Contenzioso climatico italiano e sistema delle fonti, dopo l’ordinanza della Cass. civ. SS.UU. n. 13085/2024, pubblicata il 21 luglio 2025
di Anna Silvia BRUNO
pubblicato su giustiziainsieme.it.Si ringraziano Autore ed Editore
Sommario: 1. Introduzione: verso il superamento della “tragedia degli errori”- 2. I due principali errori nei primi commenti alle Sezioni Unite - 3. Il necessario recupero dell’art. 1173 Cod. civ. - 4. La declinazione dell’art. 2058 Cod. civ. con le leggi fisiche del sistema climatico - 5. La responsabilità civile dello Stato italiano, nel combinato disposto degli artt. 28 Cost. e 1173 Cod. civ. con l’art. 8 CEDU, e il caso “Giudizio Universale”.
1. Introduzione: verso il superamento della “tragedia degli errori”
La decisione assunta dalla Corte di cassazione civile a Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 13085/2024, è stata salutata come storica tappa di riconoscimento, anche in Italia, della praticabilità del contenzioso climatico, nella specifica modalità dell’azione di responsabilità extracontrattuale per danni da cambiamento climatico[1].
Come immediatamente constatato da questa Testata, il Supremo consesso, da un lato, ha ammesso la potenziale giustiziabilità delle pretese di tutela climatica fondate sulla lesione dei diritti fondamentali, nella necessaria distinzione tra questione del fondamento costituzionale del potere giurisdizionale di decisione e questione di merito sull’accoglimento o meno del petitum[2], dall’altro, ha pure aperto all’esperibilità di misure coercitive giudiziali di mitigazione climatica, attraverso il ricorso all’art. 2058 Cod. civ.[3].
Oltre a questi passaggi, tuttavia, la pronuncia italiana contiene novità significative su altri fronti, meno eclatanti del tema dell’accesso al giudice, e, forse per questo, rimasti ancora all’ombra dei fari dottrinali, ancorché ineludibili per non commettere errori, di fatto e di diritto, nella discussione giuridica del complesso fenomeno climatico.
Ci si riferisce, nello specifico, ai seguenti quattro temi.
- quello della certezza scientifica della matrice antropogenica del cambiamento climatico;
- quello della sua natura di minaccia esistenziale per i diritti umani;
- quello dell’attendibilità dell’utilizzo della c.d. “scienza di attribuzione” (attribution science), ai fini della ricostruzione dei nessi causali e dell’imputazione delle singole responsabilità antropogeniche;
- quello della priorità temporale (e dell’urgenza) della mitigazione climatica rispetto al solo adattamento alle conseguenze del riscaldamento globale, in funzione della tutela intertemporale dei diritti alla vita e alla salute.
Si tratta di aspetti a lungo trascurati dai formanti giuridici, tendenzialmente propensi, soprattutto in Italia, a sussumere i fenomeni climatici, con i loro effetti giuridici, dentro le categorie del diritto ambientale tradizionale, le quali, però, al cambiamento climatico non si riferiscono affatto[4]. La falsa analogia fra ambiente e clima[5] ha prodotto errori cognitivi, inducendo a osservare il problema climatico come variabile dipendente dalle categorie e fattispecie del diritto ambientale domestico, ragionando di riflesso per singoli eventi e singoli impatti, singole azioni umane (eventualmente fra loro cumulabili) e singoli spazi delimitabili, ma ignorando del tutto che i fenomeni climatici consistono in processi intertemporali di trasformazione irreversibile dei contesti di vita.
In altre parole, mentre la tutela ambientale si traduce in protezione da specifici e circoscritti impatti, quella climatica consiste nel preservare la qualità della vita dal tempo termodinamico del sistema terrestre, destabilizzato dall’azione umana. Nella tutela climatica, dunque, il bene della vita messo in gioco è il tempo[6], come finalmente riconosciuto dalla Corte Europea dei Diritti Umani con la storica sentenza sul caso “Verein KlimaSeniorinnen” ric. n. 53600/20, del 9 aprile 2024[7].
Tali errori, poi, sono stati a lungo replicati nella forma della fallacia logica dell’evidenza soppressa, ovvero in ragionamenti e giudizi, frutto di conoscenze e comprensioni parziali, imprecise, soprattutto incomplete e lacunose dei fatti[8], nonostante, tra l’altro, i periodici Report dell’IPCC (il Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico dell’ONU), quasi mai letti dai giuristi, ancorché messi a disposizione della società civile precipuamente per scongiurare, in particolare attraverso i Summary for policymakers, errori cognitivi di decisori e operatori delle scienze non naturali[9].
Così, dunque, sono andate le cose nel mondo del diritto per lunghi anni, consumando una perdita irreparabile di tempo, sul fronte della tutela dei diritti, icasticamente definita “tragedia degli errori”[10].
Oggi, in enorme ritardo, da questa “tragedia” sembra che si stia uscendo.
I citati quattro passaggi, evocati nell’ordinanza in commento, lo testimoniano.
Prima di tutto, dichiarare la “certezza” della matrice antropogenica del cambiamento climatico implica la presa d’atto della sua ineluttabilità come legge di natura (constatazione che è alla base dello stesso concetto di emergenza climatica quale situazione di pericolo condizionata dalle traiettorie temporali di inerzia del sistema climatico[11]), inducendo a sottrarre il facere giuridico al criterio della sola “precauzione” (come noto utilizzabile in casi di incertezza scientifica su fatti e rischi e pertanto bilanciabile con qualsiasi altra priorità temporale umana), per proiettarlo, al contrario, verso la prevenzione, ovvero per l’adozione prioritaria e non negoziabile di misure di interruzione o riduzione del fattore produttivo del problema: la pericolosa interferenza antropogenica (come, del resto, richiederebbe l’obbligazione impressa dall’art. 2 dell’UNFCCC del 1992 e su cui si tornerà, discutendo dell’art. 2058 Cod. civ.).
In secondo luogo, qualificare tale situazione come minaccia per i diritti umani porta a inquadrarla in termini di pericolo, quindi di fatto ingiusto permanente, da interrompere proprio nell’applicazione degli artt. 2043 Cod. civ, come ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza italiana[12].
