Soggetti responsabili e perimetrazione degli obblighi di vigilanza. Rilevanza in sede penale e amministrativa delle condotte omissive
di Silvia MARTINO
Pubblicazione dell'Ufficio Studi Giustizia Amministrativa
Soggetti responsabili e perimetrazione degli obblighi di vigilanza. Rilevanza in sede penale e amministrativa delle condotte omissive.
1. Evoluzione della nozione di ambiente come bene tutelato giuridicamente rilevante
2. Disciplina delle bonifiche e del danno ambientale
3. Il soggetto responsabile della contaminazione e la responsabilità del proprietario - Affinità e differenze con la disciplina in materia di abbandono dei rifiuti.
3.1. Rifiuti 3.2. Il proprietario non responsabile dell’inquinamento alla luce della “natura interamente speciale propria del Codice dell’ambiente”.
4. L’intreccio tra tutela penale e amministrativa nella disciplina delle bonifiche e della riparazione del danno ambientale.
4 .1. Comunicazione dell’evento. 4.2. Indagini preliminari, messa in sicurezza, caratterizzazione, bonifica.
5. L’accertamento del nesso causale nel giudizio penale e in quello amministrativo
1. Evoluzione della nozione di ambiente come bene tutelato giuridicamente rilevante
Tra gli anni ’70 e ‘90 del secolo scorso vengono compiutamente a delinearsi i formanti legislativo e giurisprudenziale che hanno condotto alla identificazione dell’ambiente quale bene giuridico autonomo, al quale corrispondono situazioni giuridicamente tutelabili.
L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale si è inizialmente fondata sugli articoli 9 e 32 della Costituzione, dai quali si è tratta l’esistenza di un diritto individuale tutelabile attraverso la tecnica della responsabilità civile extracontrattuale exart. 2043 cod. civ. 1.
Correlativamente, è proprio con particolare riferimento all’ambiente, che il giudice amministrativo ha elaborato le tecniche di tutela degli interessi diffusi.
A tale elaborazione ha fatto seguito la positivizzazione del danno all’ambiente inteso come bene collettivo, immateriale e unitario, ad opera dell’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 istitutiva del Ministero dell’ambiente.
Questa evoluzione è stata poi consacrata dalla giurisprudenza costituzionale, in particolare con la sentenza 30 dicembre 1987, n. 641 dove si afferma che l’ambiente è un bene immateriale unitario anche se formato da diverse componenti ciascuna delle quali può costituire isolatamente e separatamente oggetto di cura e di tutela2.
La Corte ebbe ad inquadrare il danno all’ambiente nel paradigma generale della responsabilità civile e precisamente nel solco della concezione dell’istituto della responsabilità civile extracontrattuale “aperta” ai valori costituzionali in precedenza espressa con la sentenza 14 luglio 1986, n. 184, sul danno biologico3.
Allo stesso tempo la Corte costituzionale sottolineò che il riconoscimento dell’esistenza di un «bene immateriale unitario» non è fine a sé stesso ma è funzionale all’affermazione della esigenza sempre più avvertita della uniformità della tutela, uniformità che solo lo Stato può garantire, senza peraltro escludere che anche altre istituzioni potessero e dovessero farsi carico degli interessi delle comunità che direttamente fruiscono del bene.
Già in questa sentenza, in una visione anticipatoria della tutela ambientale quale verrà successivamente a delinearsi in sede europea, emerge la funzione prettamente riparatoria dell’illecito ambientale non circoscritta alla sola differenza di valore del bene leso rispetto a quello che aveva prima del danno, secondo lo schema proprio del tipico illecito civile lesivo di beni di carattere individuale, ma estesa a tutti costi necessari per ripristinare il complessivo pregiudizio inferto all’ecosistema naturale4.
La stessa funzione riparatoria è alla base dell’istituto della bonifica introdotto con l’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 e della relativa disciplina poi trasfusa nel codice dell’ambiente.
L’evoluzione legislativa in materia è stata conseguente all’adozione in sede europea del principio “chi inquina paga” (di cui all’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) nonché dell’azione preventiva.
Tuttavia, ancora nel 2001, in occasione della riforma del titolo V, l’ambiente ha trovato espresso riconoscimento nella Costituzione solo in modo parziale, con l’inserimento tra le materie di potestà legislative esclusiva dello Stato della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema” insieme a quella dei “beni culturali”.
La svolta definitiva in questa direzione è arrivata soltanto con la l. cost. n. 1/2022. Quest’ultima ha, per un verso, modificato l’art. 9 Cost., inserendovi espressamente la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni e per altro verso, ha affiancato la tutela dell’ambiente e della salute agli altri limiti costituzionali alla libertà di iniziativa economica privata, previsti all’art. 41 Cost.
A questa evoluzione non è ovviamente rimasto estraneo il versante penalistico, in relazione al quale l’approdo costituzionale viene a convalidare la scelta di campo a favore di un’impostazione di tipo ecocentrico, già compiutasi a livello di legislazione ordinaria, con l’adozione della l. 22 maggio 2015, n. 68 che ha introdotto nel codice penale fattispecie di reato ispirate ad un modello di tutela forte dell’ambiente, quale bene finale5.
In precedenza l’intervento del giudice penale era concepito principalmente come volto non a punire il soggetto per il danno arrecato al bene, bensì per aver violato le prescrizioni indicate dall’amministrazione o non aver acquisito le autorizzazioni richieste6.
È peraltro affermazione condivisa quella secondo cui la primarietà riconosciuta a livello costituzionale all’interesse ambientale non ne legittima un primato assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali, ma origina la necessità che esso sia sempre preso in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni7.
Tale principio è stato chiaramente espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 85 del 2013 (relativa alla nota vicenda dell’Ilva di Taranto) in cui si legge: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”.
Di recente la Corte ha tuttavia sottolineato che, in ogni caso, il nuovo testo dell’art. 41, secondo comma, Cost. vieta che l’iniziativa economica privata si svolga « in modo da recare danno» alla salute o all’ambiente. Ne deriva che “nessuna misura potrebbe legittimamente autorizzare un’azienda a continuare a svolgere stabilmente la propria attività in contrasto con tale divieto” (sentenza n. 105 del 13 giugno 2024).
Al riguardo la Corte costituzionale ha richiamato quanto già affermato in un’altra pronuncia concernente la vicenda Ilva, con riferimento agli interessi menzionati nel testo previgente dell’art. 41, secondo comma, Cost.: «[r] imuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce […] condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona » (sentenza n. 58 del 2018, punto 3.3. del Considerato in diritto).
2. Disciplina delle bonifiche e del danno ambientale
Prima di inquadrare il concetto di responsabilità bisogna richiamare quello di danno.
Il codice dell’ambiente non offre una nozione di danno ambientale onnicomprensiva.
Alla disciplina del danno all’ambiente di cui alla parte VI, si affiancano infatti le disposizioni recate agli articoli 239 e seguenti, della Parte Quarta, del codice dell’ambiente, relativa alla “bonifica dei siti contaminati”, in cui viene configurato un ulteriore procedimento di natura amministrativa avente ad oggetto « l’insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)» (art. 240, lett.p).
Per CSR si intendono «i livelli di contaminazione delle matrici ambientali, da determinare caso per caso con l'applicazione della procedura di analisi di rischio sito specifica secondo i principi illustrati nell'Allegato 1 alla parte quarta del presente decreto e sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede la messa in sicurezza e la bonifica. I livelli di concentrazione così definiti costituiscono i livelli di accettabilità per il sito» (art. 240, comma 1, lett. c) e p).
Sempre nella parte IV è contenuta anche la disciplina in materia di divieto di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti, la quale, almeno, in astratto, ha carattere autonomo così come esplicitamente previsto dall’art. 239, comma 2, secondo cui « le disposizioni del presente titolo non si applicano: a) all'abbandono dei rifiuti disciplinato dalla parte quarta del presente decreto. In tal caso qualora, a seguito della rimozione, avvio a recupero, smaltimento dei rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato, si accerti il superamento dei valori di attenzione, si dovrà procedere alla caratterizzazione dell'area ai fini degli eventuali interventi di bonifica e ripristino ambientale da effettuare ai sensi del presente titolo [...]».
Le disposizioni in tema di bonifica, diversamente da quelle sulla riparazione del danno ambientale, si riferiscono esplicitamente anche alle contaminazioni storiche 8 e attribuiscono le relative competenze istruttorie e decisorie in capo alle Regioni e agli Enti locali.
Anche la disciplina delle bonifiche è comunque informata al principio “chi inquina paga”, espressamente richiamato dall’art. 239, comma 1.
Con la legge europea n. 97/2013, è stata abrogata la lettera i), dell’art. 303 del codice dell’ambiente che escludeva l’applicazione delle disposizioni sul danno ambientale nei casi di contaminazione del terreno per i quali fosse avviata o intervenuta la bonifica del sito, di cui agli artt. 239 e ss. del codice, salvo la rimanenza di un danno ambientale una volta conclusa la procedura di bonifica.
Tale modifica venne imposta dalla Commissione dell’UE nell’ambito della procedura d’infrazione n. 2007/4679, la quale ritenne che la disposizione abrogata non fosse conforme alle previsioni dell’articolo 4 della Direttiva 2004/35/CE9, e che le autorità italiane non avessero chiarito la portata della norma in questione, con particolare riguardo alla finalità di delimitare l’ambito di applicazione delle due diverse discipline.
In materia è intervenuta la IV Sezione del Consiglio di Stato (sentenza 8 febbraio 2023, n. 1397).
La pronuncia rimarca le differenze tra la disciplina del danno ambientale, contenuta negli artt. 298 ss. del codice dell’ambiente e la disciplina della contaminazione, di cui agli artt. 239 ss. del medesimo codice, valorizzandone le diverse finalità ed escludendo la possibilità di applicare analogicamente alla seconda il regime prescrizionale previsto solo per la prima.
