Cass. Sez. III n. 5817 del 6 febbraio 2019 (Ud 15 gen 2019)
Pres. Di Nicola Est. Ramacci Ric. Burrini
Rifiuti.Carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni

Nell’ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni, il reato di cui all’art. 256, comma 4 d.lgs. 152/06 è configurabile nei soli casi in cui tale carenza sia attinente alle modalità di esercizio dell’attività, mentre, nella diversa ipotesi in cui essa si risolva nella sostanziale inesistenza del titolo abilitativo, si configura una illecita gestione che certamente sussiste quando oggetto dell’attività sono rifiuti diversi da quelli indicati nelle comunicazioni ed iscrizioni.


RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Pordenone, con sentenza dell’11 giugno 2018 ha affermato la responsabilità penale di Paolo BURRINI, che ha condannato alla pena dell'ammenda, per il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a) d.lgs. 152/2006 sulla base della seguente imputazione: “perché, quale legale rappresentante della società FRIULRAME s.r.l. non osservava le prescrizioni contenute nella attestazione di iscrizione al registro provinciale delle imprese che effettuano recupero rifiuti in forma semplificata. In particolare, nell'anno 2014, effettuava un'attività di raccolta e di stoccaggio di rifiuti metallici non pericolosi, provenienti per la maggior parte da privati cittadini, raccogliendoli e trasportandoli presso il centro di recupero con il codice CER 20 01 40, proprio dei rifiuti urbani (rifiuti domestici e assimilabili, derivanti da attività commerciali e industriali nonché da istituzioni, inclusi i rifiuti della raccolta differenziata). Tra le categorie ammesse alla procedura semplificata è previsto il conferimento del CER 20 01 40 solo se rifiuti sono provenienti da attività industriali, artigianali, agricole commerciali e di servizi: da lavorazione di ferro, ghisa e acciaio, metalli non ferrosi, raccolta differenziata, quindi non provenienti da civili abitazioni. Accertato in Spilimbergo, dal mese di agosto del 2014 al 7 novembre 2014”.
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge, osservando che le indagini avevano consentito di verificare che allegata ai formulari dei rifiuti vi era una scrittura privata con la quale i conferitori dichiaravano che rifiuti provenivano dallo smantellamento delle proprie pertinenze o case di abitazione e che il presupposto della contestazione sarebbe palesemente errato, perché non rispettoso del dettato normativo, in quanto, in forza dell'Allegato A alla Parte Quarta del d.lgs. 152/2006, il codice 20 01 40 sarebbe attribuibile genericamente ai rifiuti urbani (rifiuti domestici e assimilabili prodotti da attività commerciali nonché dalle istituzioni), ivi compresi i rifiuti della raccolta differenziata, senza specificare se tali rifiuti debbano derivare da uso domestico o da attività commerciali, diversamente, quindi, da quanto dedotto nel capo di imputazione.
Si assume che tale circostanza sarebbe confermata da un teste (MASSARO) escusso in dibattimento.

3. Con un secondo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., osservando che il giudice avrebbe condotto un’istruttoria fuorviante rispetto alla originaria contestazione, procedendo a verificare se rifiuti messi in riserva dalla società con il codice 20 01 40 provenissero realmente da un uso domestico e se, in ragione della natura merceologica degli stessi, la società fosse autorizzata indistintamente alla messa in riserva di rifiuti ferrosi e non ferrosi, limitando invece l'autorizzazione provinciale la messa in riserva soltanto dei primi.
Assume altresì che, all'esito del dibattimento, la responsabilità penale sarebbe stata quindi riconosciuta rispetto a condotte diverse da quelle originariamente contestate, in particolare, per avere la società trasportato e messo in riserva, indistintamente, rottami ferrosi, non ferrosi e loro leghe, nonostante l'autorizzazione permettesse trattamento solo dei rottami ferrosi (dunque, esulando dall'accertamento sulla loro provenienza, domestica o industriale); inoltre, per aver dedotto, mediante presunzione, che dalla quantità e quantità delle operazioni di trasporto si potesse considerare che rifiuti provenivano da “imprese produttrici di rifiuti” e non da “rifiuti domestici o assimilati”, con la conseguenza che il codice appropriato avrebbe dovuto essere il 17 non il 20.

