NUOVE PROSPETTIVE PER L'ADEGUAMENTO DEGLI IMPIANTI DI DEPURAZIONE DELLE ACQUE DI SCARICO URBANE
a cura di Giuseppe Mininni
CNR – Istituto di Ricerca Sulle Acque – via Reno 1 – 00198 Roma
Nuove prospettive per l’adeguamento degli impianti di depurazione delle acque di scarico urbane per rispettare gli standard della Direttiva quadro sulle acque (Direttiva 2000/60) e delle direttive sui rifiuti
Negli ultimi anni la disciplina europea ha modificato in modo sensibile il quadro di riferimento relativo al trattamento delle acque di scarico. La direttiva quadro sulle acque, nota come Water Framework Directive (WFD) prescrive un progressivo miglioramento della qualità delle acque superficiali mediante l’adozione delle migliori tecniche disponibili onde ridurre le emissioni delle sostanze prioritarie pericolose. Inoltre la disciplina consolidata sui rifiuti stabilisce le priorità cui deve uniformarsi la gestione dei rifiuti dove al primo livello è la riduzione della loro produzione e pericolosità, al secondo il recupero mediante riciclo, reimpiego e riutilizzo, e comunque mediante ogni azione volta all’ottenimento di materie prime secondarie e, al terzo, infine, l’uso dei rifiuti come fonte di energia. In definitiva lo smaltimento in discarica dovrà necessariamente essere ristretto alle sole frazioni inerti non più utilizzabili.
Nel presente lavoro sono descritte alcune soluzioni innovative, ma già utilizzate in molti impianti esteri, che è possibile adottare per garantire un esercizio degli impianti di depurazione conforme ai criteri della disciplina europea.
Le tecniche di depurazione biologica basate sui reattori a membrana e su quelli noti come sistemi sequenziali discontinui (SBR) appaiono promettenti in quanto da una parte garantiscono migliori efficienze depurative soprattutto con riferimento ai micoinquinanti organici e dall’altra consentono di ridurre sensibilmente la produzione dei fanghi.
Per quanto riguarda il trattamento dei fanghi si osserva che sia i progettisti sia i gestori degli impianti lo hanno sempre considerato ad un livello di priorità inferiore rispetto alla depurazione delle acque ed al conseguente rispetto dei limiti all’effluente. Ciò ha determinato, inevitabilmente, che gli impianti non risultano oggi adeguati per rispondere alle nuove necessità e limiti imposti dalla disciplina europea, nazionale e regionale per il loro smaltimento. Sono discussi i principali problemi che sono posti dal recupero e dallo smaltimento dei fanghi, in relazione appunto ai recenti requisiti normativi, e sono descritti i possibili interventi sulla linea fanghi volti ad assicurare una loro gestione sostenibile anche in vista della progressiva riduzione dello smaltimento in discarica.
Gli standard degli impianti di trattamento delle acque di scarico urbane sono riportati nella Direttiva 91/271, recepita dai D. lgs. 152/99 e 152/06 (parte III). I limiti dei principali parametri sono riportati nelle Tabelle 1 e 2 dell’Allegato 5 alla parte III di quest’ultimo decreto. Essi sono: BOD5 (25 mg/L), COD (125 mg/L), TSS (35 mg/L), azoto totale (10-– 15 mg/L) e fosforo (1 – 2 mg/L). I limiti di Tab. 2 per azoto e fosforo sono applicabili solo agli scarichi che ricadono in aree sensibili. Gli artt. 100 e 105 del D. lgs. 152/06 prescrivono poi che tutti gli agglomerati con più di 2.000 abitanti equivalenti devono essere dotati di reti fognarie con recapito degli scarichi in un impianto di depurazione dotato almeno di un trattamento secondario o trattamento alternativo ad esso equivalente. Per gli agglomerati con meno di 10.000 abitanti equivalenti con scarico in acque marino costiere o in acque di transizione e per quelli con meno di 2.000 abitanti equivalenti con scarico in acque dolci è ammesso un trattamento appropriato, definito nell’allegato 5, che equivale ad un trattamento primario o secondario: il trattamento “appropriato” deve rendere semplice la manutenzione e la gestione, essere in grado di sopportare forti variazioni del carico e di minimizzare i costi gestionali.
Anche la WFD presenta rilevanti implicazioni sugli impianti di trattamento delle acque di scarico. Infatti, l’art. 4 fissa i seguenti obiettivi ambientali per le acque superficiali:
a)prevenire il deterioramento dello stato di tutti i corpi d’acqua;
b)proteggere, migliorare e ripristinare tutti i corpi idrici superficiali al fine di raggiungere un buono stato delle acque superficiali entro 15 anni dall’entrata in vigore della direttiva.
