TAR Friuli sent.342 del 10 maggio 2007
Rifiuti. Classificazione impianto di trattamento
Vicenda relativa a società per azioni a partecipazione pubblica (per il 95, 5% del Comune di Udine) che ha la gestione di impianto di trattamento rifiuti in ordine al quale la Provincia di Udine, in sede di rinnovo dell’autorizzazione alla gestione dell’impianto stesso, da un lato lo ha qualificato come impianto di solo smaltimento e non già anche di recupero, e, dall’altro, ha imposto in aggiunta una serie di restrizioni e condizioni ritenute, al pari della suaccennata declassificazione, sotto vari profili illegittime.

 

Ric. n.  391/06 R.G.R.                                               N. 342/2007 Reg. Sent.

repubblica italiana

in nome del popolo italiano

Il Tribunale amministrativo regionale del Friuli - Venezia Giulia, nelle persone dei magistrati:

Vincenzo Borea  - Presidente, relatore

Oria Settesoldi – Consigliere

Vincenzo Farina - Consigliere

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ric. n 391/06, proposto dalla soc. NET s.p.a.,  rappresentata e difesa dall’avv. Luca De Pauli, e domiciliata con il medesimo in Trieste presso la Segreteria del Tribunale;

contro

la Provincia di Udine, rappresentata e difesa dagli avvti Andrea Raccaro e Massimo Raffa;

                                                 con l’intervento ad adiuvandum

del Comune di Udine, rappresentato e difeso dagli avv.ti  Giuseppe Sbisà, Claudia Micelli e Giangiacomo Martinuzzi,

per l’annullamento

della determinazione dirigenziale 31 maggio 2006 avente ad oggetto il rinnovo dell’autorizzazione alla gestione dell’impianto di trattamento rifiuti sito in Udine, Via Gonars n. 40, nelle parti in prosieguo meglio determinate, nonché della determinazione dirigenziale 1° giugno 2006 , di integrazione della precedente;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della P.A;

Visti gli atti di causa;

Viste le memorie delle parti;

Nominato relatore alla pubblica udienza del  10 gennaio 2007 il presidente Borea e uditi i difensori delle parti come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

                                            FATTO E DIRITTO

A. La società ricorrente, premesso di essere una società per azioni a partecipazione pubblica (per il 95, 5% del Comune di Udine) e di avere la gestione dell’impianto di trattamento rifiuti di cui è causa,  si duole del fatto che la Provincia di Udine, in sede di rinnovo dell’autorizzazione alla gestione dell’impianto stesso, da un lato lo abbia qualificato come impianto di solo smaltimento e non già anche di recupero, e, dall’altro, abbia imposto in aggiunta una serie di restrizioni e condizioni ritenute, al pari della suaccennata declassificazione, sotto vari profili illegittime.

Ricorda la ricorrente in fatto che l’impianto in questione esiste ed opera dalla metà  dalla fine degli anni ‘80, e che fin dall’origine fu strutturato, e come tale fu autorizzato, in modo da poter recuperare dai Rifiuti Solidi Urbani (R.S.U.) di cui si alimenta anche una certa quantità sia di  compost, dalla frazione organica, e cioè di fertilizzante per uso agricolo,  e sia di Combustibile Derivato da Rifiuti (C.D.R.), dalla frazione secca.

Va precisato che l’interesse al ricorso si fonda sul fatto che la declassificazione operata dalla P.A. qualificando l’impianto come impianto di smaltimento, anziché di recupero ( R3 dell’allegato C alla parte quarta del D.L.vo n. 152/06, vale a dire riciclo/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi, comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche), comporta automaticamente l’onere di pagamento per intero della cosiddetta “ecotassa” prevista per lo smaltimento dei rifiuti, anziché in misura ridotta al 20% come previsto dall’art. 3, comma 40, della L. n. 549/95.

