Cass. Sez. III n. 26425 del 24 giugno 2016 (Ud 11 feb 2016)
Pres. Ramacci Est. Riccardi Ric. Danese
Urbanistica. Sanatoria e inammissibilità di termini e condizioni

In tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non ammettendo termini o condizioni,  deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del  manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere  originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della  cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute  conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 06/03/2012 il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Maglie, dichiarava D.R., in concorso con M.A. e N.L., responsabile del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), per avere, in qualità di proprietario, eseguito lavori edili in totale difformità dal permesso di costruire, consistenti nella realizzazione di un locale seminterrato, anzichè interrato, di mq. 169,23, di un piano rialzato di mq. 126 con trasformazione di un pergolato in porticato e del deposito agricolo in abitazione, e di un primo piano di mq. 56, in luogo del vano tecnico di mq. 35,50 assentito; fatti accertati il (OMISSIS), con lavori in corso di esecuzione; previo riconoscimento delle attenuanti generiche, lo condannava alla pena di due mesi di arresto ed Euro 22.000,00 di ammenda, con sospensione condizionale e non menzione.

1.1. Con sentenza del 4 marzo 2015 la Corte di Appello di Lecce confermava la sentenza di 1 grado nei confronti dell'odierno ricorrente, dichiarando l'estinzione per prescrizione del reato nei confronti dei coimputati.

2. Avverso tale provvedimento il difensore dell'imputato, Avv. Luigi Fersini, ha proposto ricorso per cassazione, articolando tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

Deduce il vizio di violazione di legge processuale ed il vizio di motivazione, in quanto la permanenza del reato sarebbe cessata nel 2006, allorquando l'attività edilizia sarebbe stata volontariamente sospesa, e dunque sarebbe maturata la prescrizione già prima della sentenza di appello; al riguardo, censura la contraddittorietà della sentenza, che, pur avendo dichiarato la prescrizione nei confronti dei coimputati (rispettivamente costruttore e direttore dei lavori), non ha ritenuto che la sospensione dei lavori edili nel 2006 integrasse una interruzione definitiva, pur essendo stato accertato che la realizzazione del "rustico" era cessata nel 2006. In tal senso, non rileverebbe che al momento del sopralluogo l'imputato fosse presente sul posto, in quanto egli coltivava un orto adiacente all'immobile, nè che fossero stati rinvenuti materiali edili sul posto, trattandosi di mattoni forati in cemento giacenti da anni; del resto, che i lavori fossero terminati è stato riferito anche dal tecnico comunale, che ha dichiarato di avere visto, nel 2007, la cessazione dell'attività. Infine, la non definitività dell'interruzione dei lavori sarebbe stata fondata sulla erronea valutazione delle dichiarazioni del fratello dell'imputato, al quale questi avrebbe riferito di aver voluto realizzare solo il "rustico", demandando alla successiva ed eventuale volontà dei figli il completamento dell'opera.

Al contrario, i lavori edili erano fermi da almeno tre anni, sul posto non vi era materiale (sabbia, cemento, tufo, attrezzi, macchinari, ecc.) destinato alla imminente ripresa dell'attività, e risultano agli atti le fatture di pagamento, a saldo, del costruttore e del direttore dei lavori.

Deduce la violazione di legge processuale in relazione all'art. 531 c.p.p., comma 2, ed il vizio di motivazione, per non avere la sentenza applicato il principio del favor rei in un caso di incertezza assoluta sulla data di commissione del reato e sull'inizio del termine di prescrizione.