L’art. 10 della WFD prevede poi che gli stati membri attuino un controllo degli scarichi, ivi compresi quelli urbani, secondo un approccio integrato basato sull’uso delle migliori tecnologie disponibili. Il controllo dei limiti di emissione dovrebbe essere effettuato entro 12 anni dalla data di applicazione della Direttiva, e cioè entro il 2012. Per ciascun bacino idrico gli Stati membri devono poi stabilire un programma di misure, che consiste nella proibizione/controllo dello sversamento di inquinanti nel corpo idrico (art. 11). L’art. 16 prevede, infine, che il Parlamento ed il Consiglio saranno responsabili per l’implementazione di una strategia contro l’inquinamento delle acque, basata sull’arresto o progressiva eliminazione degli scarichi e di qualsiasi emissione di sostanze prioritarie pericolose. L’attuazione di questo programma dovrebbe essere completata entro 20 anni dopo l’adozione di una proposta in tal senso da parte del Parlamento Europeo. Queste sostanze prioritarie pericolose saranno proposte dalla Commissione Europea tra 18 sostanze prioritarie.
Risulta perciò chiaro che gli Stati membri dovranno nei prossimi anni migliorare la qualità delle acque superficiali adottando limiti più stringenti all’effluente di quelli attualmente fissati dalla Direttiva 91/271, sulla base delle migliori tecniche disponibili. Inoltre è prevista una progressiva riduzione fino alla totale eliminazione della presenza negli scarichi di sostanze prioritarie pericolose.
Nei grandi impianti di depurazione al problema della riduzione delle emissioni di microinquinanti e soprattutto di sostanze prioritarie pericolose si aggiunge quello di una corretta gestione dei fanghi prodotti. La nuova Direttiva sui rifiuti 06/12 richiede che sia rispettato un principio di gerarchia dove al primo livello è la prevenzione/riduzione della produzione e della tossicità, ed al secondo il recupero di risorse per mezzo di riciclo, ri-uso o estrazione di materie prime secondarie. La tipica forma di recupero dei fanghi, che è naturalmente l’uso su suolo agricolo, sembra oggi abbandonata da molti Paesi per effetto della scarsa accettabilità da parte degli agricoltori e delle associazioni di categoria.
Da quanto è stato detto risulta perciò evidente che un nuovo approccio di sistema dovrà essere previsto in un prossimo futuro per quanto riguarda la depurazione delle acque in relazione al rispetto dei vincoli, delle prescrizioni e delle priorità indicate nelle Direttive 2000/60 e 2006/12, tenendo presente che depurazione e trattamento-smaltimento dei fanghi sono da affrontare simultaneamente in quanto le soluzioni non possono che interessare sia la linea acqua sia quella dei fanghi, che sono interconnesse e che dipendono l’una dall’altra: in caso di cattivo funzionamento della linea fanghi anche l’effluente risulterà di cattiva qualità, spesso per la presenza di solidi in sospensione, e d’altronde l’adozione sulla linea acque di specifici processi può anche consentire di limitare in modo sensibile la produzione dei fanghi.
Non deve essere nemmeno trascurato l’impatto che ha sulla linea fanghi il recepimento delle due direttive sulle discariche e sull’incenerimento e co-incenerimento, rispettivamente 99/31 e 00/76.
In questo lavoro sono descritte due tecnologie per il trattamento delle acque di scarico urbane che possono costituire una risposta per l’adeguamento degli impianti a queste nuove sfide tecnologiche: reattori a membrana e sistemi sequenziali discontinui (SBR). Inoltre, è presentata una possibile nuova strategia di trattamento dei fanghi con separazione dei fanghi primari da quelli secondari per incrementare le opportunità di recupero agricolo per questi ultimi e ridurre perciò la quantità di fanghi da avviare allo smaltimento.
I reattori a membrana integrano la degradazione biologica degli inquinanti con la filtrazione a membrana, assicurando così un’efficace rimozione dei contaminanti organici e dei nutrienti. Nei reattori a membrana è possibile mantenere un’età della biomassa molto elevata dato che una elevata concentrazione non pregiudica la separazione liquido – solido, come avviene invece nei sistemi tradizionali in cui la separazione avviene nel sedimentatore secondario. I maggiori vantaggi (Stephenson et al., 2000) dei reattori a membrana rispetto ai sistemi tradizionali sono:
-rimozione completa dei solidi e disinfezione pressoché completa;
-elevata rimozione per la maggior parte dei contaminanti;
-elevata flessibilità in relazione alle variazioni delle caratteristiche dello scarico in ingresso.