B) Ciò premesso, ritiene il tribunale che le articolate doglianze mosse avverso la suaccennata declassificazione, dovuta, secondo quanto sembra emergere dalla pur telegrafica motivazione sul punto contenuta  nelle premesse della determinazione oggetto di impugnativa (pp. 6 e 7), al basso valore percentuale di compost, CDR e materiale ferroso prodotti (rispettivamente 8,48%, 1,23% e 6,33%, per un totale di 16,04% rispetto al quantitativo di rifiuti in ingresso),  siano fondate.

Anche a voler infatti sorvolare sulla dedotta violazione dell’art. 10 bis della L. n. 241/90, e cioè sul mancato preavviso di provvedimento (in parte) negativo,  nonché sulla denunciata incongruenza per aver l’Amministrazione dapprima  aggravato il procedimento richiedendo un non previsto parere dell’A.S.S. competente per poi inopinatamente rinunciarvi, si deve infatti ritenere che non sia dato di comprendere su quali basi concretamente  attendibili si fondi la conclusione cui è pervenuta sul punto la Provincia di Udine, ove si tenga conto, come giustamente si sottolinea,

a), che l’art. 183, lett. h), del D.L.vo n. 152/06, pur puntualmente richiamato nelle premesse dell’atto impugnato, definisce come attività di recupero “le operazioni che utilizzano rifiuti per generare materie prime secondarie…attraverso trattamenti meccanici, termici, chimici o biologici, incluse la cernita e la selezione”;

b), che l’obiettivo di fondo cui si ispira la disciplina normativa in materia, contenuta ora negli artt. 179 e ss. del suddetto DL.vo n. 152/06,  è quello, a tutela dell’ambiente, di favorire  progressivamente la riduzione della produzione di rifiuti (art. 179), ciò che, in primo luogo, comporta la riduzione dello smaltimento  nelle discariche mediante riutilizzo, reimpiego e riciclaggio, ovverossia in una parola recupero, mediante la trasformazione dei rifiuti in prodotti commerciabili quali ad es. il compost da utilizzare in agricoltura e il CDR per produrre energia nutrendo i termovalorizzatori: così oltre al miglioramento della tutela ambientale, raggiungendosi l’ulteriore obiettivo di rendere i rifiuti un bene economico, ciò che spiega bene l’incentivo di cui al ricordato art. 3 comma 40 L. n. 549/95 (art. 181);

c) che la rigida presa di posizione di oggi contraddice apertamente quanto in precedenza si era autorevolmente affermato nel Piano Regionale di gestione dei rifiuti (D.P.G.R n. 44 del 12 febbraio 2001) e nel conseguente programma provinciale di attuazione del suddetto Piano regionale, dato che in entrambe le dette deliberazioni si dà atto dell’attività di recupero CDR e compostaggio esercitata ; ed anzi è stata la stessa Provincia, con l’atto di voltura nella gestione  dell’impianto da Daneco all’attuale ricorrente, risalente ad appena tre mesi prima, 17 febbraio 2006, a qualificare l’impianto come impianto di smaltimento e recupero (per non dire dell’art. 10 del dispositivo della stessa deliberazione qui impugnata, il quale, descrivendo l’impianto in questione, parla apertamente di “metodo di trattamento e di recupero autorizzato”;

d) che il diniego di autorizzazione all’esercizio della attività di recupero non trova altra motivazione che non sia la mera indicazione di un valore percentuale del compost  prodotto, ciò che in definitiva induce a supporre, si aggiunge, che la Provincia abbia ritenuto che l’impianto recuperi “troppo poco;

e) che non varrebbe opporre che l’art. 3, comma 3, del D.M. 5 febbraio 1998 assoggetta al regime dei rifiuti i prodotti di materie prime e  le materie prime secondarie ottenuti dalle attività di recupero che non vengono destinati all’utilizzo nei cicli di consumo  o di produzione, dato che tale disposizione  riguarda gli impianti autorizzati secondo le procedure semplificate di cui all’art. 33  del D.L.vo n. 22/97, mentre nella specie l’impianto della ricorrente è stato autorizzato in via ordinaria (art. 28), senza contare che nella stessa delibera impugnata (pag. 6 in fondo) si dà atto che i materiali ottenuti dal ciclo[_1]  di trattamento previsto dagli atti progettuali sono stati destinati in modo effettivo ed oggettivo all’utilizzo nei cicli di consumo e produzione (sia pur per concludere poi inopinatamente che i valori percentuali di produzione di CDR e compost sarebbero troppo bassi per attribuire all’im pianto la natura di impianto di recupero).