Nel contempo, coniugare la “certezza” eziologica dell’antropogenesi pericolosa con le acquisizioni di quel ramo della scienza climatica (la c.d. “attribution science”), che si occupa di identificare e quantificare il contributo di singoli agenti umani sullo stato di pericolo, vuol dire ammettere che il fenomeno non è affatto indistinto e impossibile da ricostruire nelle imputazioni giuridiche di responsabilità, smontando alla radice le storture del c.d. teoria del “Black Box” (altrimenti nota col brocardo “ad impossibilia nemo tenetur”), costantemente evocata da Stati e imprese citate in giudizio, perché fondata sul postulato che i fenomeni climatici sarebbero informi e indistinguibili nei loro processi e conseguenze, dunque impossibili appunto da “attribuire” a specifiche responsabilità e conseguenti protezioni[13].
Infine, ribadire la gerarchia fra mitigazione e adattamento, con l’urgenza della prima rispetto alla seconda per la tutela effettiva dei diritti umani, comporta la loro non equiparazione per leggi di natura (dato che solo la mitigazione incide sull’inerzia termofisica del sistema[14]), con la conseguente assenza di discrezionalità nelle preferenze e scelte di risposta alla minaccia climatica[15], nel senso che non si può discrezionalmente decidere di anteporre l’adattamento alla mitigazione né ancor meno preferire il primo, ignorando la seconda, come purtroppo, al contrario, sta succedendo in Italia[16].
Il chiarimento dell’ordinanza in commento, sulla responsabilità per le emissioni prodotte all’estero, si spiega in questa prospettiva, lì dove la Cassazione precisa che le emissioni climalteranti, pur «estendendo i loro effetti all’intera atmosfera terreste, nell’ambito della quale si determina l’incremento della temperatura globale che produce il cambiamento climatico», ledono diritti umani localizzabili, quale «effetto ultimo della sequenza causale innescata dal cambiamento climatico», sicché «l’evento generatore del danno dev’essere individuato in quello in cui si producono le emissioni climalteranti, mentre il luogo in cui si concretizza il danno fatto valere dagli attori va identificato in quello in cui gli stessi risiedono».
Invero, questo sbocco della Supremo Collegio era stato in qualche modo anticipato da una precedente pronuncia a Sezioni Unite civili, la n. 5668/2023, in tema sempre di emissioni ma con riguardo alla sola atmosfera e al solo processo di inquinamento. Anche in tale giudizio, infatti, la Corte non solo aveva rigettato la plausibilità del postulato “ad impossibilia nemo tenetur” (puntualmente evocato dall’amministrazione convenuta in ragione della natura diffusa e dispersiva della contaminazione atmosferica), ma soprattutto aveva qualificato l’inquinamento, in quanto certo nella sua matrice antropogenica, come situazione di pericolo per i diritti, arrivando persino a qualificare nociva l’attività emissiva antropogenica in sé, anche ove conforme a norme o atti, allorquando fomentata da comportamenti materiali negligenti nella prevenzione e trincerati dietro pretestuose impossibilità di azioni e controlli delle conseguenze[17].
Oggi, lo stesso sbocco appare ancor più valido e convincente alla luce di quella giurisprudenza internazionale in materia climatica, che, negli ultimi due anni, la “tragedia degli errori” ha definitivamente demolito, distinguendo altrettanto definitivamente i caratteri peculiari della protezione climatica. Ci si riferisce, in ordine cronologico, alle decisioni del Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare (Advisory Opinion ITLOS n. 31/2024), della Corte Europea dei Diritti Umani (casi “Verein KlimaSeniorinnen” ric. n. 53600/20, e “Duarte Agostinho et al.” ric. n. 39371/20, entrambi del 9 aprile 2024), della Corte Interamericana dei Diritti Umani (Opinione consultiva n. 35/25) e, per ultimo, della Corte Internazionale di Giustizia (Advisory Opinion ICJ case 187 del 23 luglio 2025).
Da questa cornice internazionale, quindi, si dovrebbe partire per contestualizzare correttamente tutte le conclusioni fornite dall’ordinanza in commento. Sembrerebbe suggerirlo, ancora una volta, sempre la Corte di cassazione, questa volta per bocca del suo ufficio del Massimario, la cui scheda, redatta con riguardo al caso CEDU “Verein KlimaSeniorinnen” del 9 aprile 2024[18], rileva la correttezza di collocare il «dovere di protezione dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici sulla vita e sulla salute … nelle fonti di diritto interno, eurounitario ed internazionale».
2. I due principali errori nei primi commenti alle Sezioni Unite
L’omissione delle «fonti di diritto interno, eurounitario ed internazionale» segna, invece, il cammino di alcuni dei primi commenti all’ordinanza in oggetto.
Proviamo a scandagliarli.
In primo luogo, il richiamo alla responsabilità extracontrattuale come “base” del contenzioso climatico ha indotto una parte della dottrina a lasciare in ombra le fonti internazionali in materia climatica, che se queste consistessero in una sorta di lex specialis estranea al problema del danno ingiusto alla persona[19]. In effetti, fino all’Accordo di Parigi del 2015, l’interpretazione prevalente sui risvolti giuridici del cambiamento climatico risultava orientata in tal senso, con l’effetto di estromettere, dai discorsi giuridici sul cambiamento climatico, gli obblighi in materia di diritti umani e neminem laedere, giudicandoli inapplicabili e alimentando, per l’effetto, il costrutto dell’assenza di norme anche solo “astrattamente idonee” a tutelare situazioni soggettive compromesse dal fenomeno climatico, conoscibili e applicabili dai giudici. La Corte Internazionale di Giustizia, con la citata Opinione consultiva del luglio scorso, ha confutato siffatta ricostruzione (per es., nei §§ 145, 373 e 404), rilevando non solo l’interdipendenza fattuale tra diritti umani e cambiamento climatico (cfr. §§ 377-384), ma prioritariamente l’indivisibilità dei diritti umani in sé (indivisibilità formalizzata anche dai due Patti ONU del 1966), la cui unitaria tutela, corrispondendo a un diritto internazionale consuetudinario collegato all’obbligo statale, anch’esso a fondamento consuetudinario, del No Harm e dunque del non recare danno ingiusto al pari del neminem laedere, non può essere esclusa al cospetto di fenomeni antropogenici di alterazione del sistema ambientale planetario (§§ 389-393).