4. Con un terzo motivo di ricorso rileva il vizio di motivazione riguardo alle prescrizioni contenute nella attestazione di iscrizione nel registro provinciale delle imprese, in quanto il giudice del merito avrebbe illogicamente dedotto, dalla scheda riassuntiva dell'attività, che la società fosse autorizzata alla sola messa in riserva con il codice 20 01 40 solo di rifiuti di tipologia 3.1 e non di rifiuti, come quelli oggetto di accertamento, di tipologia 3.2.

5. Con un quarto motivo di ricorso viene dedotto il vizio di motivazione relativamente alla questione relativa alla provenienza dei materiali, in quanto le argomentazioni sviluppate dal Tribunale sarebbero conseguenza di un manifesto travisamento delle dichiarazioni di alcuni testimoni (MASSARO, CHIVELLI e BOSCHIAN).

6. Con un quinto motivo di ricorso denuncia la violazione di legge, sostenendo che il fatto contestato non comporterebbe responsabilità penale o, al più, sarebbe riconducibile all’illecito amministrativo di cui all’art. 258 d.lgs. 152/2006, essendo comunque la società del ricorrente autorizzata alla messa in riserva dei rifiuti indicati in imputazione.

7. Con un sesto motivo di ricorso deduce la violazione di legge, in quanto il giudice avrebbe dovuto applicare l’art. 256, comma 4 d.lgs. 152/2006 ed avrebbe comunque irrogato una pena superiore a quella prevista da tale norma.