Va premesso che nessuna norma della parte quarta del T.U. sull’ambiente  n. 152/06 fissa un limite preciso in termini di quantitativi percentuali di rifiuti sottratti alla destinazione finale in discarica in quanto trasformati in CDR o compost al di sotto del quale l’impianto ove i rifiuti solidi urbani vengono recapitati debba essere classificato come di smaltimento anziché come di recupero.

La resistente difesa si sofferma  a lungo (a ben vedere inoltrandosi, per vero inutilmente, in una non consentita operazione di integrazione motivazionale), da un lato, su di un piano procedurale, sugli artt. 208 e 210 della disciplina ora introdotta, ove si dice che le autorizzazioni nel nuovo regime devono tener conto del “metodo di trattamento e recupero” e, dall’altro, sul piano sostanziale, per tentare di spiegare per quali ragioni, incontestati essendo da parte ricorrente le percentuali di recupero accertate, “le operazioni esercitate nell’impianto rientrano tra quelle di smaltimento di cui all’allegato B della parte quarta ed in particolare  tra quelle di cui alle lettere D8-D9-D13 e D14”. Il che però (precisato poi che non si comprende il richiamo alla necessità di applicare il nuovo regime quando poi risulta che il suddetto allegato B, come anche il successivo allegato C, di cui più avanti, si trovavano, identici, in calce al D.Lvo n. 22/97) non appare affatto risolutivo, giacchè se è vero che sotto la rubrica “operazioni di smaltimento” di tale allegato B figurano anche, in via residuale, i trattamenti biologici e fisico-chimici non specificati altrove (D8 e D9) cui fa riferimento la memoria resistente,  occorre anche tener presente che nel N.B. che precede l’elencazione delle operazioni di smaltimento si ha cura di precisare che l’elencazione in questione riguarda le operazioni “come avvengono nella pratica”, e non assume quindi una valenza normativa cogente, rispetto alla quale normativa, anzi, come già si è poc’anzi accennato e come meglio si vedrà più avanti, la previsione si pone  in contrasto, posto che l’obiettivo finale è quello di non portare a smaltimento e cioè a discarica i rifiuti che possono essere trattati, sottratti alla destinazione in discarica  e destinati a utilizzazione commerciale:  il che poi trova conferma nel successivo allegato C, il quale, sotto la rubrica “operazioni di recupero”, contiene anche la voce R3, riciclo/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi, ivi comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche che costituisce appunto l’oggetto della autorizzazione nella specie richiesta e non concessa.

Non varrebbe infine opporre che i risultati conseguiti dalla ricorrente nell’obiettivo  perseguito di sottrarre  rifiuti alla destinazione in discarica ( risultati che si concretizzano, come si è visto, nel valore percentuale del 16,04% dei rifiuti in ingresso) sarebbero lontani dal traguardo del 35% di raccolta differenziata  previsto per il 32 dicembre 2006 dall’art. 205 del D.L.vo n. 152/06.

A prescindere anche dal fatto che tale previsione, come si ammette, riveste valore meramente programmatico, almeno per ora (le pur previste sanzioni,  consistenti in un aumento percentuale dell’ecotassa a carico dei comuni inadempienti, non potranno divenire operative se non dopo la fissazione, con apposito decreto del Ministro dell’Ambiente – quarto comma - dei criteri di calcolo delle percentuali di cui si discute…), appare assorbente considerare che i dati posti a confronto non sono omogenei, dato che l’impianto di cui  al ricorso si nutre  essenzialmente di rifiuti indifferenziati e il valore percentuale che la P.A. ritiene troppo basso riguarda il CDR e il compost, e cioè  prodotti che stanno a valle del ciclo di lavorazione dei rifiuti, mentre la raccolta differenziata si opera a monte, prima dell’inoltro agli impianti di trasformazione.

