quelle proposte presso le Corti nazionali europee, in quanto è stata dedotta, con la domanda definita principale, la responsabilità dello Stato – non della pubblica amministrazione – ai sensi dell’art. 2043 c.c., per la mancata adozione di ogni necessaria iniziativa per fronteggiare la crisi climatica, nella specie per l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni nazionali artificiali di CO2 nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990 (con conseguente richiesta di condanna in tali sensi).

Con la stessa causa, le parti attrici (associazioni e persone fisiche) hanno svolto anche una domanda subordinata, avente ad oggetto la richiesta di modifica e correzione del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima negli stessi sensi di cui alla domanda principale (per l’abbattimento, antro il 2030, delle emissioni nazionali artificiali di CO2 nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990).

A sostegno delle domande svolte, sono state richiamate varie fonti da cui deriverebbero tali obblighi per lo Stato, tra cui principalmente la Costituzione, la Convenzione Europea sui Diritti Umani, le leggi di ratifica della Convenzione Quadro sui cambiamenti climatici del 1992 e dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015, il diritto europeo.

Il giudizio (noto anche, secondo la definizione dei mezzi di informazione, come “Giudizio Universale”) si è concluso con la sentenza 6 marzo 2024, n. 3552, con la quale è stato tuttavia dichiarato, sulla domanda principale, il difetto assoluto di giurisdizione. Sulla domanda subordinata, è stata invece affermata la giurisdizione del giudice amministrativo (data la natura di atto di pianificazione generale del Piano, come tale attinente alla giurisdizione amministrativa generale di legittimità).

A differenza dei Giudici olandesi, francesi e tedeschi (e della Corte EDU), il Giudice civile italiano, sulla domanda principale di responsabilità dello Stato da inazione climatica, non è dunque entrato nel merito delle questioni dibattute (accogliendo o respingendo), ma ha ritenuto che nessun Giudice dello Stato potesse esaminare un tale tipo di domanda (ritenuta attinente alla sfera di attribuzione degli organi politici), se non violando il principio cardine per l’ordinamento della separazione dei poteri. Si tratterebbe di una materia riservata dalla Costituzione allo Stato-Legislatore.

Le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Roma con tale sentenza riguardo alla domanda principale non appaiono condivisibili.

La questione relativa ai profili di violazione del principio di separazione dei poteri, in realtà, era stata affrontata - e superata – dai giudici olandesi in occasione del caso Urgenda e dalla Corte EDU nel caso delle donne svizzere anziane per il clima, laddove, in entrambi i casi, era stato evidenziato che la pronuncia di condanna non aveva ad oggetto una specifica misura da adottare, quanto piuttosto un obiettivo da realizzare, demandando allo Stato la massima discrezionalità circa l'individuazione dei mezzi più idonei per raggiungerlo.

Il punto che appare rilevante (e dirimente) è che il principio della separazione dei poteri (con conseguente assoluta insindacabilità giurisdizionale del potere politico) può essere dedotto e fatto valere, come già in passato affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 5 aprile 2012, n. 81 (relativa a fattispecie riguardante la sindacabilità giurisdizionale amministrativa del decreto di nomina degli assessori regionali da parte del Presidente della Giunta regionale), soltanto quando il potere politico possa considerarsi completamente “libero nel fine”, vale a dire quando non sia condizionato da alcuna norma giuridica che ne conformi le concrete modalità di esercizio.

La Corte Costituzionale così infatti si esprime testualmente nella sentenza citata: <<gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall'ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l'ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un'azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l'esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell'atto, sindacabile nelle sedi appropriate>> (affermando poi nel caso concreto, sulla base di questi principi, che l’atto di nomina degli assessori regionali, anche se proveniente da un organo politico, <<è sindacabile in sede giurisdizionale, se e in quanto abbia violato una norma giuridica>>).

Negli stessi sensi, per quanto riguarda la sindacabilità dell’atto politico non libero nel fine, la convergente giurisprudenza del giudice ordinario (Cass. SS.UU., 12 luglio 2019, n. 18829; Cass. SS.UU., 22 settembre 2023, n. 27177; Cass. SS.UU., 6 marzo 2025, n. 5992) e del giudice amministrativo (C.d.S., Sez V, 27 luglio 2011, n. 4502; C.d.S., Sez. I, 19 settembre 2019, n. 2483).

Orbene, anche nel caso del contenzioso climatico il potere dello Stato non può essere considerato del tutto “libero nel fine”, in quanto è condizionato nelle sue concrete modalità di esercizio (e limitato nei suoi confini applicativi) dalla presenza delle norme dei Trattati internazionali sul clima, le quali pongono precisi obblighi giuridici che devono essere rispettati dallo Stato, anche nell’esercizio della funzione legislativa, in applicazione degli articoli 10, 11 e 117, comma 1, della Costituzione.

Potrebbe configurarsi, sotto il profilo oggettivo, un atto politico “puro” (“libero nel fine”) in relazione alla valutazione compiuta con la scelta, a monte, circa l’opportunità di aderire o meno ad una determinata Convenzione internazionale, trattandosi di attività non sottoposta ad alcun condizionamento precostituito.