Con il terzo motivo deduce la violazione di legge sostanziale ed il vizio di motivazione, in quanto, pur avendo l'imputato ottenuto un permesso di costruire in sanatoria il 04/06/2014, ritenuto inidoneo dalla sentenza impugnata ad estinguere il reato, perchè privo della c.d. doppia conformità, in quanto subordinato a prescrizioni e rilasciato in seguito all'asservimento di un'area ulteriore, avrebbe dovuto eliminare l'ordine di demolizione, al quale, peraltro, era stata subordinata la sospensione condizionale; ricorrerebbe, in tal caso, l'ipotesi della c.d. sanatoria impropria, o giurisprudenziale, che, sebbene inidonea ad estinguere il reato, sarebbe idonea ad impedire la demolizione di un'opera ritenuta conforme alla disciplina urbanistica vigente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

2. I primi due motivi di ricorso meritano una valutazione congiunta, riguardando il medesimo profilo della cessazione della permanenza e della dedotta estinzione per prescrizione.

Al riguardo, va ribadito che deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (ex multis, Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608).

Invero, nel caso in esame i motivi di ricorso appaiono identici a quelli sollevati con l'appello, e motivatamente respinti dalla sentenza impugnata, con la quale non propongono un reale e motivato confronto argomentativo, limitandosi a contestazioni avulse dal concreto tessuto motivazionale.

Infatti, mentre per il giudizio d'appello rileva solo la genericità intrinseca al motivo stesso, prescindendosi da ogni confronto con quanto argomentato dal giudice del provvedimento impugnato, per il giudizio di cassazione è generico anche il motivo che si caratterizza per l'omesso confronto argomentativo con la motivazione della sentenza impugnata (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 31939 del 16/04/2015, Falasca Zamponi, Rv. 264185; Sez. 6, n. 13449 del 12/02/2014, Kasem, rv. 259456, secondo cui "la genericità dell'appello o del ricorso per cassazione va valutata in base a parametri diversi, in conseguenza della differente conformazione strutturale dei due giudizi, e soltanto in relazione al secondo costituisce motivo di inammissibilità per aspecificità la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione").

Il difetto di specificità dei motivi, ricompreso fra le ipotesi che impongono la dichiarazione dell'inammissibilità ai sensi dell'art. 591, comma 1, lett. c), in relazione all'art. 581 c.p.p., lett. c), deve intendersi come la manifesta carenza di una censura di legittimità, chiaramente identificabile.

Nel caso di specie, la genericità dei motivi si evince dalla mera deduzione, senza alcun confronto argomentativo con la sentenza impugnata, della pretesa cessazione della permanenza del reato nel 2006 e dell'efficacia estintiva, quanto meno dell'ordine di demolizione, del permesso di costruire in sanatoria.

Al riguardo, peraltro, va rammentato che la motivazione della sentenza di primo grado e quella della sentenza di appello si integrano vicendevolmente (ex multis, Sez. 2, n. 3706 del 21/01/2009, Haggag; Sez. 2, n. 5112 del 02/03/1994, Palazzotto, rv 198487: "in materia di impugnazione, anche in base al nuovo codice di procedura penale, la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sul punto denunciato, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile. Ne consegue che la motivazione adottata dal primo giudice vale a colmare le eventuali lacune di quella d'appello"; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595: "Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione"), e dunque, in caso di c.d. "doppia conforme", i limiti del sindacato di legittimità sulla adeguatezza della motivazione risultano maggiormente angusti, in quanto la dimensione della decisione impugnata deve ritenersi integrata, nella dimensione della giustificazione, anche dalla sentenza di primo grado.

La sentenza impugnata, che, dunque, si salda alla sentenza di 1 grado quanto alla ricostruzione dettagliata dei fatti e degli elementi di prova ed alla valutazione del quadro probatorio, ha fornito puntuale ricostruzione delle fonti di prova e logica valutazione delle stesse, escludendo che la permanenza fosse cessata nel 2006, in quanto, al momento del sopralluogo nel 2009 l'imputato era sul posto, veniva riscontrata la presenza di materiale da costruzione, ed il fratello del D. aveva riferito del proposito di completare l'opera.

Del resto, come ammesso dallo stesso ricorrente, risulta la realizzazione del solo "rustico" dell'opera.