Non è dato in conclusione comprendere per quali ragioni sostanziali sia stata negata la richiesta autorizzazione al recupero, tenuto anche conto che in precedenza, come si è visto, a livello di programmazione sia regionale che provinciale tale attività risultava pacificamente riconosciuta, e non ha pregio obiettare che un conto è una (astratta) previsione programmatica a monte e un altro conto la verifica in concreto a valle ora operata dalla Provincia del livello effettivo di capacità di recupero in termini percentuali, e ciò sia perché all’incirca il livello percentuale previsto in sede programmatica non era sensibilmente diverso da quello ora accertato, e sia perché, e la circostanza appare particolarmente illuminante, come affermato in pubblica udienza senza smentita da controparte, sino ad ora l’ecotassa è sempre stata pagata nell’importo ridotto, a riconoscimento sostanziale dell’attività di recupero  e non solo di smaltimento svolta (ciò che d’ora in avanti ovviamente, con la contestata declassificazione, non potrebbe più accadere, a tutto vantaggio, si aggiunge maliziosamente, della stessa Provincia, a carico della quale, in quanto destinataria di una consistente porzione della suddetta ecotassa, si ipotizza altresì, non del tutto illogicamente, un possibile conflitto di interessi.

In conclusione, e riprendendo l’accenno operato in precedenza alla ratio legis che mira progressivamente e gradualmente a ridurre lo smaltimento in discarica o in altri modi analoghi, tutti normativamente contrastati in quanto fonti di sicuro inquinamento ambientale, non si vede a quale interesse pubblico possa essere  ragionevolmente preordinata la severa restrizione impugnata, posto che la società ricorrente una volta privata della formale autorizzazione al recupero R3 richiesto e quindi, ciò che ancor più  rileva, anche del corposo incentivo rappresentato dalla riduzione al 20% della ecotassa, sarà probabilmente indotta a portare a discarica anche i quantitativi (pur sempre rilevanti anche se proporzionalmente valutati come determinanti in senso negativo dalla P.A.) ora trasformati ed immessi sul mercato, con vantaggio sia per l’ambiente che per l’economia.

L’accoglimento delle doglianze sin qui esaminate concernenti la risoluzione da ritenersi principale tra quelle contenute nella articolatissima determinazione impugnata, comporta altresì l’accoglimento anche della subordinata censura relativa al divieto di trattare nell’impianto i rifiuti     biodegradabili di cucine e mense (C.E.R. 20 01 08).

Poiché infatti tale divieto viene fatto discendere dal fatto che tale tipo di rifiuti non può essere conferito ad impianti di smaltimento, ma solo ad impianti di recupero, è evidente che una volta affermata l’illegittimità del diniego di autorizzazione al recupero cade anche il presupposto su cui si fonda il divieto in questione.

Divieto che comunque, come si deduce, è illegittimo anche in via autonoma, perché in  chiaro contrasto con un provvedimento di segno contrario adottato dalla stessa Provincia con determinazione n. 462 del 2 maggio 2001, nell’evidente (allora ritenuto) presupposto, come or ora si è visto, che l’impianto dovesse essere considerato come impianto di recupero.

C) Venendo ora alle ulteriori, distinte censure che riguardano altre, marginali ma non per questo meno pregiudizievoli prescrizioni pure contenute nella determinazione impugnata, si deve in primo luogo consentire con le ricorrenti ove rilevano l’illogicità dell’obbligo di trattare i rifiuti entro le ore 24 del giorno di conferimento.

