L’Italia e il ritorno al nucleare: un percorso dapprima accidentato, di seguito interrotto

di Antonio DI MARTINO e Antonio SILEO

Il programma teso a garantire il ritorno dell’Italia alla produzione di energia da fonte elettronucleare (in particolare quanto accaduto nel triennio 2009-2011), costituisce esempio emblematico delle difficoltà, dei limiti e dei ritardi che il nostro Paese è solito incontrare, e purtroppo accumulare, quando sia chiamato a definire le linee strategiche della propria politica energetica.
Come si avrà modo di cogliere nel prosieguo del testo, in questa vicenda spicca l’assenza di due fattori fondamentali per la riuscita dell’operazione: la mancanza di un sereno e leale confronto politico presso le istanze istituzionali interessate (Stato, Regioni, Enti locali), da un lato; l’assenza di un dibattito approfondito in seno all’opinione pubblica, dall’altro.
Abbiamo assistito invece a forzature, colpi di mano e velleitarie dichiarazioni, utili soltanto a ingenerare un clima di scontro senza quartiere: ne sono tangibili manifestazioni, rispettivamente, la reiterata proposizione di ricorsi alla Corte costituzionale e la celebrazione di un referendum che si è svolto, particolare non di poco conto, sulla scia (anche) delle emozioni suscitate dall’incidente alla centrale nucleare di Fukushima.  


1. IL CONTESTO NORMATIVO

Il “ritorno al nucleare” ha conosciuto, da subito, un percorso legislativo alquanto tortuoso e accidentato.
Il relativo disegno di legge (conosciuto con la formula di “Ddl Sviluppo”) nasce nell’agosto del 2008, come collegato alla cosiddetta manovra finanziaria d’estate. Successivamente, ne viene stralciato per confluire in apposito disegno di legge avente a oggetto “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”. Al termine dell’iter parlamentare, la disciplina in esame si traduce nella legge 23 luglio 2009, n. 99.
La legge n. 99/2009 si contraddistingue per un limite, per così dire, intrinseco: l’estrema eterogeneità delle sue previsioni normative. Scorrendo il testo dell’articolato, infatti, l’interprete s’imbatte in una congerie di disposizioni su materie alquanto diversificate: dalle liberalizzazioni delle ferrovie all’azione di classe, dalla distruzione delle armi chimiche alla pubblicità ingannevole delle compagnie marittime, solo per richiamarne alcune.
Al tema dell’energia nucleare ineriscono gli articoli 25 (“Delega al Governo in materia di nucleare”), 26 (“Energia Nucleare”) e 29 (“Agenzia per la sicurezza nucleare”) della legge che rinviano, peraltro, a successivi provvedimenti attuativi.
In particolare, la delega legislativa conferita all’esecutivo in forza dell’articolo 25 troverà concreta attuazione nel decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31.
Quest’ultimo provvedimento viene licenziato senza il parere della Conferenza Unificata che, pure, stando al tenore letterale della delega legislativa, il governo avrebbe dovuto acquisire preliminarmente all’assunzione dei pareri delle Commissioni parlamentari e per le conseguenze di carattere finanziario.
In realtà, giova segnalare come in data 27 gennaio 2010 la Conferenza delle Regioni avesse espresso parere negativo allo schema del decreto legislativo in discorso (contrarie solo le regioni Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia).
Con deliberazione adottata nella riunione del Consiglio dei Ministri del 22 gennaio 2010, il governo aveva (prudentemente?) deciso d’avvalersi della procedura in via di urgenza che consente - in base all’articolo 3, comma 4, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281- di acquisire il parere della Conferenza (anche) in un momento successivo.
Il decreto legislativo n. 31/2010 consta di 35 articoli, che incidono in profondità sulla disciplina per la localizzazione degli impianti di produzione di energia elettro-nucleare e i relativi impianti di produzione anche del combustibile e dei rifiuti. Nello specifico, il decreto delinea le procedure autorizzative, i requisiti degli operatori e una serie di adempimenti correlati.
Il decreto in discorso definisce altresì un sistema di misure compensative a favore delle amministrazioni locali (Comuni e Province), delle popolazioni e delle imprese presenti nelle zone dove sorgeranno gli impianti nucleari.
Prevede, infine, la realizzazione di una campagna informativa nazionale in materia di produzione di energia elettrica da fonte nucleare.
Il fulcro della nuova disciplina risiede nel principio secondo cui «(…) la costruzione e l’esercizio degli impianti nucleari sono considerate attività di preminente interesse statale e come tali soggette ad autorizzazione unica che viene rilasciata, su istanza dell’operatore e previa intesa con la Conferenza unificata, con decreto del Ministro dello sviluppo economico di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.» (art. 4).
Parallelamente, l’articolo 27 del decreto attribuisce al Ministero dello sviluppo economico il compito di rilasciare l’autorizzazione unica per l’affidamento (in via esclusiva) alla società Sogin S.p.A. della realizzazione del Deposito nazionale, destinato allo smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi  a bassa e media attività.
L’approvazione del decreto legislativo n. 31/2010 presupponeva che prendesse avvio una fase finalizzata alla definizione e approvazione di alcuni documenti preliminari.
Un ruolo centrale doveva assumere in particolare la declinazione della Strategia nucleare, vale a dire il documento programmatico recante gli obiettivi strategici nella materia: il Consiglio dei ministri avrebbe dovuto adottare tale documento entro tre mesi dall’entrata in vigore del decreto stesso.
Analogamente alla gran parte degli adempimenti legislativi in materia, anche la Strategia nucleare è stata afflitta da ritardo congenito: anzi, non ha mai visto la luce!
Sul punto e più in generale, ad avviso di chi scrive, pareva quantomeno strano che il suddetto documento (relativo alla ripresa delle attività necessarie per la produzione di energia da fonte elettronucleare) venisse promulgato nelle more della definizione della più ampia «Strategia energetica nazionale», quest’ultima prevista dall’art. 7 della legge 6 agosto 2008, n. 133 (sulla vicenda riguardante l’esito di questa norma, si rinvia al successivo paragrafo 3 del presente contributo).