Al riguardo, giova richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte in ordine alla nozione di ultimazione delle opere che, ai soli fini del condono edilizio, corrisponde alla realizzazione del rustico completo di tamponature laterali e copertura (ex multis, Sez. 3, n. 28233 del 14/06/2011, Aprea, Rv. 250658), mentre, ai fini dell'individuazione del tempus commissi delicti, corrisponde al completamento del manufatto, comprese le rifiniture esterne e interne (di recente, sulla cessazione della permanenza, Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, Sullo, Rv. 260498: "La permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado"; in applicazione del principio, la Corte ha aggiunto che, ai fini dell'individuazione del momento di cessazione dei lavori, il completamento dell'opera con tutte le rifiniture interne ed esterne costituisce solo un elemento sintomatico, che, se utile nella normalità dei casi, non consente di escludere ipotesi marginali in cui la permanenza sia terminata anche senza l'ultimazione dell'opera nel senso anzidetto, come ad esempio quando risulti l'ininterrotto utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione delle utenze necessarie).

Infatti, come disposto dal L. n. 47 del 1985, art. 31, comma 2, si intendono come ultimati, ai fini della condonabilità, "gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente". Tale disposizione di favore, che non può trovare applicazione al di fuori del limitato ambito di operatività assegnatole dal legislatore con riferimento al condono, non è estensibile, anche in quanto norma eccezionale, ad altre fattispecie non previste, quale è l'ipotesi dell'individuazione del tempus commissi delicti e della cessazione della permanenza.

2.1. L'inammissibilità del ricorso, peraltro, deriva anche dalla sostanziale richiesta di rivalutazione probatoria delle fonti dichiarative.

Giova al riguardo premettere che il sindacato di legittimità è circoscritto alla verifica sulla completezza e sulla correttezza della motivazione di una sentenza, e non può esondare dai limiti cognitivi sanciti dagli artt. 606 e 609 cod. proc. pen. mediante una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito; le valutazioni espresse dalla sentenza impugnata, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subito il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un'imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767). Ed anche la novella codicistica, introdotta con la L. n. 46 del 2006, che ha riconosciuto la possibilità di deduzione del vizio di motivazione anche con il riferimento ad atti processuali specificamente indicati nei motivi di impugnazione, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, sicchè gli atti eventualmente indicati devono contenere elementi processualmente acquisiti, di natura certa ed obiettivamente incontrovertibili, che possano essere considerati decisivi in rapporto esclusivo alla motivazione del provvedimento impugnato e nell'ambito di una valutazione unitaria, e devono pertanto essere tali da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso (ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 7380 del 11/01/2007, Messina, Rv. 235716, che ha altresì precisato che resta esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch'essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova).

Pertanto, l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali.

L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dal testo della sentenza o da altri atti specificamente indicati, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).

Ebbene, esclusa l'ammissibilità di una rivalutazione del compendio probatorio (sollecitata in merito ai motivi della presenza del D. sul posto, e sulla qualità e quantità del materiale rinvenuto), va ribadito che la sentenza impugnata ha fornito logica e coerente motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, alla valutazione degli elementi di prova ed alla qualificazione giuridica degli stessi, con argomentazioni prive di illogicità (tantomeno manifeste) e di contraddittorietà.

3. Il terzo motivo è manifestamente infondato, oltre che meramente ripropositivo della medesima deduzione presentata in appello.

Al riguardo, richiamando l'elaborazione giurisprudenziale del Consiglio di Stato sulla c.d. "sanatoria impropria" (o giurisprudenziale), viene invocata l'efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria n. 28 del 2014, rilasciato D.P.R. 380 del 2001, ex art. 36; il permesso, seppur inidoneo ad estinguere il reato, in quanto privo della c.d. doppia conformità, sarebbe idoneo almeno a paralizzare l'ordine di demolizione al cui adempimento è stata subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena.

3.1. Tale provvedimento viene denominato "sanatoria giurisprudenziale", evidentemente con riferimento alla c.d. sanatoria giurisprudenziale o impropria individuata, in passato, dalla giurisprudenza amministrativa (v., ad es., Cons. St., Sez. 5, n. 1796, 19 aprile 2005), in base alla quale si ritengono sanabili le opere che, non conformi alla disciplina urbanistica ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione, lo siano divenute successivamente e che sarebbe insensato demolire quando, a demolizione avvenuta, potrebbero essere legittimamente assentite.