Premesso che su questa, come su tutte le altre censure che si vedranno, la Provincia intimata non si difende affatto, avendo limitato le proprie argomentazioni alla questione principale in precedenza esaminata, deve infatti condividersi l’assunto secondo il quale, se pur di regola i rifiuti vengono conferiti durante la mattinata, con conseguente trattamento dei medesimi nell’arco del pomeriggio con successivo lavaggio dell’area di ricezione in attesa di riprendere il giorno dopo, può accadere che talvolta certi quantitativi di rifiuti vengano conferiti a pomeriggio inoltrato o addirittura poco prima di mezzanotte ovvero  che si verifichino dei guasti temporanei alla linea di lavorazione, con conseguente rinvio al giorno dopo: vero che si potrebbe limitare l’orario di conferimento, ma allora i rifiuti resterebbero nelle strade, con le conseguenze che si intuiscono specialmente nella stagione estiva: meglio sarebbe stato e più logico prevedere l’obbligo di trattamento entro le 24 ore dal conferimento... A ciò aggiungendosi che la P.A. non fornisce alcuna spiegazione delle ragioni preordinate a tutela ambientale che giustificherebbero la prescrizione de qua.

La ricorrente contesta poi l’elencazione tassativa contenuta nella determinazione impugnata dei tipologia di rifiuti in uscita dall’impianto, individuati secondo la numerazione del catalogo europeo rifiuti (C.E.R.), osservando da un lato, in diritto, che spetta al detentore dei rifiuti caratterizzarli accompagnandoli con un certificato di identificazione e accertandone l’idoneità ad essere smaltiti, e da un altro, in fatto, che in relazione alle caratteristiche dei rifiuti può accadere che i codici C.E.R. prefissati possano essere inesatti, ciò che metterebbe in condizioni la ricorrente di non sapere come comportarsi (a pena di sanzioni amministrative).

Anche questo rilievo appare da condividere, posto che in base all’art. 11 L. n. 36/03 spetta al detentore dei rifiuti, prima del conferimento in discarica, specificarne la composizione, mentre l’art. 193 del T.U. n. 152/06 prescrive l’accompagnamento nel trasporto dei rifiuti di un formulario di identificazione con indicazione della tipologia di appartenenza. Il che trova autorevole conferma in una nota dell’A.R.P.A. versata in atti in altra analoga controversia discussa alla data odierna, ove si afferma appunto che “il produttore in quanto conoscitore approfondito della propria attività di impresa”, è il soggetto identificato dalla norma come responsabile della corretta attribuzione del codice C.E.R. da assegnare al rifiuto prodotto”. Anche in questo caso, dunque, non si comprende per quali ragioni (per di più senza motivazione sul punto) si sia ritenuto di dover porre limiti così rigidi alla caratterizzazione della produttività dell’impianto.

Ulteriore ragione di contrasto tra le ricorrenti e l’Amministrazione provinciale è fornita poi dalla mancata previsione, tra le possibili utilizzazioni del compost prodotto, di quella prevista dalla lettera d) di cui al paragrafo 3.4.2. dell’allegato alla delibera del Comitato interministeriale 27 luglio 1984, ove si prevede che per le utilizzazioni diverse da quelle indicate nelle lettere a), b), e c) (vale a dire le utilizzazioni in agricoltura e floricultura, espressamente consentite) “valgono i principi fissati dall’art. 1 del DPR n. 915/82”.

Ora, poiché la disposizione contenuta nel suddetto art. 1 si limitava (né hanno tenore sostanzialmente diverso l’art. 2 del D.L.vo n. 22/97, e, ora l’art. 178 del T.U sull’ambiente) a prescrivere, programmaticamente, che le operazioni di smaltimento e  possibile recupero dei  rifiuti rivestono natura di pubblico interesse e devono salvaguardare la salute umana, l’ambiente, la fauna, la flora e quant’altro, nonché devono privilegiare il riutilizzo e lo sfruttamento energetico dei materiali, non si riesce a comprendere per quali ragioni (né viene esplicitato alcunché al riguardo) il compost prodotto dall’impianto della ricorrente non possa trovare ulteriori utilizzazioni, naturalmente nel rispetto dei principi ora enunciati e dei limiti di cui alla lett. a) del paragrafo 3.4.2. della D.C.I. 27 luglio 1984, oltre a quelle in agricoltura e floricultura di cui si è detto prima.

