Il titolo dell’intervento affidatomi è eccessivamente ottimistico. Si tratta infatti non di un percorso accidentato ma di una corsa ad ostacoli su una strada della quale non si vede la fine.
Dopo quasi quindici anni di lavoro, prima come Pretore e poi come Pubblico Ministero, nel campo della tutela ambientale, vorrei pertanto svolgere alcune considerazioni in libertà circa l’attuale situazione.
Non nascono il mio imbarazzo nel dover
riconoscere il risultato praticamente fallimentare di tale attività e nel dover
richiamare l’attenzione su problemi che sono senz’altro presenti a chi
quotidianamente si occupa di questa intricata materia.
Ora, se da un lato le soddisfazioni professionali
non mancano - perché la materia è di sicuro interesse, le questioni giuridiche
affrontate sono varie e complesse, lo scambio di opinioni con i difensori è
sempre ricco di spunti per riflessioni e diverse letture delle disposizioni
esaminate, trattandosi di professionisti specializzati in materia –
dall’altro gli strumenti normativi ed operativi messi a disposizione di chi
agisce nel settore sono assolutamente insufficienti.
Affrontiamo il problema con sincerità.
La “questione ambiente” dovrebbe interessare
tutti i cittadini, indipendentemente dalle opinioni politiche e dalle diversità
di vedute, poiché – è quasi banale dirlo – si tratta di assicurare alle
generazioni future un habitat naturale soddisfacente o, qualora la situazione
non dovesse evolversi nel modo sperato, di garantire loro la sopravvivenza.
Lo stesso interesse dovrebbe essere manifestato
da chi, legislatore o amministratore, possiede gli strumenti per intervenire.
Anche in questo caso mettendo da parte le diverse posizioni politiche
nell’interesse del bene comune.
Ciò non significa, si badi bene, assumere
posizioni radicali ed estremiste tralasciando ogni possibile soluzione che
consenta di bilanciare interessi contrapposti. L’inquinamento è un fenomeno
da sempre presente e correlato con l’attività umana, lo sviluppo della società
non può essere impedito o rallentato assumendo atteggiamenti inutilmente
intransigenti, tuttavia sarebbe possibile, in teoria, trovare un giusto
equilibrio che garantisca da un lato la salvaguardia dell’ambiente e
dall’altro le esigenze economiche di una società moderna.
La situazione attuale non sembra però tener
conto di tale elementare principio ed il problema viene affrontato con un
atteggiamento pericolosamente schizofrenico.
Vediamo in primo luogo il problema relativo agli
strumenti normativi.
Abbiamo un quantitativo veramente eccessivo di
disposizioni in materia di ambiente. Il codice del 2001 che ho sul mio tavolo
conta 2688 pagine ed è senz’altro incompleto, le disposizioni vengono
aggiornate, abrogate o promulgate secondo un disegno che appare incomprensibile.
Manca inoltre un serio coordinamento tra le varie disposizioni.
E’ difficile pensare che tutto ciò avvenga
senza un apparente motivo logico e, in ogni caso, la situazione è tale che
paradossalmente colui che vuole adeguarsi alla normativa vigente può farlo solo
con estrema difficoltà e con notevole impiego di risorse economiche, mentre
l’inquinatore incallito può trovare nella stessa complessità della
legislazione più di uno strumento per continuare imperterrito la propria
attività.
Paradossalmente, inoltre, può constatarsi come
il maggiore contributo al degrado dell’ambiente sia fornito dalle aziende
medio-piccole che, rispetto a quelle di grandi dimensioni, non dispongono di
risorse sufficienti per adeguarsi al carosello di norme, spesso tra loro
contrastanti, che sono tenuti ad osservare.
Senza entrare in dettagli tecnici troppo
complicati è sufficiente formulare qualche esempio.
Tanto per cominciare, sicuramente si sarà notata
l’assenza di una chiara definizione di “ambiente” nelle diverse
disposizioni che regolano la materia. Il dibattito dottrinario sul punto è
ancora vivo e ci troviamo a trattare di un argomento del quale il significato
non è certo.
Questo fumoso concetto di ambiente viene
ristretto ed allargato secondo le esigenze del momento o in base ai diversi
punti di vista ed è comunque così generico che se ne colgono con difficoltà i
contorni.