La trasformazione dei reattori biologici tradizionali in reattori a membrana risulta particolarmente vantaggiosa come intervento di adeguamento per garantire migliori prestazioni o per far fronte al trattamento di carichi non previsti. In questi casi, le membrane possono essere inserite nei reattori biologici, occupandovi l’intero volume, sempreché l’aerazione sia diffusa. Queste caratteristiche derivano principalmente dalla possibilità di disaccoppiare il tempo di permanenza dei solidi con il tempo di ritenzione idraulico dovuto al fatto che la separazione solido – liquido avviene per filtrazione invece che per sedimentazione.
La tendenza attuale è di operare ad età del fango molto elevate, con conseguente elevata concentrazione di solidi nel reattore (fino a 25 g/L), per limitare la produzione della biomassa. I venditori di questa tecnologia asseriscono che negli impianti municipali di grandi dimensioni il consumo d’energia è solo del 15 – 20 % più elevato che negli impianti tradizionali a fanghi attivi essenzialmente per effetto dello sporcamento delle membrane.
Il funzionamento dei reattori a membrana è abbastanza semplice considerando che la funzione del tradizionale sedimentatore secondario è sostituita dalla filtrazione (micro o ultra filtrazione) con membrane. I reattori a membrana possono operare sia a valle della sedimentazione primaria ma anche senza di questa a patto che lo scarico subisca un efficiente grigliatura con separazione del materiale solido di granulometria superiore a 3 mm. L’elevata concentrazione di solidi nel reattore biologico consente di operare con volumi di reattore ridotti rispetto ai tradizionali sistemi a fanghi attivi, garantendo nel contempo più elevati standard per l’effluente. È possibile facilmente raggiungere concentrazioni di BOD5 < 5 mg/L, di N < 3 mg/L, di P < 0,1 mg/L. I solidi sospesi dell’effluente sono praticamente assenti.
I primi reattori biologici a membrana sono apparsi negli USA a fine anni ’70 e poi in Giappone all’inizio degli anni ’80. L’ingresso di questa tecnologia in Europa è avvenuta solo a partire dalla metà degli anni ’90. L’applicazione alla depurazione delle acque di scarico urbane è stata e sarà nel prossimo futuro quella prevalente. I costi sono legati al costo delle membrane che sono sensibilmente diminuiti nell’ultimo decennio.
I reattori discontinui sequenziali (SBR: Sequencing Batch Reactor) hanno incontrato negli ultimi anni un crescente interesse per il trattamento biologico delle acque di scarico. Essi operano con colture miste in fase sospesa o adesa su supporti di varia natura e possono essere idonei a degradare composti bioresistenti, a operare la nitrificazione e la denitrificazione, e a rimuovere il fosforo organico.
Rispetto agli impianti convenzionali a fanghi attivi, in cui la sequenza delle operazioni biologiche si sviluppa in almeno due apparecchiature (reattore e sedimentatore secondario), l’SBR è un sistema dove in un solo reattore si succedono nel tempo le seguenti fasi principali:
In un sistema SBR è possibile fissare i tempi di ciascuna fase con conseguente maggiore flessibilità rispetto ad un sistema tradizionale con volumi e conseguenti tempi di residenza definiti in fase di progettazione.
Lo scarico grezzo è alimentato nel reattore in presenza di biomassa sedimentata e d’effluente residuo dal ciclo precedente. Nelle applicazioni industriali, il tempo di reazione (12 – 24 h) può variare fino ad un massimo del 50 % del tempo totale del ciclo.
In un sistema SBR la separazione dei solidi avviene in completa quiete non disturbata dall’alimentazione e dallo scarico. La fase di sedimentazione avviene perciò a velocità ascensionale nulla e ciò garantisce un’elevata efficienza di separazione. Inoltre, siccome tutta la biomassa rimane nel reattore non occorre effettuare il riciclo dei fanghi, al contrario dei sistemi convenzionali.
Il tempo di sedimentazione varia normalmente tra 0,5 h e 1,5 h. Occorre evitare di adottare tempi di sedimentazione troppo prolungati poiché potrebbero verificarsi fenomeni di denitrificazione con conseguente affioramento in superficie della biomassa che sarebbe poi persa nella successiva fase di scarico dell’effluente. Alla fine della sedimentazione, il chiarificato è scaricato dal sistema. Il tempo di scarico può variare dal 5 al 30 % del tempo totale del ciclo.