Ancora, della corposa ed articolata determinazione 31 maggio 2006, si contesta il divieto di  delegare a terzi le operazioni  di rilevazione dei rifiuti in ingresso e in uscita  e dei materiali prodotti e di compilazione dei registri di carico e scarico.

Anche qui, sempre con riguardo alla attribuzione alla Provincia dei poteri in materia di tutela ambientale, sfugge la ragione, in nessun modo evidenziata, della prescrizione imposta,  e non pare affatto illogico quanto in proposito si afferma da parte ricorrente, e cioè che, data per scontata  la responsabilità dei titolari dell’impianto della buona esecuzione di tutte le operazioni che all’interno di esso vengono compiute nell’esercizio dell’impresa, la prescrizione stessa si configura come una ingiustificata limitazione de diritto dell’imprenditore di autoorganizzarsi come meglio crede.

Polemizza poi la ricorrente, non irragionevolmente, con riguardo al fatto che la determinazione impugnata si preoccupa di dettare prescrizioni per il caso di fermo programmato dimenticando invece completamente la ben più grave evenienza di fermo accidentale e quindi imprevisto, evenienza nella quale, si ricorda, come del resto è noto, l’impianto in questione è di recente incappato, allorchè tra i rifiuti conferiti fu rinvenuto un ordigno esplodente (poi di fatto esploso).

Oggetto di censura è poi anche la disposizione secondo la quale scarti, sovvalli e altri rifiuti prodotti devono essere inviati esclusivamente a impianti di bacino situati nella provincia di Udine.

Giustamente anche qui si rileva l’apoditticità e mancanza di motivazione della prescrizione, per di più non sostenuta da valido supporto normativo, posto che l’art. 182 T.U. n. 152/06 proibisce soltanto il trasporto al di fuori dei confini regionali, e per di più tale limitazione riguarda i rifiuti urbani, e non anche i rifiuti speciali (categoria alla quale appartengono i rifiuti derivanti da attività di recupero e smaltimento  (comma 3 lett. g)  art. 184).

Convincentemente altresì viene contestata da parte ricorrente la prevista durata della concessa autorizzazione (cinque anni).

Ancora una volta deve infatti condividersi l’assunto  della ricorrente, dato che la prescrizione, oltre che immotivata, si pone in contrasto con l’art.208, comma 12, del T.U.  n. 152/06, il quale  prevede una durata di dieci anni, con possibilità di rinnovo, e non più cinque, come prevedeva l’abrogato art. 28, comma 3 del D.L.vo n. 22/97, al quale con ogni probabilità ha fatto implicito riferimento l’atto impugnato, salvi naturalmente gli eventuali interventi sanzionatori (sospensione o revoca dell’autorizzazione) in caso di inadempimento delle condizioni e prescrizioni previste nella autorizzazione stessa (art. 208 cit., comma 13).

Quanto invece alla decorrenza del quinquennio previsto, si deve ritenere che questa venga legittimamente ancorata alla data di scadenza della precedente autorizzazione, e cioè al 20 febbraio 2006, a nulla rilevando, contrariamente a quanto si assume, che  questa fosse stata prorogata sino al 31 maggio 2006 con la già ricordata determinazione 17 febbraio 2006. Posto infatti  che la legge prevede un termine fisso alla durata dell’autorizzazione della quale si discute (dapprima cinque anni, ora portati a dieci), deve ritenersi che la proroga concessa, dovuta nella specie presumibilmente al protrarsi delle operazioni di volturazione dell’autorizzazione dall’originario titolare (Daneco) all’attuale ricorrente, e quindi alla rilevata impossibilità di procedere tempestivamente al rinnovo prima della naturale scadenza, costituisca un’appendice di mero fatto, dettata da evidenti ragioni di interesse pubblico alla continuità del servizio svolto dalla società ricorrente, della autorizzazione precedente, in attesa dell’eventuale  rinnovo di questa, come tale incapace di incidere, alterandolo, sulla durata del titolo così come previsto dalla legge. Non si tratta in conclusione di una violazione del principio di irretroattività degli atti amministrativi, bensì, appunto, soltanto dell’osservanza di una norma di legge.