2. IL CONTENZIOSO TRA STATO E REGIONI

2.1 I prodromi

L’approvazione del decreto legislativo n. 31/2010 è caduta in un momento di particolare tensione nei rapporti tra governo e regioni (queste ultime, amministrate all’epoca da coalizioni di centro-sinistra, in larga parte).
Anzi, prima ancora che il decreto attuativo vedesse la luce, undici Regioni – vale a dire: Calabria, Toscana, Piemonte, Emilia Romagna, Liguria, Lazio, Marche, Umbria, Puglia, Basilicata e, da ultimo, il ritardatario (e recalcitrante?) Molise – avevano impugnato innanzi alla Corte costituzionale la delega contenuta nell’articolo 25 della legge 99/2009, vale a dire il presupposto logico-normativo del decreto legislativo in questione.
Le regioni ricorrenti lamentavano il ruolo secondario che la disciplina aveva ritagliato alla Conferenza Unificata, chiamata a esprimere un parere non vincolante, senza la possibilità di interloquire attivamente in merito alla localizzazione degli impianti di produzione di energia elettro-nucleare.
Nel frattempo, a riprova ulteriore della “bagarre istituzionale” creatasi intorno al nucleare, le regioni Puglia, Basilicata e Campania approvavano discipline in contrasto con le indicazioni del legislatore nazionale, ciascuna stabilendo che « (…) in assenza di intese con lo Stato in merito alla loro localizzazione, il territorio regionale viene precluso all’installazione degli impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di fabbricazione e stoccaggio di combustibile nucleare, nonché a depositi di materiali e rifiuti radioattivi».
Il tenore delle normative regionali era chiaro: in mancanza di intesa con lo Stato, il nucleare veniva interdetto ai territori di Basilicata, Campania e Puglia. Sul piano giuridico, le discipline in parola ricostruivano il rapporto Stato-Regione in termini di cosiddetta “intesa forte” e, quindi, non surrogabile da interventi sostitutivi statali nel caso di mancato raggiungimento dell’accordo.
Per tutta risposta, nella seduta del Consiglio dei ministri del 4 febbraio 2010, il governo ha deliberato (ai sensi dell’art. 127 comma 1 Cost.) di presentare ricorso avverso le leggi campana, lucana e pugliese, sull’assunto - espresso dal ministro dello Sviluppo economico dell’epoca, Claudio Scajola - che tali normative violassero la competenza legislativa esclusiva dello Stato  in materia di «sicurezza», «tutela della concorrenza» e «tutela dell’ambiente» (art. 117, comma 1, Cost.).
La quadratura del cerchio, dato l’attuale assetto del nostro sistema istituzionale, non poteva che passare attraverso il vaglio della giurisdizione costituzionale. 