Dopo questa ricostruzione del diritto internazionale consuetudinario, al quale l’Italia si adatta automaticamente in forza dell’art. 10, primo comma, Cost., l’eccezione dell’assenza di una norma “astrattamente idonea” alla tutela climatica è divenuta inammissibile: il che non può non incidere sul fondamento costituzionale del potere giurisdizionale, corroborando senza eccezioni l’accertamento compiuto dall’ordinanza in commento.
Ne consegue altresì che risarcire il danno da cambiamento climatico non equivale affatto a “creazione” giurisprudenziale di norme altrimenti inesistenti, bensì al suo esatto opposto: applicazione del neminem laedere nel rispetto del diritto internazionale consuetudinario su indivisibilità dei diritti umani e No Harm.
Dentro questa cornice, la puntualizzazione dell’ordinanza in commento, secondo cui una «comune azione risarcitoria, ancorché fondata sull’allegazione dell’omesso o illegittimo esercizio della potestà legislativa, non dà luogo a un difetto assoluto di giurisdizione, neppure in relazione alla natura politica dello atto legislativo, ove sia stata dedotta la sola lesività della disciplina che ne è derivata», suona ancora più chiara.
Il neminem laedere, in effetti, non richiede esercizio del potere legislativo, ma rispetto della legalità in tutte le sue espressioni[20]; ed esige condotte materiali adeguate al pericolo. Detto altrimenti, mitigare emissioni non vuol dire creare norme; significa eliminare o ridurre il pericolo; il che esige condotte materiali di neminem laedere (e di No Harm); “dovere primario” di protezione (Primary Duty), aveva già anticipato la Corte Europea dei Diritti Umani, nel caso “Verein KlimaSeniorinnen” del 2024, come tale vincolante dall’esterno la discrezionalità politica degli Stati e dei loro organi (cfr. §§ 544-550 della decisione europea), esattamente come il dovere materiale di mitigazione contro l’inquinamento, evocato dalle Sezioni Unite n. 5668/2023.
Che poi la mitigazione sia contenuta in una legge o meno, appare accidente formale, non certo presupposto costitutivo della condotta non lesiva.
Per questo, è ampiamente condivisa la considerazione che la tutela dalla minaccia del cambiamento climatico antropogenico sia questione di responsabilità inevitabilmente extracontrattuale fattuale (ossia da fatto illecito di condotta inadeguata e non da omissione legislativa), lesiva di diritti assoluti di sopravvivenza[21].
Alcuni commentatori hanno reputato possibile sottrarsi a siffatta conclusione, adducendo la non vincolatività, per gli operatori giuridici e decisori italiani, del diritto internazionale nelle interpretazioni fornite dai suoi giudici e la prevalenza sul diritto interno, nella materia climatica, “solamente” del diritto europeo[22]. Stando a tale ordito, gli ultimi interpreti del diritto internazionale resterebbero gli agenti domestici dello Stato, per cui nulla impedirebbe loro di procedere per vie diverse da quelle segnate dalle giurisdizioni internazionali (ITLOS, Corte Internazionale, Corte EDU), fatta salva l’applicazione “solamente” del diritto europeo (come se questo fosse estraneo al – e separato dal – diritto internazionale). L’argomento, ancorché avallato da una risalente giurisprudenza minoritaria[23], risulta del tutto fuori luogo sul lato del sistema delle fonti, proprio alla luce degli interventi interpretativi internazionali, che si vorrebbero eludere.
Se la Corte dell’Aja accerta e dichiara l’esistenza di un diritto internazionale consuetudinario nella materia climatica, ad esso l’Italia, con i suoi giudici, è tenuta ad adeguarsi automaticamente, in ragione – come banalmente ricordato – del primo comma dell’art. 10 Cost., a meno che siffatto adattamento osti alla miglior tutela dei diritti fondamentali presidiati dalla Costituzione italiana (si v., in proposito, la nota sentenza della Corte costituzionale n. 238/2014); ipotesi certamente estranea al campo della minaccia climatica.
Inoltre, se l’Italia non si limita a ratificare trattati internazionali che predicano l’indivisibilità dei diritti umani, ma riconosce loro piena attuazione interna con l’apposito ordine di esecuzione, i suoi giudici non possono certo sottrarsi alla considerazione di quelle fonti, ai fini della ricerca della norma “astrattamente idonea” a tutelare situazioni soggettive contro il cambiamento climatico. Diversamente opinando, si arriverebbe alla violazione dei principi di “buona fede” e “pacta sun servanda”, imposti dalla Convenzione di Vienna sull’interpretazione dei trattati del 1969, alla quale ovviamente l’Italia aderisce e ha dato esecuzione[24].
Infine, il rispetto del diritto internazionale consuetudinario e pattizio, con la connessa presa in considerazione delle sue interpretazioni giudiziali a tutela dei diritti, è richiesto pure dalla stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea, sicché l’evocazione “solamente” del diritto europeo in materia climatica, invece di suffragare la tesi dell’esclusione dei formanti internazionalistici, la smentirebbe sonoramente. In merito, i precedenti unionali sono innumerevoli. In questa sede, nondimeno, può esserne sufficiente un solo accenno, tra l’altro riferito agli effetti diffusi e transfrontalieri delle condotte dello Stato in materia ambientale. Nella causa C-188/23 del 21 gennaio 2025, i giudici di Lussemburgo hanno ricordato che l’obbligo di conformazione alle fonti del diritto internazionale, alle quali la UE aderisce, vincola le fonti derivate europee e, di riflesso, i giudici nazionali, con esiti disapplicativi delle norme e interpretazioni interne contrastanti.
Ora, poiché la UE aderisce a tutti i trattati internazionali in materia climatica, l’interpretazione di essi fornita dalla Corte Internazionale di Giustizia per la tutela dei diritti umani, vincolando la UE per la migliore tutela, obbliga a cascata gli Stati membri e i loro giudici.
Il che, sia detto per inciso, consente pure di perseguire tutele ambientali più rigorose di quelle europee, alla luce dell’art. 193 TFUE.
