Cass. Sez. III n. 28736 del 21 giugno 2018 (Cc 27 apr 2018)
Presidente: Di Nicola Estensore: Ramacci Imputato: Faenza
Beni Ambientali.Aree protette e sequestro preventivo

L’art. 30, comma 3 della legge 394/1991 non limita né preclude in nessun caso la possibilità di procedere al sequestro preventivo nei casi previsti dall’art. 321 cod. proc. pen.


RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Lecce, con ordinanza del 27/10/2017 ha rigettato l’istanza di riesame presentata nell’interesse di Giorgio FAENZA, indagato per il reato di cui all’art. 19, comma 3, lett. a) d) ed e) legge 394\91 per aver esercitato la pesca con imbarcazione a motore in area protetta, avverso il decreto di sequestro emesso il 22/9/2017 dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, avente ad oggetto 1.800 esemplari di ricci di mare, una imbarcazione da pesca e gli accessori rinvenuti a bordo del natante.
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge, sostenendo che in base al disposto dell’art. 30, comma 3, legge 394\91 il sequestro non sarebbe stato possibile, in quanto tale disposizione, che si porrebbe in rapporto di specialità rispetto all’art. 321 cod. proc. pen., riserva la possibilità del sequestro alle sole ipotesi più gravi, quando vengano contestualmente contestati anche i reati di cui agli artt. 733 e 734 cod. pen., sicché avrebbe errato il Tribunale nel ritenere comunque applicabile la norma codicistica in via sussidiaria.

3. Con un secondo motivo di ricorso lamenta la insussistenza del fumus del reato, osservando che la polizia giudiziaria, all’atto del controllo, non avrebbe correttamente individuato la posizione del natante, non essendo stato rilevato il punto nave e considerata la assoluta inidoneità, a tal fine, dell’impianto di videosorveglianza cui i giudici del riesame hanno fatto riferimento.

4. Con un terzo motivo di ricorso denuncia la non corretta valutazione del periculum in mora, che il Tribunale avrebbe effettuato sulla base di un astratto giudizio personale.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Occorre ricordare, riguardo al primo motivo di ricorso, come l’art. 30, comma 3 della legge 394/1991 stabilisca che, in caso di violazioni costituenti ipotesi di reati perseguiti ai sensi degli articoli 733 e 734 del codice penale, può essere disposto dal giudice o, in caso di flagranza, per evitare l'aggravamento o la continuazione del reato, dagli addetti alla sorveglianza dell'area protetta, il sequestro di quanto adoperato per commettere gli illeciti ad essi relativi.
Come emerge dal tenore letterale della disposizione, la stessa prende in considerazione le ipotesi in cui condotte poste in essere in violazione delle disposizioni contenute nella stessa legge n. 394 del 1991 siano idonee a configurare anche le contravvenzioni codicistiche espressamente richiamate, che sanzionano, rispettivamente, il danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale e la distruzione o il deturpamento di bellezze naturali.
Tale esplicito richiamo, va osservato, costituisce evidente conferma della possibilità del concorso tra i reati sanzionati dalla legge quadro e le due contravvenzioni contenute nel codice penale, ma, nel disciplinare i poteri di natura cautelare, non ne limita affatto l’esercizio a queste sole ipotesi.
Come invero si è fatto rilevare dalla dottrina in uno dei primi commenti alla legge quadro, la richiamata disposizione viene definita “ultronea”, dal momento che l’art. 321 cod. proc. pen. già prevede la possibilità del sequestro preventivo e “mal coordinata”, in quanto il termine giudice è indicato in maniera impropria, non avendo il legislatore considerato che prima dell’entrata in vigore della legge n. 394 del 1991 (28/12/1991) l’art. 321 cod. proc. pen. era stato modificato dal d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12 (entrato in vigore il 15/2/1991), il quale, con l’art. l'art. 15, comma 1, lettere a) e b), aveva modificato il comma 3 dell’art. 321 cod. proc. pen. e introdotto, nel medesimo articolo, il comma 3-bis, prevedendo quindi la possibilità, per il pubblico ministero e la polizia giudiziaria, di procedere al sequestro preventivo.
Si osservava anche che una diversa lettura della disposizione in esame sarebbe inspiegabile, non trovando giustificazione una limitazione alla competenza esclusiva del giudice per di più in ipotesi di violazioni di particolare rilievo.
Tali osservazioni sono state successivamente riprese, sempre dalla dottrina, osservando come la disposizione mantenga comunque una propria operatività laddove attribuisce il potere di sequestro agli addetti alla sorveglianza dell'area protetta, nel caso in cui costoro non rivestano la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria.
Si tratta, ad avviso del Collegio, di osservazioni pienamente condivisibili, perché rispondenti ad una razionale lettura della disposizione in esame, giustificata non soltanto dalla rilevata sequenza temporale degli interventi normativi, tra loro non coordinati, ma anche dalla altrimenti inspiegabile disparità di trattamento che verrebbe a verificarsi rispetto a diverse situazioni, laddove, in presenza di reati conseguenti alla violazione di norme finalizzate alla tutela di aree soggette a particolare protezione, la possibilità del vincolo di cautela reale dovesse ritenersi limitata solo ad alcune particolari situazioni, restando invece intatta rispetto a tutte le altre violazioni penali, anche di minor rilievo, diversamente disciplinate.