2.2. Il primo responso della Corte Costituzionale. La sentenza n. 278/2010

L’udienza dinanzi ai giudici della Consulta relativa alla delega sul nucleare, contenuta nell’art. 25 della “Legge Sviluppo”, si è tenuta il 22 giugno 2010.
Con la sentenza n. 278 pronunciata il 23 giugno, la Corte costituzionale ha dichiarato in parte infondate, e in parte inammissibili nel merito, le questioni sollevate dalle Regioni (nel frattempo, il Piemonte aveva ritirato il proprio ricorso).
La pronuncia è stata accolta con il plauso dell’esecutivo e dei sostenitori dell’atomo: tuttavia, a leggere il testo della pronuncia, l’impressione ci pareva un’altra.
La Consulta ha asserito infatti che la disciplina del processo di produzione dell’energia elettrica nucleare chiama necessariamente in causa, insieme a quelli energetici, ulteriori interessi. Si tratta di interessi che sono imputabili, in parte, a materie di competenza legislativa concorrente e, in una parte significativa, ad ambiti di competenza esclusiva dello Stato.
Secondo i giudici costituzionali, nell’ambito della delega sul nucleare contenuta nella Legge Sviluppo possono individuarsi due differenti categorie di disposizioni:
a. le norme riconducibili alla materia concorrente della «produzione dell’energia».
Tali sono le disposizioni inerenti alla costruzione ed esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica nucleare, alle garanzie di tipo sostitutivo in caso di mancato raggiungimento delle intese con gli enti locali o, infine, alla definizione delle tipologie degli impianti di produzione; secondo i giudici, «(…) con esse il legislatore ha concretizzato normativamente l’intento non solo di riavviare l’approvvigionamento energetico da fonte nucleare, ma al contempo di favorirne un rapido sviluppo, attraverso le tappe che conducono alla autorizzazione unica, da rilasciare su istanza del soggetto richiedente.»;
b. le norme riferibili alla competenza statale in tema di «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema», come quelle sulla costruzione e l’esercizio di impianti per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi e per lo smantellamento di impianti nucleari a fine vita.
Tali norme offrirebbero, quindi, piena legittimazione a un intervento legislativo dello Stato finalizzato a realizzare un impianto necessario per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, purché nel rispetto di opportune e adeguate forme di collaborazione con le Regioni sul cui territorio tali interventi sono destinati a realizzarsi.
Analogamente, la possibilità di dichiarare i siti come “Aree di interesse strategico nazionale” eccede i limiti della materia energetica e deve ascriversi, piuttosto, alla sfera della competenza esclusiva statale in tema di «tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza» (art. 117, comma 2, lettera h), Cost.),  stante la necessità di prevenire la commissione di reati in prossimità delle aree di produzione  dell’energia o di stoccaggio delle scorie.

La sentenza n. 278/2010 (cfr. considerato in diritto, punto 13) si sofferma anche sul principio di leale collaborazione, con riferimento all’asserito accentramento in capo allo Stato della funzione amministrativa nel rilascio dell’Autorizzazione unica.
Come già evidenziato, le Regioni avevano lamentato l’insufficiente coinvolgimento della Conferenza Unificata (espressione di mero parere non vincolante) nella localizzazione degli impianti.
Su questo specifico punto, ad avviso dei giudici, «(…) è oramai principio acquisito nel rapporto tra legislazione statale e legislazione regionale che quest’ultima possa venire spogliata della propria capacità di disciplinare la funzione amministrativa attratta in sussidiarietà, a condizione che ciò si accompagni alla previsione di un’intesa in sede di esercizio della funzione, con cui poter recuperare un’adeguata autonomia, che l’ordinamento riserva non già al sistema regionale complessivamente inteso, quanto piuttosto alla specifica Regione che sia stata privata di un proprio potere (…) Quindi, in queste situazioni il coinvolgimento delle Regioni interessate si impone con forza immediata e diretta al legislatore delegato, ove intenda esercitare la funzione legislativa.».
In altri termini: secondo la Corte, nell’attuazione della delega il legislatore nazionale aveva il dovere (costituzionale) di disciplinare in maniera puntuale le modalità di esercizio dell’intesa con la Regione interessata e prevedere, in subordine, le procedure aggiuntive per ricercarla in caso di diniego o, comunque, per supplire alla sua carenza.
È, quest’ultimo, un passaggio cruciale nel ragionamento della Corte costituzionale che, in tal modo, si è riservata chiaramente il compito di verificare la legittimità delle scelte operate dalla Legge Sviluppo in sede di esercizio della delega e, quindi, in concreto, ha spostato il verdetto finale sul ricorso avverso il d.lgs. n. 31/2010 (nel frattempo, impugnato dalle regioni Emilia Romagna, Toscana e Puglia).
La sentenza n. 278/2010 era, evidentemente, interlocutoria.