In definitiva, chi si arresta al diritto europeo, scopre di doversi comunque aprire al diritto internazionale climatico e alle sue interpretazioni, sia per adattamento italiano alle fonti internazionali, consuetudinarie e pattizie (artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.), sia per primato stesso delle fonti europee che quel diritto chiedono di rispettare (da ultimo, causa C-118/23).
A conclusione non dissimile si giunge passando alle decisioni climatiche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, anch’esse reputate destituite, dalla medesima dottrina[25], di forza vincolante per il giudice italiano.
Invero, basterebbe evocare l’art. 6 TUE e l’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, per confutare la pretesa destituzione[26], tant’è che la citata scheda dell’ufficio Massimario della Cassazione sembra presupporlo.
Cionondimeno, reputare finanche costituzionalmente ammissibile l’assenza di vincolo, stigmatizzerebbe l’operazione ermeneutica come oltremodo contraddittoria (perché renderebbe del tutto inutile l’adesione italiana al sistema CEDU) e illegittima in re ipsa, traducendosi in una non ammessa disapplicazione giudiziale della CEDU (in tal senso si v. il caso “Walęsa c. Polonia” ric. n. 50849/21 del 23 novembre 2023[27]).
Probabilmente, come correttamente fatto presente da altra dottrina[28], coloro che contestano il vincolo giudiziale nazionale alla CEDU, cadono in una doppia confusione:
- quella fra sistema di norme e sistema di ordinamenti,
- quella tra disapplicazione delle norme interne, per conflitto col diritto UE, e prevalenza della CEDU sulle norme interne nella tutela dei diritti, per interposizione ex art. 117, primo comma, Cost.
La CEDU non è un ordinamento giuridico con proprie fonti, come invece lo è l’UE; ma è pur sempre un sistema di norme per la tutela dei diritti umani.
Questo sistema di norme di tutela dei diritti è gerarchicamente sovraordinato alle norme di diritto interno, ma subordinato alla Costituzione.
Nel contempo, in ragione dei citati artt. 6 TUE e 53 della Carta fondamentale europea, esso interagisce anche con quello UE, che tuttavia è un ordinamento giuridico con le sue fonti.
Da questo intreccio discende che il giudice italiano, di fronte alla CEDU,
- non può disapplicare le norme interne in contrasto con la CEDU, non essendo la CEDU un ordinamento giudico di fonti,
- deve però conformare l’interpretazione di quelle norme interne all’interpretazione dei diritti, fornita dalla Corte EDU, essendo – la CEDU – un sistema di norme di tutela sovraordinato a quello solo domestico (ex art. 117, primo comma, Cost.),
- verificando che la tutela offerta dalla CEDU non produca violazioni della Costituzione, essendo la CEDU interposta ma non equiparata né sovrapposta alla Costituzione,
- e verificando altresì che la tutela CEDU non determini violazione del diritto UE,
- altrimenti procedendo alla questione di legittimità costituzionale, in caso di reputate violazioni (in capo a quelle interpretazioni CEDU) o della Costituzione o del diritto UE o di entrambe.
Come si vede, in nessun modo, il giudice domestico può affrancarsi dall’interpretazione della Corte EDU né tantomeno procedere a disapplicazione della CEDU o a sue interpretazioni esclusivamente domestiche; se nutre dubbi (ma di natura costituzionale, non certo di ermeneutica alternativa al descritto sistema delle fonti), il giudice può – deve – rivolgersi alla Corte costituzionale.
Per l’ordinanza qui in commento, quanto rappresentato conduce inesorabilmente a un unico esito:
- la decisione delle Sezioni Unite in materia climatica deve essere letta in combinato disposto con le sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani del 9 aprile 2024 (i citati casi “Verein KlimaSeniorinnen” e “Duarte Agostinho et al.”), verificandone la concorrente conformità tanto con la Costituzione quanto con il diritto UE.
La giurisprudenza maggioritaria italiana conferma l’ordito[29], e ancor di più, ovviamente, quella costituzionale, ormai salda su quattro pilastri, indisponibili per i giudici comuni:
- sussiste «solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU», sicché l’interpretazione di entrambi deve tendere solo ed esclusivamente a «massimizzarne l’espansione in un rapporto di integrazione reciproca» per la tutela dei diritti (così la sentenza n. 145/2022);
- di conseguenza la conformazione alla CEDU tende «ad assumere un valore generale e di principio» (sentenze. n. 236/2011 e n. 49/ 2015);
- per cui «le disposizioni della CEDU sono vincolanti nel significato che ad esse viene attribuito all’esito dell’attività interpretativa operata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo» (sentenza n. 7/2024);
- a maggior ragione se tali interpretazioni sono state assunte nella modalità dell’art. 43 CEDU (come avvenuto per le decisioni climatiche del 9 aprile 2024), perché inquadrabili in termini di “novum” normativo analogo allo “ius superveniens” (ordinanza n. 150/2012).
3. Il necessario recupero dell’art. 1173 Cod. civ.
Non risulta seriamente contestabile la presa d’atto di quanto fin qui analizzato.
L’ordinanza in commento, per essere correttamente applicata secundum constitutionis, deve essere “integrata” dalle interpretazioni
- sia della Corte Internazionale di Giustizia, per la collocazione delle conclusioni italiane nella cornice del diritto internazionale consuetudinario e pattizio del No Harm e del neminem laedere in nome dell’indivisibilità dei diritti,
- sia della Corte di Strasburgo, a maggior ragione per la natura di queste ultime come “novum” normativo, reso ai sensi dell’art. 43 CEDU, e in nome del rafforzamento dei diritti.
Qualsiasi ipotesi di arroccamento domestico sarebbe solo peggiorativa dei livelli di tutela rispetto alla minaccia del cambiamento climatico, riconosciuta certa proprio dall’ordinanza in commento.
Non a caso, altra dottrina lo ha fatto ben chiaramente presente, da subito[30].
Tutto questo non induce a ritenere che la causa petendi del contenzioso climatico si fondi sul diritto internazionale, consuetudinario e pattizio, in sostituzione di quello domestico, oppure si radichi nella sola CEDU.
