Consiglio di Stato Sez. VI n. 6076 del 9 luglio 2024
Urbanistica.Elementi per individuare la natura precaria di un'opera edilizia

In ordine ai requisiti che deve avere un'opera edilizia per essere considerata precaria, possono essere ipotizzati in astratto due criteri discretivi: 1) criterio strutturale, in virtù del quale è precario ciò che non è stabilmente infisso al suolo; 2) il criterio funzionale, in virtù del quale è precario ciò che è destinato a soddisfare un'esigenza temporanea. La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie. La precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera e. 5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante 

Pubblicato il 09/07/2024

N. 06076/2024REG.PROV.COLL.

N. 09609/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9609 del 2021, proposto da
VI.TE. COFER di Terlingo Giovanni C S.n.c. in persona del legale rappresentante pro tempore, Giovanni Terlingo e Maria Carmela Surace, rappresentati e difesi dall’Avvocato Umberto Grella, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio, in Milano, via Cesare Battisti n. 21;

contro

Comune di Cologno Monzese (Mi), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avvocati Francesco De Marini e Barbara Savorelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Città Metropolitana di Milano, non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta) n. 02316/2021, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Cologno Monzese (Mi);

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 giugno 2024 il Cons. Marco Poppi e uditi per le parti gli Avvocati presenti come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Con ordinanza n. 9425 del 26 marzo 2014 il Comune di Cologno Monzese ingiungeva alla Società VI.TE.COFER di Terlingo Giovanni C. S.n.c. la demolizione delle seguenti opere realizzate in assenza di titolo abilitativo su area censita al mappale n. 288:

- tettoia con struttura in ferro e copertura in oduline rivestita in pietra delle dimensioni di m. 30,00 x 2,90 con altezza media ponderale di m. 3,35;

- fabbricato in muratura adibito ad abitazione delle dimensioni di m. 15,80 x 7,70 e altezza media ponderale di m. 3,00;

- fabbricato adibito a ripostiglio in muratura m. 3,70 x 2,10 e altezza media ponderale di m. 2,30;

- tettoia con struttura in ferro e copertura in lamiera utilizzata come ricovero per autovetture delle dimensioni di n. 9,20 x 7,00 e altezza ponderale media di m. 2,30.

Veniva altresì disposta la demolizione delle seguenti ulteriori opere, presenti su area censita al mappale n. 121, già oggetto di una precedente istanza di condono respinta dal Comune:

- fabbricato adibito a «magazzino attrezzi e montaggio» delle dimensioni di m. 30,00 x 8,90 e altezza ponderale medie di m. 6,00;

- fabbricato adibito a deposito bombole delle dimensioni di m. 18,00 x 6,25 e altezza ponderale media di m. 5,75;

- fabbricato adibito ad ufficio delle dimensioni di m. 9,00 x 4,05.

Il provvedimento ripristinatorio veniva impugnato dinanzi al Tar per la Lombardia con ricorso iscritto al n. 1439/2014 R.R. senza richiesta di misura cautelare.

Con successivo atto n. 37780 del 21 settembre 2015 l’amministrazione accertava l’inottemperanza all’ingiunzione di ripristino dichiarando l’acquisizione gratuita dell’area interessata all’abuso al patrimonio comunale.

L’atto da ultimo citato veniva impugnato con motivi aggiunti.

Il Tar respingeva ricorso e motivi aggiunti con sentenza n. 2316 del 21 ottobre 2021, impugnata nel presente giudizio con appello depositato il 16 novembre 2021, deducendone l’erroneità sotto otto diversi profili non rubricati.

Il Comune si costituiva formalmente in giudizio l’11 dicembre 2021 sviluppando le proprie difese a sostegno della legittimità del proprio operato con memoria del 27 maggio 2024.

L’appellante rassegnava le proprie conclusioni con memoria depositata il 24 maggio 2024 replicando alle avverse difese con memoria del 4 giugno successivo.

Il Comune depositava memoria di replica il 6 giugno 2024.

All’esito della pubblica udienza del 27 giugno 2024, la causa veniva decisa.

«In primo luogo», l’appellante deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui ritiene non viziante l’incompletezza della comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 della L. n. 241/1990, non riferita a tutti gli immobili successivamente oggetto dell’ingiunzione demolitoria e dell’acquisizione gratuita il patrimonio comunale.

La censura è infondata.

