Cass. Sez. III n. 10030 del 10 marzo 2015 (Ud 15 gen 2015)
Pres. Teresi Est. Scarcella Ric. Anselmo ed altra
Beni Ambentali.Articolo 734 cod. pen. e rilevanza valutazioni della p.a.

Ai fini dell'applicazione dell'art. 734 cod. pen. è demandato sempre al giudice penale l'accertamento della sussistenza della distruzione o alterazione delle bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell'autorità, indipendentemente da ogni valutazione della pubblica amministrazione, della quale - se intervenuta - il giudice dovrà - con adeguata motivazione – tenere conto

RITENUTO IN FATTO

1. ANSELMO FRANCESCO e REINA GIUSEPPA hanno proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d'appello di PALERMO, emessa in data 12/02/2014, depositata in data 20/02/2014, con cui, in parziale riforma della sentenza del tribunale di TRAPANI, sez. dist. ALCAMO, in data 7/05/2013, veniva eliminato l'obbligo della prestazione di attività non retribuita in favore della collettività cui era stata subordinata la sospensione condizionale della pena concessa ad entrambi, confermando per il resto l'impugnata sentenza che aveva condannato gli stessi alla pena - sospesa per entrambi e subordinata alla demolizione ed alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi, da eseguirsi entro gg. 60 dall'irrevocabilità della sentenza - di quattro mesi di arresto ed Euro 20.000,00 di ammenda ciascuno per i reati di cui all'art. 110 c.p., D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 134, 142, 146, 159 e 181, in relazione alla L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. c), (capo a), art. 110 c.p. e art. 734 c.p. (capo b),
ritenuta la continuazione (fatti contestati come commessi fino al 31 gennaio 2012).
2. Con il ricorso, proposto dal difensore fiduciario cassazionista degli imputati, vengono dedotti tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.. 2.1. Deducono, con il primo motivo, il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), in relazione agli artt. 192, 530 e 533 c.p.p. nonché in ordine al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1
ter.
La censura investe l'impugnata sentenza per manifesta illogicità e contraddittorietà in relazione alla ritenuta responsabilità dei ricorrenti; in particolare, i giudici della Corte d'appello avrebbero travisato il contenuto di una relazione del CFS e della deposizione di un teste (tale Gervasi), ritenendo erroneamente che i lavori eseguiti avessero riguardato l'esecuzione di un muro a secco nonché la traccia di un nuovo sentiero della lunghezza di mt. 15;
diversamente, dalle semplice lettura della predetta relazione (allegata dai ricorrenti al ricorso) emergerebbe una situazione oggettivamente diversa, in quanto, in realtà, i lavori rilevati dal CFS altro non erano che l'esito di una normale opera di manutenzione del fondo agricolo, posta in essere al fine di evitare un nuovo incendio del fondo, per la cui bonifica si rendeva necessario lo spostamento di alcune pietre che impedivano il passaggio di mezzo meccanico; tali massi, quindi erano stati collocati uno sull'altro, a secco, per l'altezza di circa un metro; la Corte territoriale, invece, ha posto alla base del proprio ragionamento un antecedente fattuale, la costruzione di un muro, che il compendio probatorio ha esposto in maniera diversa, con conseguente vizio di travisamento probatorio; in altri termini, si tratterebbe di opere prive di offensività, in quanto tali non soggette ad autorizzazione paesaggistica, come riconosciuto più volte dalla giurisprudenza della Corte Suprema; i giudici della Corte d'appello, peraltro, avrebbero omesso di svolgere la richiesta perizia in tal senso avanzata da parte dei ricorrenti, asserendo tautologicamente trattarsi di lavori idonei ad arrecare danno al bene - paesaggio; a ciò, peraltro, si aggiunge, precisano i ricorrenti, che in data 30 marzo 2010 era stata avanzata richiesta di rilascio di n.o. all'Assessorato ambiente della Regione per l'esecuzione di opere consistenti in "movimento terra finalizzato allo spietramento con mezzo meccanico e della discerbatura di un lotto di terreno", n.o. poi rilasciato in data 26 maggio 2010; orbene, su tale documentazione la Corte d'appello avrebbe omesso qualsiasi valutazione, cosi mimando irrimediabilmente l'architrave logica su cui poggia il ragionamento della sentenza.