Ancorché prospettive del genere non vengano più reputate inammissibili da parte della dottrina, persino in presenza di enunciati internazionalistici formulati sotto forma di principio[31], c’è da prendere atto che, al cospetto della minaccia del cambiamento climatico antropogenico, vige piuttosto – grazie a quanto emerso dalla richiamata giurisprudenza degli ultimi due anni – un intreccio di fonti normative, tutte convergenti sulla rimozione del pericolo (non per nulla, tutte riconducibili allo scopo finale del diritto climatico, scandito dal già citato art. 2 dell’UNFCCC).
Anche a questo proposito, si può prendere spunto dalla già citata scheda dell’ufficio del Massimario della Cassazione, dato che in essa si chiarisce che il dovere di protezione, dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici sulla vita e la salute, si radica in un «quadro normativo», composto da una serie di principi, tra cui gli artt. 2, 3, 9, 41 e 117 Cost., e da una serie di condotte contenute in diversi accordi internazionali, che «costituiscono una vera e propria fonte di obbligazione, avente ad oggetto la tutela del clima e la riduzione delle immissioni atmosferiche di anidride carbonica, al fine di contenere l’aumento della temperatura media globale entro il tetto massimo di 2°C, come previsto, in particolare, dall’Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015», che «si affiancano» alle fonti del diritto europeo e su cui «la Corte costituzionale, con le sentenze n. 124/2010 e 85/2012, aveva già chiarito l’inquadramento delle fonti internazionali del diritto climatico all’interno del nostro ordinamento».
A ben vedere, siffatto «quadro normativo» rispecchia una precisa disposizione del Codice civile italiano, sorprendentemente rimasta sempre sotto traccia nel dibattito sul contenzioso climatico: l’art. 1173 Cod. civ.
Conviene partire dalla sua lettera. Nel sistema giuridico italiano, le obbligazioni «derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico».
Si è parlato, in proposito, di «trittico» delle derivazioni (contratto, fatto illecito, altro), purché dentro un’unica «conformità» all’«ordinamento giuridico»[32].
Bene, l’ordinamento giuridico italiano, come poc’anzi sintetizzato, non solo è tridimensionale nelle sue fonti e norme di «conformità» (Stato-UE-CEDU), ma inserito pure (in forza degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.) nell’ordinamento internazionale con i suoi obblighi consuetudinari e pattizi.
Il dato rende ineluttabile il radicamento delle obbligazioni civilistiche italiane, indipendentemente dalle sue atipiche modalità di manifestazione («ogni altro atto o fatto idoneo»), nella tridimensionalità europea (per di più, tale tridimensionalità, proiettata sui diritti fondamentali) e nella contestuale conformità a tutte le fonti che includono l’ordinamento italiano[33].
Si tratta di una complessità sistemica, non comune ad altri ordinamenti giuridici nazionali, come dimostrato da studi comparatistici recenti[34], carica di interessanti ripercussioni.
In pratica, l’obbligazione climatica, derivando da fonti internazionali pattizie (Convenzioni, Protocolli, Accordi, COP) e consuetudinarie (tutela dei diritti umani e No Harm), in ragione di fatti (climatici) di minaccia (l’emergenza antropogenica), opera come costrutto di responsabilità a contenuto materiale integrato da più norme (internazionali, europee, nazionali), accomunate dallo scopo di tutela (la rimozione del pericolo per il neminem laedere), da interpretare e applicare in «conformità» con l’ordinamento giuridico nella sua integrale complessità di fonti e norme che lo compongono nei modi indicati dalla Costituzione[35].
È appena il caso di far presente che questa conclusione risulta coerente anche con l’art. 23 Cost., poiché ovviamente la “legge”, in base alla quale si impongono prestazioni personali o patrimoniali, non è solo quella formale italiana, bensì quella materiale, abilitata dagli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.
Si scopre così che l’obbligazione climatica non è una “creazione” degli interpreti, bensì un dato di sistema, derivato dall’art. 1173 Cod. civ. senza alcun attrito con la Costituzione.
Diventa interessante constatare che la Corte EDU, nel caso climatico “Duarte Agostinho et al.” del 9 aprile 2024, si era già fatta carico di indurre gli interpreti nazionali a tale approccio integrato. Infatti, nel verificare l’esperibilità dell’accesso al giudice in Portogallo per la giustiziabilità dell’obbligazione climatica, la Corte di Strasburgo ha rimarcato la necessità che qualsiasi giudice nazionale accerti previamente l’esistenza o meno, nel proprio sistema domestico, di fonti o norme nazionali, aperte al diritto internazionale nell’applicazione degli istituti della responsabilità extracontrattuale e, di riflesso, abilitate alla configurazione integrata dell’obbligazione climatica e delle condotte materiali di mitigazione: esattamente quello che, in Italia, è fattibile, grazie all’art. 1173 Cod. civ.
4. La declinazione dell’art. 2058 Cod. civ. con le leggi fisiche del sistema climatico
Il descritto intreccio di norme trapela dall’ordinanza in commento, significativamente in quel passaggio in cui si spiega, da parte delle Sezioni Unite, che il compito affidato al giudice civile consiste soltanto nel verificare se le fonti internazionali e costituzionali invocate (o altre norme, eventualmente individuate, in ossequio al principio jura novit curia), risultino idonee a imporre un «dovere d’intervento direttamente a carico dei convenuti, tale da fondare una responsabilità extracontrattuale degli stessi, e quindi da giustificarne la condanna al risarcimento in forma specifica, ai sensi dell'art. 2058 Cod. civ.».
In pratica, anche il facere ex art. 2058 deriva (e dipende) dall’intreccio normativo dell’art. 1173 Cod. civ.
Questo facere potrebbe riguardare sia il soggetto privato che quello pubblico. Così almeno sembrerebbe corretto dedurre, dato che la Cassazione non ne restringe il campo applicativo ai soli privati, essendo consapevole che, nel petitum della causa civile da cui è scaturita la questione di giurisdizione, è inserita la richiesta esplicita di attivazione di “policies” di abbattimento delle emissioni da parte anche dei poteri pubblici.
Su questo facere, i primi commentatori dell’ordinanza si sono posti due ordini di domande[36].
- in che cosa consisterebbe materialmente questo facere?