La giurisprudenza è granitica nel ritenere che «i provvedimenti aventi natura di atto vincolato, come l'ordinanza di demolizione, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento non essendo prevista la possibilità per l'amministrazione di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene. L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge» (Cons. Stato, Sez. VI, 2 gennaio 2024, n.22).

L’inconfigurabilità dell’obbligo di procedere all’adempimento in questione in materia edilizia, supera il profilo di illegittimità, ribadito in sede di replica e di discussione orale, relativo «all’assenza di alcuni immobili di proprietà della appellante nell’originario avviso notificato per l’avvio del procedimento, riferito solo ad una parte della questione oggetto di sanzione acquisitiva in danno della proprietà».

Per le medesime ragioni è infondata anche la censura formulata «in settimo luogo» con la quale l’appellante deduce l’omissione della comunicazione ex art. 7 anche in relazione all’adozione dell’atto di accertamento dell’inottemperanza, ritenuta erroneamente essere necessaria quando l’acquisizione ecceda le aree «strettamente occupate dalle attività edilizie contestate» comportando la spendita di poteri discrezionali in sede di definizione dell’estensione della parte acquisibile.

Sul punto non può che richiamarsi il consolidato orientamento della Sezione per il quale l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione che non richiede la spendita di poteri discrezionali restando subordinato esclusivamente all'accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine assegnato per la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi (Cons. Stato, Sez. VI, 9 giugno 2020, n. 3686).

«In secondo luogo» l’appellante censura la sentenza nella parte in cui ritiene che «l’allaccio alle reti pubbliche esistenti», concesso con provvedimenti non oggetto di ritiro in autotutela, non costituisca «autorizzazione implicita alla realizzazione delle opere contestate»: assenso da ritenersi formato poiché l’allaccio in questione interveniva successivamente al diniego di condono.

La censura è infondata.

Sul punto non può che rilevarsi che la figura del provvedimento implicito è configurabile unicamente allorquando l'Amministrazione, pur non adottando formalmente un atto, ne determini i contenuti sostanziali attraverso un comportamento che non possa che essere ricondotto ad un volere equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente (fra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2015, n. 2112).

La fattispecie non è, tuttavia, ipotizzabile in materia edilizia posto che, in presenza di abusi, la pacifica doverosità dell’intervento repressivo non ammette il consolidamento di qualsivoglia affidamento del privato al mantenimento di quanto realizzato, né è consentito riconoscere valore di tacito assenso alla eventuale tolleranza dell’amministrazione posto che, come la Sezione ha già avuto modo di rilevare, «la mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo' in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata» (Cons. Stato, Sez. VI, 4 ottobre 2021, n.6613).

L’evidenziata inconfigurabilità di una sanatoria edilizia implicita priva di pregio il dedotto omesso esercizio, da parte dell’amministrazione, dei propri poteri di autotutela.

«In terzo luogo» l’appellante censura la sentenza nella parte in cui ritiene ininfluente «l’eventuale compatibilità urbanistica attuale» non riconoscendo la possibilità di una «eventuale regolarizzazione postuma» per difetto del requisito della c.d. doppia conformità ed affermando l’inammissibilità «dell’istituto della sanatoria giurisprudenziale».

Sul punto deduce che la consistenza delle opere contestate, in quanto aventi natura pertinenziale, e quindi «tranquillamente» riedificabili una volta demolite, avrebbe dovuto indurre l’amministrazione ad irrogare la sola sanzione pecuniaria.

A conforto della censura allega che il vigente PGT (art. 2.4 delle NTA al Piano delle regole) includerebbe le aree di proprietà nel tessuto produttivo consolidato qualificandole come «esistenti» e rientranti per tale ragione nelle previsioni dell’art. 29 della L. n. 47/1985.

Ai sensi inoltre dell’art. 58 delle NTA al PTCP, sotto il profilo geologico, le opere sarebbero comunque edificabili nel rispetto delle «prescrizioni operative e tecniche ed alle norme di tutela della fascia di rispetto del fiume Lambro».

Evidenzia infine parte appellante che la misura ripristinatoria impugnata interessa anche il fabbricato attuale residenza dei proprietari.

La disposta demolizione, omettendo di considerare l’età e le condizioni di salute di questi ultimi, nonché, l’indisponibilità di altre possibilità alloggiative, paleserebbe la violazione del principio di proporzionalità, nonché dell’art. 6 del Trattato UE e dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Le suesposte censure sono infondate.

In primis deve disattendersi la pretesa natura pertinenziale delle opere realizzate.