2.2. Deducono, con il secondo motivo, il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione all'art. 734 c.p. e art. 190 c.p.p..
La censura investe l'impugnata sentenza per manifesta illogicità e contraddittorietà e mancanza della motivazione, nella parte in cui i giudici della Corte d'appello hanno ritenuto sussistere il reato di cui all'art. 734 c.p. con l'apodittica affermazione secondo cui detto reato è configurabile in presenza di interventi che abbiano soltanto alterato le bellezze naturali dei luoghi oggetto di speciale protezione; la Corte avrebbe, sul punto, illogicamente respinto la richiesta di espletamento di una perizia volta ad accertare se i lavori oggetto di contestazione fossero idonei ad alterare le bellezze naturali dei luoghi, soprattutto alla luce della relazione del CFS in cui era evidenziato come non fosse chiaro se detti lavori avessero comportato una modifica sostanziale dei luoghi tale da incidere sulla normativa del vincolo paesaggistico; nonostante ciò, la richiesta di perizia era stata respinta immotivatamente, con conseguente violazione di legge, trattandosi di prova decisiva. 2.3. Deducono, con il terzo motivo, il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1 ter, e art. 734 c.p. quanto alla sussistenza
dell'elemento soggettivo in capo alla ricorrente Reina. La censura investe l'impugnata sentenza per manifesta illogicità e mancanza della motivazione, nella parte in cui i giudici della Corte d'appello hanno ritenuto sussistere la responsabilità della Reina per i reati contestati; la Corte d'appello, al fine di pervenire a giudizio di responsabilità della Reina, coniuge dell'Anselmo, avrebbe confutato la tesi difensiva dell'estraneità ai fatti della ricorrente con affermazioni apodittiche e mere supposizioni, osservando che la condotta colposa della donna emergerebbe dall'aver la stessa consentito l'esecuzione dei lavori, tenuto conto della contitolarità della proprietà, del possesso dell'area e dal rapporto di coniugio - convivenza e dalle finalità di stabile trasformazione dell'area per un evidente interesse comune esorbitante la semplice manutenzione; i giudici non avrebbero tenuto conto, da un lato, che tali elementi sono insufficienti per ritenere la Reina corresponsabile, laddove si consideri che i lavori non hanno comportato interventi di rilievo con uso di calcestruzzo ne' si sarebbe valutato quanto affermato dal teste Gervasi del CFS che aveva riferito come i massi non erano agevolmente visibili in quanto coperti da rami ed erbacce.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza. 4. Seguendo l'ordine imposto dalla struttura dell'impugnazione proposta in sede di legittimità, dev'essere esaminato anzitutto il primo motivo, con cui i ricorrenti censurano l'impugnata sentenza per aver ritenuto configurabili i reati per cui si procede. Il motivo è manifestamente infondato. La Corte d'appello, invero, motiva puntualmente in ordine alle ragioni per le quali si ritiene essersi trattato non di opere di ripulitura, ma dell'esecuzione di un muro a secco e della traccia di un nuovo sentiero; richiama, in particolare, quanto precisato dalla teste Misuraca della Soprintendenza dei beni Culturali ed ambientali, che aveva confermato che la tipologia dei lavori, la modifica dello stato dei luoghi e l'area sui i lavori erano stati eseguiti avrebbero imposto il preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica. La sentenza mostra, sul punto, sicura tenuta logico-argomentativa, laddove in particolare confuta la tesi difensiva secondo cui si sarebbe trattato di "ripulitura" del fondo (v. pag. 3 impugnata sentenza), evidenziando anche la necessità dell'impiego di un escavatore. Quanto alla questione inerente alla natura edilizia dei lavori eseguiti, la Corte d'appello motiva richiamando l'orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui è sanzionabile con il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, ogni modificazione dell'assetto del territorio, in assenza di autorizzazione, attuata attraverso qualsiasi opera non soltanto edilizia ma di qualunque genere, atteso che con le disposizioni in questione si è inteso assicurare una immediata informazione ed una preventiva valutazione da parte della pubblica amministrazione dell'impatto sul paesaggio di ogni tipo di intervento intrinsecamente idoneo a comportare modificazioni ambientali e paesaggistiche (Sez. 3, n. 23980 del 12/02/2004 - dep. 26/05/2004, P.M. in proc. Signorini, Rv. 228686).