Con lo spurgo dei fanghi è regolata l’età dei fanghi, parametro fondamentale ai fini del processo biologico anche per controllare l’eventuale fase di nitrificazione. Questa fase, richiede un tempo trascurabile rispetto ai tempi delle fasi precedenti.
Dopo la fase di scarico, si può avere una fase di stasi nel corso della quale il reattore è pronto per il riempimento con acqua da trattare. Questa fase obbedisce alla eventuale necessità di equalizzare il flusso in ingresso per effetto delle fluttuazioni di portata.
I vantaggi offerti di sistemi SBR sono:
·Flessibilità per il trattamento di scarichi variabili in quanto essi possono essere equalizzati per un tempo sufficientemente lungo pari alla durata di un ciclo di trattamento.
·Flessibilità della fase biologica che può essere condotta in condizioni diverse per quanto riguarda il mescolamento e l’aerazione, con conseguente possibile rimozione di carbonio organico, nutrienti ed inquinanti persistenti.
·Efficienza elevata della fase di sedimentazione, che avviene in assenza della turbolenza indotta dal moto ascensionale dell’effluente e per un tempo che può essere regolato in funzione delle caratteristiche di sedimentabilità del fango attivo.
·Assenza di pompe per il riciclo dei fanghi, rimanendo questi nel reattore a differenza di quanto accade nei sistemi continui in cui la portata del fango di riciclo è confrontabile con quella dell’alimentazione.
·Possibilità di attuazione di numerose strategie operative atte a controllare la velocità di crescita differenziale, la selezione e la formazione di biofiocchi.
·Capacità di rimozione di inquinanti organici bioresistenti che rendono questo sistema particolarmente indicato al trattamento dei reflui di natura industriale.
Tempi elevati di reazione (24 h) sono adottati nel caso sia richiesta la rimozione di sostanze organiche bioresistenti, mentre una breve fase di alimentazione unitamente ad elevati rapporti di scambio volumetrico possono assicurare la rimozione del carbonio organico in quanto l’elevata concentrazione di substrato alla fine della fase di alimentazione consente un’elevata velocità di crescita con selezione di microrganismi con ottime qualità di sedimentazione (microrganismi fioccoformatori). Per contro un tempo di alimentazione lungo può essere impiegato per scarichi industriali che contengono concentrazioni elevate di substrato inibente. In questo modo si limita il raggiungimento dei livelli tossici di concentrazione di substrato.
Il carico organico riferito alla biomassa o carico dei fanghi può essere variabile nell’intervallo 0,2 - 1,5 g BOD/(g SS·× d).
L’età dei fanghi (SRT) o tempo di residenza della biomassa può variare in un ampio intervallo (5 - 30 d). L’efficienza di rimozione del substrato è superiore al 80 %.
Il processo richiede professionalità e controlli di livello accurati in assenza dei quali l’efficienza di rimozione dell’impianto può risultare insufficiente.
Generalmente il trattamento biologico delle acque industriali secondo la tecnica SBR è preceduto da un pretrattamento chimico-fisico di chiariflocculazione e precipitazione che ha lo scopo di rimuovere dai reflui le sostanze, i metalli pesanti in particolare, che possono esercitare un’attività biotossica o biostatica sulla biomassa dell’impianto, impedendone l’attività o rallentandone alcuni processi quali ad esempio la nitrificazione.
Si accenna, infine, alla possibilità di ottenere la granulazione del fango nei sistemi SBR. In questo caso le concentrazioni di biomassa possono raggiungere valori fino a 40 g/L. La granulazione aerobica del fango è una tecnologia molto giovane e numerosi aspetti ancora richiedono la piena comprensione. In particolare le condizioni periodiche sembrano essere cruciali per la crescita dei granuli che richiedono l’adozione di un tempo di sedimentazione ridotto unitamente ad un elevato rapporto di scambio volumetrico. In pratica il progettista deve fissare una velocità di sedimentazione critica (normalmente superiore a 8 m/h) che consente di mantenere nel sistema soltanto le particelle di biomassa con velocità di sedimentazione superiore al valore fissato. Un ulteriore sviluppo della tecnologia SBR con granulazione del fango è stata ottenuta dall’Istituto di Ricerca Sulle Acque (Di Iaconi et al., 2005) che ha sviluppato un sistema SBBGR (sequencing batch biofilter granular reactor) basato sull’uso di un biofiltro con configurazione verticale operante come i sistemi periodici con modalità fill and draw cioè di riempimento e svuotamento successivi. In confronto con i sistemi SBR tradizionali i sistemi SBBGR sono caratterizzati da concentrazioni molto elevate di biomassa con positiva ricaduta sulla capacità di abbattere inquinanti tossici, persistenti e biorefrattari. Inoltre, le fasi di sedimentazione e riempimento sono molto brevi con conseguenti vantaggi in relazione alla potenzialità del sistema. Un sistema SBBGR consiste in un reattore a configurazione verticale riempito con un materiale di supporto plastico per la biomassa , dove lo scarico è alimentato, trattato aerobicamente e poi scaricato.