- il suo contenuto è manifestazione di discrezionalità politica, tale da richiedere l’atto legislativo?
Si tratta di due interrogativi, alla luce di quanto in precedenza analizzato, mal posti. Il primo, infatti, sembra replicare ancora una volta la “tragedia degli errori” nella (omessa) conoscenza del funzionamento fisico del sistema climatico, recuperando dalla finestra la trappola della teoria del “Black Box”, mandata via dalla porta dalle citate sentenze internazionali del 2024-2025. Il secondo risulta, invece, ignorare le implicazioni costituzionali degli artt. 28, 32 e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, di cui, non da oggi, si sono occupate sia la Corte costituzionale che la stessa Corte di cassazione[37].
Partiamo dal primo profilo.
Tutto ruota intorno alla formulazione letterale dell’art. 2058 Cod. civ., in base alla quale la reintegrazione in forma specifica imporrebbe un obbligo di ripristino dello status quo ante l’evento dannoso. Questo significherebbe
- rimozione del fatto lesivo e delle cause che lo hanno prodotto,
- tenendo conto, però, dell’eventuale eccessiva onerosità per il debitore,
- e dell’effettività concreta della rimozione della causa.
In forza di tali constatazioni, ci si è chiesti: nel cambiamento climatico antropogenico, si può effettivamente rimuovere il fatto lesivo con le sue cause? E come? E quanto oneroso sarebbe? E, poi, esso risulterebbe concretamente produttivo del “ripristino”?
Uno dei commentatori[38], senza fornire alcun riscontro di conoscenza e comprensione del sistema climatico, sostiene che il “ripristino” sarebbe impossibile, se non attraverso il facere di tutti gli emettitori e non invece di un singolo agente. Di qui, discenderebbe l’inconsistenza dell’evocazione dell’art. 2058 Cod. civ. Si tornerebbe, insomma, alla teoria del “Black Box” o, meglio, al postulato “ad impossibilia nemo tenetur”.
Siffatto ordito logico prova troppo. Se davvero un singolo emettitore, impresa o Stato che sia, non può incidere effettivamente sul “ripristino”, allora perché mai ci si è dati accordi internazionali, a partire dall’UNFCCC del 1992, per promuoverlo nella modalità della mitigazione? Oltre trent’anni di fonti climatiche sarebbero state concordate e scritte, fra Stati o da parlamenti o piani industriali, nella consapevolezza dell’inutilità e inefficacia? Per esempio, l’art. 4, n. 2 lett. a), dell’UNFCCC, che imponeva questo “ripristino” in dieci anni a carico dei paesi sviluppati, consisterebbe in una disposizione “impossibile”? A questo punto, persino i Giudici della Suprema Corte sarebbero inciampati in una rappresentazione surreale dei problemi climatici?
Evidentemente, per sottrarsi al circolo vizioso,, bisognerebbe chiedersi in che cosa consista la realtà del “ripristino” nel contesto del cambiamento climatico antropogenico, prima di maturare siffatti dubbi e, per comprenderlo, è necessario accertare se e che cosa dicano, in proposito, le fonti del diritto climatico.
In primo luogo, esse fanno rinvio, sin dalle definizioni normative dell’art. 1 dell’UNFCCC, alle leggi fisiche di funzionamento del sistema climatico[39] e questo comporta che, senza conoscere tali leggi fisiche, a partire dalle traiettorie di inerzia che condizionano la qualità intertemporale di ambiente e salute, la risposta alla domanda sull’effettivo “ripristino” rimane appesa a un filo.
Ma non solo. Tutte le fonti del diritto climatico si fondano, come già ricordato, sull’art. 2 dell’UNFCCC, il quale indica l’obiettivo ultimo e finale dell’intero complesso normativo di lotta al cambiamento climatico antropogenico: eliminare qualsiasi pericolosa interferenza umana sul sistema climatico.
“Ripristinare”, pertanto, non vuol dire “tornare” a uno status quo ante genericamente inteso, quanto piuttosto “eliminare” l’interferenza umana “pericolosa” sul sistema climatico, che prima non si verificava. E qual era questo passato senza interferenza umana “pericolosa”? Era quello pre-fossile, quando non esistevano le emissioni antropogeniche di gas serra (dunque fossili) che “si sono aggiunte”, come precisa l’art. 1 dell’UNFCCC, a quelle prodotte dai cicli solo naturali delle sfere del sistema climatico.
Ecco chiarito che il “ripristino” è sinonimo di eliminazione della “pericolosa” interferenza fossile sul sistema climatico da parte di qualsiasi emettitore fossile: invece di “aggiungere” nuove emissioni di gas serra, bisogna “toglierle” dalle proprie attività antropogeniche.
Come questo possa avvenire in modo effettivo, è stato spiegato con grande chiarezza dalla Corte Europea dei Diritti Umani, nella sentenza sul caso “Verein KlimaSeniorinnen” (nei paragrafi dal 444 al 550 della decisione, attraverso il calcolo del c.d. “Carbon Budget Residuo” insieme ad altri calcoli equivalenti e complementari, capaci di incidere sulle traiettorie di inerzia del sistema climatico), per poi essere ripreso dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani (con il criterio pro natura, ovvero attraverso la conoscenza e il rispetto dei cicli naturali del carbonio e delle traiettorie di inerzia[40]) e dalla Corte Internazionale di Giustizia (a partire dai paragrafi 224-243, con il riferimento al c.d. Global Stocktake, richiesto dall’art. 14 dell’Accordo di Parigi, al non sforamento della soglia di temperatura di 1,5°C nel calcolo storico delle emissioni, all’obbligo di non ripetizione dell’illecito e di correzione alla fonte del pericolo[41]). Non è questa la sede per spiegare nel dettaglio queste modalità. È sufficiente precisare che si tratta comunque di un calcolo quantitativo; un’operazione contabile di mitigazione climatica, funzionale a escludere, in modo definitivo e irreversibile, il concorso del singolo agente emissivo alla propria “pericolosa” interferenza umana sul sistema climatico, tenendo conto del suo trascorso storico di emissioni fossili pregresse. Solo grazie a questo calcolo, in sostanza, un agente emettitore potrà comprovatamente sostenere di aver “ripristinato”, per il proprio agire, un’interferenza sul sistema climatico non più “pericolosa”, per il presente e il futuro tenendo conto del passato.