Si tratta, tuttavia, di un orientamento nettamente minoritario che può dirsi ormai definitivamente superato, avendo la giurisprudenza amministrativa (v. Cons. St., Sez. 4, n. 4838, 17 settembre 2007) successivamente escluso l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale sul rilievo che la sua applicazione contrasterebbe con il principio di legalità, dal momento che non vi è stata alcuna espressa previsione di tale istituto allorquando il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 ha sostituito la corrispondente disciplina della L. Urbanistica n. 47 del 1985, nonostante il favorevole parere del 29 marzo 2001 della Adunanza generale del Consiglio di Stato, che ne aveva sollecitato l'introduzione al legislatore delegato il quale, tuttavia, come evidenziato nella Relazione illustrativa al testo Unico dell'edilizia, non ha raccolto il suggerimento, ponendo in evidenza l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale che impediva la formazione di un diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale ed il parere nettamente contrario espresso dalla Camera.

La giurisprudenza amministrativa ha inoltre osservato, successivamente, che l'art. 36 citato, in quanto norma derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile di applicazione analogica nè di una interpretazione riduttiva (Cons. St., Sez. 4, n. 6784, 2 novembre 2009) e che la sanatoria giurisprudenziale non può ritenersi applicabile, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa; effetti che non possono ritenere ammessi nell'ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all'Amministrazione (così Cons. St., Sez. 5, n. 3220, 11 giugno 2013).

Recentemente, il Consiglio di Stato ha ulteriormente confermato la propria posizione in tema di sanatoria giurisprudenziale (alla quale, peraltro, risultano conformati anche i Tribunali Amministrativi Regionali), osservando come il divieto legale di rilasciare un permesso in sanatoria anche quando, dopo la commissione dell'abuso, vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico, sia giustificato della necessità di "evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile)" oltre che dall'esigenza di "disporre una regola senz'altro dissuasiva dell'intenzione di commettere un abuso, perchè in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell'abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico" (Cons. Stato, Sez. 5, 17 marzo 2014, n. 1324; conf. Sez. 5, 27 maggio 2014, n. 2755).

3.2. L'attuale consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa ha trovato peraltro conferma in una recente decisione della Corte Costituzionale (sentenza 27 febbraio 2013 n. 101), che, nel giudizio di legittimità costituzionale della L.R. Toscana 31 gennaio 2012, n. 4, art. 5, commi 1, 2 e 3 e artt. 6 e 7 (Modifiche alla L.R. 3 gennaio 2005, n. 1 "Norme per il governo del territorio" e della L.R. 16 ottobre 2009, n. 58 "Norme in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico"), ha affermato che il principio della "doppia conformità" risulta finalizzato a "garantire l'assoluto rispetto della "disciplina urbanistica ed edilizia" durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità", aggiungendo, e richiamando la giurisprudenza amministrativa, che la sanatoria, che si distingue dal condono vero e proprio, "è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi "formali", ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, "anche di natura preventiva e deterrente", finalizzata a frenare l'abusivismo edilizio, in modo da escludere letture "sostanzialiste" della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell'istanza per l'accertamento di conformità".

3.3. Va a questo punto rammentato come la giurisprudenza di questa Corte abbia, in passato, preso atto delle diverse posizioni del giudice amministrativo aderendo, in un primo tempo, a quella che riconosceva efficacia alla sanatoria giurisprudenziale, escludendone comunque ogni effetto estintivo dei reati urbanistici, e precisando che detto titolo abilitativo sanante avrebbe dovuto essere conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio, escludendo, peraltro, la possibilità di procedere ad una diversa qualificazione giuridica dell'intervento edilizio per consentirne la regolarizzazione, parcellizzando le opere (Sez. 3, n. 286 e 291, del 09/01/2004, non massimate sul punto).