La questione relativa alla qualificazione di installazioni apparentemente precarie ma funzionalmente destinate a soddisfare esigenze caratterizzate da stabilità, è già stata affrontata dalla Sezione (Cons. Stato, Sez. VI, 4 marzo 2024, n. 2086) pervenendo alla conclusione:

- che «in ordine ai requisiti che deve avere un'opera edilizia per essere considerata precaria, possono essere ipotizzati in astratto due criteri discretivi: 1) criterio strutturale, in virtù del quale è precario ciò che non è stabilmente infisso al suolo; 2) il criterio funzionale, in virtù del quale è precario ciò che è destinato a soddisfare un'esigenza temporanea. La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie” (così Consiglio di Stato, Sez. V, 27 marzo 2013, n. 1776)»;

- che «la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera e. 5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Consiglio di Stato, Sez. VII, 12 dicembre 2022, n. 10847)».

Preso atto della pacifica destinazione dei manufatti in questione a servizio dell’attività svolta nel compendio, non può che aderirsi alla posizione già espressa questo Consiglio di Stato per la quale sono qualificati come «nuove costruzioni (sentenza Cons. St. 840/2021) “i manufatti leggeri, anche prefabbricati, purché siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, depositi o magazzini, purché siano dotati di una propria autonomia funzionale”» (Cons. Stato, Sez. VII, 28 agosto 2023, n. 7999).

Quanto alla pretesa compatibilità urbanistica di quanto realizzato non può che prendersi atto delle risultanze di cui al Certificato di destinazione urbanistica PU/2021/00040/CDU rilasciato dall’Area Servizi Tecnici comunale il 2 luglio 21 (doc. 16 delle produzioni dell’amministrazione in primo grado) dal quale risulta che le aree in questione, alla data del 26 marzo 2014 ricadono:

- ai sensi del Piano di Governo del Territorio approvato con delibera consiliare n. 1/2013, nel Tessuto Urbano Consolidato, per la quasi totalità in «zona P1 - Tessuto Produttivo Consolidato» e in minima parte nord-ovest in zona a «verde delle fasce fluviali»;

- minima parte a nord-ovest, nel perimetro del parco locale di interesse sovracomunale (PLIS) della «Media Valle del Lambro», riconosciuto con delibera della Giunta regionale n. 8966/2002 ai sensi dell’art. 34, comma 1, della L.R. n. 86/1983 e dell’art. 2.1 delle Disposizioni di Attuazione (DA) del Piano delle Regole;

- maggior parte a nord-ovest nella fascia del «corridoio ecologico» della rete regionale provinciale e comunale ai sensi dell’art. 2.4 delle DA;

- nella fascia di rispetto del fiume Lambro ai sensi dell’art. 142 del D. Lgs. n. 42/2004.

È ulteriormente certificato che in base allo studio delle componenti geologica, idrogeologica e sismica del P.G.T. approvato con la già citata delibera consiliare n. 1/2013, il lotto ricade:

- minor parte a ovest in «Classe di Fattibilità Geologica 4. “gravi limitazioni” - sottoclasse d»;

- maggior parte a est in «Classe di Fattibilità geologica 3 “consistenti limitazioni” – sottoclasse b1»;

- in zona «Z4a» nella Carta della pericolosità sismica locale (PSL);

- interamente nelle Fasce fluviali del fiume Lambro di cui alla «Variante al Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico (PAI) del 2001» approvata con D.P.C.M. 10 dicembre 2004 e, in particolare, fra il «limite di progetto tra la Fascia B» e il «limite esterno della Fascia C».

Ai sensi dell’art. 2.2 del Piano delle Regole «gli interventi di trasformazione edilizia o urbanistica relativi agli immobili compresi anche solo parzialmente all’interno» della fascia fluviale non sono ammessi se non previa autorizzazione dell’Autorità competente.

Ai sensi dell’art. 4.2, all’interno del «corridoio ecologico» sono ammessi «unicamente gli interventi di rinaturalizzazione e forestazione» e per gli edifici esistenti «sono ammessi solo gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria volti al mantenimento dell’esistente» con espresso divieto di ricostruzione di quanto eventualmente demolito.

La già evidenziata qualificazione in termini di nuova costruzione delle opere contestate determina la non conformità di quanto realizzato e conferma la legittimità dei provvedimenti impugnati.

Nessun rilievo assume infine la allegata possibilità che le opere, come precisato sin dal ricorso di primo grado, «potranno formare oggetto di formale istanza di regolarizzazione» con possibile applicazione della sola sanzione pecuniaria trattandosi di iniziativa futura ed eventuale estranea al presente giudizio.