Viene, inoltre, confermato che il dovere di bonifica, può ritenersi applicabile anche a condotte antecedenti la sua positivizzazione con l. n. 349/1986, d.lgs. n. 22/1997 e, infine, d.lgs. n. 152/2006, per le ipotesi di contaminazione storica i cui effetti permangano alla data di adozione dell'ordine di bonifica, sussistendo una continuità normativa con gli artt. 2043 e 2058 cod. civ.
In tal senso, sono stati richiamati i contenuti della decisione dell’Adunanza plenaria n. 10 del 2019.
Nella fattispecie, la tesi della ricorrente era che l’abrogazione della lettera i) dell’art. 303 d.lgs. n. 152/2006, determinerebbe “l’avvenuta estensione dell’intero istituto del danno ambientale e della sua disciplina, anche alle operazioni di bonifica”, anche per le ipotesi di contaminazione storica. Ciò si tradurrebbe nella possibilità di ritenere applicabile anche ai danni da inquinamento e contaminazione la prescrizione trentennale prevista in tema di danno ambientale.
Nello specifico, secondo l’art. 303, comma 1, lett. f) la disciplina sul danno ambientale “non si applica al danno causato da un'emissione, un evento o un incidente verificatisi prima della data di entrata in vigore della parte sesta del presente decreto”. Inoltre, ai sensi della lett. g) “non si applica al danno in relazione al quale siano trascorsi più di trent'anni dall'emissione, dall'evento o dall'incidente che l'hanno causato.
La Sezione IV ha respinto questa tesi in quanto basata sull'erroneo presupposto della totale sovrapponibilità dei distinti concetti di danno ambientale e di danno da contaminazione, il quale non trova riscontro nel dettato normativo. La nozione di danno ambientale, descritta dall'art. 300 d. leg. n. 152/2006 come “deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima”, comprende, ma non si esaurisce, in quella di contaminazione presa a riferimento dall'art. 242, cit. ai fini della procedura di bonifica. Ne deriva che la disciplina applicabile al danno ambientale, di natura spiccatamente sanzionatoria oltre che risarcitoria, non può essere oggetto di automatica estensione agli obblighi di bonifica, di per sé privi di una connotazione sanzionatoria, in quanto volti a perseguire il recupero dei suoli.
Secondo la Sezione IV, l’abrogazione della lettera i) dell’art. 303 non può ritenersi indicativa di una voluntas legis volta ad estendere alla bonifica ambientale e alla contaminazione tutta la disciplina prevista nella parte sesta, producendo piuttosto l’effetto di far concorrere le responsabilità da danno ambientale e da contaminazione. Diversamente opinando, dovrebbe ritenersi che la suddetta abrogazione avrebbe, di fatto, comportato anche l’implicita abrogazione dell'intero Titolo V, Parte IV del Codice. Essa va invece letta, al contrario, quale espressione della volontà di rimarcare l’alterità tra nozioni di danno ambientale e contaminazione, ammettendo una concorrenza tra obblighi di bonifica e risarcitori.
Il che – va soggiunto - spiega anche l’introduzione di fattispecie incriminatrici tra cui i elementi costitutivi figura specificamente l’obbligo di bonifica e il cui oggetto giuridico è non solo la tutela del bene ambiente (finale) ma anche l’enforcementdella disciplina amministrativa in materia (art. 257 d.lgs. n. 152/2006 e art. 452 – terdecie s del codice penale).
Rimarcata la differenza tra danno ambientale e contaminazione e, quindi, tra parte quarta e parte sesta del Codice dell’ambiente, la Sezione IV ha escluso che possa applicarsi la prescrizione trentennale dell’obbligo risarcitorio per danno ambientale all'obbligo di bonifica a carico del soggetto responsabile della contaminazione.
Un’altra significativa differenza tra la disciplina della parte VI e quella della parte IV è quella relativa al criterio delle responsabilità solidale, escluso in materia di risarcimento del danno ambientale (art.311, comma 3, secondo cui “nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale”).
La Cassazione civile ha peraltro precisato, al riguardo, che tale limitazione opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in quelli di azioni od omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di un’unitaria condotta di danneggiamento dell’ambiente, che restino tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di questa (Cass. civ., sez. III, 6 maggio 2015, n.9012).
In materia di bonifiche il giudice amministrativo ha invece statuito che “in tutti i casi in cui non è possibile riconoscere gli effetti delle singole condotte causative del pregiudizio all’ambiente, non si devono identificare singole azioni di bonifica e la responsabilità di tali adempimenti è solidale” (Cons. Stato, Sezione IV, 7 gennaio 2021, n. 172; id. 7592 del 2024).
È infine importante ricordare che la disciplina in materia di bonifica e di risarcimento del danno ambientale va distinta dalla tutela che l’ordinamento appresta al diritto (individuale) dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà. Resta infatti salva la facoltà di agire in giudizio nei confronti del “responsabile” a tutela dei diritti e degli interessi lesi (art. 313, comma 7, ultima parte). In questo caso, la disciplina del danno e della correlata responsabilità ( in primis per quanto riguarda la qualificazione e l’individuazione del soggetto responsabile) non va rinvenuta nel codice dell’ambiente ma nella disciplina generale del danno posta dal codice civile10.
3. Il soggetto responsabile della contaminazione e la “responsabilità del proprietario” - Affinità e differenze con la disciplina in materia di abbandono dei rifiuti.
L’individuazione del soggetto inquinatore richiede indagini complesse, specie nel caso delle contaminazioni storiche. Accade quindi spesso che sia il proprietario (incolpevole, o, comunque, non individuato come “responsabile”), ad essere il principale destinatario di prescrizioni di “messa in sicurezza di emergenza” o di “misure di prevenzione” tecnicamente complesse e onerose.
La giurisprudenza amministrativa ha – fino a tempi recenti - fondato la legittimità di tali misure sul presupposto che il proprietario sarebbe tenuto alla “custodia” del suo asset, in una lettura estensiva ed applicata alle tematiche ambientali, degli obblighi ex art. 2051 cod. civ.11.
Al riguardo, va ricordato che, secondo il costante orientamento della Cassazione civile (cfr. Sez. un., n. 20943 del 30 giugno 2022) la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria del caso fortuito, interruttivo del nesso causale, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode.
In questo senso, fino al 2023, vi sono state in effetti numerose sentenze del giudice amministrativo che hanno ritenuto la legittimità di provvedimenti amministrativi volti ad imporre ai proprietari (non responsabili dell’inquinamento), le misure non solo di prevenzione ma anche di messa in sicurezza di emergenza.
La delicatezza del tema è resa evidente dal fatto che, una volta affermata la sussistenza di simili obblighi in capo al proprietario possono essere a questi mosse anche contestazioni in sede penale in relazione all’omissione della condotta dovuta.
Tuttavia la giurisprudenza ha anche costantemente ribadito (cfr., per tutte la sentenza n. 2195 del 2020 della Sezione IV del Consiglio di Stato) che secondo il principio “chi inquina paga” per “responsabile” si deve intendere esclusivamente il soggetto alla cui attività ovvero omissione, sia direttamente riconducibile l’effetto negativo sulla matrice ambientale considerata. Si tratta – come appresso si vedrà – di responsabilità oggettiva, per la cui sussistenza è sufficiente la dimostrazione del nesso di causalità tra l’attività svolta e il danno.
L’Adunanza plenaria già nel 2013 osservò che l’Amministrazione non può imporre al proprietario di un'area inquinata, che non sia ancora l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica, di cui all’art. 240, comma 1, lettere m) e p) del decreto legislativo n. 152 del 2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall'articolo 253 del medesimo decreto legislativo in tema di onere reale e privilegio speciale immobiliare.
A carico del proprietario del sito che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione è prevista soltanto una responsabilità patrimoniale, limitata al valore del sito (che costituisce oggetto di un onere reale) dopo l’esecuzione da parte dell’Amministrazione delle opere di bonifica.
L’Adunanza Plenaria sollevò quindi una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, chiedendole di chiarire se la normativa comunitaria in materia di ambiente ostasse ad una normativa nazionale, quale appunto quella italiana, che limita nei termini sopra richiamati la responsabilità del c.d. proprietario incolpevole del sito inquinato.
La Corte di giustizia (sez. III, sentenza 4 marzo 2015, causa 534-13) ha affermato che la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi12.
Di recente, il Consiglio di Stato ha ribadito che: a) sia nelle ipotesi di danno ambientale disciplinate dalle previsioni della direttiva 2004/35/UE, sia in quelle che restano regolate dalle sole previsioni del codice dell’ambiente non sono configurabili ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale alla determinazione del danno; b) il sub-sistema normativo di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 reca un preciso criterio di imputazione della responsabilità da inquinamento (la quale si innesta sulla più volte richiamata sussistenza di un nesso eziologico), non ammettendo ulteriori, diversi e più sfavorevoli criteri di imputazione (i quali, pure, sono conosciuti da altri settori dell’ordinamento); c) in particolare, il vigente quadro normativo nazionale non ammette un criterio di imputazione basato sulla responsabilità di posizione a carico del proprietario incolpevole, che non può essere configurata in assenza di una apposita previsione di legge nazionale (Cons. Stato, sez. V, 7 marzo 2022, n. 1630; cfr. anche Cons. Stato, n. 6138/2017; Cons. Stato n. 550/2016; Cons. Stato n. 3544/2015).
La stessa pronuncia testé citata ha messo in evidenza che in ogni caso occorre non limitarsi all’individuazione dell’autore materiale della condotta di inquinamento, per tale intendendosi semplicisticamente l’entità che conduce o ha condotto direttamente l’attività inquinante, ma si deve estendere l’accertamento a tutti quei soggetti che hanno il controllo della fonte di inquinamento in virtù di poteri decisionali, o che rendono comunque possibile detta condotta in forza della posizione giuridica che rivestono all’interno dei rapporti con il diretto inquinatore.
In questo senso, è stato per esempio imputato anche ad una società controllante la responsabilità per la situazione di inquinamento e i conseguenti obblighi di bonifica, non solo per il periodo in cui la stessa ha avuto la proprietà dell’area interessata ma anche per quello successivo al trasferimento di questa a favore della controllata; al riguardo, è stato ritenuto dirimente il mantenimento in capo alla controllante di poteri di direzione in materia di politiche ambientali (Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 2301 del 2020).