Sembra una conclusione complicata e quasi inverosimile, ma l’epistemologia giuridica che la sostiene è identica a quella che fonda disposizioni ben note al sistema giuridico in tema di concorso (commissivo od omissivo) di cause, come l’art. 2055 Cod. civ. e gli artt. 40 e 41 Cod. pen.
Il che dimostra, ancora una volta, l’inevitabilità di leggere l’ordinanza in commento in combinato con la giurisprudenza internazionale sulla mitigazione climatica. D’altra parte, che tale calcolo sia compatibile con il facere dell’art. 2058 Cod. civ., appare implicitamente ammesso dall’ordinanza in commento, lì dove essa evoca l’importanza della “scienza di attribuzione” (attribution science), dalla quale sono maturati i metodi di calcolo realizzabili per il facere di “ripristino”.
A questo punto, diventa semplice affrontare anche il secondo profilo. Si può seriamente sostenere che effettuare un calcolo di “ripristino” dell’interferenza umana non “pericolosa” sia ontologicamente un atto politico e addirittura necessariamente legislativo? Oppure si tratta di un doveroso atto di prevenzione, visto che esso, al di là della forma, opera in un contesto che le stesse Sezioni Unite ammettono di “certezza” dell’antropogenesi del pericolo?
Qui si ritorna al tema del neminem laedere, che, dopo l’apertura tracciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 641/1987, ben può operare anche come “prevenzione” di futuri danni e quindi come obbligo “attivo” di evitare il peggio, sia per l’autonomia privata che per la discrezionalità pubblica, non a caso qualificata “attiva” dalla Corte di cassazione in numerose decisioni di condanna della Pubblica Amministrazione al facere ex art. 2058 Cod. civ.[42].
Com’è noto e pacifico, la discrezionalità attiva può anche riflettere un indirizzo politico, ma non per questo essa si manifesta di per sé quale “atto politico”, visto che il suo contenuto «si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini» (Corte cass. civ. SS.UU. n. 5992/2025).
Quali siano questi “confini” normativi di calcolo trova risposta in quella giurisprudenza internazionale, più volte rimarcata in questa sede, ma omessa la quale nulla diventa esaustivamente comprensibile dell’ordinanza in commento.
Insomma, calcolare la propria mitigazione climatica in funzione della eliminazione della propria “pericolosa” interferenza umana sul sistema climatico e per il “ripristino” di un’interferenza non più “pericolosa”, costituisce limite esterno invalicabile di qualsiasi potere privato e pubblico: potere-dovere di neminem laedere nella minaccia del cambiamento climatico; nulla di più.
Di conseguenza, quanto constatato sul contenuto del facere di condanna ex art. 2058 Cod. civ. dissolve le nebbie sull’ultimo fronte delle ricadute dell’ordinanza in commento: la responsabilità dello Stato in materia climatica, la cui discrezionalità attiva è pienamente riconducibile allo schema costituzionale degli artt. 28, 32 e 113 Cost. e dunque giustiziabile in nome della tutela dei diritti.
5. La responsabilità civile dello Stato italiano, nel combinato disposto degli artt. 28 Cost. e 1173 Cod. civ. con l’art. 8 CEDU, e il caso “Giudizio Universale”
Questa responsabilità statale è indubbiamente di natura extracontrattuale, trovando fondamento, come si è visto, in un intreccio di norme che abilitano, attraverso la Costituzione e l’art. 1173 Cod. civ., al rispetto del neminem laedere (e No Harm), imponendo necessarie operazioni di calcolo, funzionali all’eliminazione del pericolo e per ciò stesso limitative della discrezionalità politica.
Il paragrafo 550 della sentenza europea “Verein KlimaSeniorinnen” fonda questo limite esterno sui diritti umani, protetti dall’art. 8 CEDU, attraverso gli artt. 28 Cost. e 1173 Cod. civ.
Sembra quindi corretto, e costituzionalmente conforme all’art. 28 Cost., evocare l’insorgenza, nel sistema normativo italiano, di una responsabilità civile dello Stato in materia climatica, derivante dall’obbligo vincolante di non violare l’art. 8 CEDU.
Anche su questo versante, gli enigmi che i primi commentatori hanno voluto intravedere nella lettura dell’ordinanza in commento, per i riferimenti, in essa presenti, alla nota vicenda processuale “Giudizio Universale”, inerente appunto alla responsabilità climatica statale extracontrattuale, si dissolvono nella lettura della giurisprudenza climatica internazionale del biennio 2024-2025.
È stato già da altri correttamente concluso con riguardo alla CEDU[43], sottolineando che l’ipotetica adesione delle Sezioni Unite in commento «alla sentenza Giudizio Universale appare inverosimile, posto che quest’ultima risulta a sua volta inconciliabile con quanto stabilito dalla Corte EDU». E lo stesso può dirsi a seguito della decisione della Corte Internazionale di Giustizia, con i suoi richiami all’obbligo statale di non ripetizione dell’illecito e di correzione alla fonte della “pericolosa” interferenza umana.
Parafrasando la celebre metafora normativa di Vezio Crisafulli, si potrebbe chiudere, parlando di una responsabilità civile extracontrattuale di facere a “rime obbligate”[44] sia per le imprese che per lo Stato: “rime” dettate dall’intreccio di fonti e norme, ammesse tanto dalla Costituzione quanto dall’art. 1173 Cod. civ., per la miglior tutela dei diritti presidiati dall’art. 8 CEDU e nel miglioramento del diritto climatico UE, come consentito dall’art. 193 TFUE[45].
[1] L. Serafinelli, Cass. Civ., Sez. Un., ord. 21 luglio 2025, n. 20381, Greenpeace et al. c. Eni et al.: navigare nel mare (forse un poco meno?) incerto del contenzioso climatico all’italiana, in OCA-Osservatorio su Costituzionalismo Ambientale, DPCE online, 29 luglio 2025.
[2] Sulla ricostruzione del dibattito intorno al costrutto del “difetto assoluto di giurisdizione”, si v. ora C. Giudice, L'assoluto difetto di giurisdizione, Torino, Giappichelli, 2025.