           Neppure può condividersi l’assunto secondo cui senza ragione si prevederebbe che i rifiuti che risultino non trattabili dall’impianto debbono essere asportati preliminarmente e stoccati separatamente per poi essere sottoposti ad analisi merceologica e chimica. Al contrario, da un lato la previsione pare mirata ad impedire l’abbandono dei rifiuti non trattabili, e, dall’altro, sembra chiaro che l’analisi merceologica e chimica viene prevista non in assoluto, bensì ove ciò risulti ragionevolmente necessario (il che può non essere per i …materassi).

Ad analoghe conclusioni negative si deve pervenire con riguardo alla asserita illegittimità della previsione per cui i rifiuti in uscita devono avere un codice C.E.R. appropriato e diverso da quello in entrata. Mentre  infatti la disposizione contestata risulta non essere così rigida come si vorrebbe, dato che ha cura di far salvi i casi di cui ai punti precedenti (vale a dire, ad es., si ritiene, il caso di rifiuti che risultino non trattabili, e così pure il caso di rifiuti depositati nell’area di scarico, che, in caso di guasti, devono essere portati a discarica presumibilmente tal quali), resta il fatto che appare ovvio prevedere che, di regola,  in uscita da un impianto di trattamento i rifiuti subiscano delle trasformazioni e quindi cambino di tipologia.

Non appare neppure condivisibile l’asserita irragionevolezza  e sproporzionalità della prescrizione  con la quale si impone la preventiva comunicazione alla Provincia, al Comune e all’ASS competente dell’avvio a discarica di CDR e compost. Appare infatti ineccepibile il presupposto da cui muove la suddetta prescrizione, e cioè che  l’avvio a discarica di CDR e compost costituisca attività di gestione dell’impianto difforme dalle modalità previste nel progetto approvato (modalità che invece prevedono l’uso commerciale di tali prodotti, rispettivamente come combustibile e come ammendante agricolo), e neppure può ritenersi che l’onere imposto si ponga come sproporzionatamente faticoso per i titolari dell’impianto. Non si comprende poi in che cosa consisterebbe il pregiudizio derivante dalla denunciata  previsione di un obbligo di accompagnare il compost avviato a discarica che sia proveniente da rifiuti indifferenziati con una analisi di caratterizzazione e classificazione chimica,  tenuto conto che tale prodotto, prima di essere utilizzato come materia prima secondaria  è soggetto comunque alla suddetta analisi (onde accertare che possegga le caratteristiche agronomiche indicate nella tabella 3.1 e rispetti i valori limite di accettabilità indicati nella tabella 3.2 della deliberazione del Comitato interministeriale per i rifiuti 27 luglio 1984)  risolvendosi dunque la prescrizione in un semplice onere documentale. Il che pare dimostrato dal diverso trattamento riservato invece al compost fuori specifica (C.E.R.  19 05 03), e cioè allo scarto di impianto di compostaggio, come tale non utilizzabile commercialmente, per il quale, e si comprende perché, contrariamente a quanto si assume, si impone questa volta, a fini di sicurezza ambientale, una apposita analisi, evidentemente in precedenza non fatta, su di un campione di ogni partita del compost che si vuole avviare a discarica.

Contrariamente a quanto pure si assume, l’obbligo di preventiva analisi di caratterizzazione e classificazione chimica appare giustificato, per ragioni di comprensibile prudenza, anche con riguardo al rifiuto contrassegnato con il C.E.R. 19 12 12, in quanto  codice  “specchio” del 19 12 11, il quale a sua volta contiene sostanze pericolose, apparendo impraticabile e pericolosa la suggerita possibilità di distinguere a priori di volta in volta a seconda delle probabilità di una doppia classificazione del medesimo rifiuto.

