Cass. Sez. III n.37282 del 1 ottobre 2008 (Ud. 12 giu. 2008)
Pres. De Maio Rel. Onorato Ric. Naso
Rifiuti. Abbandono e responsabilità del curatore fallimentare

In tema di abbandono di rifiuti la norma incriminatrice, invero, sanziona penalmente tale condotta solo se imputabile ai "titolari di impresa" o ai "responsabili di enti", perché fa carico a questi soggetti di un qualificato ruolo di responsabilità nella gestione dei rifiuti connessi alla loro attività, riservando invece ai soggetti "comuni" un carico di responsabilità minore, presidiato da una semplice sanzione amministrativa. Ma quando l\'impresa sia dichiarata fallita la responsabilità del suo titolare si trasferisce sul curatore fallimentare, che da una parte è pubblico ufficiale e dall\'altra ha il compito di amministrare il patrimonio dell\'impresa in sostituzione del suo titolare (ex artt. 30 e 31 Legge fallimentare). Si tratta non già di estensione analogica, ma di interpretazione teleologica della norma incriminatrice, secondo la quale, nella soggetta materia, il ruolo del curatore non può ridursi a quello di soggetto "comune".

1 - Con ordinanza del 17.1.2008 il Tribunale di Cosenza, in sede dì riesame, ha confermato il sequestro preventivo che il locale g.i.p. aveva disposto in data 27.11.2007 relativamente ad alcune aree di notevoli dimensioni e a diversi capannoni industriali abbandonati ivi ubicati, che avevano coperture in eternit sfaldate in più parti, e nei quali erano stati depositati rifiuti di ogni genere, ravvisando nella fattispecie i reati di cui all’art. 674 c.p. e all’art. 256, comma 2, D.Lgs. 152/2006.
I beni sequestrati appartenevano al Fallimento della s.r.l. F.I.L. fabbrica loggese Laterizi.
Nel confermare il sequestro, peraltro, il Tribunale del riesame ha autorizzato il custode giudiziale alla rimozione dei sigilli al solo fine di procedere alle operazioni di bonifica dei siti sequestrati.
Il tribunale cosentino ha premesso in fatto che nelle aree in oggetto risultavano abbandonate notevoli quantità di rifiuti, tra cui parti di eternit notevolmente pericolose per la salute pubblica, in particolare i capannoni presentavano le coperture in cemento-amianto (eternit) in uno stato molto avanzato di degrado per effetto della corrosione atmosferica, tanto che le fibre di amianto, non più inglobate nella matrice cementizia, affioravano in superficie e si disperdevano nell’ambiente circostante, con grave pericolo per la salute pubblica. Secondo una nota del Comune di Santa Caterina Albanese, tra le persone residenti nel raggio di dieci chilometri dalla struttura contaminata si erano registrai in dieci anni 74 decessi per patologie neoplastiche, con netta prevalenza delle patologie correlate alla esposizione all’amianto.