8. Con un settimo motivo di ricorso rileva il vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.
 
2. Occorre preliminarmente individuare, per la soluzione di gran parte delle questioni prospettate, la tipologia del rifiuto indicato nell’imputazione, classificato con il codice CER 20 01 40.
Come è noto, l’art. 184 d.lgs. 152/06 disciplina la classificazione dei rifiuti, distinguendoli, in base all’origine, in rifiuti urbani e rifiuti speciali, che possono, a loro volta, distinguersi, in base alle caratteristiche di pericolosità, in rifiuti pericolosi e non pericolosi.
L’allegato D alla Parte Quarta del d.lgs. 152/06 contiene l’elenco dei rifiuti, il quale indica le diverse tipologie di rifiuti, i quali sono contrassegnati da codici a più cifre che ne consentono una rapida individuazione secondo le indicazioni fornite nella parte introduttiva del citato allegato.
La prima coppia di cifre del codice identifica l’origine e la provenienza del rifiuto (classe), la seconda coppia individua il processo che lo ha prodotto (sottoclasse), mentre le ultime due cifre specificano la tipologia del rifiuto.
Ne consegue che, nel caso di specie, il codice 20 individua, quale classe del rifiuto, quella dei “Rifiuti urbani (rifiuti domestici e assimilabili prodotti da attività commerciali e industriali nonché dalle istituzioni) inclusi i rifiuti della raccolta differenziata”, il codice 01 determina la sottoclasse in quella delle “frazioni oggetto di raccolta differenziata (tranne 15 01)” mentre la tipologia specifica del rifiuto indicata dalle ultime due cifre (40) è quella dei metalli.
Per i rifiuti classificati con il codice 20 01 40 è consentito il recupero ed il d.m. 5 febbraio 1998, il quale riguarda la «individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22» ed è espressamente richiamato, con riferimento alle attività di recupero, dall'art. 214, comma 4 d.lgs. 152/06, il quale ne prevede l'applicabilità sino all'adozione dei decreti previsti dal comma 2 del medesimo articolo, considera il codice suddetto in diversi punti dell’Allegato 1 (3.1, 3.2, 3.4, 3.5, 3.6, 3.12, 5.6).
Negli allegati al d.m. del 1998 (Allegati 1, 2 e 3), come precisato dall’art. 1, comma 2, sono definite le norme tecniche generali che, ai fini del comma 1, individuano i tipi di rifiuti non pericolosi e fissano, per ciascun tipo di rifiuto e per ogni attività e metodo di recupero degli stessi, le condizioni specifiche in base alle quali l'esercizio di tali attività è sottoposto alle procedure semplificate.
Il punto 3.1 dell’Allegato 1 individua, relativamente al codice 20 01 40, che qui interessa, i rifiuti della tipologia “rifiuti di ferro, acciaio e ghisa”, con provenienza “attività industriali, artigianali, agricole, commerciali e di servizi; lavorazione di ferro, ghisa e acciaio, raccolta differenziata; impianti di selezione o di incenerimento di rifiuti; attività di demolizione” ed aventi le seguenti caratteristiche: “rifiuti ferrosi, di acciaio, ghisa e loro leghe anche costituiti da cadute di officina, rottame alla rinfusa, rottame zincato, lamierino, cascami della lavorazione dell'acciaio, e della ghisa, imballaggi, fusti, latte, vuoti e lattine di metalli ferrosi e non ferrosi e acciaio anche stagnato; PCB, PCT < 25 ppb, ed eventualmente contenenti inerti, metalli non ferrosi, plastiche, etc., < 5% in peso, oli < 10% in peso; non radioattivo ai sensi del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 230”.
Le operazioni di recupero consentite sono, oltre al recupero diretto in impianti metallurgici o in industria chimica [R4], anche la messa in riserva [R13] per la produzione di materia prima secondaria per l'industria metallurgica mediante selezione, eventuale trattamento a secco o a umido per l'eliminazione di materiali e/o sostanze estranee in conformità a caratteristiche [R4] specificamente indicate.
La messa in riserva, come già precisato dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 7160 del 15/12/2016 (dep. 2017), Bozza, non massimata, con richiami ai precedenti) costituisce un'attività prodromica al recupero dei rifiuti, come si ricava dalle definizioni di “stoccaggio” di cui all’art. 183, lett. aa) d.lgs. 152/06, il quale individua come tale “le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell'allegato B alla parte quarta del presente decreto, nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di rifiuti di cui al punto R13 dell'allegato C alla medesima parte quarta” e nella definizione di “recupero”, definito, sempre, nell’art. 183, alla lett. t), come “qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all'interno dell'impianto o nell'economia in generale”.
La medesima disposizione precisa, nell'ultimo periodo della menzionata lett. t), che l'Allegato C alla Parte IV del d.lgs. 152\06 riporta un elenco non esaustivo di operazioni di recupero, tra le quali può individuarsi, alla voce R13, la «messa in riserva di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni indicate nei punti da R1 a R12 (escluso  il  deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)».

3. Secondo quanto accertato in fatto dal giudice del merito, nella scheda riassuntiva dell’attività iscritta al registro provinciale di cui all’art. 216 d.lgs. 152/06, acquisita agli atti del processo, la società del ricorrente era abilitata, quanto alla messa in riserva, soltanto per i rifiuti con codice 20 01 40 di cui alla tipologia definita dal punto 3.1. del d.m. 5 febbraio 1998, mentre tale codice non figura tra quelli che identificano, nella medesima scheda, i rifiuti della tipologia di cui al punto 3.2 del medesimo decreto ministeriale.
Aggiunge poi la sentenza impugnata che l’attività ha riguardato, indistintamente, non soltanto rifiuti di ferro acciaio e ghisa riconducibili alla tipologia 3.1 di cui all’Allegato 1 del d.m. del 1998, ma anche rifiuti di metalli non ferrosi o loro leghe di cui al punto 3.2 del medesimo allegato. Inoltre, tali rifiuti, per quantità e numero dei conferimenti, non potevano ritenersi corrispondenti alla provenienza domestica dichiarata.  

4. Alla luce di tale premessa, risulta dunque infondato l’assunto contenuto nel primo motivo di ricorso,  il quale, peraltro, contiene un errato riferimento all’Allegato A alla Parte Quarta del d.lgs. 152/06, (abrogato dal d.lgs. 205/2010), poiché, secondo tipologia, classificazione e provenienza del rifiuto, come accertata nel giudizio di merito, doveva ritenersi non consentita la messa in riserva, con la conseguenza che il capo di imputazione non è affatto basato su un errato presupposto, come affermato in ricorso.

5. Tale evenienza, unitamente al complessivo sviluppo della motivazione posta a sostegno dell’impugnata decisione, pone in evidenza anche l’infondatezza del secondo motivo di ricorso, non rilevandosi alcun difetto di correlazione tra imputazione e sentenza.
La diversità del fatto accertato rispetto a quello contestato si ha, infatti, quando il secondo si pone, rispetto al primo, in un rapporto di completa eterogeneità, cosa non verificatasi nella fattispecie in esame.
La giurisprudenza di questa Corte ha peraltro rilevato, in più occasioni, che la violazione di detto principio sia ravvisabile soltanto quando la modifica dell'imputazione pregiudichi le possibilità di difesa dell'imputato (cfr. ex pl. Sez. 2, n. 17565 del 15/3/2017, Beretti, Rv. 269569; Sez. 2, n. 34969 del 10/5/2013, Caterino e altri, Rv. 257782; Sez. 6, n. 6346 del 9/11/2012 (dep. 2013), Domizi e altri, Rv. 254888; Sez. 3, n. 41478 del 4/10/2012, Stagnoli, Rv. 253871; Sez. 3, n. 36817 del 14/6/2011, T. D. M., Rv. 251081; Sez. U, n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv. 248051).
Nel considerare la questione in esame, inoltre, si è anche tenuto conto dei principi stabiliti dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo (Corte Europea, 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia; Corte Europea, 25 marzo 1999, Pellissier e Sassi c. Francia) che questa Corte ha avuto modo di richiamare (Sez. 6, n. 20500 del 19/2/2010, Fadda, Rv. 247371), ricordando che “la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha affermato che la portata dell'art. 6, par. 3, lett. a) e b) della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo impone un concetto ampio del principio del contraddittorio, che non si limita solo alla formazione della prova, ma che proietta i suoi effetti anche alla valutazione giuridica del fatto. In sostanza, l'imputato deve essere messo nelle condizioni di discutere in contraddittorio ogni profilo dell'accusa che gli viene mossa, compresa la qualificazione giuridica dei fatti addebitati. Il diritto ad essere informato dell'accusa e, quindi, dei fatti materiali posti a suo carico e sui quali si fonda l'accusa stessa, implica il diritto dell'imputato a preparare la sua difesa, sicché se il giudice ha la possibilità di riqualificare i fatti, deve essere assicurata all'imputato la possibilità di esercitare il proprio diritto alla difesa in maniera concreta ed effettiva: ciò presuppone che sia informato, in tempo utile, sia dell'accusa, sia della qualificazione giuridica dei fatti a carico”.
Sempre in applicazione di tali principi, si è ulteriormente chiarito che la diversa qualificazione giuridica del fatto non determina la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. quando appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile e l'imputato ed il suo difensore abbiano avuto, nella fase di merito, la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell'imputazione, anche attraverso l'ordinario rimedio dell'impugnazione (Sez. 2, n. 46786 del 24/10/2014, PG. PC. e Borile, Rv. 261052; Sez. 5, n. 7984 del 24/9/2012 (dep. 2013), Jovanovic e altro, Rv. 254649. V. anche Sez. 1, n. 9091 del 18/2/2010, Di Gati e altri, Rv. 246494).
Inoltre, nella decisione in precedenza richiamata (SS.UU. n. 36651\2010, cit.) le Sezioni Unite hanno anche precisato che l'indagine finalizzata alla verifica della violazione del principio di correlazione non deve esaurirsi nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza, in quanto, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, non vi è violazione quando l'imputato, attraverso lo sviluppo del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione.
Deve conseguentemente tenersi conto non soltanto del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, in modo tale da porlo in condizione di esercitare le sue difese sull'intero materiale probatorio valorizzato ai fini della decisione (Sez. 2, n. 17565 del 15/3/2017, Beretti, Rv. 269569, cit.; Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278; Sez. III n. 15655, 16 aprile 2008 ed altre prec. conf.).

6. Il terzo motivo di ricorso, è invece generico, in quanto si limita a dedurre la illogicità e contraddittorietà della motivazione sulla base dell’apodittica affermazione secondo la quale il giudice del merito avrebbe errato nel ritenere la società del ricorrente autorizzata alla messa in riserva dei soli rifiuti di cui al punto 3.1 dell’Allegato 1 al d.m. del 1998, risultando il contrario proprio dal contenuto del documento prodotto e dall’esito del dibattimento, senza ulteriori specificazioni.

7. Anche il quarto motivo di ricorso è inammissibile, perché articolato in fatto e formulato attraverso la prospettazione di una lettura alternativa delle emergenze processuali non consentita nel giudizio di legittimità, ove neppure è possibile la verifica della corrispondenza della attività effettivamente effettuata e quella dichiarata con l’attuazione della procedura semplificata, trattandosi, anche in questo caso, di valutazione riservata al giudice del merito.  

8. Manifestamente infondato risulta anche il quinto motivo di ricorso, perché la condotta penalmente rilevante è stata correttamente qualificata.
Invero, la società del ricorrente operava in regime di procedura semplificata, ai sensi dell’art. 216 d.lgs. 152/06, sicché deve richiamarsi quanto recentemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale lo svolgimento di attività di gestione in forma semplificata, al di fuori delle condizioni prescritte all’atto della richiesta iniziale o nella richiesta di rinnovo, fa insorgere il pericolo, che il legislatore ha voluto prevenire, richiedendo l’assoggettamento dell’attività ad un controllo della Pubblica Amministrazione, divenendo conseguentemente illegale ai sensi dell’art. 256, comma primo, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, la prosecuzione in difformità dal titolo o dalle condizioni indicate nella richiesta, di rinnovo o di rilascio iniziale (Sez. 3, n. 2401 del 5/10/2017  (dep. 2018), Mascheroni, Rv. 272041).
Ciò basta ad escludere la possibilità di collocare la condotta posta in essere nel diverso ambito di uno degli illeciti amministrativi contemplati dall’art. 258 d.lgs. 152/2006, che, peraltro, non viene neppure specificamente individuato in ricorso.

9. Quanto al sesto motivo di ricorso, deve osservarsi che il ricorrente, sostanzialmente, ipotizza la configurabilità della meno grave violazione di cui all’art. 256, comma 4 d.lgs. 152/06, la quale, come è noto, sanziona l’inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché le ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni.
Si tratta, come è noto, di reato autonomo, integrante un'ipotesi attenuata rispetto alle fattispecie di cui ai primi tre commi dell'art. 256 e non anche di circostanza.
La differenza tra le diverse disposizioni è, peraltro, evidente, in quanto i reati di cui ai primi tre commi dell’art. 256 riguardano attività svolte in assenza di titolo abilitativo, mentre la fattispecie attenuata di cui al quarto comma del medesimo articolo di tale titolo presuppongono l’esistenza.
Come è stato già osservato dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 13232 del 18/2/2010, Monaco, non massimata) le ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni rendono problematica la distinzione tra le diverse ipotesi di reato, potendosi tale situazione risolvere nella sostanziale inesistenza del titolo abilitante, dal momento che vi deve essere coincidenza tra il possesso dei requisiti specifici e l'esercizio della corrispondente attività di gestione, con la conseguenza che l'assenza dei requisiti e/o delle condizioni richiesti per una determinata attività di gestione dei rifiuti potrebbe comportare l'impossibilità di ricorrere alla procedura semplificata, prospettandosi così la sussistenza di connotati offensivi identici a quelli derivanti dall’esercizio dell'attività di gestione dei rifiuti senza autorizzazione.
Del tutto condivisibilmente, la richiamata decisione ha ricordato come la soluzione del problema sia stata individuata operando una distinzione tra requisiti e condizioni incidenti sulla medesima sussistenza del titolo abilitativo e quelli che, invece, riguardano unicamente le modalità di esercizio della medesima attività, richiamando, a titolo esemplificativo, precedenti decisioni nelle quali il trasporto di rifiuti diversi rispetto a quelli per i quali si era chiesta l'iscrizione nell'albo dei trasportatori, è stato qualificato come illecita gestione di cui al primo comma dell’art. 256 (Sez. 3, n. 43849 del 6/11/2007, De Pascalis, Rv. 238074), mentre il trasporto di rifiuti con mezzi diversi da quelli comunicati, incidendo solo sulle modalità di esercizio dell'attività, si è ritenuto configurare l'ipotesi attenuata (Sez. 3, n. 5342 del 19/12/2007 (dep.2008), Tanzarella e altro, Rv. 238799. Conf. Sez. 3, n. 6739 del 28/11/2017 (dep.2018), Arruzzo e altri, Rv. 272316; Sez. 3, n. 12374 del 9/3/2005, Rosafio, Rv. 231078). A conclusioni analoghe risultano pervenute anche altre decisioni (Sez. 3, n. 34543 del 19/05/2017 - dep. 14/07/2017, Mascitti, Rv. 270964; Sez. 3, n. 11495 del 15/12/2010 (dep. 2011), Oliva, Rv. 249819; Sez. 3, n. 773 del 25/11/2009 (dep. 2010), Guerrieri, Rv. 245901; Sez. 3, n. 33887 del 7/4/2006, Strizzolo e altro, Rv. 235046).

10. Occorre dunque ribadire che, nell’ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni, il reato di cui all’art. 256, comma 4 d.lgs. 152/06 è configurabile nei soli casi in cui tale carenza sia attinente alle modalità di esercizio dell’attività, mentre, nella diversa ipotesi in cui essa si risolva nella sostanziale inesistenza del titolo abilitativo, si configura una illecita gestione che certamente sussiste quando oggetto dell’attività sono rifiuti diversi da quelli indicati nelle comunicazioni ed iscrizioni.  
Ciò è quanto accertato dal giudice del merito nel caso di specie.
Va aggiunto, quanto alla determinazione della pena, che la sentenza ne giustifica l’entità sulla base della quantità rilevante di rifiuti trattato e l’arco temporale, ritenuto non circoscritto, entro il quale la condotta è stata posta in essere.

11. Per quanto riguarda, infine, il settimo motivo di ricorso, si osserva che il giudice del merito ha ritenuto l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, il quale  presuppone la sussistenza di positivi elementi di giudizio e non costituisce un diritto conseguente alla mancanza di elementi negativi connotanti la personalità del reo, cosicché deve ritenersi legittimo il diniego operato dal giudice in assenza di dati positivi di valutazione (Sez. 3, n. 19639 del 27/1/2012, Gallo, Rv. 252900; Sez. 1, n. 3529 del 22/9/1993, Stelitano, Rv. 195339 ;  Sez. 6,  n. 6724 del 1/2/1989, Ventura, Rv. 181253).

12. Quanto alla sospensione condizionale della pena, il giudice non l’ha applicata in ragione della natura solo pecuniaria della pena inflitta, dando peraltro atto che non vi è stata nessuna richiesta in tal senso da parte della difesa, sicché il ricorrente non può ora dolersene in questa sede. La correttezza di tale decisione sembra peraltro trovare conferma in una recente decisione delle Sezioni  Unite di questa Corte, assunta il 25/10/2018 con sentenza non ancora depositata, la quale, come indicato nella notizia di decisione, ha risolto la questione proposta (“Se, e a quali condizioni, il giudice d’appello debba motivare il concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere di applicare d’ufficio la sospensione condizionale della pena”) affermando che “fermo il dovere di motivazione da parte del giudice, l'imputato non può dolersi della mancata applicazione della sospensione condizionale della pena, qualora non l'abbia richiesta nel giudizio di appello”.  

13. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità  consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00



P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 alla Cassa delle ammende.
Così deciso in data 15/1/2019