Io direi anche che non esiste un vero e proprio
“diritto dell’ambiente” perché non c’e’ un organico complesso di
norme ma solo un insieme indefinito di disposizioni che senza alcun collegamento
disciplinano le più vaste materie.
Tutto questo è avvenuto solo negli anni più
recenti perché, in precedenza, il legislatore si era invece segnalato per la
sua quasi totale assenza.
Ma anche l’attivismo degli ultimi anni sembra
talvolta alimentato da valutazioni di natura politica ed economica che mal si
conciliano con le esigenze di tutela dell’ambiente.
Ricordiamo, a tale proposito, che in dottrina (L. BUTTI ) si è osservato che certe disposizioni (ad esempio la legge 17 maggio 1995 n.172 in tema di inquinamento idrico) sono state esplicitamente emanate quale reazione a non gradite interpretazioni da parte della Corte di cassazione o, in ogni caso, per limitarne gli effetti.
In tema di rifiuti, invece, all’emanazione del D.Lv. 2297 (c.d. decreto Ronchi) sono seguite a breve termine altre disposizioni di modifica (il D.Lv. 38997 – “Ronchi-bis” e la L.42698 “Ronchi – ter”) ritenute per alcuni aspetti sicuramente peggiorative rispetto all’originario impianto normativo.
Che dire poi di disposizioni destinate a regolare importanti materie e di fatto praticamente inutili o di difficile applicazione?
Il pensiero corre al d.p.r.
17 maggio 1988, n. 175 (attuativo della c.d. direttiva Seveso ed ora sostituito
dal D.Lv. 33499, attuativo della “Seveso – bis”) sul quale, in 11 anni di
vigenza, si conosce una sola sentenza nota nella quale viene peraltro fornita
una illuminante descrizione della situazione in cui versavano gli uffici
competenti all’effettuazione dei controlli.
E di quale utilità per la salvaguardia
dell’ambiente sono quelle disposizioni con le quali si introducono sanatorie
generalizzate di gravi situazioni antigiuridiche? Basta citare, a tale
proposito, il “condono edilizio” del 1994 o la Legge
30 aprile 1999 n. 136 con la quale venivano riaperti i termini, scaduti tre anni
prima dopo 23 anni di proroghe, per la regolarizzazione di alcune tipologie di
scarichi con recapito finale nella Laguna di Venezia (che, per espressa
ammissione del legislatore, viene individuata come zona meritevole di
particolare attenzione tanto da giustificare una legge speciale per la sua
salvaguardia).
Di esempi ce ne sarebbero molti
altri (la quotazione nelle borse merci dei calcinacci, la reiterazione
nell’arco di tre anni di ben 18 decreti legge in materia di rifiuti fino
all’intervento della Corte Costituzionale etc.).
Altre volte, invece, disposizioni di
sicura efficacia come, ad esempio, la legge Galasso (ora sostituita dal D.Lv.
49099) sono state di fatto aggirate rilasciando le autorizzazioni richieste
senza alcuna valutazione effettiva delle esigenze di tutela del paesaggio ovvero
attraverso la delega da parte delle regioni ai singoli comuni i quali effettuano
tali valutazioni, con i ben noti risultati, attraverso le “commissioni
edilizie integrate”.
Alla legislazione nazionale vanno
poi aggiunte le numerosissime leggi regionali che in alcuni casi, per la loro
singolarità, hanno occupato la Corte costituzionale e che in ogni caso
contribuiscono a rendere ancor più difficoltosa la lettura delle disposizioni
nazionali creando, talvolta, una disparità di trattamento da regione a regione
con conseguenze, anche in tema di concorrenza tra le imprese, che non è
difficile immaginare.
Non va infine dimenticato che, molto
spesso, la regolamentazione di importanti settori è solo conseguenza della
necessità di adeguamento a direttive comunitarie e che anche tale adeguamento
avviene spesso con notevole ritardo o in modo frettoloso per evitare pesanti
sanzioni come sembra sia avvenuto per il D.Lv. 15299 in tema di acque. Tale
decreto è stato pubblicato con una serie tale di errori da rendere necessaria
una precipitosa correzione, dopo qualche tempo, attraverso un “Avviso di
rettifica” pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Anche il D.Lv. 15299 non è rimasto
immune da interventi modificativi a distanza di poco tempo dalla sua emanazione
ma, sorprendentemente, il D.Lv. 258 0 ha introdotto innovazioni non
peggiorative tenendo conto, addirittura, del contributo interpretativo fornito
dalla Corte di Cassazione.
Anche la tecnica, ormai consueta,
con la quale vengono emanate le disposizioni non facilita di molto il compito
dell’interprete poiché viene fatto sempre più spesso ricorso
all’integrazione successiva attraverso decreti ministeriali la cui emanazione
non si segnala certo per puntualità e la eccessiva frammentazione delle
competenze tra i vari enti è un altro problema non di poco conto.
E’ dunque con questi inadeguati
strumenti forniti dal legislatore che occorre operare, utilizzando talvolta
ancora le vecchie e collaudate disposizioni del codice penale come avveniva in
passato quando mancavano disposizioni specifiche in materia di ambiente e
giovandosi del costante intervento della Corte di cassazione.
Non è facile però comprendere le
ragioni di tale situazione.
Molto probabilmente la tutela
dell’ambiente viene sacrificata in ragione degli interessi politici ed
economici che sottostanno a determinate situazioni e dal più rilevante peso
rappresentato dalle aziende coinvolte cui possono contrapporsi soltanto le
coraggiose prese di posizione di gruppi più o meno spontanei di cittadini o la
presenza, non sempre diffusa sull’intero territorio nazionale, delle
associazioni di protezione ambientale (quando svolgono il loro importante ruolo
con serietà senza diventare veri e propri centri di
potere).
Non può farsi a meno di osservare,
infatti, che la situazione sopra rappresentata si è formata e sviluppata in una
arco di tempo particolarmente ampio caratterizzato dai più diversi equilibri
politici e le disposizioni richiamate sono state votate con le più disparate
maggioranze.
Gli interessi in gioco assumono
rilievo anche per altri aspetti
senz’altro non secondari.
Le sanzioni previste dalla vigente
normativa sono praticamente irrisorie. La maggior parte dei reati ha natura
contravvenzionale ed è destinato quasi con certezza assoluta alla prescrizione
se solo si abbiano presenti i tempi medi di un procedimento penale.
La sanzioni, già inefficaci per la
loro mitezza, risentono di un altro aspetto non indifferente.
I processi, come tutti sappiamo, si
fanno alle persone fisiche e non anche alle società che sono entità diverse
dai soggetti che le compongono (vedremo cosa succederà quando verrà attuata la
Legge 3002000). Ora, se già nei confronti del titolare di una impresa
individuale la pena irrogabile appare talvolta inadeguata, si pensi a quanto è
inutile applicarla a soggetti che in teoria potrebbero essere destinati,
nell’ambito di una società, all’esclusivo compito di “capro espiatorio”
mediante un uso accorto della delega di funzioni ovvero attraverso altri
collaudati strumenti.
Il problema si presenta negli stessi
termini per le sanzioni amministrative ma con l’ulteriore inconveniente
rappresentato dal fatto che i soggetti preposti ai controlli fanno spesso parte
di enti i cui vertici sono soggetti ad un incisivo controllo politico o che, in
ogni caso, non godono di sufficiente autonomia operativa.
Il tema dei controlli rappresenta
un'altra nota dolente.
Le forze in gioco fanno sentire la
loro influenza ed il loro peso anche per questo importante aspetto.
Bene conoscono coloro i quali operano in questo campo, con quali
difficoltà – di ogni genere – debbono quotidianamente convivere. Mi
riferisco alle “attenzioni” dirette o indirette, più o meno lecite che,
prima o poi, tutti abbiamo ricevuto.
Nessuno, inoltre, sembra si sia
preso mai seriamente la briga di effettuare una verifica seria della situazione
relativa ai controlli.
Tocchiamo anche questo tasto.
Si è già detto della scarsa
autonomia di cui godono i controllori. Ma si segnala anche l’assenza di una
polizia giudiziaria veramente efficiente. Ciò, si badi bene, non per
inettitudine dei singoli, ma per la mancanza di mezzi, tempo e strutture causa
prima della scarsità dei controlli.
Soggetti molto motivati e, quasi
sempre, dotati di una più che accettabile preparazione, anche se talvolta
limitata alle aree di stretta competenza, sono costretti ad esercitare i propri
compiti senza strumenti adeguati e, talvolta, con la assillante necessità di
risultati rilevanti ai soli fini statistici o di immagine.
Talvolta, infatti, le
“operazioni” caratterizzate da nomi stravaganti ed i controlli capillari di
insediamenti poco rilevanti nel complesso delle attività inquinanti determinano
un risultato solo quantitativamente apprezzabile ma qualitativamente scarso
quando non servono soltanto a placare l’opinione pubblica in presenza di
situazioni di un certo rilievo enfatizzate dagli organi di informazione (in un
recente incontro di studi un brillante relatore ha utilizzato le calzanti
definizioni – utilizzabili anche in questo caso – di “moda giudiziaria”
e “gogna mediatica”). Alla “moda giudiziaria” si aggiungono poi quelli
che io chiamo “processi sponsorizzati” quei processi, cioè, che
interessando singoli centri di potere o gruppi organizzati vengono enfatizzati
sui mass media.
Manca, dunque, un capillare e
costante controllo del territorio cui potrebbe a mio avviso ovviarsi garantendo
maggiori risorse alle forze di polizia impiegate, favorendo la circolazione
delle informazioni, consentendo un aggiornamento che tenga conto dei diversi
punti di vista poiché rappresenta un inutile spreco di risorse
l’utilizzazione di uomini privi di mezzi, senza conoscenza del territorio dove
operano (spesso soltanto per la vastità dello stesso) e addestrati in modo
sommario e senza riferimenti alla pratica quotidiana.
Tutto questo per quanto riguarda
l’”ordinaria amministrazione”, perché volendo entrare nel dettaglio
potrei ricordare episodi caratterizzati da veri e propri interventi di disturbo
dell’attività di indagine. Qualche esempio tratto dall’esperienza personale
di questi anni? La realizzazione di “controinchieste” da parte di settori
tecnici che si sentivano privati della esclusiva di determinati accertamenti
affidati, per motivi diversi, alla polizia giudiziaria o a consulenti tecnici;
la costante limitazione di mezzi e risorse ai soggetti più attivi; le
insistenti richieste di conoscere in anticipo i luoghi ed i tempi di attività
di campionamento ed analisi; l’inserimento, in segnalazioni o altri documenti,
ovvero nel corso di testimonianze in sede dibattimentale, di non richieste
osservazioni critiche circa i risultati obiettivi di accertamenti analitici o di
altro tipo, e così via.
Al contrario, in assenza di tali
ostacoli, è possibile operare in modo veramente efficiente creando nuclei
affiatati e motivati che operano in sintonia anche con tecnici esterni i quali
rappresentano un indispensabile elemento di sostegno nelle indagine sui reati
ambientali.
Le inchieste per questo tipo di
reati presuppongono, infatti, una accurata preparazione tecnica che è
impossibile pretendere dalla polizia giudiziaria e dal magistrato, cosicché
l’ausilio dei consulenti appare determinante.
L’importanza dell’intervento del
consulente è ancor più evidente qualora si tenga conto anche
dell’atteggiamento assunto dagli enti chiamati dalla legge al controllo di
determinati settori.
Si pensi, ad esempio, quale rilievo
possono assumere il rallentamento o la accelerazione dei tempi di rilascio di
una autorizzazione nell’ambito di un procedimento penale o per quanto riguarda
gli aspetti economici e di concorrenza fra imprese; quali interessi convogliano
le associazioni di categoria; quale sia il peso politico di certe scelte (ad
esempio la realizzazione di una discarica o l’attivazione di un inceneritore)
etc.
Non è dunque un attività facile
quella che sono chiamati a svolgere i controllori dell’ambiente e, troppo
spesso, quello che arriva sul tavolo dei magistrati è solo ciò che rimane dopo
la corsa ad ostacoli in precedenza descritta.
Non è allora un caso se,
recentemente, l’intervento di un sindaco con un provvedimento con il quale
intimava ad un insediamento di adeguarsi alla normativa antinquinamento sia
stato ritenuto meritevole della prima pagina di un importante quotidiano del
sud. Quella che dovrebbe essere normale amministrazione viene salutata come
evento eccezionale. Il sindaco, riferiva il cronista, è stato applaudito anche
dai banchi dell’opposizione!
Dunque la colpa per il degrado
ambientale non è soltanto degli inquinatori, che traggono vantaggio dalle
lacune del sistema, ma anche e soprattutto da chi avrebbe il dovere di
effettuare verifiche e controlli ed invece lascia spazio non solo alla libertà
di inquinare, ma anche ad infiltrazioni di organizzazioni criminali che vedono
in questo ricco settore un ottima fonte di guadagno.
Mi è spesso capitato, dopo anni di
attività in una determinata zona, di “scoprire” solo per caso insediamenti
non in regola con la normativa ambientale e solo perché la segnalazione
arrivava da un gruppo di cittadini esasperati o da qualche collega che in un
altro ufficio effettuava indagini collegate.
Ciò che manca, a mio avviso, è
dunque un effettivo controllo del territorio effettuato in modo automatico ed
obiettivo.
C’e’ una soluzione a tale
problema, sperimentata con successo anni fa dalla Procura Circondariale di
Belluno.
In presenza di controlli carenti si
decise di operare attraverso indagini mirate per settore di attività.
E’ indubbio, infatti, che se una
determinata lavorazione comporta, ad esempio,
la produzione di determinati inquinanti la cui presenza viene rinvenuta
in un corpo d’acqua superficiale ovvero la produzione di reflui che per qualità
o quantità non possono essere smaltiti attraverso un impianto di depurazione è
presumibile che tutti gli insediamenti del medesimo settore si trovino nelle
medesime condizioni.
A tale scopo venivano immesse in un
computer tutte le informazioni relative agli insediamenti presenti sul
territorio di competenza costituendo una database dal quale venivano di volta in
volta estrapolati i dati relativi ai settori di produzione da controllare.
Il computer forniva la stampa della
modulistica necessaria che veniva poi girata alle forze di polizia incaricate
dei controlli.
Con tale sistema la verifica sul
territorio era capillare e consentiva di accertare situazioni anche gravi mai
prese in considerazione in precedenza. Eventuali situazioni di irregolarità
venivano poi segnalate anche agli enti competenti i quali dovevano
conseguentemente attivarsi. Nei casi di maggiore gravità si interveniva con il
sequestro degli impianti revocabile in caso di regolarizzazione degli stessi.
Vennero controllati centinaia di
insediamenti e circa 400 impianti di depurazione comunale utilizzando un
computer (allora un vecchio 8086!), due magistrati, due ufficiali di Polizia
Giudiziaria che provvedevano alla gestione dei dati ed al collegamento con le
forze di polizia di volta in volta delegate si controlli sul posto ed ottenendo
attraverso il computer anche la redazione e la stampa degli atti conseguenti ai
controlli.
Gli impianti non a norma venivano
inoltre tenuti in evidenza per successive verifiche.
La conferma dell’efficacia del
metodo, adottato poi anche per altre indagini, la ebbi dalle reazioni che tele
metodologia suscitò nei soggetti che subirono i controlli. Reazioni
puntualmente verificatesi anche in occasioni successive e nelle sedi più
disparate (e non mi riferisco solo all’ormai abusato “ricatto
occupazionale” già in voga negli anni settanta ed alle conferenze stampa).
Non occorre dunque una enormità di
risorse per procedere ad un controllo effettivo del territorio, essendo
sufficienti pochi mezzi, buona
volontà ed un piccolo nucleo di persone esclusivamente dedicato a tale attività
opportunamente coordinato e svincolato da possibili interventi esterni.
Non si tratta, come talvolta
affermato da critici non del tutto disinteressati, di attività “poliziesca”
e di applicazione delle norme senza “buonsenso” (quest’ultimo inteso, a
quanto sembra, come invito a voltarsi da un’altra parte in presenza di un
reato) ma soltanto di riaffermazione della presenza dello Stato e del principio
che la legge deve essere comunque rispettata, anche da chi per erronea
convinzione (indotta talvolta anche dall’inerzia di noi tutti), si ritiene
sollevato dal rispettare le regole.
Luca
RAMACCI