In linea di diritto, prendendo in considerazione le censure sollevate dalla curatela fallimentare nella istanza di riesame, il tribunale ha osservato in particolare quanto segue:
- ricorreva indubbiamente la contravvenzione di deposito incontrollato di rifiuti pericolosi di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. 152/2006, peraltro neppure contestata dall’istante;
- ricorreva anche l’ipotesi di cui all’art. 674 c.p., anche se non era stato accertato il superamento dei valori soglia stabiliti dal D.M. 6.9.1994, giacché questi valori sono previsti soltanto per contrastare i rischi connessi alla lavorazione, al trattamento e allo smaltimento dell’amianto, e si riferiscono alle attività autorizzate e controllate, ma non hanno rilievo per la tutela della salute collettiva, messa in pericolo dalla dispersione delle fibre nell’ambiente, che — come nel caso di specie — non è conseguente all’esercizio di un’attività autorizzata;
- secondo i principi affermati da Cass. Sez. Un. n. 29951 del 24.5.2004, Cur. fall. in proc. Focarelli, il giudice penale può disporre il sequestro preventivo c.d. impeditivo ex art.. 321, comma 1, c.p.p., anche su beni appartenenti a imprenditore fallito, senza violare l’art. 42 L. fall. a condizione che, nel giudizio discrezionale sulla pericolosità della res, operi una valutazione di bilanciamento del motivo di cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori, anche attraverso la considerazione dello svolgimento in concreto della procedura concorsuale. Nel caso di specie, il deposito di rifiuti pericolosi continuava ad accrescersi anche in costanza di fallimento, per il perdurante sfaldamento delle coperture di eternit in stato di abbandono ormai da oltre vent’anni, sicché lo spossessamento dell’impresa per effetto del fallimento era inidoneo a scongiurare la protrazione o la reiterazione del reato; senza considerare che gli interessi meramente economici della massa dei creditori cedono necessariamente il passo dinanzi alle più meritevoli esigenze di tutela della salute dei cittadini, che era esposta a rischio per l’esposizione alle polveri di amianto;
- non poteva condividersi la tesi della curatela istante secondo cui l’annullamento o la revoca del sequestro avrebbe facilitato la vendita dei capannoni e quindi la bonifica del sito da parte degli acquirenti. Al contrario la misura cautelare non ostacolava l’alienazione dell’area e non impediva la messa in sicurezza dei capannoni, stante la possibilità di autorizzare la rimozione dei sigilli per procedere alla bonifica, che era compito improrogabile sia del curatore sia dell’eventuale acquirente;
- non aveva rilievo l’impossibilità di individuare gli autori del reato o di ascrivere il fatto al soggetto che aveva l’attuale disponibilità del bene, giacché presupposto del sequestro è solo il fumus di un reato, anche se ne sono ancora ignoti gli autori;
- peraltro, anche il curatore, al quale spetta ex art. 31 Legge fallimentare la gestione dei beni del fallito, aveva il dovere di impedire il continuo accumularsi dei rifiuti pericolosi, che si protraeva anche durante la procedura concorsuale a causa dello stato di abbandono dei capannoni, le cui strutture in cemento-amianto continuavano a sfaldarsi crollando al suolo;
- sotto il profilo delle esigenze cautelari, da una parte il sequestro poteva attenuare i pericoli di contaminazione, vietando l’accesso indiscriminato nell’area da parte di terzi, dall’altra il curatore poteva chiedere di essere autorizzato a rimuovere i sigilli per procedere alle operazioni minime per la messa in sicurezza della zona.
2 - Il difensore del curatore fallimentare ha proposto ricorso per cassazione, deducendo erronea applicazione dell’art. 321 c.p.p. e delle norme incriminatrici, nonché vizio di motivazione.
Osserva che nel caso di specie il sequestro serve non già a impedire a chi ha la disponibilità della cosa di protrarre o reiterate le conseguenze del reato, ma piuttosto a costringere chi ha l’obbligo di conservare e valorizzare l’attivo fallimentare a prendere iniziative di bonifica ambientale che esulano dai suoi compiti istituzionali. supplendo così alla latitanza degli enti pubblici preposti alla difesa dell’ambiente. In particolare, del tutto illogicamente e in contrasto con la funzione dell’istituto, si usa il sequestro non tanto per sottrarre i beni alla disponibilità del curatore fallimentare, quanto per chiamare costui a iniziative virtuose, tentando anche di attrarlo nel cono della responsabilità per i reati ipotizzati.
Aggiunge che non è ravvisabile il fumus dei reati contestati.
Il deposito incontrollato di rifiuti, infatti, è un reato proprio che può essere commesso solo dai “titolari di imprese” o dai “responsabili di enti”, mentre nel caso di specie l’attività imprenditoriale era cessata da oltre dieci anni (essendo il fallimento del 1998), sicché il reato ipotizzato era ormai estinto per prescrizione.