In Figura 1 è riportata l’efficienza di un impianto dimostrativo SBBGR per il trattamento di uno scarico urbano, caratterizzato da un COD pari a 400 mg/L, N ammoniacale pari a 40 mg/L, solidi sospesi totali pari a 135 mg/L e solidi sospesi volatili pari a 120 mg/L. la concentrazione di COD dell’effluente è stata sempre inferiore a 50 mg/L con conseguenti efficienze di abbattimento intorno al 90 %, indipendentemente dal carico applicato. Questi risultati, ancorché preliminari, appaiono molto interessanti considerando che con un sistema tradizionale l’efficienza di rimozione del COD non risulta superiore all’80 % operando al medesimo carico organico di 5 kg COD/(m3 ´ d). Le concentrazioni di SS dell’effluente sono state sempre inferiori a 30 mg/L con corrispondenti efficienze di rimozione superiori all’80 %, indipendentemente dal carico organico. Per quanto riguarda l’abbattimento dell’azoto ammoniacale è stato riscontrato un limite alla nitrificazione per carichi organici superiori a 2,5 kg COD/(m3 ´ d).
Tuttavia questo risultato è stato attribuito alla presenza di tossici nello scarico influente. Durante tutto il periodo di sperimentazione pari a circa 9 mesi la produzione di fanghi è risultata pari a circa 0,06 kg TSS/kg di COD rimosso, e perciò inferiore di circa un ordine di grandezza rispetto agli impianti tradizionali fanghi attivi. Questo risultato è dovuto all’età della biomassa molto elevata (θc = 180 d). Si osserva, inoltre, che i sistemi SBBGR sono caratterizzati da un’alternanza di condizioni aerobiche e anaerobiche con conseguenti potenziali d’ossido – riduzione variabili nell’intervallo – 350 + 70 mV.
Lo scarico controllato dei fanghi, cui si è fatto ricorso in modo molto diffuso nel nostro paese, subirà nel prossimo futuro sensibili restrizioni con la completa applicazione del D. lgs. 36/03 e del decreto attuativo del 3 agosto 2005, sia per l’incremento considerevole dei costi per l’apprestamento dei siti di smaltimento, che devono essere conformi a requisiti sensibilmente più severi di quelli prima in vigore, sia soprattutto a causa della non conformità dei fanghi ai criteri di accettabilità nelle discariche per rifiuti non pericolosi. Il D.M. del 3 agosto 2005 ha posto, infatti, un limite minimo di concentrazione di sostanza secca del 25 %, e concentrazioni massime di sostanze cancerogene di categoria 1 e 2 pari a 100 mg/kg, di PCB pari a 10 mg/kg e di diossine e furani (TE) pari a 2 μg/kg. Lo smaltimento in discarica è, poi, subordinato al rispetto dei limiti del test dell’eluato, dove il parametro maggiormente restrittivo è senza dubbio il carbonio organico disciolto (DOC), il cui limite è 80 mg/L. In definitiva, sia il limite sulle sostanze cancerogene di categoria 1 e 2 (possibile presenza nei fanghi d’idrocarburi) sia il limite del DOC del testo dell’eluato non consentono più lo smaltimento nelle discariche autorizzate ex D. lgs. 36/03. Non è poi da trascurare che il raggiungimento del limite minimo del 25 % sulla concentrazione di sostanza secca costituirà un ulteriore fattore d’incremento dei costi per l’adeguamento delle macchine di disidratazione meccanica, mediante l’adozione d’apparecchiature d’ultima generazione (Abu-Orf et al., 2004). In alternativa sarebbe possibile ricorrere ad un elevato dosaggio di calce, con conseguente incremento della quantità di fanghi da smaltire.