Dopo quanto si è detto, neppure convince parte ricorrente ove denuncia l’inciso con il quale nella impugnata deliberazione si precisa che le modalità delle analisi di cui sopra, ove da effettuarsi con gli organi di controllo (ad es. l’A.R.P.A.), devono essere concordate preventivamente “con la scrivente Amministrazione e gli organi di controllo stessi”. Non appare infatti irragionevole, contrariamente a quanto si assume, che l’Amministrazione, e per essa gli organi di controllo, intendano garantire, a tutela della sicurezza ambientale, l’efficacia concreta dei…controlli previsti dalla legge.

Proseguendo nell’esame delle puntigliose considerazioni critiche mosse alla determinazione impugnata, devono poi considerarsi irrilevanti i denunciati errori in fatto che sarebbero stati commessi dall’Amministrazione  provinciale nella analitica descrizione dell’impianto contenuta nelle premesse. Contrariamente infatti a quanto si teme, si deve ritenere che l’eventuale riscontro di difformità rispetto alla reale situazione in cui si trova l’impianto (con conseguenze, in tal caso, anche penalmente rilevanti) non potrà certamente prendere le mosse dalla sola descrizione dell’impianto stesso ora operata nella delibera impugnata, appunto perché di mera descrizione si tratta, con la conseguenza che, all’occorrenza, non sarà arduo da parte del gestore dimostrarne l’eventuale inattendibilità ed erroneità.

Infondati per un verso e per un  altro inammissibili appaiono poi i rilievi mossi avverso la riserva espressa nella determinazione impugnata di aggiornare, modificare o sospendere la concessa autorizzazione, anche in base a quanto possa risultare dalle prescrizioni eventualmente imposte dalla ASS competente. Infondati per un verso  perché  è il già ricordato art. 208, comma 13, del D.L.vo n. 152/06 a prevedere la possibilità di interventi, anche sanzionatori, in corso di autorizzazione, ove ne ricorrano i presupposti, e inammissibili per un altro verso perché l’interesse a lamentare l’eventuale illegittima intromissione della ASS nella procedura sorgerà semmai se e quando quest’ultima detterà prescrizioni allo stato inesistenti.

Infine, la ricorrente si duole del fatto che la disciplina transitoria prevista nell’atto impugnato (così come integrato dall’atto 1 giugno 2006)  laddove si specifica che per talune indicate prescrizioni, “al fine di consentire le azioni gestionali che si rendessero necessarie per adeguare l’attività alle prescrizioni contenute nel presente atto”, il termine di efficacia dell’atto stesso è fissato al 1° ottobre 2006, avrebbe “dimenticato” di disciplinare l’attività dell’impianto nel periodo che va dal 31 maggio al 30 settembre. Neppure qui si ritiene di poter condividere le preoccupazioni della ricorrente, essendo infatti evidente che in detto periodo transitorio le prescrizioni da seguire in partibus quibus sono quelle previgenti.

 Esaurito così l’esame delle dedotte censure, il ricorso deve essere, come da motivazione, in parte accolto  in parte respinto.

In considerazione della complessità delle questioni trattate, le spese di giudizio possono essere compensate, ritenendosi altresì equo, tenuto conto della soccombenza parziale, porre a carico della P.A. resistente la metà del contributo unificato.

                                                          PQM

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Friuli-Venezia Giulia, definitivamente pronunciando sul ricorso in premessa, respinta ogni contraria istanza ed eccezione, lo accoglie in parte,  e in parte lo respinge

Spese compensate.

Pone a carico dell’Amministrazione intimata la metà del contributo unificato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla autorità amministrativa.

Così deciso in Trieste, in camera di consiglio, il 10 gennaio 2007.

f.to Vincenzo Borea Presidente Estensore

Depositato nella Segreteria del Tribunale

il giorno 10 maggio 2007

f.to Antonino Maria Fortuna

 


 [_1]rattamento