Ma una volta effettuata la partecipazione al Consesso internazionale e compiuta l’adesione alla Convenzione o al Trattato, con la condivisione formale da parte dello Stato degli obblighi e dei vincoli giuridici ivi delineati a proprio carico, appare difficile continuare a ipotizzare un potere, a valle, ancora del tutto svincolato dall’osservanza di tali obblighi (e quindi del tutto “libero nel fine”, come tale sottratto al sindacato giurisdizionale).

Il punto di equilibrio sembra quindi risiedere nel ritenere riservata allo Stato, nel contemperamento con tutti gli interessi coinvolti, la discrezionalità concernente il quomodo della realizzazione dell’obiettivo, ma nello stesso tempo lasciando fermo in capo allo Stato l’obbligo di dover realizzare tale risultato nei tempi previsti sulla base degli impegni assunti a livello europeo ed internazionale (secondo, peraltro, degli intenti di massima dallo Stato medesimo pienamente affermati e condivisi).

A tale riguardo, si deve osservare che la tradizionale concezione illuministica della separazione dei poteri (come teorizzata dal Montesquieu, secondo cui i poteri dello Stato fungono da limite reciproco, in negativo, in modo tale che nessuno di essi possa prendere il sopravvento sugli altri), sembra evolversi, negli orientamenti più recenti della dottrina, in una direzione positiva e proattiva, tale per cui ogni potere dello Stato non solo controbilancia e limita l'altro, ma può stimolarlo a prendere iniziative necessarie per il raggiungimento di un obiettivo costituzionalmente tutelato, quale il diritto alla vita, alla salute ed alla salubrità dell'ambiente.

Altro punto debole della sentenza del Tribunale di Roma del 6 marzo 2024, n. 3552, sembra essere costituito dalla totale mancata valutazione della riforma costituzionale intervenuta nelle more del giudizio (Legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1), con la quale sono stati modificati gli articoli 9 e 41 della Costituzione.

Con tale legge di riforma costituzionale, la tutela dell’ambiente (che già formava oggetto di previsione costituzionale sotto forma di materia riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, ex art. 117, comma 2, lett. “s”, Cost.), viene ora contemplata ed annoverata tra i principi fondamentali della Costituzione (tra l’altro, è la prima volta nella storia della Repubblica che vengono modificati i Principi Fondamentali della Costituzione). La Repubblica <<tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni>> (art. 9, comma terzo, primo periodo, ora introdotto ex novo dalla riforma costituzionale).

Inoltre, nella definizione dei principi costituzionali che regolano l’attività economica, la riforma ha affermato che l’iniziativa economica privata <<non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana>> (art. 41, secondo comma, con le modifiche in corsivo) e che <<la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali>> (art. 41, comma terzo, con le modifiche in corsivo).

L’art. 9, comma terzo, ha una formulazione ampia, che consente di individuare una duplice dimensione, oggettiva e temporale, della tutela apprestata: la tutela riguarda, sul piano oggettivo, il clima (che, anche se non viene espressamente menzionato, è implicitamente ed unitariamente ricompreso nelle diverse componenti dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi); in secondo luogo, sul piano temporale, la tutela è finalizzata a preservare e non deteriorare le condizioni di benessere climatico nel futuro, per le generazioni che verranno dopo di noi, al fine di consentire loro di avere sempre una possibilità di scelta.

La norma, da questo punto di vista, è chiara e deve probabilmente essere letta in correlazione con l’art. 24 [<<Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi>>], in modo tale da consentire una legittimazione ad agire ampia ed incondizionata per la tutela delle posizioni giuridiche fondamentali incise dall’inerzia amministrativa e normativa degli apparati pubblici e dello Stato in materia climatica (in linea con l’art. 9 della Convenzione di Aarhus, del 25 giugno1998, ratificata dall’Italia nel 2001, e con il Regolamento UE n. 1367/2006del 6 settembre 2006, come modificato dal Regolamento UE n. 2021/1767 del 6 ottobre 2021).

L’inserimento - nell’articolo 9 della Costituzione e nei principi fondamentali - della tutela ambientale e degli ecosistemi, in collegamento con l’interesse anche delle future generazioni, sembra porre, una volta per tutte, il tema della crisi ambientale come elemento strutturale delle scelte politiche e legislative, ed anche delle decisioni applicative ed interpretative.

La norma costituzionale indica al legislatore ordinario, nonché ai giudici ed agli amministratori pubblici chiamati ad applicare ed interpretare le norme, la strada da seguire in materia di territorio, di ambiente e di clima.

Di tutto questo forse, il Tribunale di Roma avrebbe dovuto tener adeguatamente conto.

La nuova configurazione della tutela ambientale/climatica come principio fondamentale della Costituzione, fonte di precisi obblighi per lo Stato (anche nella prospettiva intergenerazionale), è stata peraltro, pochi mesi dopo la sentenza del Tribunale di Roma, espressamente accolta dalla Corte Costituzionale con la sentenza 13 giugno 2024, n. 105.