Per quanto riguarda l’utilizzazione agricola si osserva che la disciplina vigente (D. lgs. 99/92) restringe questa possibilità soltanto ai fanghi prodotti nella depurazione dei reflui d’origine civile o anche industriale ma con caratteristiche assimilabili a quelli d’origine civile. È in ogni caso da escludere l’utilizzazione dei fanghi, quando essi contengono sostanze tossiche e nocive e/o persistenti e/o bioaccumulabili in concentrazioni dannose per l’uomo e per l’ambiente in generale. Sono poi previste concentrazioni massime di metalli nei fanghi e nei terreni dove essi sono utilizzati. L’utilizzazione di fanghi prodotti nella depurazione di acque di scarico urbane è perciò subordinata alla verifica preventiva che l’apporto di scarichi industriali in fognatura sia tale da non compromettere la qualità dei fanghi nell’impianto di depurazione a servizio della fognatura.
Il documento europeo ENV.E3/LM dell’aprile 2000 (European Commission, 2000), che è in pratica una bozza di nuova Direttiva sull’utilizzazione dei fanghi in agricoltura, presenta molte importanti novità soprattutto sulle garanzie da assicurare per gli aspetti igienico – sanitari. Sono, inoltre, inclusi nuovi limiti di concentrazione per sette classi di inquinanti organici. Gli indirizzi delineati in questo documento evidenziano che la Commissione europea considera fattibile l’utilizzazione dei fanghi solo per matrici molto pulite e sicure. Si dovrebbe, in effetti, giungere ad una classificazione dei fanghi adatti all’uso agricolo parallelamente a quanto è stato fatto per il compost di qualità (D. lgs. 217/06).
Alla luce delle recenti restrizioni sullo scarico controllato ed in considerazione dell’interdizione all’uso agricolo, per effetto della prossima emanazione di una nuova Direttiva europea o di discipline regionali che hanno anticipato l’introduzione di nuovi limiti sui microinquinanti organici, è oggi richiesto un adeguamento delle linee fanghi degli impianti di depurazione, anche alla luce del probabile incremento della produzione dovuto alla progressiva attuazione del D. lgs. 152/99 e della parte III del D. lgs. 152/06, con la conseguente capillare diffusione delle strutture depurative anche per i centri di piccole dimensioni, e dei più elevati livelli d’abbattimento prescritti per il trattamento degli scarichi, rispetto a quanto era previsto con la L. 319/76.
La pianificazione degli interventi non può che avvenire sulla base dell’ambito territoriale ottimale, essendo da escludere che ogni impianto sia autosufficiente ai fini della produzione di fanghi idonei allo smaltimento o all’utilizzazione. Da questo punto di vista è indispensabile che siano preliminarmente fissati i cardini della disciplina. Infatti, è opportuno fare le seguenti considerazioni.
a)La disciplina regionale potrebbe consentire lo smaltimento dei fanghi in discarica in deroga ad alcuni parametri prevedendo specifiche sottocategorie di discariche di rifiuti non pericolosi, così come previsto all’art. 7 del DM 3 agosto 2005. Per i fanghi essiccati termicamente si dovrà tenere conto del limite sul potere calorifico inferiore che non potrà superare 13.000 kJ/kg (3.100 kcal/kg). Questa deroga non può valere per i rifiuti pericolosi e perciò per i fanghi di depurazione urbana con concentrazione di idrocarburi superiore a 1.000 ppm, che rappresenta il limite per la loro classificazione come rifiuti pericolosi seguendo un principio di cautela.
b)La nuova direttiva europea sull’utilizzazione dei fanghi in agricoltura potrebbe prevedere nuovi limiti sui microinquinanti organici. Tra questi, probabilmente sarà introdotto anche un limite sui LAS, tensioattivi anionici, per i quali è stato già proposto il valore di 2.600 mg/kg di secco. Se ciò avvenisse molti fanghi urbani, soprattutto nei comprensori turistici con abbondanza di strutture alberghiere, potrebbero risultare non conformi.
c)Il trattamento tipico di un fango è costituito da ispessimento, digestione anaerobica e disidratazione meccanica. Questo trattamento può essere previsto solo sugli impianti medio – grandi, considerando che la digestione anaerobica richiede una conduzione professionale unitamente alla manutenzione ordinaria e straordinaria di tutte le apparecchiature anche per effetto della presenza di biogas che può presentare problemi di sicurezza. Il limite tecnologico di potenzialità è variabile in funzione della disponibilità di manodopera specializzata ed addestrata ma in ogni caso, nel nostro paese, non inferiore a 50.000 abitanti, corrispondente ad un digestore avente un volume di 2.000 – 4.000 m3, in dipendenza della concentrazione di solidi presenti nel fango di alimentazione al digestore. Il recupero del biogas per la produzione d’energia elettrica è fattibile e rappresenta un’opportunità economica potendosi giovare dei certificati verdi. È però necessario porre in evidenza che il fango deve essere riscaldato fino a 36 – 38 °C, è ciò comporta elevati consumi energetici se la concentrazione di solidi è troppo bassa. La concentrazione di solidi in alimentazione deve perciò essere superiore al 4 % poiché in caso contrario le richieste energetiche relative al riscaldamento del fango e alla compensazione delle perdite di calore verso l’esterno potrebbero non essere compensate dal biogas prodotto. È perciò richiesto che a monte della digestione sia previsto un efficace sistema di ispessimento dei fanghi, che nel caso di fanghi biologici dovrebbe essere dinamico.