2.3 Il secondo responso della Consulta. La sentenza n. 331/2010

A distanza di pochi mesi, la Corte Costituzionale si è pronunciata sul ricorso del governo contro le leggi di Puglia, Basilicata e Campania che avevano vietato l’installazione sui rispettivi territori degli impianti di produzione di energia nucleare, di fabbricazione di combustibile nucleare e di stoccaggio di rifiuti radioattivi.
Con la sentenza n. 331 del 3 novembre 2010, tali leggi vengono dichiarate illegittime.
E puntualmente, prima che le motivazioni della sentenza venissero pubblicate, sono ripartite copiose le dichiarazioni: sia quelle più entusiastiche, sia quelle maggiormente critiche.
Rimanendo invece al testo della sentenza, la pronuncia difficilmente avrebbe potuto avere un esito differente, considerato che le censurate leggi regionali erano state promulgate, a ulteriore puntello, rispetto ai ricorsi contro la Legge Sviluppo, e sui quali la Consulta si era espressa con la sentenza n. 278 del 2010 (v. paragrafo precedente).
Non è casuale, quindi, che la sentenza n. 278/2010 venga richiamata anche nella successiva pronuncia n. 331 (punto 7 del considerato in diritto), quale precedente chiarificatore sulle competenze alle quali ancorare le disposizioni normative concernenti il settore dell’energia nucleare e dei rifiuti radioattivi.
Anche questa volta, i giudici costituzionali ribadiscono che il tema dei rifiuti radioattivi afferisce alla materia di competenza esclusiva statale della «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema»; diversamente, la disciplina degli impianti di produzione dell’energia elettro-nucleare è riconducibile alla materia concorrente «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia».
Date queste premesse, la Corte giunge a sancire che la disciplina legislativa sulla localizzazione degli impianti produttivi e di stoccaggio, nonché dei depositi di rifiuti radioattivi, deve distribuirsi tra lo Stato e le Regioni nel rispetto e nei limiti di tali coordinate.
Resta ferma invece la necessità di assicurare forme adeguate di collaborazione nell’esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative, attraverso l’intesa tra Stato e Regione interessata.
In definitiva: anche la sentenza n. 331/2010 è, ancora una volta, interlocutoria.

2.4 Il terzo e ultimo responso dei giudici costituzionali. La sentenza n. 31/2011

Il lungo confronto tra Stato e Regioni sulla produzione di energia da fonte elettronucleare, ha trovato il suo “naturale” sbocco nel giudizio di costituzionalità che la Consulta ha espresso nella sentenza n. 31, resa il 26 gennaio e depositata il 2 febbraio 2011.
Attraverso una motivazione alquanto corposa e dettagliata, la Corte ha promosso sostanzialmente l’impianto normativo previsto dal decreto legislativo n. 31/2010, con un’importante eccezione: quella riguardante la disciplina in tema di rilascio dell’autorizzazione alla costruzione e all’esercizio degli impianti nucleari, prevista dall'art. 4 del medesimo decreto.
La Corte ha dichiarato illegittimo quest’ultimo articolo nella parte in cui esso non prevedeva che la Regione interessata esprimesse il proprio parere in ordine al rilascio dell’autorizzazione unica per la costruzione e l’esercizio degli impianti nucleari, in via preliminare e distinta rispetto all’intesa con la Conferenza unificata.
Ad avviso dei giudici, lo strumento più adeguato a rappresentare gli interessi della singola Regione è costituito dal parere, obbligatorio seppur non vincolante, che la Regione stessa ha il diritto e dovere di esprimere nella suddetta fattispecie. Attraverso tale parere, infatti, la Regione è messa nelle condizioni di esprimere la propria posizione che rimane distinta, nella sua specificità, da quelle che verranno assunte in sede di Conferenza unificata dagli altri enti territoriali.
Il punto a favore delle Regioni è stato innegabile.
Peraltro, lo stesso decreto n. 31/2010 aveva predisposto un meccanismo finalizzato ad assicurare che il processo arrivasse comunque a buon fine. Al soddisfacimento di tale esigenza corrispondeva il meccanismo del Comitato interistituzionale, composto in modo paritario da componenti nominati dal Ministero dello Sviluppo Economico, dal Ministero dell'Ambiente, dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e dalla Regione, la quale assicura la presenza di un rappresentante del comune interessato.
Nell’impossibilità di costituire il Comitato o di pervenire alla definizione dell'intesa entro 60 giorni, era stato previsto che la decisione venisse assunta con una deliberazione del Consiglio dei Ministri, integrato con la partecipazione del presidente della Regione interessata.
Attenzione però, perché su tale decisione – come hanno avuto cura di precisare i giudici costituzionali – rimaneva impregiudicata la possibilità sia di ricorrere al Tar, sia di proporre nuovo ricorso agli stessi giudici costituzionali.

2.5 Alcune considerazioni a margine della sentenza n. 31/2011

A nostro avviso, la sentenza della Corte costituzionale si prestava ad alcune considerazioni.
In primo luogo, l’asserito obbligo di assumere il parere della Regione interessata riportava nuovamente i termini della questione in ambito locale, dove la ricerca del consenso assume connotati molto più concreti. L’assenso o il diniego a un sito precisamente indicato, che la Regione è chiamata a esprimere per bocca del proprio presidente, andrebbe dichiarato sotto gli occhi, quanto mai attenti, del corpo elettorale; non ci sarebbe stato lo spazio per distinguo o posizioni più o meno articolate e, molto probabilmente, pure la Conferenza unificata si sarebbe allineata su posizioni poco concilianti.
In secondo luogo, quand’anche si fosse arrivati all’«intesa» mediante il ricorso al Comitato interistituzionale e, al limite, al Consiglio dei ministri integrato dalla Regione, quest’ultima poteva ancora ricorrere sia al Tar che, nuovamente, alla Consulta. E ci pare davvero difficile ipotizzare che, arrivati a questo punto dello scontro, la Regione non avrebbe ricorso ancora una volta.
In definitiva: malgrado il lungo contenzioso davanti alla Corte Costituzionale, la “via italiana al nucleare” rimaneva ancora lunga e, soprattutto, impervia. 