In altre occasioni, confermando che la sanatoria impropria sarebbe comunque improduttiva di effetti estintivi dei reati urbanistici, si è presa in considerazione la sua rilevanza con riferimento specifico all'ordine di demolizione, rilevando, previo richiamo ai principi generali di buon andamento e di economia dell'azione amministrativa invocato dalla giurisprudenza amministrativa favorevole, che l'eventuale suo rilascio renderebbe inapplicabile l'ordine di demolizione, osservando, sostanzialmente, che sarebbe insensato procedere alla demolizione di ciò che può poi essere legittimamente ricostruito (v. Sez. 3, n. 14329, 7 aprile 2008; Sez. 3, n. 40969, 11 novembre 2005; Sez. 3, n. 1492, 9 febbraio 1998; Sez. 3, n. 3082, 21 gennaio 2008, non massimata; Sez. 3, n. 24451, 21 giugno 2007).

Veniva comunque dato atto anche dell'orientamento difforme del giudice amministrativo (Sez. 3, n. 21208, 28 maggio 2008, non massimata).

3.4. La più recente ed approfondita disamina della questione concernente l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale o impropria da parte del giudice amministrativo e l'autorevole richiamo a tale giurisprudenza operata dalla Corte Costituzionale consentono di ritenere ormai superate le argomentazioni sviluppate nelle decisioni di questa Corte appena ricordate, in quanto fondate, prevalentemente, sul mero richiamo di un orientamento, già minoritario, che può dirsi ormai completamente abbandonato dagli stessi giudici amministrativi che lo avevano in passato elaborato.

Le argomentazioni sviluppate a sostegno dell'attuale indirizzo interpretativo appaiono, ad avviso del Collegio, del tutto condivisibili, poichè tengono conto della formulazione letterale della norma e della sua genesi, e risultano pienamente conformi al richiamato principio di legalità cui deve necessariamente conformarsi l'azione amministrativa, perchè, come osservato in dottrina, non può esservi rispetto del principio di buon andamento della pubblica amministrazione se non vi è, al tempo stesso, rispetto del principio di legalità.

La espressa previsione, nel D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, del requisito della doppia conformità delle opere da sanare, e la deliberata scelta del legislatore di non inserire nel Testo Unico dell'edilizia la sanatoria giurisprudenziale, nonostante le indicazioni in tal senso ricevute dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, rendono evidente la volontà di limitare la possibilità di sanatoria ai soli abusi formali.

Altrettanto significative appaiono, poi, le considerazioni della più recente giurisprudenza amministrativa riguardanti la negativa incidenza sull'effetto deterrente dell'ordine di demolizione - che il legislatore ha evidentemente perseguito - che sarebbe determinata dalla previsione di una sanatoria conseguente ad una conformità dell'opera sopravvenuta alla sua realizzazione, creando l'aspettativa di una futura possibile regolarizzazione anche in presenza di condizioni inizialmente ostative alla esecuzione dell'intervento edilizio.

Va pertanto ribadito il principio di diritto secondo il quale in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260973; in senso analogo, Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, Micolucci, Rv. 236912).

3.5. Tanto premesso, la sentenza impugnata ha correttamente escluso qualsivoglia rilievo al permesso in sanatoria rilasciato nel 2014, in quanto privo del requisito della c.d. doppia conformità, atteso che è condizionato all'asservimento di un'area ulteriore, con conseguente aumento della volumetria, ed è subordinato a prescrizioni.

Al riguardo, va aggiunto che l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito con la sentenza di condanna, non è caducato in modo automatico dal rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dovendo il giudice controllare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione (e quindi, nella specie, della doppia conformità, non sussistente) e dei requisiti di forma e sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio (ex multis, Sez. 3, n. 40475 del 28/09/2010, Ventrici, Rv. 249306) 4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00: infatti, l'art. 616 cod. proc. pen. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 cod. proc. pen., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2016.