Quanto alla contravvenzione di cui all’art. 674 c.p. sotto la specie dì emissioni di gas, di vapori o di fumo, secondo la corrente giurisprudenza di legittimità, per integrare il reato non è sufficiente che le emissioni siano idonee a recare fastidio, ma è necessario che esse superino gli standards di tollerabilità fissati dalle leggi di settore.
Infondato — secondo il ricorrente — è il tentativo del tribunale del riesame (ma non del g.i.p.) di ipotizzare una responsabilità del curatore fallimentare in ordine ai reati contestati, sia perché una cosa è l’amministrazione dei beni del fallito, che gli spetta ex art. 31 Legge fallimentare, e altra cosa è la gestione ambientale dei rifiuti prodotti da chi aveva amministrato l’impresa, che non rientrano nel patrimonio fallimentare; sia perché non esiste una norma specifica che ponga il curatore in posizione di garanzia ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 40, comma 2, c.p..
Rileva inoltre il difensore che il giudice del riesame non ha effettuato nessuna valutazione di bilanciamento tra l’interesse alla prevenzione speciale contro i reati e l’interesse — altrettanto pubblico — che governa l’ufficio e la procedura fallimentare, come impone la citata sentenza Focarelli. A questo riguardo il giudice del riesame non ha considerato che il fallimento F.I.L. non ha mai avuto liquidità sufficiente per sostenere spese per lo smaltimento dei rifiuti e per il rifacimento delle coperture; e che in concreto la vendita dei capannoni che avrebbe consentito la bonifica — era stata già autorizzata dal giudice delegato, ma è stata di fatto impedita dal sequestro disposto pochi giorni dopo dal giudice penale.

Motivi della decisione

3 - Occorre una precisazione preliminare.
Secondo una giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte, il giudice del riesame di un sequestro preventivo o probatorio, sia pure ai soli fini incidentali, ha il potere di riqualificare giuridicamente il fatto ipotizzato dal pubblico ministero, pur non potendo prescindere dalle concrete risultanze fattuali che l’organo dell’accusa ha indicato a giustificazione della misura (cfr. ex multis Sez. Un. n. 20 dell’ll.l1.1994, P.M. in proc. Ceolin, rv. 199172; Sez. Un. n. 16 del 19.6.1996, Di Francesco, rv. 205617; Sez. 1, n. 4274 del 23.6.1997. Kistenpfenning, rv. 208416).
Questo potere ha fondamento nel carattere pienamente devolutivo del riesame desumibile dal nono comma dell’art. 309 c.p.p., al quale fa rinvio il settimo comma dell’art. 324 c.p.p., a sua volta richiamato dall’art. 257, comma 1, c.p.p..
Analogo potere, invece, non compete al giudice di legittimità investito da ricorso per cassazione contro una ordinanza di riesame confermativa del sequestro, giacché, secondo il principio devolutivo consacrato nell’art. 597, comma 1. c.p.p., che è di generale applicazione per ogni mezzo di impugnazione e non è derogato dall’art. 325 c.p,p., la cognizione del giudice della impugnazione è limitata ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi di censura proposti.
Per il caso di specie, ne consegue che questa Corte deve valutare la legittimità del sequestro preventivo de quo unicamente in relazione ai reati di cui all’art. 674 c.p. e all’art. 256, comma 2, del D.Lgs. 3.4.2006 n. 152. anche se quest’ultimo reato potrebbe eventualmente qualificarsi a norma dell’art. 257 dello stesso decreto, atteso che la fattispecie penale ivi prevista si configura come reato di evento a condotta libera o reato causale puro, nel quale l’evento, consistente in un inquinamento del sito con superamento di determinate concentrazioni soglia di rischio (CSR), è cagionato da una qualsiasi condotta dolosa o colposa, e per il quale la punibilità è condizionata alla omessa bonifica imposta dalla legge (per una più puntuale ricognizione della complicata fattispecie si rinvia a Cass. Sez. III, n. 9794 del 29.11.2006, Montigiani., rv. 235951, nonché a Cass. Sez. III, n. 26479 del 14.3. 2007, Magni, rv. 237131/2. Sul carattere permanente del reato v. anche Cass. Sez. I. n. 29855 del 13.6.2006, Pezzotti, rv. 235255).

