dai CEAG

Cass. Sez. III sent. 19235 del 20 maggio 2005 (p.u. 15 febbraio 2005)
Pres. Zumbo Est. Fiale Ric. Benzo

Urbanistica e tutela del paesaggio - Natura del reato - Posizione del porprietario dell'area ove insiste l'abuso - Sospensione del procedimento per condono

Il reato paesaggistico è reato formale di pericolo astratto. Non può essere attribuita ad un soggetto, per il solo fatto di essere proprietario dell'area ove insiste l'abuso, un dovere di controllo dalla violazione del quale derivi responsabilità per la violazione urbanistica. La sospensione del processo ex art, 44 legge 47-85 opera indipendentemente dalla pronuncia del giudice (che ha natura meramente dichiarativa) purché sussistano i presupposti di legge. per tali ragioni non è necessario un provvedimento formale di sospensione per l'operatività della stessa, che può essere accertata anche in sede di giudizio finale.

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. ZUMBO Antonio - Presidente - del 15/02/2005
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - SENTENZA
Dott. VANGELISTA Vittorio - Consigliere - N. 295
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. SARNO Giulio - Consigliere - N. 14106/2004
ha pronunciato la seguente:

 

 

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1 - BENZO Leonardo, n. a Pizzo Calabro (VV) il 28.03.1931;
2 - DISTINTO Maria, n. a Napoli il 23.12.1934;
avverso la sentenza 22.12.2003 della Corte di Appello di Napoli;
visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
Udita in Pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. FIALE Aldo;
udito il Pubblico Ministero nella persona del Dott. MELONI Vittorio che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 22.12.2003 la Corte di Appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza 6.12.2002 del Tribunale monocratico di quella città:
a) ribadiva l'affermazione della responsabilità penale di Benzo Leonardo e Distinto Maria in ordine al reato di cui:
- all'art. 163 D.Lgs. a 490/1999, in relaz. all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 (per avere realizzato su un'area di comune proprietà, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, in assenza della prescritta autorizzazione, un muro di recinzione alto mt. 1,70 e lungo circa 30 mt. - acc. in Napoli, fino al 10.10.2000), e, della sola Distinto anche in ordine al reato di cui:
- all'art. 349 cpv. cod. pen. (violazione, in qualità di custode, dei sigilli apposti al manufatto abusivo);
b) e, con le già riconosciute circostanze attenuanti generiche, unificati tutti i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81 cpv. cod. pen., determinava le pene - condizionalmente sospese;
- per la Distinto, in mesi 7 di reclusione ed euro 200,00 di multa e, per il Benzo, in giorni 20 di arresto ed euro 10.340,00 di ammenda, confermando la pena accessoria inflitta per il delitto e l'ordine di rimessione in pristino dello stato originario dei luoghi. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore degli imputati, il quale ha eccepito che:
- i lavori realizzati, in quanto meramente manutentivi e pertinenziali, non richiedevano il rilascio di concessione edilizia;
- l'affermazione di responsabilità del Benzo si ricollega, incongruamente, alla sola sua qualità di coniuge della Distinto;
- non è configurabile violazione di sigilli a fronte di un'attività di mera pitturazione di un muro già finito ed intonacato;
- illegittimamente il procedimento non era stato sospeso, ex art. 44 della legge n. 47/1985, in relazione alla possibilità di sanatoria (c.d. condono edilizio) riconosciuta dall'art. 32 del D.L. 30.9.2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326. MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso deve essere rigettato, perché tutte le doglianze in esso svolte sono infondate.
1. La prima eccezione è assolutamente irrilevante, poiché riferita al rilascio della concessione laddove i ricorrenti non sono stati condannati per reato edilizio.
Secondo l'orientamento costante di questa Corte Suprema (vedi, tra le molteplici pronunzie, Cass., Sez. 3^: 27.11.1997, Zauli ed altri;
7.5.1998, Vassallo; 13.1.2000, Mazzocco ed altro; 5.10.2000, Lorenzi;
29.11.2001, Zecca ed altro; 15.4.2002, P.G. in proc. Negri;
14.5.2002, Migliore; 4.10.2002, Debertol; 7.3.2003, Spinosa;
6.5.2003, Cassisa; 23.5.2003, P.M. in proc. Invernici; 26.5.2003, Sargentini; 5.8.2003, Mori; 7.10.2003, Fierro) il reato di cui all'art. 1 sexies della legge n. 431/1985 (previsto poi dall'art. 163 del D.Lgs. n. 490/1999 ed attualmente dall'art. 181 del D.Lgs. 22.1.2004, n. 42) è reato di pericolo astratto e, pertanto, per la configurabilità dell'illecito, non è necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente, potendo escludersi dal novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e l'aspetto esteriore degli edifici (vedi pure, in proposito, Corte Cost., sent. n. 247 del 1997 ed ord. n. 68 del 1988).