Tali pronunce si fondano sulla nozione di operatore di cui all’art. 2 comma 6, della direttiva sulla riparazione del danno ambientale, la quale è chiaramente collegata ad una attività, esercitata o controllata o anche alla titolarità di un potere economico però decisivo sul funzionamento tecnico dell’iniziativa13.
3.1. Rifiuti
Va poi dato conto dell’assetto vigente per quanto riguarda l’abusivo abbandono o deposito di rifiuti, in cui l’unico criterio esplicitamente previsto dal legislatore è quello della responsabilità per colpa (art. 192, comma 3, del codice dell’ambiente: “Fatta salva l’applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”).
In numerose pronunce dei giudici amministrativi si afferma esplicitamente che il requisito della colpa postulato dal d.lgs. n. 152/2006, art. 192, può consistere non solo in una condotta attiva imprudente ma anche nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi (Cass. civ., sez. III, 9 luglio 2020, n. 14612; Cons. Stato, sez. IV, n. 7592 del 2024). La responsabilità di cui all’art. 192, cit. può essere quindi commissiva (a carico dell’autore del fatto) o omissiva (a carico del proprietario o altro titolare di diritto reale o personale di godimento cui è ascrivibile l’omessa diligenza, derivante dal fatto di essersi disinteressato a lungo del bene, permettendo colposamente che esso potesse essere scelto dall’autore materiale come luogo di discarica di rifiuti). In alcuni casi è stata esplicitamente evocata la posizione di garanzia rivestita dal proprietario, in base alla quale è configurabile, anche a titolo di concorso, un illecito omissivo per violazione del dovere di impedire fatti idonei a ledere il bene protetto (Cons. Stato, sez. IV, 28 giugno 2022, n. 5384).
Sul piano penale, la giurisprudenza ha fatto osservare che il principio di tassatività delle fattispecie penali impone di considerare come presupposto di applicabilità delle norme che puniscono l’abbandono di rifiuti (nello specifico art. 256, comma 1, del codice dell’ambiente), non tanto un obbligo generico di attivarsi derivante da fonte giuridica (legale o contrattuale), quanto piuttosto un obbligo giuridico specifico di compiere proprio quella azione che sarebbe in grado di impedire l’evento di reato. In questo senso è stato affermato che sul proprietario in quanto tale non grava alcuna posizione di garanzia in ordine ai rifiuti, atteso che gli obblighi di corretta gestione e smaltimento dei rifiuti sono posti esclusivamente a carico dei produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi. La responsabilità omissiva sancita nell’art. 40 cpv. trova fondamento nel principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost., all’art. 41 Cost., comma 2, e all’art. 42 Cost., comma 2, ma contemporaneamente essa trova un limite in altri principi costituzionali e segnatamente nel principio di legalità della pena consacrato nell’art. 25, comma 2, il quale si articola nella riserva di legge statale e nella tassatività e determinatezza delle fattispecie incriminatrici. In ragione di questo limite la responsabilità omissiva in sede penale non può fondarsi su un dovere indeterminato o generico, anche se di rango costituzionale come quelli solidaristici o sociali di cui alle norme citate; ma presuppone necessariamente l’esistenza di obblighi giuridici specifici, posti a tutela del bene penalmente protetto (Cass. pen., sez. III, 9 dicembre 2013, n.49327; id, 28 marzo 2019, n.13606).
Ne consegue pertanto che la semplice inerzia, conseguente all'abbandono di rifiuti da parte di terzi o la consapevolezza, da parte del proprietario del fondo, di tale condotta da altri posta in essere, non sono idonee a configurare il reato di cui all’art. 256, comma 1, del codice ambiente (attività di gestione non autorizzata di rifiuti).
La responsabilità penale del proprietario di un terreno, sul quale viene svolta un’illecita gestione di rifiuti, è configurabile a condizione che sussista un contributo causale consapevolmente fornito all’attività effettuata da terzi, non essendo sufficiente la colpevole inerzia del proprietario stesso a fronte della collocazione di rifiuti.
Né rileva, per configurare un concorso nel reato [di abbandono dei rifiuti di cui all’art. 256, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006] la mancata attivazione per la rimozione dei rifiuti, posto che la responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento lesivo e tale obbligo non può essere ravvisato nella inottemperanza all'ordinanza di rimozione dei rifiuti, in quanto provvedimento successivo all’abbandono (Cass. pen., sez. III, sent., 28 marzo 2019, n. 13606). Analogamente il proprietario di un terreno non risponde, in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, atteso che detta responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell’evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Cass. pen., sez. III, 5 aprile 2017, n. 30333; 1 ottobre 2014, n. 40528).
Sempre la giurisprudenza penale ritiene peraltro che nel caso in cui il proprietario conceda, in tutto o in parte, a terzi beni immobili per l’esercizio di un'attività dalla quale scaturisca una produzione di rifiuti, detta attività deve ritenersi soggetta ad autorizzazione cosicché incombe sul proprietario l’obbligo, anche al fine di assicurare la funzione sociale riconosciuta dall'art. 42 Cost. al diritto di proprietà, di verificare che l’utilizzazione dell'immobile avvenga nel rispetto dei parametri legali, e, quindi, che il terzo, cui venga concesso in uso il bene, sia in possesso dell’autorizzazione necessaria per l’attività di gestione di rifiuti che su detto terreno venga esercitata e rispetti le prescrizioni in essa contenute. In questo caso, si è ritenuto sussistente l’obbligo, da parte del locatore di impedire l’uso illecito della cosa locata, allorché egli ne sia consapevole o possa esserne consapevole mediante l’ordinaria diligenza, in applicazione del disposto di cui all’art. 40 c.p., comma 2 (Cass. pen, sez. III, 4 aprile 2019, n.27911, in tema di gestione non autorizzata di rifiuti).
Il contenuto della “posizione di garanzia” in capo al proprietario, viene comunque declinato anche dal giudice amministrativo in maniera molto articolata.
Ad esempio, con specifico riferimento alla fattispecie di cui all’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, Cons. Stato, Sez. IV, 3 dicembre 2020, n. 7657, ha evidenziato che ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo in capo al proprietario,l’omessa recinzione del suolo inquinato non costituisce ex se un indice di negligenza. La recinzione è infatti una facoltà (ossia un agere licere) del dominus. A fortiori, la mancata implementazione di un sistema di video-sorveglianza, connotato da alti costi di acquisto e manutenzione, non rientra nell'onere di tutela della resesigibile dal proprietario. Analogamente, in caso di illecita occupazione del suolo da parte di terzi, la negligenza del proprietario (impossibilitato dall’ordinamento a rientrare in possesso del bene invito detentore — artt. 392 e 393 c.p.) non potrebbe desumersi dal solo fatto che lo stesso non abbia proposto azione di spoglio nei confronti degli abusivi.
Cons. Stato, n. 7439 del 2024 esclude invece che dalla stipulazione di un contratto di locazione possano farsi discendere specifici obblighi di custodia e vigilanza da parte del locatore. In questo caso, nell’ordinanza di rimozione impugnata era stato espressamente argomentato che la società proprietaria e locatrice del compendio in cui erano stati rivenuti i rifiuti, era da considerarsi comunque responsabile poiché “non è possibile escludere la responsabilità solidale del proprietario locatore per l'obbligo imposto al concedente/proprietario di verificare il corretto utilizzo dell'immobile concesso in locazione a terzi anche in relazione alla continuità dell'illecito e al danno specifico da inquinamento ambientale”. Tale prospettazione non è stata condivisa dal momento che gli obblighi che, nella prospettiva del giudice di primo grado discenderebbero dal contratto di locazione non trovano riscontro nell’ambito della disciplina civilistica dell’anzidetto contratto, che non impone alcun obbligo di vigilanza e controllo sull’attività che il conduttore svolge nell’immobile, ponendo siffatti obblighi esclusivamente “sullo stato di conservazione delle strutture edilizie e sull'efficienza degli impianti”, in considerazione della circostanza che il locatore conserva un “potere fisico” sull’entità immobiliare locata (cfr. Cass. civ., Sez. III, 27 luglio 2011, n. 16422). Diversamente opinando, secondo la IV Sezione, si configurerebbe non già una vigilanza sulla cosa, bensì un inammissibile controllo generalizzato sull’attività di terzi.
Nello stesso senso, sempre la IV Sezione (26 agosto 2024, n. 7236) ha escluso una responsabilità indiretta di una società che aveva stipulato un contratto di leasing con il proprietario del compendio per aver sublocato il bene a diversi operatori economici senza effettuare verifiche sulla correttezza professionale degli operatori economici che si erano succeduti nella gestione dell'attività di trattamento dei rifiuti. In questo caso è stato affermato che non costituisce condotta esigibile da parte della società quella di verificare la liceità dell’attività d’impresa posta in essere da parte dell’operatore economico cui era stato affidato il bene oggetto del contratto di locazione (o sub - locazione), spettando tale compito agli Enti istituzionalmente preposti al controllo sulla gestione delle attività autorizzate o alla salvaguardia dell'ambiente. Nel caso di specie, i diversi operatori che si erano succeduti avevano espletato l’attività di trattamento di rifiuti sulla base dei titoli autorizzatori rilasciati dalla Provincia; la Sezione ha pertanto ritenuto, in relazione ai titoli abilitativi rilasciati, che la società appellata avesse confidato in buona fede sulla corretta gestione del sito.