d)Gli impianti di taglia inferiore a quella sopra indicata dovrebbero essere attrezzati in modo da garantire l’utilizzazione dei fanghi in agricoltura se le loro qualità risultasse conforme, come risulta spesso per i piccoli centri. In questo caso i trattamenti più idonei consistono nella stabilizzazione aerobica, eventualmente preceduta dall’ispessimento a gravità, e la disidratazione meccanica. Qualora invece la qualità dei fanghi non fosse conforme il trattamento potrebbe essere ancora analogo a quello sopra descritto con una disidratazione meccanica in grado di raggiungere almeno il 25 % di secco, ma solo se lo smaltimento in discarica fosse ancora consentito dalla deregulation regionale. In caso contrario non può che prevedersi un trattamento centralizzato per combustione.
e)La gerarchia nella gestione dei rifiuti fissata nella Direttiva 06/12 può essere rispettata sia riducendo la produzione dei fanghi (per quest’obiettivo si prestano molto bene sia i reattori a membrana sia i sistemi SBR) sia sostenendo l’utilizzazione agricola dei fanghi o almeno di quelli biologici secondari. Questo secondo obiettivo può essere ottenuto mediante la separazione dei fanghi primari e di quelli secondari (Mininni et al., 2004a) che, almeno per i grandi impianti di depurazione, consentirebbe di diversificare il destino finale dei fanghi primari, da avviare a smaltimento, e di quelli secondari, da avviare al recupero agricolo. Si tratta in definitiva di operare nell’impianto di depurazione analogamente a quanto si fa con la raccolta differenziata dei rifiuti urbani, cioè la separazione all’atto della produzione delle frazioni da recuperare.
Le ragioni che sono alla base di queste considerazioni sono molteplici
-Le caratteristiche qualitative dei fanghi primari e secondari sono abbastanza differenti. Secondo la U.S. EPA (1979) in confronto con i fanghi primari quelli secondari sono caratterizzati da un contenuto di azoto e fosforo sensibilmente più elevati(per l’azoto 5,0 – 8,0 % contro 1,5 – 5 % di solidi secchi e per il fosforo 1,0 – 6,0 % contro 0,3 – 1,5 % di solidi secchi). Naturalmente il contenuto di nutrienti è un prerequisito fondamentale per assicurare che l’apporto dei fanghi sia effettivamente benefico per le colture. I fanghi primari sono invece più inquinati dei secondari sia rispetto ai metalli sia ai microinquinanti organici, che per effetto della scarsa solubilità dovuta alle loro caratteristiche non polari sono associati principalmente con il particolato presente nello scarico e sono perciò rimossi soprattutto nella sedimentazione primaria (Angelidaki e Ahring, 1999).
-Le prestazioni delle operazioni d’ispessimento, digestione anaerobica e disidratazione meccanica con i fanghi primari sono sensibilmente migliori che con i fanghi misti (Kopp e Dichtl, 2001) cosicché queste operazioni dovrebbero essere dimensionate separatamente per le due tipologie di fanghi con conseguenti vantaggi economici (minor volumetrie ed ingombri di apparecchiature elettromeccaniche) e prestazionali. La concentrazione a valle della disidratazione meccanica dei fanghi primari facilmente raggiunge il 40 %, cosa che può rendere fattibile l’incenerimento anche in assenza di un preliminare essiccamento termico.