Importante, poi, al fine di superare il preteso vizio di travisamento probatorio è l'affermazione contenuta nell'impugnata sentenza circa le ragioni della prudenza inizialmente mostrata dal CFS, in quanto volta a demandare all'interpellata Soprintendenza un pronunziamento più autorevole e, per la specifica competenza in materia, non contestabile (v. pag. 3 impugnata sentenza). Ancora, quanto alla richiesta "perizia" la Corte territoriale spiega convincentemente le ragioni per le quali non era stata disposta (pag. 4 sentenza) atteso che l'univocità degli elementi acquisiti sulla natura e sull'impatto paesaggistico dei lavori, tenuto conto anche del conforme giudizio espresso dalla competente Soprintendenza, rendevano del tutto superfluo l'accertamento peritale richiesto. Sul punto deve essere qui ricordato che nel dibattimento del giudizio di appello, la rinnovazione di una perizia può essere disposta soltanto se il giudice ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (v., tra le tante: Sez. 2, n. 36630 del 15/05/2013 - dep. 06/09/2013, Bommarito, Rv. 257062): nel caso di specie il rigetto della relativa richiesta è stato motivato logicamente e congruamente dal giudice di appello, sicché la relativa valutazione è incensurabile in Cassazione, in quanto costituente giudizio di fatto. Infine, quanto alla violazione del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1 ter, deve qui rilevarsi che la richiesta difensiva appariva
del tutto priva di pregio, riferendosi la norma al solo accertamento di compatibilità paesaggistica, situazione che non ricorreva nel caso esaminato (del resto, si noti, il cosiddetto accertamento di compatibilità paesaggistica, introdotto per alcuni interventi minori dalla L. 15 dicembre 2004, n. 308, art. 1, comma 36, ha natura e scopo ben diverso dal c.d. nulla osta paesaggistico). In definitiva, dunque, le censure di cui al ricorso sono da considerarsi manifestamente infondate in quanto, sotto l'apparente deduzioni di vizi di violazione di legge o motivazionali, in realtà si risolvono in censure con cui viene a manifestarsi un dissenso in ordine risultato della valutazione probatoria operato dai giudici di appello, operazione non consentita in questa sede. Del resto, come più volte ribadito da questa Corte, gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudizio valutativo dei fatti) cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l'esame delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimità e non possono essere investiti dalla censura di difetto o
contraddittorietà della motivazione solo perché contrari agli assunti del ricorrente; ne consegue che tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., non rientrano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l'indagine sull'attendibilità dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e logicità della motivazione (Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 - dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961). 5. Quanto, poi, alla censura mossa con il secondo motivo, avente ad oggetto la configurabilità del reato di cui all'art. 734 c.p., la Corte d'appello spiega le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente il reato di alterazione delle bellezze naturali. Si legge, in particolare, a pag. 4 dell'impugnata sentenza che la rimozione della macchia mediterranea per realizzare, oltre al muraglione, la sede di una stradella, ha altresì comportato uno sbancamento con movimento del terreno di una certa consistenza, di modo che l'intera trasformazione risulta ben visibile anche per chi percorre la strada litoranea, creandosi così un effettivo turbamento del godimento estetico dei luoghi prospicienti la Riserva Naturale dello Zingaro e comprendenti, in una visione panoramica, verso il mare i