Questa pronuncia è interessante perché l’Amministrazione aveva sostenuto che “Affermare, infatti, che non vi è una responsabilità di posizione (quanto meno per omessa vigilanza sulla concreta utilizzazione del bene) in capo al proprietario e ai titolari di diritti reali o personali di godimento dell'area inquinata equivarrebbe a svuotare, dall'interno il principio affermato dalla giurisprudenza amministrativa e dall'ordinamento dell'Unione Europea”. Il giudice ha però rilevato che “il proprietario (come pure il conduttore) dell'area non aveva il potere e neppure le competenze per verificare l'osservanza delle procedure prescritte dall’ordinamento giuridico per la corretta gestione dei rifiuti, tanto più che l'attività in questione è stata svolta sulla base di atti amministrativi formalmente adottati dalla Amministrazione provinciale”. In questo senso, è stato richiamato il principio della presunzione di legittimità degli atti amministrativi, che ne attesta la validità fino alla loro rimozione dal mondo giuridico mediante i tipici strumenti previsti dal sistema, ovvero l’annullamento in via giudiziaria, giustiziale, in autotutela espressa oppure, nei soli casi consentiti, straordinaria da parte dell’autorità competente.
Viceversa, è stato ritenuto (con specifico riferimento all’abbandono di rifiuti che abbiano inquinato il terreno) che anche il proprietario del terreno risponda della bonifica effettuata sul suolo di sua proprietà solidalmente con colui che ha concretamente determinato il danno, ovviamente a titolo di dolo (qualora, ad esempio, abbia celato i rifiuti) ma anche a titolo di colpa, nell’ipotesi in cui non abbia approntato l’adozione delle cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà, ovvero non abbia denunciato, dopo esserne venuto a conoscenza, il fatto alle autorità; in definitiva, per la posizione di garanzia rivestita dal proprietario, sarebbe configurabile, anche a titolo di concorso, un illecito omissivo per violazione del dovere di impedire fatti idonei a ledere il bene protetto (Consiglio di Stato sez. IV, n.5384 del 2022, cit.; nello stesso senso vedi pure sez. IV, sentenza n. 5694 del 2024).
In alcuni casi, il parametro della diligenza esigibile dal proprietario, scaturisce dall’applicazione di specifiche disposizioni normative.
Ad esempio, in tema di manutenzione delle strade, l’art. 14, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 285/1992, secondo il quale gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono "alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo” integra una previsione normativa chiara nell’incentrare sul gestore del servizio stradale tutte le competenze relative alla corretta manutenzione, pulizia e gestione del tratto stradale, con le annesse pertinenze, potendo costituire pertanto il parametro normativo per l'individuazione del profilo della colpa ai fini dell'art. 192 del d.lgs. n. 151/2006 (Cons. giust. amm., 23 febbraio 2024, n. 146).
Nell’ambito di questo articolato panorama giurisprudenzale si inserisce – in quanto foriera di ulteriori e ancora non definiti sviluppi - la sentenza n. 3 del 26 gennaio 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato secondo la quale “ricade sulla curatela fallimentare l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all'art. 192 d. lgs. n. 152-2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare”.
L'Adunanza plenaria ha anzitutto escluso la sussistenza di qualsivoglia fenomeno successorio tra il fallito e la curatela del fallimento. Il curatore non può qualificarsi come avente causa del fallito nel trattamento dei rifiuti, salvo ovviamente il caso in cui lo stesso curatore abbia concorso, con la propria gestione, alla produzione del rifiuto; non essendovi subentro nelle posizioni giuridiche soggettive dell’azienda fallita non trovano nemmeno applicazione i principi sanciti dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria 10/2019. Il Consiglio ha tuttavia concluso che “la presenza di rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione di fallimento (...) comportino la legittimazione passiva dell'ordine di rimozione”. All’origine della responsabilità vi è specificamente la detenzione del bene immobile inquinato su cui i rifiuti insistono. Secondo l’Adunanza plenaria il rilievo centrale che nel diritto europeo assume la detenzione dei rifiuti risultanti dall’attività produttiva pregressa, a garanzia del principio “chi inquina paga” è coerente con la sopportazione del peso economico della messa in sicurezza e dello smaltimento da parte dell’attivo fallimentare dell’impresa che li ha prodotti. È quindi imputabile al fallimento l’obbligo di porre in essere le attività strumentali alla bonifica. La responsabilità in tal caso, non rinviene la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì in quello della detenzione o del possesso (corrispondenti, rispettivamente, al contenuto di un diritto personale o reale di godimento) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto, dal momento che grava su colui che è in relazione con la cosa l’obbligo di attivarsi per fare in modo che la cosa medesima non rappresenti più un danno o un pericolo di danno (o anche di aggravamento di un danno già prodotto). La responsabilità in questione sarebbe pur sempre ascrivibile secondo i canoni classici della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole: la personalità e la rimproverabilità dell’illecito risiedono nel comportamento del soggetto che volontariamente sceglie di sottrarsi o, il che è lo stesso, di non attivarsi anche per mera negligenza, per ripristinare l’ambiente (in tal senso Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2021, n. 4145)14.
3.2. Il proprietario non responsabile dell’inquinamento “alla luce della natura interamente speciale propria del Codice dell’ambiente”.
Come detto la responsabilità del proprietario non direttamente autore materiale dell’inquinamento è stata inizialmente ricondotta agli schemi di cui agli artt. 2050 e 2051 cod. civ., rispettivamente in tema di responsabilità per l’esercizio di attività pericolose e danno cagionato da cosa in custodia. Nel 2023, però, le Sezioni Unite della Cassazione hanno escluso l’applicazione di tali schemi risarcitori in tema di responsabilità del proprietario non responsabile dell’inquinamento alla luce della natura interamente speciale propria del codice dell’ambiente (Cass. civ., Sez. Un., 1° febbraio 2023, n. 3077).
Le Sezioni Unite spiegano che dopo l’introduzione della direttiva 2004/35/CE si è di fronte ad un corpo normativo appositamente dedicato alla tutela dell’illecito ecologico, ormai slegato dal sistema regolativo dell’illecito civile ordinario di cui agli artt. 2043 e ss. cod. civ. Ne discende l’insussistenza di una comunanza operativa fra il regime di responsabilità per danno ambientale di cui alla Parte VI del codice dell’ambiente e quello per cose in custodia di cui all’art. 2051 cod. civ., mentre la nozione di attività pericolosa dell’art. 2050 cod. civ. appare piuttosto trasfigurata nel codice dell’ambiente, per altri fini, nella nozione di attività professionale di cui all’art. 298- bis15.
Da un’attenta analisi del quadro normativo e della giurisprudenza europea e nazionale, la Suprema Corte giunge dunque alla conclusione secondo cui “ va esclusa una indicazione comunitaria alla riparazione del danno […] a carico di chi non abbia svolto l’attività professionale di operatore, bensì venga chiamato a rispondervi nella veste di titolare di diritti dominicali o addirittura, come nel caso, con nesso eziologico escluso dallo stesso giudice dell’accertata condotta, non potendo la mera enunciazione di indizi di posizione, per un’attività non classificata dallo stesso d.lgs. n. 152 del 2006 a rischio d’inquinamento, sostituire di per sé la prova del predetto necessario nesso causale ” (par. 16 della sentenza). L’obbligo di adottare le misure idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento è a carico di colui che di essa sia responsabile per avervi dato causa, in base al principio “chi inquina paga”; pertanto, l’obbligo di eseguire le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica non può essere imposto al proprietario del sito contaminato incolpevole dell'inquinamento, perché gli effetti a suo carico restano limitati a quanto previsto dall'art. 253 d.lgs. n. 152 del 2006 con riguardo a oneri reali e privilegi speciali immobiliari per il rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente e nei limiti del valore di mercato del sito determinato dopo l'esecuzione degli interventi stessi.
Tale orientamento è stato successivamente condiviso anche dalla Sezione IV del Consiglio di Stato (sentenze n. 6957 del 17 luglio 2023 e 10962 del 18 dicembre 2023) attraverso la rimeditazione della precedente impostazione secondo cui essendo la messa in sicurezza di emergenza una misura connotata da esigenze di somma urgenza finalizzata a prevenire il danno ambientale anche in relazione al suo possibile aggravamento, sarebbe possibile imporla al proprietario non responsabile, e quindi prescindendo dalla prova del contributo causale del soggetto obbligato.
Infatti tale orientamento si pone in contrasto con i principi affermati dalla Corte di giustizia secondo cui, conformemente al principio “chi inquina paga”, l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento (cfr. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, del 9 marzo 2010, in causa C-378/08 e la successiva decisione della stessa Corte, Sez. III, del 4 marzo 2015, causa C-534/13).
In questa direzione, peraltro, si era già espressa anche l’Adunanza plenaria (Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza, 25 settembre 2013, n. 21, cit.).
Nello specifico, secondo la richiamata pronuncia, dall’analisi delle disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV del decreto legislativo n. 152 del 2006 (articoli da 239 a 253) si evince che:
1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”;
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall’Amministrazione competente (art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).
La disciplina dettata dall’art. 253, del d.lgs. n. 152/2006 esclude la piena responsabilità del proprietario di una determinata area inquinata in relazione alla necessità di farsi carico dei correlati oneri di bonifica nei casi di insussistenza di un nesso causale e dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa.
Questa impostazione è peraltro frutto di una deliberata opzione del legislatore nazionale, non rivenendosi una tale limitazione nella direttiva 2004/35/CE, la quale – ferma restando la regola generale posta dagli artt. 4, par. 5, e 11, par. 2, in combinato disposto con il considerando 13 della stessa, sulla necessità di accertare la sussistenza di un nesso causale tra l’azione di uno o più operatori individuabili e il danno ambientale concreto e quantificabile al fine dell’imposizione a tale operatore o a tali operatori di misure di riparazione - all’art. 16, par. 1, prevede che “La presente direttiva non preclude agli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, comprese l’individuazione di altre attività da assoggettare agli obblighi di prevenzione e di riparazione previsti dalla presente direttiva e l’individuazione di altri soggetti responsabili”.