Nelle zone paesisticamente vincolate è inibita - in assenza dell'autorizzazione già prevista dall'art. 7 della legge n. 1497 del 1939, le cui procedure di rilascio sono state innovate dalla legge n. 431/1985 e sono attualmente disciplinate dall'art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004 - ogni modificazione dell'assetto del territorio, attuata attraverso lavori di qualsiasi genere, non soltanto edilizi (con le deroghe eventualmente individuate dal piano paesaggistico, ex art. 143, 5 comma - lett. b, del D.Lgs. n. 42/2004, nonché ad eccezione degli interventi previsti dal successivo art. 149 e consistenti - per quanto rileva nel presente procedimento - nella manutenzione, ordinaria e straordinaria, nel consolidamento statico o restauro conservativo, purché non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici).
Il legislatore, imponendo la necessità dell'autorizzazione, ha inteso assicurare una immediata informazione e la preventiva vantazione, da parte della pubblica Amministrazione, dell'impatto sul paesaggio nel caso di interventi (consistenti in opere edilizie ovvero in altre attività antropiche) intrinsecamente capaci di comportare modificazioni ambientali e paesaggistiche, al fine di impedire che la stessa P.A., in una situazione di astratta idoneità lesiva della condotta inosservante rispetto al bene finale, sia posta di fronte al fatto compiuto.
La fattispecie incriminatrice è rivolta a tutelare, dunque, sia l'ambiente sia, strumentalmente e mediatamente, l'interesse a che la P. A. preposta al controllo venga posta in condizioni di esercitare efficacemente e tempestivamente detta funzione: la salvaguardia del bene ambientale, in tal modo, viene anticipata mediante la previsione di adempimenti formali finalizzati alla protezione finale del bene sostanziale ed anche a tali adempimenti è apprestata tutela penale. La Corte Costituzionale, in proposito, ha precisato (sentenza n. 247 del 1997) che anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo presunto od astratto è sempre devoluto al sindacato del giudice penale l'accertamento in concreto dell'offensività specifica della singola condotta, dal momento che, ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di reato impossibile, ex art. 49 cod. pen. (sentenza n. 360 del 1995).
Nella specie è stato realizzato un muro di recinzione alto mt. 1,70 e lungo circa 30 mt., il cui impatto sul territorio è più che evidente.
La vicenda, pertanto - mancando la dimostrazione che sia stata posta in essere un'attività di mera manutenzione che non abbia alterato lo stato dei luoghi - è caratterizzata dall'esecuzione di opere oggettivamente non irrilevanti ed astrattamente idonee a compromettere l'ambiente: sussiste, quindi, un'effettiva messa in pericolo del paesaggio, oggettivamente insita nella minaccia ad esso portata e valutabile come tale ex ante, nonché una violazione dell'interesse dalla P.A., ad una corretta informazione preventiva ed all'esercizio di un efficace e sollecito controllo. 2. In ordine alla responsabilità del proprietario (o comproprietario) per l'esecuzione di una costruzione priva di un necessario titolo abilitante (nella specie l'autorizzazione paesaggistica), va ribadito l'orientamento di questa Corte secondo il quale non può essere attribuito ad un soggetto, per il solo fatto di essere proprietario di un'area, un dovere di controllo dalla cui violazione derivi una responsabilità penate per costruzione abusiva. Il semplice fatto di essere proprietario o comproprietario del terreno sul quale vengono svolti lavori edili illeciti, pur potendo costituire un indizio grave, non è sufficiente da solo ad affermare la responsabilità penale, nemmeno qualora il soggetto che riveste tali qualità sia a conoscenza che altri eseguano opere abusive sul suo fondo, essendo necessario, a tal fine, rinvenire altri elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che egli abbia in qualche modo concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori abusivi (vedi Cass., Sez. 3^, 29.3.2001, Bertin).