noti Faraglioni e la Tonnara di Scopello ed a monte il borgo antico di Scopello. Trattasi di valutazione corretta ed immune da vizi logici, che mostra peraltro di fare buon governo dei principi più volte affermati da questa Corte in materia secondo cui ai fini dell'applicazione dell'art. 734 c.p. è demandato sempre al giudice penale l'accertamento della sussistenza della distruzione o alterazione delle bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell'autorità, indipendentemente da ogni valutazione della pubblica amministrazione, della quale - se intervenuta - il giudice dovrà - con adeguata motivazione - tenere conto (Sez. U, n. 248 del 21/10/1992 - dep. 12/01/1993, P.M. in proc. Molinari, Rv. 193416; conf.: Sez. 3, n. 15299 del 03/03/2004 - dep. 30/03/2004, Dalla Fior, Rv. 228538). La circostanza, dunque, che l'apprezzamento dell'alterazione delle bellezze naturali spetti al giudice penale e che lo stesso non richiede il necessario espletamento di perizia, rende ragione della sussistenza del reato in esame per come emerge dall'inequivocabile motivazione della Corte d'appello, avendo peraltro spiegato i giudici le ragioni per le quali non vi era necessità della perizia (v. amplius il motivo che precede). Del resto, quanto alla configurabilità del reato in ipotesi come quella in esame, è sufficiente qui ricordare che per la realizzazione del reato previsto dall'art. 734 c.p., non è necessaria l'irreparabile distruzione o alterazione della bellezza naturale di un determinato luogo soggetto a vincolo paesaggistico, essendo sufficiente che, a causa delle nuove opere edilizie, siano in qualsiasi modo alterate o turbate le visioni di bellezza estetica e panoramica offerte dalla natura (Sez. 6, n. 11929 del 21/03/1977 - dep. 29/09/1977, Oricchio, Rv. 136871). E di ciò vi è chiara indicazione nella motivazione dell'impugnata sentenza.
6. Infine, con riferimento al terzo ed ultimo motivo di ricorso, con cui si contesta l'impugnata sentenza per non aver ritenuto la Reina estranea ai fatti per cui si è proceduto, la Corte territoriale motiva adeguatamente individuando una serie di indici di correità della stessa ricorrente, non essendosi limitati i giudici di appello a confermarne la responsabilità solo sulla base del rapporto di contitolarità del terreno (v., in particolare, la pag. 4 e 5 della sentenza, in cui, oltre all'elemento della contitolarità, si aggiunge: a) il possesso dell'area; b) il rapporto di coniugio e convivenza con l'Anselmo; c) le stesse finalità di stabile trasformazione dell'area per un evidente interesse comune esorbitante la semplice manutenzione; d) l'assenza di un consenso quantomeno tacito ai lavori eseguiti abusivamente).
Trattasi di valutazione logicamente e giuridicamente corretta, che mostra di fare buon governo del principio, più volte affermato da questa Sezione, secondo cui in materia di reati edilizi la responsabilità del proprietario, qualora non sia committente o esecutore dei lavori, può ricavarsi da indizi precisi e concordanti quali l'abitare sul luogo ove si è svolta l'attività illecita di costruzione, la assenza di manifestazioni di dissenso, la fruizione dell'opera secondo le norme civilistiche dell'accessione, ed altri comportamenti positivi o negativi valutabili dal giudice (v., tra le tante: Sez. 3, n. 10632 del 22/01/2003 - dep. 07/03/2003, Di Stefano A. ed altro, Rv. 224334, relativa a fattispecie nella quale questa Corte ha affermato la compartecipazione di entrambi i coniugi, comproprietari, alla realizzazione dell'opera abusiva). 7. I ricorsi devono essere, conclusivamente, dichiarati inammissibili. Segue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di una somma che si stima equo fissare, in Euro 1.000,00 (mille/00) ciascuno.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2015