A tal riguardo, la Corte di Giustizia, con la sentenza 13 luglio 2017 (C-129/16, Ungheria c. Commissione europea), nel valutare la compatibilità delle norme vigenti nell’ordinamento ungherese, basate sul principio della responsabilità oggettiva, in via solidale, del proprietario dell’area, anche in assenza di un nesso causale tra la sua condotta e il danno verificatosi, ha chiarito che l’art. 16, Dir. 2004/35/CE e l’art. 193 TFUE debbano essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che identifica oltre agli utilizzatori dei fondi di cui è stato generato l’inquinamento illecito un’altra categoria di persone solidamente responsabili di un tale danno ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che occorra accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei proprietari e il danno constatato.
La suddetta decisione si pone sostanzialmente in linea con la precedente sentenza 4 marzo 2015, causa C-534/13, cit. Anche in tale decisione la Corte di Giustizia aveva sottolineato che l’art. 16, Dir. 2004/35/ CE prevede, conformemente all’art. 193 TFUE, la facoltà per gli Stati membri di mantenere e adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, compresa, in particolare, l’individuazione di altri soggetti responsabili, a condizione che tali misure siano compatibili con i Trattati, precisando (punto 40) che, dal momento che l’art. 191, par. 2, TFUE - che contiene il principio “chi inquina paga” - è rivolto all’azione dell’Unione, detta disposizione non può essere invocata in quanto tale dai privati al fine di escludere l’applicazione di una normativa nazionale emanata in una materia rientrante nella politica ambientale, quando non sia applicabile nessuna normativa dell’Unione adottata in base all’art. 192 TFUE che disciplini specificamente una determinata ipotesi; e che parimenti (punto 41), l’art. 191, par. 2, TFUE non può essere invocato dalle autorità competenti in materia ambientale per imporre misure di prevenzione e riparazione in assenza di un fondamento giuridico nazionale.
Dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia si ricava quindi il principio che ciascuno Stato membro può prevedere l’introduzione di misure di protezione rafforzata, che devono, da un lato, tendere alla realizzazione dello scopo della direttiva 2004/35 quale definito dal suo art. 1, ossia prevenire e riparare i danni ambientali, e, dall’altro, comunque rispettare il diritto dell’Unione, fermo restando il rispetto dei principi generali del medesimo, tra cui figura il principio di proporzionalità, da ritenersi osservato anche nelle ipotesi in cui la responsabilità solidale del proprietario di un sito sia prevista a prescindere dall’accertamento della sussistenza di un nesso di causalità tra la sua condotta e il danno ambientale.
In parallelo alla Dir. 2004/35/CE, la successiva Dir. 2008/98/ CE, relativa ai rifiuti, all’art. 14, par 1, in applicazione del principio del “chi inquina paga”, ha previsto che i costi della gestione debbano essere posti a carico del produttore iniziale o del detentore del momento o del detentore precedente dei rifiuti. In particolare, con il termine “detentore”, tale direttiva individua il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne sia in possesso, prescinde dall’elemento soggettivo e ripartisce gli obblighi di bonifica in ragione della produzione del danno ovvero della semplice detenzione del rifiuto.
In questo contesto, il legislatore italiano, a differenza di altri Stati dell’UE, non ha optato, come avrebbe potuto ai sensi dell’art. 16 della Dir. 2004/35, per un sistema basato sulla piena responsabilità solidale oggettiva del proprietario o del gestore del sito non responsabile della contaminazione16.
Ai sensi degli artt. 244, 245 e 253, d.lgs. n. 152/2006, la responsabilità oggettiva solidale del proprietario in relazione all’adozione di misure di prevenzione e di bonifica del sito, anche a prescindere dalla sussistenza del nesso di causalità, è stata prevista dal legislatore italiano soltanto sul piano patrimoniale, nei limiti del valore di mercato del sito determinato dopo l’esecuzione di tali interventi.
Inoltre, la possibilità di rivalsa nei confronti del responsabile dell’inquinamento è espressamente prevista soltanto nell’ipotesi in cui il proprietario non responsabile dell’inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato.
Le oscillazioni della giurisprudenza amministrativa, in precedenza evidenziate, sulle responsabilità del proprietario del sito, non autore dell’inquinamento, sono un riflesso dei dubbi sulla piena idoneità dell’attuale contesto normativo, nella sua attuale formulazione, a garantire un’adeguata tutela del bene giuridico ambiente che di fatto, in taluni casi, conduce a scaricare sulla collettività i costi ambientali dell’attività di impresa.
Al riguardo, la Corte di Cassazione nella sentenza n. 3077 del 2023 mette tuttavia in rilievo che un quadro “vago” circa l’accertamento di quali siano gli obblighi di bonifica stabiliti per legge o per ordine dei giudici e delle amministrazioni costituisce circostanza ostativa ad un corretto funzionamento circolare del sistema delle tutele ambientali, posto che esso è oggi presidiato altresì penalmente, con l. 22 maggio 2015, n. 68 e tra i reati mediante la fattispecie di omessa bonifica; secondo l’art. 452- terdecies c.p. la punizione, salvo che il fatto costituisca più grave reato, concerne la condotta di chiunque, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un'autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi; ne discende come “una puntuale definizione degli obblighi da attribuire al responsabile della contaminazione e, rispettivamente, al proprietario incolpevole, agevoli il percorso ricognitivo, con le distinte responsabilità, altresì di un assetto dell’intera materia meglio e doverosamente predicibile”.
È stato osservato 17 che l’approdo esegetico delle Sezioni unite della Corte di cassazione si mostra in parziale o quantomeno potenziale contrasto con l’orientamento espresso da Cons. Stato, Ad. plen., 22 ottobre 2019, n. 10, secondo cui “La bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento”. L’Adunanza plenaria ha affermato che il danno all’ambiente è inquadrabile nella fattispecie generale di illecito civile ex art. 2043 cod. civ. e che la sua natura di illecito permanente consente di ritenere il relativo responsabile soggetto agli obblighi, risarcitori ed in primis di reintegrazione o ripristino dello stato dei luoghi, da esso derivanti. In questo senso, “le norme in materia di obblighi di bonifica non sanzionano ora per allora, la (risalente) condotta di inquinamento, ma pongono attuale rimedio alla (perdurante) condizione di contaminazione dei luoghi”. Diversamente la Cassazione civile ha fatto rilevare che dopo l’introduzione della direttiva n. 2004/35/CE, la normativa dedicata alla tutela dell’illecito ecologico è ormai slegata dal sistema regolativo dell'illecito civile ordinario di cui agli artt. 2043 ss. c.c.18.
La pronuncia del 2023 della Cassazione riguarda specificamente la materia delle bonifiche e della riparazione del danno ambientale e ad essa si è in parte adeguata anche la giurisprudenza amministrativa, come in precedenza ricordato.
Tuttavia, la decisione dell’Adunanza plenaria n. 3 del 2021, in materia di obbligo di rimozione dei rifiuti da parte della curatela fallimentare - sebbene adottata in ordine ad una fattispecie particolare – ha stabilito principi che si sono rivelati suscettibili di applicazione più estesa e, potenzialmente, contrastante con i precedenti approdi del 2013 della stessa Adunanza plenaria, nonché con quelli successivi delle Sezioni unite civili della Cassazione.
Ad esempio, la Sezione IV del Consiglio di Stato, con sentenza n. 7592 del 2024 ha riconosciuto l’esistenza dell’obbligo di eseguire la bonifica anche in capo alla curatela dell’Azienda fallita che sia stata individuata come responsabile dell’inquinamento. In tal senso la Sezione è partita appunto dai principi affermati dalla Plenaria in ordine all’esistenza dell’obbligo di rimuovere i rifiuti abbandonati in loco da un’impresa successivamente fallita in capo alla curatela fallimentare. Nel caso in esame è stato accertato che lo stabilimento dell’azienda inquinatrice rientrava a pieno titolo tra i beni acquisiti dal curatore al momento della sentenza dichiarativa del fallimento. Inoltre, è stato ritenuto irrilevante che l’azienda poi fallita non avesse svolto le attività (di cromatura, nichelatura e verniciatura) alle quali l’inquinamento era riconducibile perché a fondare la sua responsabilità è stata considerata sufficiente la semplice presenza in loco del materiale inquinante, contenuto e stoccato nelle vasche galvaniche, dalle quali era fuoriuscito. La sentenza pertanto assimila la fattispecie nella quale si registra una diretta responsabilità del proprietario a quella nella quale al proprietario viene contestato un omesso controllo sul proprio bene utilizzato nel ciclo d’impresa. Al riguardo è stata richiamata la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione civile, in ordine alla responsabilità omissiva del proprietario nell’abbandono dei rifiuti (sentenza n. 14612/2020, cit.).
La Sezione VI ha poi effettuato una ulteriore estensione dei principi dell’Adunanza plenaria n. 3 del 2021 (sentenza n. 4298 del 2024), con riferimento alla fattispecie del trasferimento di un bene a seguito dell’espletamento di un’asta giudiziaria nell’ambito di una procedura fallimentare. Secondo tale pronuncia i costi da sostenere per porre rimedio alle “esternalità negative” di produzione (sanitarie, ambientali, di pubblica incolumità, etc.) devono ricadere su chi acquista con piena coscienza dell’inquinamento e con preciso comando giudiziale; diversamente opinando, quei costi ricadrebbero sulla collettività incolpevole. In questo caso, è stato valorizzato il fatto che partecipando all’asta giudiziaria, la società cessionaria fosse a conoscenza di tutte le circostanze in ordine all’inquinamento del sito e dei rispettivi obblighi di bonifica, che sicuramente erano stati considerati anche nella stima del prezzo del bene.
Ed ancora, secondo Cons. Stato, sez. III, 29 aprile 2024, n. 3897, la responsabilità per la M.I.S.E. si ricollega alla mera qualità di gestore del sito e prescinde da una prova della responsabilità di questi nel causare l’inquinamento, dato che si tratta non di una misura sanzionatoria, ma di una misura di prevenzione dei danni, imposta dal principio di precauzione e dal correlato principio dell’azione preventiva; essa quindi grava sul proprietario o detentore del sito, da cui possano scaturire i danni all’ambiente, solo perché egli è tale.
Nei casi citati, evidentemente, il principio “chi inquina paga” recede a fronte di un diverso criterio di imputazione della responsabilità, confermando la sussistenza di un assetto applicativo e giurisprudenziale ancora in piena evoluzione.