3. Va conseguentemente affermato il principio secondo il quale l’art. 30, comma 3 della legge 394/1991 non limita né preclude in nessun caso la possibilità di procedere al sequestro preventivo nei casi previsti dall’art. 321 cod. proc. pen.
Ne consegue che l’ordinanza impugnata risulta, sul punto, del tutto immune da censure.

4. Ad analoghe conclusioni può pervenirsi per ciò che riguarda il secondo motivo di ricorso.
Il Tribunale ha osservato che il natante sottoposto poi a sequestro era stato oggetto di controllo dopo essere stato individuato all’interno dell’area interdetta mediante un sistema di videosorveglianza appositamente installato lungo la costa dal “Consorzio Area marina Protetta di Porto Cesareo”, attraverso il quale erano state riprese anche le operazioni di sbarco del pescato nei pressi di una scogliera ed il successivo carico su un’autovettura in sosta.
Aggiungono i giudici del riesame che le operazioni di sbarco, secondo quanto riportato nella comunicazione di notizia di reato, risultavano essere avvenute presso la scogliera antistante la “Torre di Torre Inserraglio” la quale, secondo la stessa mappa prodotta dalla difesa, rientra nella zona protetta individuata come “Zona C”, circostanza, questa, che secondo il Tribunale non poteva essere ignorata dall’indagato, pescatore di professione, il quale aveva conseguito nello stesso territorio le licenze di pesca e di navigazione.
A fronte di tali dati fattuali, opportunamente considerati dai giudici del riesame, la difesa obietta che l’unica modalità di individuazione della posizione del natante è quella del rilevamento del “punto nave”, non effettuato dalla polizia giudiziaria operante.
Va tuttavia osservato che il Tribunale, nel corretto esercizio dei suoi poteri entro il ristretto ambito di cognizione attribuitogli dalla legge nel giudizio cautelare, ha correttamente rilevato che eventuali ulteriori questioni sulla effettiva posizione del natante potranno essere prospettate al giudice del merito, ritenendo sufficiente, ai fini della sussistenza del fumus del reato, quanto al momento documentato in sede di indagini.
Si tratta, anche in questo caso, di una corretta applicazione delle norme processuali, pienamente conforme ai principi dettati dalla giurisprudenza di questa Corte, che il Tribunale ha opportunamente richiamato, secondo i quali il compito del Tribunale del riesame è quello di espletare il proprio ruolo di garanzia non limitando la propria cognizione alla astratta configurabilità del reato, dovendo invece considerare e valutare tutte le risultanze processuali in modo coerente e puntuale, esaminando, conseguentemente, non solo le allegazioni probatorie del Pubblico Ministero, ma anche le confutazioni e gli altri elementi offerti dalla difesa degli indagati che possano influire sulla configurabilità e sussistenza del fumus del reato ipotizzato (ex pl., Sez. 6, n. 49478 del 21/10/2015, P.M. in proc. Macchione, Rv. 265433; Sez. 5, n. 49596 del 16/9/2014, Armento, Rv. 261677; Sez. 5, n. 28515 del 21/5/2014, Ciampani e altri, Rv. 260921; Sez. 4, Sentenza n. 15448 del 14/3/2012, Vecchione, Rv. 253508; Sez. III n. 27715\2010 cit.; Sez. 3, n. 26197 del 5/5/2010, Bressan, Rv. 247694; Sez. III n. 18532\ 2010 cit., con ampi richiami ai precedenti).
Tale affermazione è stata successivamente ribadita (Sez. 3, n. 13038 del 28/2/2013, Lapadula, Rv. 255114; Sez. 3 n. 19658 del 9/5/2012, Basile, non massimata; Sez. III n. 19331, 17 maggio 2011, non massimata; Sez. 3 n. 7242, 27/4/2011, Tocchini non massimata), con l’ulteriore precisazione che la valutazione richiesta al Tribunale del riesame non può ritenersi dovuta in presenza di qualsiasi allegazione difensiva che si risolva in una mera negazione degli addebiti o in una diversa lettura degli elementi acquisiti, ma solo quando la rilevanza dell’apporto della difesa sia di immediata evidenza ed oggettivamente determinante in relazione al "fumus commissi delicti".
Nel caso di specie le emergenze investigative sono state adeguatamente valutate, tenendo anche conto delle obiezioni della difesa, ritenendo sufficiente, ai fini dell’astratta configurabilità della violazione oggetto di incolpazione, l’accertamento espletato dalla polizia giudiziaria, rilevando come lo stesso avesse peraltro trovato conferma nella cartografia prodotta dalla difesa ed osservando come ulteriori questioni avrebbero potuto essere oggetto di disamina nel successivo giudizio di merito.
Si tratta, dunque, di una motivazione del tutto adeguata e corretta che consente di escludere la dedotta violazione di legge, osservando che ogni ulteriore, diversa deduzione non può essere prospettata in questa sede di legittimità.