3. IL REFERENDUM

3.1 Inevitabile il ricorso alla volontà popolare

Il 10 novembre 2010, si è ufficiosamente appreso che il quorum delle 500 mila firme necessarie per il referendum contro gli “articoli atomici” della legge 99/09 era stato raggiunto e superato, e che molto bassa sarebbe stata la percentuale delle sottoscrizioni annullate dalla Cassazione.
Il quesito era stato infatti presentato, il 29 luglio 2010, insieme a quelli sul “legittimo impedimento” e sulla cosiddetta “privatizzazione dell’acqua”. 
A questo punto, prima di ripercorrere per sommi capi la nuova vicenda referendaria, ci sia consentito ricordare e premettere che siamo in Italia, patria di Machiavelli, Paese in cui tutto può succedere e ogni colpo, se non ammesso, può essere almeno tentato.
Ripercorriamo rapidamente i fatti: nel bulimico decreto legge Omnibus, il d.l. n. 34/2011, dopo essersi affannato in tranquillizzanti dichiarazioni sul disastro giapponese di Fukushima, l’esecutivo si affrettò a stoppare l’iter  della cosiddetta Strategia nucleare, a tal fine introducendo una moratoria di un anno.
Tale frenata, però, non è stata considerata politicamente sufficiente. Si è quindi intervenuti, durante la conversione in legge del decreto, ad abrogare l’intero castello di norme utili per la produzione di energia da fonte elettronucleare. Cosa che, a molti, è legittimamente sembrata nulla più di un arrocco antireferendario, questo perché il quesito referendario sul nucleare, oltre ad essere abbinato ai due sull’acqua pubblica, precedeva quello sul legittimo impedimento.
L’appassionate vicenda non poteva certo finire così in fretta, considerato che l’intervento del governo volto ad anticipare il risultato abrogativo del referendum con il “decreto omnibus”, l’avrebbe dovuto esaminare l’Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte di Cassazione. La cosa sulla carta sarebbe dovuta essere semplice: poco più di un passaggio formale, e tale sarebbe stato se le nuove norme avessero ricalcato pedissequamente il quesito oggetto di consultazione referendaria.
Ciò però non s’è verificato, o almeno non del tutto. I sei giudici hanno ritenuto superato il quesito relativamente ai commi dal 2 al 7 dell’art. 5 del decreto convertito; viceversa, hanno considerato, come dire, ultronei e allo stesso tempo tanto ambigui i commi 1 e 8, al punto di spostare su questi ultimi la consultazione.
Alla base della decisione, vi era un preciso ragionamento.
Il quesito referendario originario abrogava la sola lettera d (“realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare”) dell’art. 7 il decreto-legge n. 112/2008, convertito con modificazioni nella legge n. 133/2008, che prevedeva la stesura di una Strategia energetica nazionale entro il 26 dicembre del 2008.
Al contrario, il testo della legge di conversione – la n. 75/2011 – dell’Omnibus sopprimeva, al comma 2 dell’art. 5, l’intera Strategia, riformulandola nel combinato disposto dei commi 1 e 8. E sono queste le norme diventate oggetto del referendum e nelle quali la produzione, invero, di energia da fonte nucleare più che bandita, veniva rinviata sine die.
Contro tale verdetto a nulla è valso appellarsi alla Corte Costituzionale che con la sentenza n. 25/2011 ha dichiarato ammissibile il corposo quesito referendario e così, come non era difficile prevedere, alla fine si è tornati alle urne. Quasi come la volta scorsa.

3.2 Esito prevedibile, quasi scontato, ma con un effetto collaterale

Un plebiscito referendario non era scontato, tuttavia l’effetto combinato delle campagne per l’acqua “bene comune” e del disastroso incidente nucleare di Fukushima hanno interrotto la lunga serie di quorum mancati.
Il 12 e 13 giugno 2011 ha infatti votato il 54% degli aventi diritto con una maggioranza di Sì superiore al 94%, maggiore a quelle ottenute dai tre quesiti referendari del 1987.
Da ricordare anche l’esito del referendum regionale consultivo, tenutosi il 15 e 16 maggio in Sardegna, contro l’installazione di centrali nucleari e di siti per lo stoccaggio di scorie radioattive. La consultazione, sostenuta dall’abbinamento alle elezioni amministrative, ha visto una partecipazione del 59,5% del corpo elettorale e una vittoria dei "Sì" con una percentuale di oltre il 97%.
Definitivamente superata la questione nucleare, la consultazione referendaria del 2011 rischia di essere ricordata anche per un “incidentale” effetto collaterale dovuto al già richiamato affastellarsi di episodi che ha portato alla riformulazione del quesito.
La vittoria dei “Sì”, determinando l’abrogazione del comma 8, ha cancellato dal nostro ordinamento anche la Strategia Energetica Nazionale (SEN), nella sua seconda versione. Mentre per la SEN, prima versione, è rimasta l’abrogazione per via legislativa (disposta dal comma 2 dell’art. 5 all’Omnibus).
La cosa in verità non sarebbe particolarmente rilevante, se non fosse che il ministro dello Sviluppo Economico del sopravvenuto gabinetto di Mario Monti, Corrado Passera, il 16 ottobre 2012 abbia posto in consultazione sul sito internet del ministero un corposo documento titolato “Strategia Energetica Nazionale: per un’energia più competitiva e sostenibile” e – addirittura – lo stesso ministro Passera insieme al collega dell’Ambiente, Corrado Clini, abbia firmato l’8 marzo un decreto che ha approvato la versione finale del suddetto documento, sulla cui valenza e legittimità diventa naturale sollevare non pochi e non piccoli dubbi.
Di tali perplessità, solo una parte minima riguarda la circostanza che la versione finale del documento sia arrivata, e peraltro non rispettando l’iter procedurale che il Ministro Passera s’era autonomamente dato, dopo la celebrazione delle elezioni e a quasi quattro mesi dal termine della XVI Legislatura, conclusasi infatti il 22 dicembre 2012.