4. L’intreccio tra tutela penale e amministrativa nella disciplina delle bonifiche e della riparazione del danno ambientale .
4.1. Comunicazione dell’evento.
L’ iter procedimentale in materia di bonifiche è scandito da una prima fase, che ha inizio al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare un sito. In questa fase, il responsabile dell’inquinamento deve mettere in opera, entro 24 ore, le necessarie misure di prevenzione e deve darne immediata comunicazione alle amministrazioni competenti, indicate dall’art. 304, comma 2, in tema di danno ambientale, che sono il Comune, la Provincia e la Regione (o la Provincia autonoma) nel cui territorio si è verificato l’evento lesivo, nonché il Prefetto. La comunicazione in esame è condizione di abilitazione alla realizzazione delle misure di prevenzione e la sua omissione da parte del soggetto responsabile è sanzionata penalmente (art. 257, comma 1, ultima parte). Si tratta di un reato omissivo proprio.
Il reato di mancata comunicazione agli enti preposti, prevista in caso di imminente minaccia di danno ambientale ai sensi degli artt. 242 e 257 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, è ascrivibile al responsabile dell’evento potenzialmente inquinante e non a colui che, essendo proprietario del terreno, non lo abbia cagionato (Cass. pen., Sez. III, Sentenza, 20 novembre 2019, n. 2686).
Questo primo momento procedimentale è necessariamente rimesso alla volontà del responsabile dell’inquinamento perché nell’immediatezza del verificarsi dell’evento potenzialmente lesivo egli è l’unico soggetto che certamente ne è a conoscenza19.
4.2. Indagini preliminari, messa in sicurezza, caratterizzazione, bonifica.
Nella successiva fase procedimentale intervengono le amministrazioni competenti chiamate a controllare e verificare l’attività del soggetto responsabile. L’art. 242 prevede, infatti, che il responsabile dell’inquinamento, dopo aver attuato le necessarie misure di prevenzione, svolga, nelle zone interessate dalla contaminazione, un’indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione non sia stato superato, provveda al ripristino della zona contaminata, dandone notizia, con apposita autocertificazione, al Comune ed alla Provincia competenti per territorio entro 48 ore. Tale attività di autocertificazione chiude il procedimento ed è sottoposta alla verifica e al controllo degli enti locali competenti entro il ristretto termine di 15 giorni.
Qualora il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione risulti invece superato, il responsabile dell'inquinamento deve immediatamente informare il Comune e la Provincia competente con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate. Le fasi successive della procedura di bonifica devono essere approvate dalla Regione.
Il responsabile della contaminazione deve, in 30 giorni, presentare il piano di caratterizzazione al Comune e alla Provincia, nonché alla Regione territorialmente competente. Si tratta di un’attività conoscitiva diretta a ricostruire lo stato ambientale del sito e a predisporre la base informativa per le fasi successive. La Regione convoca la conferenza di servizi e «autorizza il piano di caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative».
Sulla base delle risultanze della caratterizzazione, al sito è applicata la procedura di analisi del rischio per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio. Se sono superate le soglie di concentrazione di rischio, il soggetto responsabile sottopone alla Regione, nei sei mesi successivi all’approvazione del documento di analisi di rischio, il progetto degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, le ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale. La Regione, acquisito il parere del Comune e della Provincia interessati mediante apposita conferenza di servizi e sentito il soggetto responsabile «approva il progetto, con eventuali prescrizioni ed integrazioni entro sessanta giorni dal suo ricevimento».
L’inosservanza degli obblighi di eseguire gli interventi di bonifica è sanzionato dal codice penale, ove è stato introdotto dalla legge 22 maggio 2015, n. 68 il reato di omessa bonifica (art. 452 terdecies cod. pen.:“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un'autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 20.000 a euro 80.000”).
Gli artt. 452- terdecies cod. pen. e 255, comma 3, d.lgs. n. 152/2006 20 contengono disposizioni ispirate alla medesima ratio, tesa a sanzionare comportamenti omissivi tenuti in presenza di (e nonostante) un obbligo di natura pubblicistica di segno positivo, avente ad oggetto attività di recupero e di ripristino e, nel solo caso del delitto, anche di bonifica, a fronte di precedenti comportamenti lesivi - o potenzialmente lesivi - del bene tutelato, quale l'integrità dell'ambiente. Pertanto, la distinzione tra il delitto di omessa bonifica (art. 452-terdecies cod. pen.) e la contravvenzione di cui all’art. 255, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006 risiede nella natura della condotta presupposta: il delitto richiede un evento potenzialmente inquinante, mentre la contravvenzione si basa sul mero abbandono di rifiuti senza tale caratteristica. Quando un'ordinanza sindacale impone il ripristino dello stato dei luoghi senza richiedere esplicitamente la bonifica, la mancata ottemperanza è qualificabile ai sensi dell’art. 255, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006 e non come delitto ex art. 452- terdecies cod. pen. (Cass. pen., Sez. III, 29 maggio 2024, n. 32117).
L’art. 257 del codice dell’ambiente “salvo che il fatto costituisca più grave reato” sanziona penalmente il soggetto che “ cagiona l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio [...] se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti ”.
Il reato è configurabile non solo nel caso in cui il soggetto obbligato non vi provveda in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell'ambito del procedimento di cui all'art. 242 e ss. del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ma anche in quello in cui impedisca la stessa formazione del progetto di bonifica e, quindi, la sua realizzazione, non attuando il piano di caratterizzazione necessario per la predisposizione del piano di bonifica (Cass. pen., Sez. III, 15 novembre 2018, n. 17813).
La giurisprudenza penale ha osservato che non si tratta di una non consentita interpretazione estensiva in malam partem né di un’applicazione analogica della norma penale incriminatrice, bensì “ dell’unica interpretazione sistematica atta a rendere il sistema razionale e non in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.. Invero[...] sarebbe manifestamente irrazionale una disciplina che prevedesse la punizione di un soggetto che dà esecuzione al piano di caratterizzazione ma poi omette di eseguire il conseguente progetto di bonifica ed invece esonerasse da pena il soggetto che addirittura omette anche di adempiere al piano di caratterizzazione così ostacolando ed impedendo la stessa formazione del progetto di bonifica ” (Cass. pen., Sez. III, n. 35774 del 2 luglio 2010).
La struttura del reato (contravvenzionale) richiede, quale indefettibile presupposto, la sussistenza dell’evento di danno dell’inquinamento, la cui configurazione implica l’accertato superamento (attraverso la complessa procedura stabilita dall’art. 242 del codice dell’ambiente) della concentrazione soglia di rischio (CSR). Si tratta, secondo talune pronunce della Suprema Corte di Cassazione, di un reato di evento a condotta libera o di un reato causale puro, nel quale l’evento incriminato è l’inquinamento, cagionato da una qualsiasi condotta dolosa o colposa, la cui punizione è però subordinata all’omessa bonifica (configurata come condizione obiettiva di punibilità a contenuto negativo). Al riguardo, una valutazione costituzionalmente orientata impone che sia l’inquinamento nel senso anzidetto, sia l’omessa bonifica, quale condizione intrinseca o impropria di punibilità, siano coperti dal principio di colpevolezza penale desumibile dall’art. 27, comma, 1 della Carta fondamentale (Cass. III, n. 9794 del 29 novembre 2006; id., n. 26479 del 14 marzo 2007).
Secondo altro orientamento, invece, è configurabile un reato omissivo di pericolo che si consuma ove il soggetto, a fronte della situazione d’inquinamento, inquadrata tra i presupposti di fatto del reato, non proceda all’adempimento dell’obbligo di bonifica secondo le cadenze procedimentalizzate. In tal caso, l’interesse pubblico alla riparazione diviene esso stesso bene giuridico protetto (cfr., con riferimento all’art. 51 bis del d.lgs. n. 22 del 1997, Cass. pen. Sez. III, n. 1783 del 28 aprile 2000).
Sia l’art. 257 del codice dell’ambiente che l’art. 452 – terdecies configurano illeciti a carattere sussidiario, destinati a trovare applicazione ove non sia configurabile un reato più grave (quali ad esempio le fattispecie di inquinamento ambientale o di disastro ambientale ex artt. 452 bis e 452 quater c.p.).
Quanto alla differenza strutturale tra le due fattispecie di reato nella Relazione n. III/04/2015 del settore penale dell’ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, si è sottolineato che non si corrono rischi di sovrapposizione. L’introduzione della clausola di riserva nell’art. 257 “Salvo che il fatto costituisca più grave reato”, fa in modo infatti che essa possa operare solo nelle ipotesi di un superamento delle soglie di rischio che non abbia raggiunto (quanto meno) gli estremi dell’inquinamento, ossia che non abbia cagionato una compromissione o un deterioramento significativo e misurabile dei beni (acque, aria, etc.) elencati indicati dall’art. 452-bis.
Come detto, il delitto di cui all’art. 452 terdeciesc.p. ha natura eminentemente formale punendo una condotta omissiva che si sostanzia nell’inosservanza dell’obbligo di bonifica, ripristino o recupero dello stato dei luoghi. Trattandosi di reato omissivo puro, che non richiede per il suo perfezionamento il verificarsi di alcun evento naturalistico, il fuoco della nuova fattispecie si appunta sull’accertamento della sussistenza in capo al soggetto attivo dell’obbligo sanzionato. Detto obbligo può scaturire, per espressa previsione dell’art. 452 terdecies c.p., dalla “legge”, dall’“ordine del giudice” ex art. 452 duodecies o di “un’autorità pubblica”. Si tratta di una norma di chiusura pensata per rafforzare il complessivo livello afflittivo del sistema e garantire effettività agli ordini di reintegro, bonifica, riparazione del danno sparsi nella legislazione vigente, qualunque ne sia la matrice (giudiziaria, legislativa o amministrativa)21.
Da un punto di vista squisitamente formale può dunque rivestire la qualità di soggetto attivo del reato anche chi non si sia reso responsabile dell’inquinamento ma sia comunque legalmente tenuto a provvedere alla bonifica.