4 - Tanto premesso, va disattesa la tesi difensiva che contesta il fumus dei reati ipotizzati.
4.1 - Sicuramente ricorre l’astratta configurabilità della contravvenzione prevista dall’art. 674 c.p, giacché appare pacificamente accertato che dai capannoni abbandonati della società F.I.L. si disperdevano nell’ambiente fibre di amianto, gravemente pericolose per la salute pubblica, anche se non è stato accertato il superamento dei limiti di accettabilità previsti dal D.M. 6.9.1994.
Vero è che, secondo la giurisprudenza che va ora affermandosi, il reato di cui all’art. 674 c.p. non è configurabile nel caso in cui le emissioni di gas, vapori e fumi molesti provengano da un’attività regolarmente autorizzata e siano contenute nei limiti previsti dalle leggi in materia di inquinamento atmosferico, atteso che la espressione codicistica “nei casi non consentiti dalla legge” costituisce una precisa indicazione della necessità che l’emissione avvenga in violazione delle norme di settore, il cui rispetto integra una presunzione di legittimità dell’emissione stessa (Cass. Sez. III, n. 33971 del 21.6.2006, Bortolato, rv. 235056).
Ma è altrettanto vero che, secondo una precisazione assolutamente condivisibile, la necessità di accertare il superamento dei limiti legali di tollerabilità, ai fini della configurabilità dello stesso reato, si pone soltanto per le attività autorizzate che producono le emissioni moleste in oggetto; mentre, nei casi di attività non autorizzate, è sufficiente la semplice idoneità delle emissioni a creare molestia alle persone (Cass. Sez. III, n. 40191 dell’11.10.2007, Schembri, rv, 238054).
Nel caso di specie, come ha accertato con motivazione incensurabile il giudice del riesame, le emissioni in atmosfera, sotto specie di dispersione nell’ambiente di fibre di amianto, non sono state prodotte da un’ attività industriale autorizzata (cessata da circa un decennio per effetto del fallimento della società F.I.L.), ma sono state conseguenza del negligente abbandono agli agenti atmosferici in cui la curatela fallimentare ha lasciato i capannoni industriali contenenti amianto. Perciò, ai fini della integrazione della contravvenzione di cui all’art. 674 cp., non rileva accertare se le emissioni hanno superato i limiti di accettabilità stabiliti dalla legislazione di settore, e in particolare i valori soglia fissati dal D.M. 6.9.1994, o dal D.M. 14.5.1996, come rettificato dal D.M. 25.7.2001, atteso che questi decreti, emanati in base agli artt. 5, comma 1 lett. f) e 6 della legge 27.3.1992 n. 257, disciplinano soltanto le metodologie tecniche per realizzare gli interventi di bonifica dall’amianto.
Si può comprendere a questo punto come sia priva di pregio la doglianza difensiva che contesta la responsabilità del curatore ricorrente; e non solo perché — come ha puntualmente rilevato la ordinanza impugnata — unico presupposto del sequestro preventivo è il fumus del reato a prescindere dalla individuazione del responsabile (c.d. natura reale e non personale della misura).
4.2 - Più problematico, ma egualmente sussistente, è il fumus del reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. 3.4.2006 n. 152.
Entro i limiti propri del giudizio cautelare, appare indubbia la materialità oggettiva del reato, consistente nell’abbandono sul suolo di rifiuti di ogni genere, e non solo di eternit. Si trattava infatti di sostanze di cui la curatela fallimentare aveva — quanto meno — l’obbligo di disfarsi.