Privo di rilievo nei sensi invocati in appello è inoltre l’utilizzo dell’immobile abusivo quale residenza da parte degli anziani proprietari.

Circa la specifica questione la Sezione si è già ripetutamente pronunciata affermando:

- che «in relazione al rapporto tra misura ripristinatoria e al diritto all’abitazione di cui all’art. 8 della C.E.D.U. e al principio di proporzionalità, il Collegio osserva come il diritto all'abitazione non ha portata assoluta, tale da rendere illegittimi gli ordini di demolizione degli abusi ogni qualvolta l’immobile sia adibito a casa familiare. L'ordine di demolizione, infatti, è espressione del diritto della collettività a ripristinare l'equilibrio urbanistico-edilizio violato dall’abuso, che ben può prevalere sul diritto all’abitazione dei singoli che hanno edificato in violazione degli strumenti urbanistici ed in assenza di un idoneo titolo abilitativo» (Cons Stato, Sez. VI, 3 maggio 2024, n. 4039);

- che «l’esigenza di tutelare i fondamentali diritti all’abitazione e al rispetto dei beni non può prevalere automaticamente sull’interesse pubblico al governo del territorio e alla repressione degli illeciti edilizi. Tale rilievo è sufficiente per escludere qualsiasi sospetto di contrasto della normativa regionale e statale con la normativa convenzionale richiamata dall’art. 117 della Costituzione» (Cons. Stato, Sez. VII, 3 marzo 2023, n. 117);

- che «l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo non contrasta neppure con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all'art. 8 CEDU, posto che, non essendo desumibile da tale norma la sussistenza di alcun diritto assoluto ad occupare un immobile, anche se abusivo, solo perché casa familiare, il predetto ordine non viola in astratto il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio, ma afferma in concreto il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato e a ripristinare l'equilibrio urbanistico-edilizio (cfr. Cass. civ., Sez. III, 17 gennaio 2020 n. 844)» (Cons. Stato, Sez. VI, 6 febbraio 2023, n.1253);

- che «l'emergenza abitativa non può essere invocata per paralizzare la demolizione di un immobile abusivo, stante l'inammissibilità di condoni atipici ed extra-ordinem (ferma restando la possibilità per gli indigenti di sollecitare gli ausili eventualmente messi a disposizione dalle autorità amministrative competenti» (Cons. Stato, Sez. VI, 11 maggio 2022 n. 3704).

Sul punto si è espressa la stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo affermando che «deve escludersi la violazione del diritto all'abitazione tutelato dall'art. 8 Cedu nell'ipotesi in cui l'ordine di demolizione dell'abuso edilizio riguardi un immobile costituente l'unica abitazione del contravventore e quest'ultimo sia un soggetto in età avanzata e si trovi in precarie condizioni reddituali, qualora la situazione personale del destinatario dell'ordine demolitorio non assuma un peso determinante a fronte della consapevole realizzazione della costruzione edilizia in un'area vincolata paesaggisticamente, in assenza di qualsivoglia autorizzazione» (Corte Europea Diritti dell'Uomo, Sez. II, 04 agosto 2020, n.44817).

«In quarto luogo» l’appellante, premesso che il Tar avrebbe erroneamente rilevato la tardività dell’impugnazione dell’art. 2.4 delle NTA del Piano delle regole e dell’art. 7.7.6 delle norme geologiche del Piano, ripropone le censure «del [quarto, ndr] motivo non esaminato ai sensi dell’art. 101 comma 2 del D. Lgs. 104/2010».

Il Tar avrebbe errato nel ritenere che il termine decadenziale d’impugnazione delle richiamate disposizioni decorresse dalla pubblicazione del PGT sul BURL e non dal momento in cui sorgerebbe l’interesse a contestare la disposizione da individuarsi nell’adozione dell’atto applicativo.

La censura è priva di pregio.

La questione della tempestività dell’impugnazione della disciplina contestata può essere superata in ragione della evidente infondatezza, e dubbia ammissibilità, delle generiche censure sollevate «in quarto luogo» con il ricorso di primo grado.

In detta sede parte appellante censurava la previsione della fascia di rispetto ambientale del fiume Lambro per l’estensione di 50 metri.