Relativamente all’obbligo scaturente dall’ordine di un’autorità pubblica, il giudice penale ha anche il potere-dovere di valutare incidenter tantum la legittimità dell’ordinanza che dispone la bonifica disponendo se del caso la disapplicazione del provvedimento (disapplicazione in bonam partem , conformemente a quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 4 e 5 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo, L. 20-3-1865 n. 2248, Legge sul contenzioso amministrativo - All. E)22.
Si è osservato che questo sindacato dovrà investire non solo e non tanto i profili procedimentali a monte ma, soprattutto, l’ an della sussistenza della responsabilità del destinatario rispetto al fatto di inquinamento. Si pone però il problema della modalità di accertamento del nesso eziologico. Stante la natura formale dell’incriminazione, il giudice penale dovrebbe limitarsi ad apprezzare la legittimità dell’ordine di bonifica facendo a tal fine applicazione delle regole proprie dell’ordinamento amministrativo e, quindi, come insegnato dalla giurisprudenza amministrativa, della regola del “più probabile che non”23.
La causazione del fatto di inquinamento viene in rilievo quale presupposto per l’adozione del provvedimento amministrativo che impone la bonifica e la semplice inosservanza di quest’ordine vale ad integrare l’illecito penale. La causazione del fatto di inquinamento non assurge ad elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice con la conseguenza che per la sua imputazione non si deve fare ricorso ai criteri e parametri propri della scienza penalistica.
Si è già detto che, invece, il proprietario incolpevole non è tenuto ad una prestazione di facere, ossia di realizzazione degli interventi di bonifica (di cui è gravato solo il responsabile), ma solamente a garantire, nei limiti del valore del fondo, il pagamento delle spese sostenute dall’amministrazione che abbia eseguito direttamente questi interventi. Questo obbligo di pagamento trova giustificazione nel vantaggio economico che il proprietario stesso ricava dalla bonifica dell’area inquinata e che è garantito, in favore dell’amministrazione, da un onere reale e un privilegio speciale immobiliare (art. 253 del codice dell’ambiente). Ciò non esclude che il proprietario dell’area, o altro soggetto interessato, che non abbia dato causa alla contaminazione, possa eseguire volontariamente gli interventi di bonifica e risanamento ai sensi dell’art. 245 del codice dell’ambiente, al fine di mantenere l’aria libera da pesi e vincoli, che vi gravano sub specie di onere reale e di privilegio speciale immobiliare ovvero, più in generale, di tutelarsi contro una situazione di incertezza giuridica, prevenendo eventuali responsabilità penali o risarcitorie24.
L’assunzione volontaria dell'obbligo di caratterizzazione o di bonifica da parte dell’interessato proprietario impone allo stesso di portare a termine tale incombenza, essendogli poi consentito di rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese sostenute. Secondo un recente arresto del giudice amministrativo, l’intervento spontaneo del proprietario non responsabile dell’inquinamento è riconducibile alla figura della gestione d’affari non rappresentativa (Sez. IV, sentenza n. 1110 del 2024)25.
Da un punto di vista penale, dovrebbe comunque escludersi che il proprietario non responsabile che abbia assunto spontaneamente l’onere di bonifica possa incorrere, qualora non la porti a compimento, nel delitto di omessa bonifica di cui all’art. 452 – terdecies del codice penale. Tale norma presuppone infatti che l’obbligo scaturisca dalla legge, da un ordine del giudice, ovvero da un’autorità pubblica.
L’intervento spontaneo del proprietario non esclude peraltro né il potere/dovere dell’amministrazione di individuare il responsabile dell'inquinamento, né il dovere di quest'ultimo di porre rimedio all’inquinamento (Cons. Stato, 26 luglio 2021, n. 5542).
5. L’accertamento del nesso causale nel giudizio penale e in quello amministrativo.
L’individuazione del responsabile dell’inquinamento assume un duplice rilievo: da un lato quello di orientare l’azione amministrativa nell’assunzione delle iniziative di propria competenza (dall’emanazione dell’ordinanza ex art. 244 del codice, fino all’attivazione della bonifica officiosa in caso di inosservanza delle misure disposte); dall’altro quello della perimetrazione soggettiva delle fattispecie incriminatrici26.
Si è già ricordato che con la sentenza del 4 marzo 2015 la Corte di Giustizia ha evidenziato come, ferma la facoltà degli Stati membri di mantenere ed adottare disposizioni più severe, la responsabilità ambientale non possa prescindere, nell’interpretazione sistematica delle previsioni della Dir. 2004/35/CE, quantomeno dall’accertamento del nesso causale tra l’evento di danno e la condotta dell’operatore (Corte di Giustizia UE, Sez. III, 4 marzo 2015, causa C-534/ 13)
Secondo la Corte (par. 54) “affinché il regime di responsabilità ambientale sia efficace, è necessario che sia accertato dall’autorità competente un nesso causale tra l’azione di uno o più operatori individuabili e il danno ambientale concreto e quantificabile al fine dell’imposizione a tale operatore o a tali operatori di misure di riparazione, a prescindere dal tipo di inquinamento di cui trattasi”.
La Corte ha aggiunto (par. 56) che al presupposto minimo della riferibilità eziologica del danno deve accompagnarsi, per tutti gli operatori diversi da quelli che esercitano le attività di cui all’all. III della Direttiva, anche l’elemento soggettivo del dolo o della colpa.
Il giudice penale e il giudice amministrativo hanno un diverso approccio rispetto all’accertamento del nesso eziologico tra la condotta attiva o omissiva del soggetto responsabile e il danno ambientale.
Ai fini dell’individuazione del responsabile dell’inquinamento la giurisprudenza amministrativa, sulla scorta delle indicazioni derivanti dalla Corte di Giustizia, ha escluso l’applicabilità di una impostazione “penalistica” (incentrata sul superamento della soglia del “ragionevole dubbio”), trovando invece applicazione, ai fini dell’accertamento della sussistenza del nesso di causalità tra attività svolta nell’area ed inquinamento della stessa, il canone civilistico del “più probabile che non”. Esso richiede di verificare che il nesso eziologico ipotizzato dall’amministrazione sia più probabile della sua negazione, secondo l’id quod plerumque accidit , ovvero che la probabilità sia superiore al 50%.
La Corte di Giustizia, nell’interpretare il principio “chi inquina paga”, ha fornito una nozione di causa in termini di aumento del rischio, ovvero come contribuzione da parte del produttore al rischio del verificarsi dell’inquinamento.
L’esistenza del nesso di causalità può essere presunta dall’autorità competente, purché essa disponga di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla presunzione stessa, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività (Corte giust. UE, 9 marzo 2010, in causa procedimento C-378/08, par. 57).
La prova del nesso causale può quindi essere data in via diretta o indiretta; l’amministrazione pubblica preposta alla tutela ambientale può avvalersi anche di presunzioni semplici di cui all’art. 2727 c.c., purché vi siano indizi plurimi, gravi, precisi e concordanti e gli operatori presunti responsabili non siano in condizione di confutare tale presunzione (Cons. Stato, sez. IV, 1° aprile 2020, n. 2195, id., 22 luglio 2024, n. 6596).
Il soggetto individuato come responsabile, a sua volta, non può limitarsi a ventilare genericamente il dubbio circa una possibile responsabilità di terzi, ma deve provare e documentare, con pari analiticità, la reale dinamica degli avvenimenti e indicare a quale altra impresa, in virtù di una specifica e determinata causalità, debba addebitarsi la condotta causativa dell’inquinamento. L’ipotetica esistenza di concorrenti fattori causativi dell’inquinamento, pertanto, non esclude di per sé, a fronte di indizi gravi, precisi e concordanti, la responsabilità del soggetto individuato (Cons. Stato, 18 dicembre 2018, n. 7121; id., 4 dicembre 2017, n. 5668).
Il ricorso a prove di tipo presuntivo è stato ritenuto compatibile dalla Corte di Giustizia con il dettato della Dir. 2004/35/CE. Dopo aver ribadito la necessità dell’accertamento del nesso di causalità per l’imposizione di misure di riparazione anche con riguardo a “forme di inquinamento a carattere diffuso ed esteso” non “circoscritto nello spazio e nel tempo” e che non sia “opera di un numero limitato di operatori”, la Corte prende atto che la suddetta direttiva “non definisce la modalità di accertamento di un siffatto nesso”. Ne consegue che la disciplina di tale profilo rientra nella competenza degli Stati che godono, in fase di attuazione, di un ampio potere discrezionale. La neutralità della direttiva consente, quindi, al giudice nazionale di fare ricorso a strumenti presuntivi purché ancorati, in ossequio al principio del “chi inquina paga”, ad “indizi plausibili”. A fronte di siffatto accertamento a matrice presuntiva viene a rovesciarsi a carico degli operatori l’onere di “confutare tale presunzione” (Corte di Giustizia, sentenza 9 marzo 2010, cit., par. 58).
Il giudice amministrativo ha mutuato la regola del “più probabile che non” dal campo del diritto civile. Le ragioni alla base di tale regola sono state illustrate dalle Sezioni Unite civili della Cassazione (11 gennaio 2008, n. 576). Dopo aver ribadito l’applicabilità anche all’illecito aquiliano della teoria condizionalistica sottesa al dettato degli artt. 40 e 41 c.p. secondo cui un evento è da considerarsi causa di un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza dell’altro, le Sezioni Unite hanno rimarcato la differenza con il sistema della responsabilità penale che richiede il soddisfacimento di uno standard ispirato al ben più stringente parametro dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ciò discende, secondo la Corte, dalla stessa struttura del rapporto processuale “stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti”. Anche in campo civile resta, peraltro, fermo il temperamento offerto dalla teoria della c.d. “regolarità causale” secondo cui, ad esito di un giudizio da condurre ex ante in concreto ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. A differire è il fulcro delle fattispecie posto che “la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell’autore del reato”27.