-Lo smaltimento dei fanghi primari dovrebbe essere tipicamente lo scarico controllato, se ancora possibile dal punto di vista normativo o la termodistruzione. In questo ultimo caso lo schema di processo dovrebbe essere impostato in modo da garantire il minore impatto ambientale delle emissioni gassose, cioè la minimizzazione della produzione dell’effluente gassoso e del consumo di combustibile ausiliario, che anzi dovrebbe essere nullo (Mininni et al., 2004b). Questo obiettivo si può raggiungere facilmente con i fanghi primari adottando lo schema integrato di Figura 2. L’obiettivo è di sfruttare il calore sensibile dei fumi per la produzione di vapore a media pressione da utilizzare per l’essiccamento dei fanghi. L’acqua da evaporare nell’essiccatore non è il contenuto d’acqua totale presente nei fanghi ma solo l’aliquota necessaria per portare i fanghi dalla concentrazione in uscita dalla disidratazione meccanica a quella minima richiesta per la combustione autosostentante. Queste condizioni portano ad un dimensionamento ridotto della caldaia di recupero termico, dell’essiccatore e dello stesso forno a letto fluido: il calore sensibile dei fumi non recuperato è minimo ed in ogni caso il mancato recupero è da intendersi vantaggioso dal punto di vista ambientale considerando che i fumi escono dalla caldaia a temperatura sufficientemente elevata, evitando così la loro permanenza in caldaia in un intervallo di temperatura (250 – 400 °C) che Stieglitz e Vogg (1987) riportano come critico per la formazione di diossine e furani. Si osserva per inciso che l’incenerimento di fanghi primari, mediante un processo integrato in un impianto a servizio di 500.000 abitanti, produce un flusso di fumi di 3.800-4.500 Nm3/h (3-4 % del flusso per un impianto della medesima potenzialità di termovalorizzazione di CDR), mentre l’incenerimento di fanghi misti senza essiccamento produce fino a 40.000 Nm3/h di fumi.
VEDI FIGURA 2 IN ALLEGATO
Le considerazioni fatte fanno emergere la necessità di un progressivo adeguamento strutturale degli impianti, volto:
a) ad assicurare sempre più l’efficace abbattimento di microinquinanti organici e soprattutto delle sostanze prioritarie pericolose;
b) a minimizzare la produzione di fanghi;
c) a garantire la gestione del ciclo dei fanghi con l’obiettivo di massimizzare la loro utilizzazione, nel rispetto dei requisiti d’accettabilità e delle condizioni tecnico economiche,e di garantire il loro smaltimento in condizioni di sicurezza quando il recupero non sia possibile.
I primi due obiettivi possono essere conseguiti adottando reattori a membrana o sistemi SBR che si sono affermati negli ultimi anni soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Europa. Entrambi i sistemi consentono di mantenere elevate concentrazioni di biomassa nel reattore biologico con conseguente acclimatazione verso inquinanti anche bio-refrattari. In particolare nei sistemi SBR con granulazione del fango possono essere raggiunte concentrazioni di biomassa fino a 40 g/L con conseguenti carichi organici fino a 5 kg COD/(m3 ´ d). In queste condizioni può essere garantita una qualità dell’effluente elevata in termini di BOD5, COD, N totale, P totale e solidi sospesi. Questi ultimi sono praticamente assenti negli impianti con reattori a membrana.
È possibile limitare la produzione dei fanghi nei sistemi SBR con granulazione fino a valori di circa 0,06 kg di secco/kg di COD rimosso, che corrisponde ad una produzione di circa un ordine di grandezza inferiore a quanto normalmente ottenuto con i tradizionali sistemi a fanghi attivi.
La gestione dei fanghi di depurazione risulta oggi molto critica in numerosi contesti territoriali. La ragione risiede nella scarsa attenzione degli operatori alle nuove prescrizioni imposte dalla normativa europea che chiaramente considera non più fattibile lo smaltimento in discarica di rifiuti a matrice organica. Anche l’utilizzazione agricola non è considerata con favore da molti agricoltori ed associazioni di categoria e la disciplina europea non potrà in un prossimo futuro non tenere conto della necessità di restringere tale pratica solo per i fanghi di certificata qualità. Si impone perciò un consistente adeguamento delle linee fanghi di molti impianti con la previsione di trattamenti centralizzati in strutture baricentriche degli ambiti territoriali ottimali. È perciò ormai improcrastinabile abbandonare la logica di un trattamento ancorché blando sul posto mentre deve essere perseguita l’efficienza e l’affidabilità di scelte tecnologiche complesse che possono essere attuate solo a partire da una dimensione critica.
Si osserva, infine, che soprattutto per i grandi impianti è necessario assicurare una certa diversificazione fra le alternative di recupero/smaltimento che possono garantire flessibilità ovviando ai problemi relativi all’impossibilità, temporanea o permanente, di ricorrere a quella inizialmente prescelta.
Per inciso si riporta la stima dei costi unitari dello smaltimento (Hall, 2000),
-uso su suolo agricolo 150-400 €/t di secco;
-essiccamento termico 300-800 €/t di secco;
-incenerimento 450-800 €/t di secco;
-scarico controllato 200-600 €/t di secco.
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