A sostegno della censura allegava che l’amministrazione «sembrerebbe operare un mero richiamo alle norme del PTCP provinciale e dall’Accordo quadro di sviluppo territoriale del fiume Lambro sottoscritto in data 20.03.2012 implicitamente dichiarando l’insussistenza di qualsivoglia potere ed omettendone in concreto l’esercizio, in merito all’inclusione o meno dei singoli contesti locali nella perimetrazione di tale rete ecologica fluviale» (pag. 18 del ricorso di primo grado) rilevando nel contempo che «non pare che una simile perimetrazione vincolistica per una fascia di 50 metri possa dirsi appropriata sia con riferimento alla obiettiva ricognizione delle caratteristiche del contesto, sia con riferimento alla normativa vincolistica ed autorizzativa che essa viene ad introdurre nei confronti di opere esistenti ed interne a tale fascia» e che in relazione a tali insediamenti «non si rinvengono in loco elementi naturalistici o paesistici od eventi rischiosi così peculiari da poter qualificare un simile contesto ormai definitivamente e irreversibilmente urbanizzato ed edificato» (pag. 19 dell’appello).

Il senso delle suesposte generiche censure viene successivamente precisato deducendo che l’ampiezza della fascia in questione (50 metri) sarebbe, ai sensi dell’art. 58 delle NTA del PTCP di Milano del 2003, solo indicativa e ciò non escluderebbe una diversa rideterminazione a cura del Comune che si sarebbe, a parere della parte appellante, resa necessaria poiché «l’ambito non presenta alcuna caratteristica di rischio».

Con argomenti altrettanto generici veniva contestata la disciplina geologica ed idrogeologica di piano e, in special modo, l’imposizione della classe di rischio R3 con conseguente inclusione dell’are in «Classe di fattibilità 3».

Parte appellante si limita a ritenere dette prescrizioni non convincenti poiché estremamente restrittive, rinviando a future e non meglio precisate allegazioni la dimostrazione dell’assenza del rischio configurato dall’amministrazione.

Le suesposte doglianze sono inammissibili prima ancora che infondate.

Sul punto è sufficiente richiamare il granitico orientamento della giurisprudenza per il quale «le determinazioni assunte in materia di pianificazione urbanistica del territorio comunale si connotano per l'ampia discrezionalità di cui godono gli enti (Regione; Comuni) che intervengono nel procedimento complesso finalizzato alla approvazione e ai successivi aggiornamenti degli atti di pianificazione urbanistica comunale, cui corrisponde un sindacato giurisdizionale di carattere estrinseco e limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità e irrazionalità apprezzabili ictu oculi: a tale sindacato è, viceversa, estraneo l'apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo appartenente alla sfera del merito (ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 31 dicembre 2019 n. 8917).

In considerazione della loro qualificazione come atti amministrativi di carattere generale e dell’ampia discrezionalità che li caratterizza, gli atti di pianificazione urbanistica «non richiedono una specifica e congrua motivazione in ordine alle scelte pianificatorie (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13 ottobre 2022 n. 8731; id., Sez. IV, 28 gennaio 2022, n. 603)» (Cons. Stato, Sez. VII, 2 gennaio 2024, n. 7).

Ciò premesso, ed evidenziato che l’ampiezza della fascia di rispetto ambientale è riconosciuto venisse determinata dall’art. 58 della NTA del PTCP (richiedendo quindi una motivazione qualora fosse stata modificata e non se recepita), non può che evidenziarsi come parte appellante affidi la censura a proprie soggettive valutazioni che offre come alternative a quelle dell’amministrazione, in assenza di qualsivoglia allegazione a sostegno della pretesa palese irragionevolezza di quanto determinato.

«In quinto luogo» l’appellante deduce l’illegittimità del provvedimento di accertamento dell’inottemperanza alla misura demolitoria in via derivata dall’illegittimità dell’ordinanza di demolizione.

La già accertata legittimità della misura demolitoria supera la censura.

«In sesto luogo» l’appellante deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui non rileva l’incompetenza del Dirigente all’adozione dell’atto dichiarativo dell’intervenuta acquisizione dell’immobile.

A sostegno della censura l’appellante afferma che l’acquisizione, in quanto non limitata all’opera abusiva ma estesa anche ad una area ulteriore, radicherebbe «la competenza consiliare» come da «diffusa prassi amministrativa in molti comuni» in ragione degli effetti che l’acquisizione determina «sul bilancio comunale … in termini di necessaria attività manutentiva dell’area acquisita».

Ciò anche in ragione dell’indeterminatezza dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 che si limita a specificare l’ampiezza massima dell’acquisizione senza tuttavia dettare specifici criteri per la determinazione della sua concreta estensione.