Non può dimenticarsi che legittimato a richiedere il titolo abilitante è, in primo luogo, il proprietario del fondo ed occorre considerare, in sostanza, la situazione concreta in cui si è svolta l'attività incriminata, tenendo conto non soltanto dalla piena disponibilità, giuridica e di fatto, del suolo e dall'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del "cui prodesf") bensì pure: dei rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; dell'eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo; dello svolgimento di attività di materiale vigilanza dell'esecuzione dei lavori; della richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; del regime patrimoniale fra coniugi e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa (cfr. in proposito Cass., Sez. 3^:
29.4.1999, n. 5476, Zarbo; 16.5.2000, Di Marco ed altro; 27.9.2000, n. 10284, Cutaia ed altro; 3.5.2001, n. 17752, Zorzi ed altri;
10.8.2001, n. 31130, Gagliardi; 26.11.2001, Sutera Sardo ed altra). A tale orientamento, che può considerarsi ormai prevalente, aderisce questo Collegio ed alla stregua di esso deve rilevarsi che i giudici del merito hanno esattamente valutato la corresponsabilità del Benzo nell'esecuzione del muro di recinzione, basata su elementi gravi, precisi e concordanti quali: la disponibilità giuridica e di fatto del terreno e dell'abitazione recintata; la convivenza con il coniuge e la residenza stabile nel luogo in cui si è edificato; l'interesse a realizzare il manufatto per esigenze comuni al nucleo familiare. L'imputato, del resto, non ha fornito alcun elemento idoneo a dimostrare la propria inconsapevolezza dell'esecuzione del manufatto abusivo o il veto da esso posto all'attività edificatoria. 3. Le previsioni dell'art. 349 cod. pen. tutelano sia l'integrità materiale sia quella strumentale e funzionale della cosa assoggettata a sequestro: ne consegue che qualunque condotta, anche non determinante la distruzione effettiva dei sigilli o dei loro equivalenti, ma comunque rivolta a frustrare l'assicurazione della cosa per la finalità di pubblico interesse e ad eludere, quindi, il vincolo di immodificabilità imposto con il sequestro, è idonea ad integrare il delitto di violazione di sigilli (vedi, tra le più recenti decisioni in tal senso, Cass., Sez. 3^: 18.6.2003, n. 26185;
8.1.2001, il 36210; 29.2.2000, n. 2508).
Nella specie nessun dubbio può sussistere circa l'effettiva elusione del vincolo di custodia, poiché è stato accertato - in punto di fatto - l'avvenuto proseguimento dei lavori abusivi, con il completamento del muro di recinzione anche in un tratto terminale di esso che era invece incompleto al momento dell'effettuato sequestro. 4. In tema di condono edilizio, nel caso di operatività della sospensione ex art. 44 della legge n. 47/1985 (rivolta a consentire agli interessati di presentare la domanda di sanatoria), se il giudice, per errore, non sospende un procedimento sospendibile, non si produce per ciò alcuna nullità, essendo tale omissione - in relazione al principio di tassatività delle nullità - priva di sanzione processuale (vedi Cass., Sez. 3^: 3.7.1998, n. 7847, Todesco ed altri; 27.7.1995, n. 8545, D'Apice e, con riferimento alla sospensione ex art. 38 della legge n. 47/1985, in seguito alla effettiva presentazione della domanda di condono, Cass., Sez. 3^, 10.12.1997, n. 11334, Fede e 20.6.1995, n. 7021, Spettro). L'omissione della sospensione neppure comporta una incompetenza funzionale temporanea, ma solo un vizio "in procedendo" rilevante qualora sussista un interesse concreto ed attuale a dedurlo (Cass., Sez. 3^, n. 8545/95).
Deve affermarsi, in materia, il principio che la sospensione del processo, ex art. 44 della legge n. 47/1985, opera indipendentemente dalla pronuncia del giudice (che ha natura meramente dichiarativa), purché però sussistano i presupposti di legge. Proprio per la natura dichiarativa, e non costitutiva, della sospensione, non è necessario un formale provvedimento giudiziale per la operatività di essa, che può essere accertata anche in sede di giudizio finale (Cass., Sez. 3^, 14.5.1999, n. 6054, P.M. in proc. Bartaloni ed altri).
Nella fattispecie in esame i ricorrenti non hanno alcun interesse a lamentare il vizio "in procedendo" in questione, poiché non hanno dimostrato di aver subito alcun pregiudizio, ne' di avere successivamente presentato istanza di condono. In presenza di una dimostrazione siffatta, invece, anche questa Corte di legittimità avrebbe potuto sospendere il procedimento, ex art. 38 della legge n. 47/1985, previa effettuazione di un doveroso controllo riferito alla configurabilità dell'esistenza dei presupposti per conseguire la sanatoria (vedi Cass., Sez. Unite, 24.11.1999, n. 22, Sadini). 5. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna solidale dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
la Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 607, 615 e 616 c.p.p., rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2005.
Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2005