Ma si deve ritenere ricorrente anche la qualità soggettiva richiesta dalla norma, che lo qualifica come reato “proprio”. La norma incriminatrice invero, sanziona penalmente l’abbandono o il deposito incontrollato di rifiuti solo se imputabile ai ‘titolari di impresa” o ai “responsabili di enti”, perché fa carico a questi soggetti di un qualificato ruolo di responsabilità nella gestione dei rifiuti connessi alla loro attività, riservando invece ai soggetti “comuni” un carico di responsabilità minore, presidiato da una semplice sanzione amministrativa ex art. 255 D.Lgs. 152/2006.
Ma quando l’impresa sia dichiarata fallita — ad avviso di questo collegio — la responsabilità del suo titolare si trasferisce sul curatore fallimentare, che da una parte è pubblico ufficiale e dall’altra ha il compito di amministrare il patrimonio dell’impresa in sostituzione del suo titolare (ex artt. 30 e 31 Legge fallimentare). Si tratta non già di estensione analogica, ma di interpretazione teleologica della nonna incriminatrice, secondo la quale, nella soggetta materia, il ruolo del curatore non può ridursi a quello di soggetto “comune”.
Del resto, non sembra estranea a questa logica la recente affermazione delle Sezioni unite di questa Corte, secondo la quale la curatela fallimentare non è “terzo estraneo al reato” ai fini di cui all’art. 240, comma 3, c.p. (Sez. Un. n. 29951 del 24.5.2004, Cur. fall. in proc. Focarelli, rv. 228164).
Per queste ragioni, da una parte non può negarsi l’astratta ricorribilità del contestato reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. 152/2006, dall’altra non può affermarsi la sua estinzione per decorso del termine di prescrizione.

5 - Anche il necessario periculum in mora è stato legittimamente accertato dal giudice del riesame.
Con una motivazione incensurabile in questa sede, l’ordinanza impugnata ha osservato che il sequestro tende a impedire l’aggravamento del reato, da una parte attenuando i pericoli dì contaminazione attraverso il divieto di accesso indiscriminato nell’area interessata, e dall’altra consentendo gli interventi minimi di messa in sicurezza, previa autorizzazione alla rimozione dei sigilli, che la stessa ordinanza ha rilasciato a tal fine.
Le censure svolte sul punto dal difensore ricorrente, soprattutto laddove lamentano che la misura tende piuttosto a costringere la curatela fallimentare a prendere iniziative di risanamento ambientale che oltrepassano le sue capacità economiche, esulano dai limiti del ricorso per cassazione contro le misure cautelari reali, che l’art. 325, comma 1, c.p.p. restringe alla violazione di legge, escludendo i vizi di motivazione.
Anche riguardo all’applicazione del principio affermato dalle Sezioni unite di questa Corte nella citata sentenza Focarelli, nessun rimprovero può muoversi alla ordinanza impugnata. Come già ricordato, secondo questa pronuncia, il giudice penale può disporre il sequestro preventivo c.d. impeditivo ex art.. 321, comma 1, c.p.p., anche su beni appartenenti a imprenditore fallito, senza violare l’art. 42 L. fall., a condizione che, nel giudizio discrezionale sulla pericolosità della res, operi una valutazione di bilanciamento del motivo di cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori (v. mass. 228165 della citata sentenza).
Nel caso dì specie, il giudice cautelare, con motivazione incensurabile in questa sede, ha ritenuto che lo spossessamento dell’impresa per effetto del fallimento era inidoneo a scongiurare la protrazione o la reiterazione del reato, considerato che l’abbandono di rifiuti pericolosi continuava ad accrescersi anche in costanza di fallimento, per il perdurante sfaldamento delle coperture di eternit, che erano in stato di abbandono ormai da oltre vent’anni. Le considerazioni di opportunità svolte su questo punto dal difensore della curatela fallimentare, sebbene plausibili, non possono trovare ingresso in questa sede.
6 - In conclusione, il ricorso va rigettato. Consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente alle spese processuali. Considerato il contenuto dell’impugnazione, non si ritiene di irrogare anche la sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende.