VERIFICA GIURIDICA DELLE DENUNCE AMBIENTALI: UN PERCORSO ACCIDENTATO di Luca RAMACCI   (intervento al Convegno “Tutela giuridica dell'ambiente e ruolo della società civile” Venezia 17 marzo 2001) VERIFICA GIURIDICA DELLE DENUNCE AMBIENTALI

 

Il titolo dell’intervento affidatomi è eccessivamente ottimistico. Si tratta infatti non di un percorso accidentato ma di una corsa ad ostacoli su una strada della quale non si vede la fine.

Dopo quasi quindici anni di lavoro, prima come Pretore e poi come Pubblico Ministero, nel campo della tutela ambientale, vorrei pertanto svolgere alcune considerazioni in libertà circa l’attuale situazione.

Non nascono il mio imbarazzo nel dover riconoscere il risultato praticamente fallimentare di tale attività e nel dover richiamare l’attenzione su problemi che sono senz’altro presenti a chi quotidianamente si occupa di questa intricata materia.

  Come magistrato, è quasi inutile dirlo, dovrei occuparmi esclusivamente ed asetticamente dei procedimenti assegnatimi senza alcuna possibilità di sollevare osservazioni critiche sulla situazione generale, ma come studioso del diritto dell’ambiente non posso fare a meno di guardarmi intorno. Ho inoltre la fortuna di occuparmi di tutto il settore penale della protezione ambientale  (inquinamento, urbanistica, paesaggio, alimenti etc.) godendo così di un osservatorio privilegiato.

Ora, se da un lato le soddisfazioni professionali non mancano - perché la materia è di sicuro interesse, le questioni giuridiche affrontate sono varie e complesse, lo scambio di opinioni con i difensori è sempre ricco di spunti per riflessioni e diverse letture delle disposizioni esaminate, trattandosi di professionisti specializzati in materia – dall’altro gli strumenti normativi ed operativi messi a disposizione di chi agisce nel settore sono assolutamente insufficienti.

Affrontiamo il problema con sincerità.

La “questione ambiente” dovrebbe interessare tutti i cittadini, indipendentemente dalle opinioni politiche e dalle diversità di vedute, poiché – è quasi banale dirlo – si tratta di assicurare alle generazioni future un habitat naturale soddisfacente o, qualora la situazione non dovesse evolversi nel modo sperato, di garantire loro la sopravvivenza.

Lo stesso interesse dovrebbe essere manifestato da chi, legislatore o amministratore, possiede gli strumenti per intervenire. Anche in questo caso mettendo da parte le diverse posizioni politiche nell’interesse del bene comune.

Ciò non significa, si badi bene, assumere posizioni radicali ed estremiste tralasciando ogni possibile soluzione che consenta di bilanciare interessi contrapposti. L’inquinamento è un fenomeno da sempre presente e correlato con l’attività umana, lo sviluppo della società non può essere impedito o rallentato assumendo atteggiamenti inutilmente intransigenti, tuttavia sarebbe possibile, in teoria, trovare un giusto equilibrio che garantisca da un lato la salvaguardia dell’ambiente e dall’altro le esigenze economiche di una società moderna.

La situazione attuale non sembra però tener conto di tale elementare principio ed il problema viene affrontato con un atteggiamento pericolosamente schizofrenico.

Vediamo in primo luogo il problema relativo agli strumenti normativi.

Abbiamo un quantitativo veramente eccessivo di disposizioni in materia di ambiente. Il codice del 2001 che ho sul mio tavolo conta 2688 pagine ed è senz’altro incompleto, le disposizioni vengono aggiornate, abrogate o promulgate secondo un disegno che appare incomprensibile. Manca inoltre un serio coordinamento tra le varie disposizioni.

E’ difficile pensare che tutto ciò avvenga senza un apparente motivo logico e, in ogni caso, la situazione è tale che paradossalmente colui che vuole adeguarsi alla normativa vigente può farlo solo con estrema difficoltà e con notevole impiego di risorse economiche, mentre l’inquinatore incallito può trovare nella stessa complessità della legislazione più di uno strumento per continuare imperterrito la propria attività.

Paradossalmente, inoltre, può constatarsi come il maggiore contributo al degrado dell’ambiente sia fornito dalle aziende medio-piccole che, rispetto a quelle di grandi dimensioni, non dispongono di risorse sufficienti per adeguarsi al carosello di norme, spesso tra loro contrastanti, che sono tenuti ad osservare.

Senza entrare in dettagli tecnici troppo complicati è sufficiente formulare qualche esempio.

Tanto per cominciare, sicuramente si sarà notata l’assenza di una chiara definizione di “ambiente” nelle diverse disposizioni che regolano la materia. Il dibattito dottrinario sul punto è ancora vivo e ci troviamo a trattare di un argomento del quale il significato non è certo.

Questo fumoso concetto di ambiente viene ristretto ed allargato secondo le esigenze del momento o in base ai diversi punti di vista ed è comunque così generico che se ne colgono con difficoltà i contorni.

Io direi anche che non esiste un vero e proprio “diritto dell’ambiente” perché non c’e’ un organico complesso di norme ma solo un insieme indefinito di disposizioni che senza alcun collegamento disciplinano le più vaste materie.

Tutto questo è avvenuto solo negli anni più recenti perché, in precedenza, il legislatore si era invece segnalato per la sua quasi totale assenza.

Ma anche l’attivismo degli ultimi anni sembra talvolta alimentato da valutazioni di natura politica ed economica che mal si conciliano con le esigenze di tutela dell’ambiente.

Ricordiamo, a tale proposito, che in dottrina (L. BUTTI ) si è osservato che certe disposizioni  (ad  esempio la legge 17 maggio 1995 n.172 in tema di inquinamento idrico) sono state esplicitamente emanate quale reazione a non gradite interpretazioni da parte della Corte di cassazione o, in ogni caso, per limitarne gli effetti.

In tema di rifiuti, invece, all’emanazione del D.Lv. 2297 (c.d. decreto Ronchi) sono seguite a breve termine altre disposizioni di modifica (il D.Lv. 38997 – “Ronchi-bis” e la L.42698  “Ronchi – ter”) ritenute per alcuni aspetti sicuramente peggiorative rispetto all’originario impianto normativo.

Che dire poi di disposizioni destinate a regolare importanti materie e di fatto praticamente inutili o di difficile applicazione?

Il pensiero corre al  d.p.r. 17 maggio 1988, n. 175 (attuativo della c.d. direttiva Seveso ed ora sostituito dal D.Lv. 33499, attuativo della “Seveso – bis”) sul quale, in 11 anni di vigenza, si conosce una sola sentenza nota nella quale viene peraltro fornita una illuminante descrizione della situazione in cui versavano gli uffici competenti all’effettuazione dei controlli.

E di quale utilità per la salvaguardia dell’ambiente sono quelle disposizioni con le quali si introducono sanatorie generalizzate di gravi situazioni antigiuridiche? Basta citare, a tale proposito, il “condono edilizio” del 1994 o la Legge 30 aprile 1999 n. 136 con la quale venivano riaperti i termini, scaduti tre anni prima dopo 23 anni di proroghe, per la regolarizzazione di alcune tipologie di scarichi con recapito finale nella Laguna di Venezia (che, per espressa ammissione del legislatore, viene individuata come zona meritevole di particolare attenzione tanto da giustificare una legge speciale per la sua salvaguardia).

Di esempi ce ne sarebbero molti altri (la quotazione nelle borse merci dei calcinacci, la reiterazione nell’arco di tre anni di ben 18 decreti legge in materia di rifiuti fino all’intervento della Corte Costituzionale etc.).

Altre volte, invece, disposizioni di sicura efficacia come, ad esempio, la legge Galasso (ora sostituita dal D.Lv. 49099) sono state di fatto aggirate rilasciando le autorizzazioni richieste senza alcuna valutazione effettiva delle esigenze di tutela del paesaggio ovvero attraverso la delega da parte delle regioni ai singoli comuni i quali effettuano tali valutazioni, con i ben noti risultati, attraverso le “commissioni edilizie integrate”.

Alla legislazione nazionale vanno poi aggiunte le numerosissime leggi regionali che in alcuni casi, per la loro singolarità, hanno occupato la Corte costituzionale e che in ogni caso contribuiscono a rendere ancor più difficoltosa la lettura delle disposizioni nazionali creando, talvolta, una disparità di trattamento da regione a regione con conseguenze, anche in tema di concorrenza tra le imprese, che non è difficile immaginare.

Non va infine dimenticato che, molto spesso, la regolamentazione di importanti settori è solo conseguenza della necessità di adeguamento a direttive comunitarie e che anche tale adeguamento avviene spesso con notevole ritardo o in modo frettoloso per evitare pesanti sanzioni come sembra sia avvenuto per il D.Lv. 15299 in tema di acque. Tale decreto è stato pubblicato con una serie tale di errori da rendere necessaria una precipitosa correzione, dopo qualche tempo, attraverso un “Avviso di rettifica” pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

Anche il D.Lv. 15299 non è rimasto immune da interventi modificativi a distanza di poco tempo dalla sua emanazione ma, sorprendentemente, il D.Lv. 2580 ha introdotto innovazioni non peggiorative tenendo conto, addirittura, del contributo interpretativo fornito dalla Corte di Cassazione.

Anche la tecnica, ormai consueta, con la quale vengono emanate le disposizioni non facilita di molto il compito dell’interprete poiché viene fatto sempre più spesso ricorso all’integrazione successiva attraverso decreti ministeriali la cui emanazione non si segnala certo per puntualità e la eccessiva frammentazione delle competenze tra i vari enti è un altro problema non di poco conto.

E’ dunque con questi inadeguati strumenti forniti dal legislatore che occorre operare, utilizzando talvolta ancora le vecchie e collaudate disposizioni del codice penale come avveniva in passato quando mancavano disposizioni specifiche in materia di ambiente e giovandosi del costante intervento della Corte di cassazione.

Non è facile però comprendere le ragioni di tale situazione.

Molto probabilmente la tutela dell’ambiente viene sacrificata in ragione degli interessi politici ed economici che sottostanno a determinate situazioni e dal più rilevante peso rappresentato dalle aziende coinvolte cui possono contrapporsi soltanto le coraggiose prese di posizione di gruppi più o meno spontanei di cittadini o la presenza, non sempre diffusa sull’intero territorio nazionale, delle associazioni di protezione ambientale (quando svolgono il loro importante ruolo con serietà senza diventare veri e propri centri di  potere).

Non può farsi a meno di osservare, infatti, che la situazione sopra rappresentata si è formata e sviluppata in una arco di tempo particolarmente ampio caratterizzato dai più diversi equilibri politici e le disposizioni richiamate sono state votate con le più disparate maggioranze.

Gli interessi in gioco assumono rilievo anche per  altri aspetti senz’altro non secondari.

Le sanzioni previste dalla vigente normativa sono praticamente irrisorie. La maggior parte dei reati ha natura contravvenzionale ed è destinato quasi con certezza assoluta alla prescrizione se solo si abbiano presenti i tempi medi di un procedimento penale.

La sanzioni, già inefficaci per la loro mitezza, risentono di un altro aspetto non indifferente.

I processi, come tutti sappiamo, si fanno alle persone fisiche e non anche alle società che sono entità diverse dai soggetti che le compongono (vedremo cosa succederà quando verrà attuata la Legge 3002000). Ora, se già nei confronti del titolare di una impresa individuale la pena irrogabile appare talvolta inadeguata, si pensi a quanto è inutile applicarla a soggetti che in teoria potrebbero essere destinati, nell’ambito di una società, all’esclusivo compito di “capro espiatorio” mediante un uso accorto della delega di funzioni ovvero attraverso altri collaudati strumenti.

Il problema si presenta negli stessi termini per le sanzioni amministrative ma con l’ulteriore inconveniente rappresentato dal fatto che i soggetti preposti ai controlli fanno spesso parte di enti i cui vertici sono soggetti ad un incisivo controllo politico o che, in ogni caso, non godono di sufficiente autonomia operativa.

Il tema dei controlli rappresenta un'altra nota dolente.

Le forze in gioco fanno sentire la loro influenza ed il loro peso anche per questo importante aspetto.  Bene conoscono coloro i quali operano in questo campo, con quali difficoltà – di ogni genere – debbono quotidianamente convivere. Mi riferisco alle “attenzioni” dirette o indirette, più o meno lecite che, prima o poi, tutti abbiamo ricevuto. 

Nessuno, inoltre, sembra si sia preso mai seriamente la briga di effettuare una verifica seria della situazione relativa ai controlli.

Tocchiamo anche questo tasto.

Si è già detto della scarsa autonomia di cui godono i controllori. Ma si segnala anche l’assenza di una polizia giudiziaria veramente efficiente. Ciò, si badi bene, non per inettitudine dei singoli, ma per la mancanza di mezzi, tempo e strutture causa prima della scarsità dei controlli.

Soggetti molto motivati e, quasi sempre, dotati di una più che accettabile preparazione, anche se talvolta limitata alle aree di stretta competenza, sono costretti ad esercitare i propri compiti senza strumenti adeguati e, talvolta, con la assillante necessità di risultati rilevanti ai soli fini statistici o di immagine.

Talvolta, infatti, le “operazioni” caratterizzate da nomi stravaganti ed i controlli capillari di insediamenti poco rilevanti nel complesso delle attività inquinanti determinano un risultato solo quantitativamente apprezzabile ma qualitativamente scarso quando non servono soltanto a placare l’opinione pubblica in presenza di situazioni di un certo rilievo enfatizzate dagli organi di informazione (in un recente incontro di studi un brillante relatore ha utilizzato le calzanti definizioni – utilizzabili anche in questo caso – di “moda giudiziaria” e “gogna mediatica”). Alla “moda giudiziaria” si aggiungono poi quelli che io chiamo “processi sponsorizzati” quei processi, cioè, che interessando singoli centri di potere o gruppi organizzati vengono enfatizzati sui mass media.

Manca, dunque, un capillare e costante controllo del territorio cui potrebbe a mio avviso ovviarsi garantendo maggiori risorse alle forze di polizia impiegate, favorendo la circolazione delle informazioni, consentendo un aggiornamento che tenga conto dei diversi punti di vista poiché rappresenta un inutile spreco di risorse l’utilizzazione di uomini privi di mezzi, senza conoscenza del territorio dove operano (spesso soltanto per la vastità dello stesso) e addestrati in modo sommario e senza riferimenti alla pratica quotidiana.

Tutto questo per quanto riguarda l’”ordinaria amministrazione”, perché volendo entrare nel dettaglio potrei ricordare episodi caratterizzati da veri e propri interventi di disturbo dell’attività di indagine. Qualche esempio tratto dall’esperienza personale di questi anni? La realizzazione di “controinchieste” da parte di settori tecnici che si sentivano privati della esclusiva di determinati accertamenti affidati, per motivi diversi, alla polizia giudiziaria o a consulenti tecnici; la costante limitazione di mezzi e risorse ai soggetti più attivi; le insistenti richieste di conoscere in anticipo i luoghi ed i tempi di attività di campionamento ed analisi; l’inserimento, in segnalazioni o altri documenti, ovvero nel corso di testimonianze in sede dibattimentale, di non richieste osservazioni critiche circa i risultati obiettivi di accertamenti analitici o di altro tipo, e così via.

Al contrario, in assenza di tali ostacoli, è possibile operare in modo veramente efficiente creando nuclei affiatati e motivati che operano in sintonia anche con tecnici esterni i quali rappresentano un indispensabile elemento di sostegno nelle indagine sui reati ambientali.

Le inchieste per questo tipo di reati presuppongono, infatti, una accurata preparazione tecnica che è impossibile pretendere dalla polizia giudiziaria e dal magistrato, cosicché l’ausilio dei consulenti appare determinante.

L’importanza dell’intervento del consulente è ancor più evidente qualora si tenga conto anche dell’atteggiamento assunto dagli enti chiamati dalla legge al controllo di determinati settori.

  Anche qui è inutile nascondersi dietro i giri di parole.

  Capita frequentemente che i soggetti addetti alle indagini in materia ambientale si trovino a dover affrontare l’inerzia o, peggio ancora, l’evidente ostilità di soggetti che, al contrario, dovrebbero procedere con estrema attenzione alla verifica di determinati settori.

  Peggio ancora, quanti tra costoro effettuano con scrupolo la loro attività vengono spesso ostacolati all’interno dell’ente di appartenenza.

  Voglio precisare che non sto parlando di attività illecita frutto di corruzione o di altri reati (pure presente in modo preoccupante come spesso si apprende dalla cronaca) ma di un diffusa e sistematica “burocratizzazione” del governo del territorio che costituisce l’habitat naturale per un certo tipo di “controllo del controllore”.

Si pensi, ad esempio, quale rilievo possono assumere il rallentamento o la accelerazione dei tempi di rilascio di una autorizzazione nell’ambito di un procedimento penale o per quanto riguarda gli aspetti economici e di concorrenza fra imprese; quali interessi convogliano le associazioni di categoria; quale sia il peso politico di certe scelte (ad esempio la realizzazione di una discarica o l’attivazione di un inceneritore) etc.

Non è dunque un attività facile quella che sono chiamati a svolgere i controllori dell’ambiente e, troppo spesso, quello che arriva sul tavolo dei magistrati è solo ciò che rimane dopo la corsa ad ostacoli in precedenza descritta.

Non è allora un caso se, recentemente, l’intervento di un sindaco con un provvedimento con il quale intimava ad un insediamento di adeguarsi alla normativa antinquinamento sia stato ritenuto meritevole della prima pagina di un importante quotidiano del sud. Quella che dovrebbe essere normale amministrazione viene salutata come evento eccezionale. Il sindaco, riferiva il cronista, è stato applaudito anche dai banchi dell’opposizione!

Dunque la colpa per il degrado ambientale non è soltanto degli inquinatori, che traggono vantaggio dalle lacune del sistema, ma anche e soprattutto da chi avrebbe il dovere di effettuare verifiche e controlli ed invece lascia spazio non solo alla libertà di inquinare, ma anche ad infiltrazioni di organizzazioni criminali che vedono in questo ricco settore un ottima fonte di guadagno.  

Mi è spesso capitato, dopo anni di attività in una determinata zona, di “scoprire” solo per caso insediamenti non in regola con la normativa ambientale e solo perché la segnalazione arrivava da un gruppo di cittadini esasperati o da qualche collega che in un altro ufficio effettuava indagini collegate.

Ciò che manca, a mio avviso, è dunque un effettivo controllo del territorio effettuato in modo automatico ed obiettivo.

C’e’ una soluzione a tale problema, sperimentata con successo anni fa dalla Procura Circondariale di Belluno.

In presenza di controlli carenti si decise di operare attraverso indagini mirate per settore di attività.

E’ indubbio, infatti, che se una determinata lavorazione comporta, ad esempio,  la produzione di determinati inquinanti la cui presenza viene rinvenuta in un corpo d’acqua superficiale ovvero la produzione di reflui che per qualità o quantità non possono essere smaltiti attraverso un impianto di depurazione è presumibile che tutti gli insediamenti del medesimo settore si trovino nelle medesime condizioni.

A tale scopo venivano immesse in un computer tutte le informazioni relative agli insediamenti presenti sul territorio di competenza costituendo una database dal quale venivano di volta in volta estrapolati i dati relativi ai settori di produzione da controllare.

Il computer forniva la stampa della modulistica necessaria che veniva poi girata alle forze di polizia incaricate dei controlli.

Con tale sistema la verifica sul territorio era capillare e consentiva di accertare situazioni anche gravi mai prese in considerazione in precedenza. Eventuali situazioni di irregolarità venivano poi segnalate anche agli enti competenti i quali dovevano conseguentemente attivarsi. Nei casi di maggiore gravità si interveniva con il sequestro degli impianti revocabile in caso di regolarizzazione degli stessi.

Vennero controllati centinaia di insediamenti e circa 400 impianti di depurazione comunale utilizzando un computer (allora un vecchio 8086!), due magistrati, due ufficiali di Polizia Giudiziaria che provvedevano alla gestione dei dati ed al collegamento con le forze di polizia di volta in volta delegate si controlli sul posto ed ottenendo attraverso il computer anche la redazione e la stampa degli atti conseguenti ai controlli.

Gli impianti non a norma venivano inoltre tenuti in evidenza per successive verifiche.

La conferma dell’efficacia del metodo, adottato poi anche per altre indagini, la ebbi dalle reazioni che tele metodologia suscitò nei soggetti che subirono i controlli. Reazioni puntualmente verificatesi anche in occasioni successive e nelle sedi più disparate (e non mi riferisco solo all’ormai abusato “ricatto occupazionale” già in voga negli anni settanta ed alle conferenze stampa). 

Non occorre dunque una enormità di risorse per procedere ad un controllo effettivo del territorio, essendo sufficienti pochi mezzi,  buona volontà ed un piccolo nucleo di persone esclusivamente dedicato a tale attività opportunamente coordinato e svincolato da possibili interventi esterni.

Non si tratta, come talvolta affermato da critici non del tutto disinteressati, di attività “poliziesca” e di applicazione delle norme senza “buonsenso” (quest’ultimo inteso, a quanto sembra, come invito a voltarsi da un’altra parte in presenza di un reato) ma soltanto di riaffermazione della presenza dello Stato e del principio che la legge deve essere comunque rispettata, anche da chi per erronea convinzione (indotta talvolta anche dall’inerzia di noi tutti), si ritiene sollevato dal rispettare le regole.  

 

 Luca RAMACCI