Con tale sentenza è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma del codice di procedura penale nella parte in cui non era stato previsto, in relazione ad impianti produttivi di interesse strategico nazionale sottoposti a sequestro giudiziario per reati ambientali, un termine massimo di durata delle misure adottabili dal Governo per garantire il contemperamento dell’attività produttiva con la tutela della salute e dell’ambiente.

La Corte Costituzionale, nel chiarire le finalità e l’ambito di applicazione della nuova norma, ha significativamente affermato che la riforma intervenuta nel 2022 vincola tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della efficace tutela dell’ambiente anche nell’interesse delle generazioni future, sussistendo un preciso dovere delle generazioni attuali di preservare l’integrità dei beni tutelati dalla norma costituzionale.

Nessun dubbio può quindi ormai più sussistere in ordine alla natura precettiva e vincolante degli effetti della riforma costituzionale sulle attività dei Pubblici Poteri riguardo all’osservanza degli obblighi di tutela ambientale e climatica ivi solennemente affermati.

4 - Conclusioni

Bisogna aggiungere, per concludere, che nel maggio del 2023 è stato proposto innanzi al Tribunale civile di Roma un altro giudizio in materia di contenzioso climatico “puro”.

Si tratta del giudizio (meglio noto, secondo le definizioni che ne sono state date dai mezzi di comunicazione, come “Giusta Causa”) proposto da Greenpeace Italia ed altri nei confronti di ENI s.p.a., Cassa Depositi e Prestiti e Ministero Economia e Finanze per la condanna di ENI alla riduzione delle emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, nonché per la condanna di Cassa Depositi e Prestiti e Ministero Economia e Finanze all’adozione di una politica climatica che ne guidi le rispettive partecipazioni in ENI s,p,a, in linea con l’Accordo di Parigi.

In tale giudizio, le parti attrici, sull’eccezione di difetto assoluto di giurisdizione sollevata dalle parti convenute, hanno proposto regolamento preventivo di giurisdizione, ritenendo che l’inazione climatica dello Stato non sia ex se sottratta al sindacato giurisdizionale e che la giurisdizione spetti al giudice ordinario.

La Suprema Corte ha fissato la camera di consiglio per il 18 febbraio 2025.

In attesa della decisione che verrà assunta al riguardo dalla Cassazione, sembra ora maggiormente difficile poter continuare ad affermare che, in presenza di una norma della Costituzione che tutela in via diretta l’ambiente e il clima anche in ottica intergenerazionale (ed alla luce dei principi enucleati dalla Corte Costituzionale in materia), non sussista un obbligo dello Stato ad adottare le misure ritenute necessarie per realizzare gli obiettivi climatici posti a livello europeo ed internazionale e che i sottostanti diritti fondamentali lesi dall’ inazione climatica dello Stato non possano trovare tutela giurisdizionale dinanzi ad alcun Giudice.

L’ obbligo di agire per fronteggiare il cambiamento climatico in maniera efficace e risolutiva (la cd. obbligazione climatica di cui alla sentenza CEDU del 9 aprile 2024) sussiste pieno ed incondizionato.

Si tratta di attività che lo Stato deve porre in essere per raggiungere il risultato(da esso stesso prefigurato e condiviso in ambito nazionale, europeo ed internazionale).

La discrezionalità si pone su un diverso piano, ed attiene al modo di realizzare il risultato.

I diritti fondamentali delle persone non possono, per definizione, rimanere privi di tutela.

Tuttavia, nell’attuale contesto evolutivo riguardante la configurazione e la natura dei diritti fondamentali (che ne vede una irreversibile trasmigrazione verso le nuove posizioni elaborate dalla dottrina degli interessi legittimi fondamentali), i tempi appaiono ormai maturi affinchè la giurisdizione per responsabilità dello Stato da inazione climatica non sia individuata in favore del Giudice ordinario (a meno di non voler riportare indietro le lancette dell’orologio della Storia di oltre quarant’anni, sino alle concezioni giuridiche dominanti negli anni ’70 del secolo scorso, ormai superate dai tempi), ma possa essere riconosciuta, a legislazione invariata (senza necessità di prevedere un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva), in favore del Giudice che, alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 140/2007) sulla base di un’interpretazione evolutiva dell’art. 2 della Costituzione e delle espresse previsioni contenute nella legge ordinaria (artt. 55 e 133 c.p.a.), ha giurisdizione sui diritti (e interessi legittimi) fondamentali incisi dal pubblico potere, cioè in favore del Giudice amministrativo, quale Giudice naturale del bilanciamento costituzionale tra diritti fondamentali delle persone e Poteri delle Autorità.

Grazie per l’attenzione e buon Convegno a tutti.

Leonardo Pasanisi

* Relazione introduttiva svolta dal dott. Leonardo Pasanisi, Presidente del Tar Veneto, al Convegno tenutosi a Venezia il 13 febbraio 2025, dal titolo “La tutela climatica attraverso il diritto”, organizzato dall’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti e dal Tar Veneto.