Il regime della responsabilità civile, in un’ottica di riequilibrio delle posizioni di danneggiante e danneggiato, tollera inferenze logiche di tipo probabilistico molto meno rigorose . In questo senso la Cassazione civile, ancora da ultimo, ha mantenuto ferma la “preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto” della responsabilità civile (Cass., Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601).
L’abbattimento della soglia di prova con riguardo al nesso di causalità materiale si giustifica, a fortiori, nel settore ambientale ove, nel quadro di un più vasto fenomeno di oggettivizzazione della tutela, il rimedio risarcitorio (e con esso l’accertamento della responsabilità) assume anche scopi preventivo-precauzionali28.
Nel caso, invece, della responsabilità penale, è esclusa la possibilità di ricorrere ad indici di tipo presuntivo che facciano leva sul semplice superamento delle soglie di rischio; la prova del nesso di causalità materiale segue il parametro dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio”, regola di giudizio oggi resa esplicita dall’art. 533, comma 1, c.p.p. e sottesa al disposto del capoverso dell’art. 530 c.p.p.
I differenti parametri probatori utilizzati dal giudice amministrativo e da quello penale, potranno pertanto condurre, nelle due sedi, ad esiti diversi29.
1 . cfr. ad esempio, le note Cass. Sez. un. 9 marzo 1979, n. 1463 e 6 ottobre 1979, n. 5172, entrambe in Foro it., 1979, rispettivamente 939 e 2302.
2 La Corte ebbe significativamente ad affermare che “L'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto. Vi sono, poi, le norme ordinarie che, in attuazione di detti precetti, disciplinano ed assicurano il godimento collettivo ed individuale del bene ai consociati; ne assicurano la tutela imponendo a coloro che lo hanno in cura, specifici obblighi di vigilanza e di interventi. Sanzioni penali, civili ed amministrative rendono la tutela concreta ed efficiente”.
3 Lo ricorda il Consiglio di Stato, Ad.pl., n. 10 del 2019.
4 Nell'Allegato II alla Direttiva 21 aprile 2004, n. 2004/35/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale) che attiene alla «Riparazione del danno ambientale», si pone in luce come tale riparazione è conseguita riportando l’ambiente danneggiato alle condizioni originarie tramite misure di riparazione primaria, che sono costituite da «qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie». Solo qualora la riparazione primaria non dia luogo a un ritorno dell'ambiente alle condizioni originarie, si intraprenderà la riparazione complementare e quella compensativa.
5 Siracusa, Ambiente e costituzione , in Riv. trim. dir. pen. econ. 1-2/2024, 149 e ss.
6 Bernasconi, Il reato ambientale , ETS, 2008, pag. 21 e ss.
7 Giovagnoli, Problematiche giuridiche della protezione dell’ambiente , in www.giustizia-amministrativa.it
8 In questo senso può sostenersi che abbiano efficacia retroattiva. La giurisprudenza ha spiegato che nella materia delle bonifiche non rileva in senso contrario il fatto che la direttiva sulla riparazione del danno ambientale disciplini solo fatti commessi dopo la sua entrata in vigore in quanto il diritto dell’Unione non esclude la possibilità per i legislatori nazionali di introdurre regimi di maggior tutela dell’ambiente.
9 Si tratta delle disposizioni relative alle materie escluse dall’applicazione della direttiva.
10 Al riguardo, cfr. Corte Cost. sentenza n.126 dell’1 giugno 2016, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 311, comma 1, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 nella parte in cui riserva allo Stato, ed in particolare al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, il potere di agire, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (art. 311), e mantiene solo «il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi» (art. 313, comma 7, secondo periodo). All'esigenza di unitarietà della gestione del bene "ambiente" non può infatti sottrarsi la fase risarcitoria. Essa, pur non essendo certo qualificabile come amministrativa, ne costituisce il naturale completamento, essendo volta a garantire alla istituzione su cui incombe la responsabilità del risanamento, la disponibilità delle risorse necessarie, risorse che hanno appunto questa specifica ed esclusiva destinazione. Ciò non esclude che ai sensi dell'art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006 sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti. La Corte di cassazione ha più volte affermato in proposito che la normativa speciale sul danno ambientale si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all'ambiente, per il risarcimento non del danno all'ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell'ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale.
11 Gallo, Perché non si parla (quasi) mai del soggetto “responsabile” della contaminazione. Il caso del Petrolchimico di Mantova come auspicabile cambio di prospettiva , Ambiente & sviluppo, n.10/2020
12L’art. 253 del codice dell’ambiente risponde anche alla funzione di stimolare la diligenza e la cautela nell’acquisto di aree e di beni immobili, tramite l’attenta verifica circa la sussistenza di contaminazioni o pregiudizi ambientali pregressi, ad esempio effettuando la cosiddetta due diligence ambientale.
13 Corte di Cassazione, sez. un., sentenza n. 3077 del 2023, su cui, infra, par. 3.2.
14 Diverso l’orientamento del giudice penale. Ad esempio, Cass. pen., sez. III, 16 giugno 2016, n. 40318, esclude che il curatore fallimentare, che non sia stato autorizzato dal giudice delegato all'esercizio provvisorio dell'attività di impresa, possa essere qualificato come soggetto obbligato ai fini della responsabilità penale prevista dall'art. 256 d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, per il caso di violazione degli obblighi inerenti alla gestione di rifiuti. Ivi è stato affermato che il curatore del fallimento, pur potendo subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (ex art. 72 r.d. 16 marzo 1942 n. 267), in via generale non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge. Ne deriva che, al di fuori di espresse previsioni normative (come quelle in materia di amianto, laddove si pongono specifici obblighi di sorveglianza in capo all'attuale detentore dei beni inquinati - cfr. l. n. 257 del 1992 e relativo regolamento attuativo) è da escludere la possibilità che si trasferiscano in capo alla curatela determinati obblighi originariamente incombenti sul responsabile o sul proprietario dell'area cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa (ad esempio, gli obblighi di ripristino dello stato dei luoghi finalizzati alla rimozione di una situazione di pericolo per la salute e per l'ambiente).
15 Secondo l’art. 298 – bis del codice dell’ambiente “ 1. La disciplina della parte sesta del presente decreto legislativo si applica:
a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell'allegato 5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività;
b) al danno ambientale causato da un'attività diversa da quelle elencate nell'allegato 5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo.
2. La riparazione del danno ambientale deve avvenire nel rispetto dei principi e dei criteri stabiliti nel titolo II e nell'allegato 3 alla parte sesta, ove occorra anche mediante l'esperimento dei procedimenti finalizzati a conseguire dal soggetto che ha causato il danno, o la minaccia imminente di danno, le risorse necessarie a coprire i costi relativi alle misure di riparazione da adottare e non attuate dal medesimo soggetto .
3. Restano disciplinati dal titolo V della parte quarta del presente decreto legislativo gli interventi di ripristino del suolo e del sottosuolo progettati ed attuati in conformità ai principi ed ai criteri stabiliti al punto 2 dell'allegato 3 alla parte sesta nonché gli interventi di riparazione delle acque sotterranee progettati ed attuati in conformità al punto 1 del medesimo allegato 3, o, per le contaminazioni antecedenti alla data del 29 aprile 2006, gli interventi di riparazione delle acque sotterranee che conseguono gli obiettivi di qualità nei tempi stabiliti dalla parte terza del presente decreto.
16 Mangano, Messa in sicurezza e bonifica di siti contaminati: il revirement del Consiglio di Stato sulla distinzione tra misure di messa in sicurezza e misure di prevenzione , Urbanistica e appalti, 2024.
17 Ufficio del massimario della giustizia amministrativa, News n. 29 del 2 marzo 2023.
18 Il ragionamento dell’Adunanza plenaria è stato comunque svolto per mettere in evidenza l’esistenza di una continuità normativa in ordine alla qualificazione in termini di illiceità delle condotte di inquinamento e non già per affermare, successivamente all’introduzione degli istituti della bonifica e del danno ambientale, una sorta di sovrapposizione tra i diversi sistemi e ambiti di tutela.
19 Gizzi, La bonifica dei siti inquinati nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa, in www.federalismi.it
20 Questa disposizione punisce anche chi non ottempera all’ordinanza del Sindaco di cui all’art.192, comma 3, del codice dell’ambiente.
21 Siracusa, La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli “eco delitti” una svolta “quasi” epocale per il diritto penale dell’ambiente , Dir. pen. cont., 9 luglio 2015, 1 ss.
22 art. 4 : “ Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto dedotto in giudizio.
L'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso ”;
art. 5 “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”.
23 Gallone, L’individuazione del responsabile della bonifica: giudice amministrativo e giudice penale a confronto, Urbanistica e appalti , n. 4/2020
24 Gizzi, op. cit.
25 Va comunque osservato che, essendo gli interventi connessi alla bonifica soggetti ad esame ed autorizzazione da parte delle amministrazioni competenti, l’obbligo di portare a termine la bonifica volontariamente avviata viene spesso a configurarsi quale oggetto di un accordo di diritto pubblico ex art. 11 della l. n. 241 del 1990, e/o di un accordo di programma, trovando così fondamento in una vera e propria volontà negoziale.
26 Gallone, op. cit .
27 La sentenza è richiamata da Gallone, op.cit.
28 Così ancora, Gallone, op. ult. cit.
29 Non mancano peraltro ipotesi in cui anche il giudice amministrativo utilizza un approccio al tema della prova di tipo penalistico. Ad es., nella sentenza del Consiglio di Stato n. 1630 del 2022, cit., è stata annullata un’ordinanza provinciale adottata ai sensi dell’art. 244 del codice dell’ambiente, sul rilievo che i presupposti accertamenti dell’A.r.p.a. fossero fondati su un ragionamento induttivo in termini di “verosimiglianza”, il quale non aveva tuttavia escluso la sussistenza di ipotesi “alternative” per quanto ritenute meno probabili. In questo caso le conclusioni del giudice amministrativo sono state dichiaratamente corroborate dalla circostanza che, in sede penale, l’origine della contaminazione non fosse stata accertata.