5. Il terzo motivo di ricorso, infine, non merita miglior sorte.
Si è affermato che il "periculum in mora", il quale, ai sensi dell'art. 321 cod. proc. pen., legittima il sequestro preventivo, deve essere inteso in senso oggettivo, come probabilità di danno futuro e presentare i caratteri della concretezza e della attualità e che è inoltre necessaria la intrinseca, specifica e strutturale strumentalità  del bene oggetto della misura rispetto al reato commesso, ovvero a quelli di cui si paventa la realizzazione, in modo che l'individuato legame non sia meramente occasionale ed episodico (così Sez. 5, n. 35394 del 19/9/2011, Ministero Della Giustizia e altro, Rv. 250930).
Nel caso di specie il Tribunale ha correttamente giustificato la sussistenza del periculum in mora con l’essere il ricorrente un pescatore di professione e che pertanto l’imbarcazione sequestrata, dotata di sofisticate dotazioni, e specificamente predisposta per l’esercizio della pesca, se lasciata nella libera disponibilità dell’indagato avrebbe potuto essere nuovamente impiegata all’interno di aree marine protette.
Si tratta, anche in questo caso, ad avviso del Collegio, di motivazione adeguata e conforme a legge,  che va peraltro considerata non isolatamente, ma anche in relazione alle altre argomentazioni sviluppate dai giudici del riesame, i quali in altre parti dell’ordinanza impugnata hanno posto in evidenza che l’indagato esercitava abitualmente la pesca nella zona, come obiettivamente confermato dalla descrizione delle modalità di sbarco e carico del pescato obiettivamente indicative di una perfetta conoscenza dei luoghi.
Il Tribunale, dunque, non si è limitato alla formulazione di mere ipotesi, ma ha basato le sue affermazioni su dati concreti, obiettivamente valutati, senza incorrere in alcuna violazione di legge.

6. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in data 27/4/2018