Il motivo è infondato.

Preliminarmente deve rilevarsi che l’atto in questione non esprime una volizione dell’amministrazione ma si traduce nella mera presa d’atto di un effetto predeterminato dalla legge e collegato al solo infruttuoso decorso del termine assegnato per procedere alle demolizioni ingiunte.

Ne consegue che l’effetto traslativo lamentato dall’appellante, che sorregge l’impugnazione sotto il profilo dell’interesse, non trova causa nell’atto dirigenziale che assolve una mera funzione dichiarativa.

In ogni caso (a tacere del fatto che la censura avrebbe dovuto essere formulata con il ricorso introduttivo posto che il dedotto profilo di incompetenza si manifestava sin dall’adozione della misura demolitoria, a firma del Dirigente che già conteneva l’individuazione dell’area oggetto della futura acquisizione) la giurisprudenza ha chiarito come «la competenza originariamente attribuita dalla legge n. 47 del 1985 al Sindaco si deve ritenere trasferita ai dirigenti almeno a partire dalla legge 8 giugno 1990, n. 142, il cui art. 51, comma 2” a norma del quale “spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti che si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi elettivi mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti» (Cons. Stato, Sez. II, 10 febbraio 2020, n. 1092).

A seguito dell’adozione del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti locali di cui al D. Lgs. n. 267/2001 «la competenza ad adottare provvedimenti repressivi in materia edilizia è stata riconfermata in capo ai dirigenti, ai sensi dell'art. 107, comma 1, lett. f) e g) (che ha sancito la distinzione tra la competenza ad adottare gli atti di indirizzo e controllo politico e quella ad adottare gli atti di gestione dell'attività amministrativa)» (Cons. Stato, Sez. VI, 30 novembre 2021 n. 7975).

Anche, quindi, aderendo alla prospettazione dell’appellante, si volesse considerare l’atto in questione come avente spessore provvedimentale, la competenza ad adottarlo, vertendosi in materia edilizia, non potrebbe che essere riconosciuta in capo al Dirigente.

«In ottavo luogo» l’appellante censura la sentenza nella parte in cui rileva l’inammissibilità/tardività del dedotto «difetto motivazionale della misura delle superfici in acquisizione» sul rilievo della avvenuta individuazione delle stesse già in sede di adozione della misura demolitoria mentre la specificazione dell’area da acquisire dovrebbe essere contenuta nell’atto di accertamento dell’inottemperanza e non nell’ordine di demolizione.

L’appellante deduce che l’interesse alla contestazione dello specifico profilo sorgerebbe unicamente con l’adozione «dell’atto di ottemperanza» poiché «l’effetto lesivo si verifica non certo al momento della notifica dell’ordine di demolizione ma solo al momento in cui davvero si accerta che la demolizione non è avvenuta e che quindi si deve procedere all’acquisizione».

La censura, in disparte la questione della tempestività della sua deduzione, è infondata nel merito.

Ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 «se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita».

L’ampiezza dell’area oggetto di acquisizione è quindi determinata dalla norma nella misura necessaria alla realizzazione di opere analoghe ai sensi delle «prescrizioni urbanistiche» vigenti, ponendo il solo limite che l’estensione complessiva non sia superiore a dieci volte l’area di sedime dell’abuso.

Nel caso di specie deve evidenziarsi, sotto un primo profilo, che parte appellante non contesta il superamento dell’illustrato limite atteso che lo stesso riconosce che l’area oggetto di acquisizione si estende per mq.1875 a fonte di una superficie dell’abuso pari a mq. 696 (pag. 24 dell’appello).

Sotto altro profilo, ovvero con riferimento al dedotto difetto di motivazione, specificato dallo stesso nell’omessa illustrazione dei parametri «effettivamente praticati», non può che rilevarsi che il parametro è indicato dalla norma e non è dedotto in appello quali «vigenti prescrizioni urbanistiche» sarebbero state violate nella definizione della superficie da acquisire.

Per quanto precede l’appello deve essere respinto con condanna dell’appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna gli appellanti al pagamento delle spese del presente grado di giudizio che liquida in € 5.000,00 oltre oneri di legge se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 giugno 2024 con l'intervento dei magistrati:

Giancarlo Montedoro, Presidente

Giordano Lamberti, Consigliere

Davide Ponte, Consigliere

Lorenzo Cordi', Consigliere

Marco Poppi, Consigliere, Estensore