[3] Redazione, Una svolta nella giustiziabilità climatica? Le Sezioni Unite e il caso Greenpeace vs ENI, in www.giustiziainsieme.it, 24 luglio 2024
[4] Si v., per esempio, M. Zarro, Danno da cambiamento climatico e funzione sociale della responsabilità civile, Napoli, ESI, 2022, e V. Conte, Per una teoria civilistica del danno climatico, in DPCE Online, SP2, 2023, 669-682.
[5] Sulla erroneità di questa analogia insistono soprattutto gli studi di Michele Carducci, alla luce della c.d. “equazione di Lenton et al.”, che spiega l’unicità problematica dell’emergenza climatica: cfr. M. Carducci, Cambiamento climatico (diritto costituzionale), in Digesto delle discipline pubblicistiche, VIII Aggiornamento, Torino, Utet, 2021, 51-74, e Ordinamenti giuridici e sistema climatico di fronte all’autoconservazione, in Ars Interpretandi, 2, 2022, 13-28.
[6] M. Carducci, Il tempo del pianeta come bene della vita nell’emergenza climatica, in www.diritticomparati.it, 6 settembre 2022, nonché, a seguito della prima decisione costituzionale europea che ha preso atto del fattore tempo come bene della vita (il Bundesverfassungsgericht), M. Carducci, Libertà “climaticamente” condizionate e governo del tempo nella sentenza del BVerfG del 24 marzo 2021, in www.LaCostituzione.info, 3 maggio 2021.
[7] Cfr. A. Di Martino, The Problem of Temporal Synchronization in Climate Change Theoretical and Comparative Interplays in the Light of Litigation, in L’Ircocervo, 24(1), 2025, 62-98.
[8] Sugli errori sul fatto nella dogmatica giuridica, si v. molto efficacemente E. Fittipaldi, Conoscenza giuridica ed errore. Saggio sullo statuto epistemologico degli asserti prodotti dalla dogmatica giuridica, Roma, Aracne, 2013.
[9] Cfr. P. Marijn Poortvliet et al., Communicating Climate Change Risk: A Content Analysis of IPCC’s Summary for Policymakers, in Sustainability 12(12), 2020, 4861.
[10] J. Spier, S. Wiegers, Climate Change: A Tragedy of Errors and Looking Away, in L’Ircocervo, 24(1), 2025, 169-206.
[11] Cfr. M. Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra concetto scientifico e categorie giuridiche: da situazione di pericolo a fatto ingiusto permanente sul Carbon Budget residuo, dopo KlimaSeniorinnen, in OCA-Osservatorio su Costituzionalismo Ambientale, DPCE online, 8 ottobre 2024.
[12] Cfr., tra i tanti riferimenti, Corte Cass., ord n. 5022/2021; Cass. civ. SS.UU. nn. 4908/2006, 6218/2006, 23735/2006, 17461/2006, 12133/1990 e 5626/1988; Cass. civ. sez. III. nn. 9893/2000 e 15853/2015; Corte cost. n. 5/2018.
[13] L’approccio risale alle considerazioni, in seguito strumentalizzate, di M. Bunge, A General Black Box Theory, in Philosophy of Science, 30(4), 1963, 346-358.
[14] Cfr. M. Carducci, Costituzionalismo ambientale e leggi della natura, in www.federalismi.it, 12, 2025, 23-36.
[15] Questa fondamentale distinzione sembra sfuggire alla proposta ricostruttiva di P. Femia, Responsabilità civile e Climate Change Litigation, in Enciclopedia del Diritto, I Tematici VII-2024, Milano, Giuffrè, 2025, 847-879.
[16] Cfr. M. Cunha Verciano, Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici tra Costituzione e CEDU, in www.diritticomparati.it, 21 marzo 2023, e L. Cardelli, La doppia inadeguatezza della mitigazione climatica italiana nei dati ISPRA e i suoi effetti di costo e di danno, in www.giustiziainsieme.it, 29 maggio 2025.
[17] In merito, si v. il commento di V. Vaira, Il danno alla salute da inquinamento atmosferico e l’omessa adozione di provvedimenti da parte della p.a. per la tutela dell’ambiente, in Corti Supreme e Salute, 3, 2023, 578-598; nonché, per un quadro di comparazione, M. Carducci, Le affinità emissive. La giurisprudenza comparata destinata a incidere sul contenzioso climatico italiano, in www.diritticomparati.it, 11 luglio 2024.
[18] Cfr. Corte suprema di cassazione, Report Corte EDU Verein Klimaseniorinnen Schweiz, 9 aprile 2024.
[19] È questo l’elemento che contraddistingue la lettura proposta da G. Scarselli, Per una corretta lettura della recente ordinanza della Sezioni unite (Cass. sez. un. 21 luglio 2025 n. 20381) in tema di contenzioso climatico, in Judicium. Il giudizio civile in Italia e in Europa, 29 luglio 2025.
[20] Cfr. Cass. civ. sez. III, n. 5120/2011, e n. 5984/2023.
[21] Cfr. L. Serafinelli, Responsabilità extracontrattuale e cambiamento climatico, Torino, Giappichelli, 2024, e A. Lupo, Il diritto alla sostenibilità climatica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2025.
[22] Si tratta sempre della posizione di G. Scarselli, Contenzioso climatico e giurisdizione, in www.giustiziainsieme, 26 novembre 2024.
[23] Cfr. G. Zarra, I principi di diritto internazionale come fonte di obbligazioni nei rapporti di diritto civile, in Rivista di Diritto Internazionale, 2, 2025, 327-373 e ivi nt. 100 e 105.
[24] Cfr. M. Carducci, La buona fede “climatica” dopo la COP28, in Eunomia. Rivista di studi su pace e diritti umani, 2, 2023, 127-144, e G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit.
[25] Sempre G. Scarselli, op. cit.
[26] Cfr. M. Cunha Verciano, Il doppio limite del potere di mitigazione climatica dell’Italia dopo le sentenze CEDU del 9 aprile 2024, in www.giustiziainsieme.it, 22 gennaio 2025. Ma cfr. anche S. Vezzani, M.C. Carta (ed.), International and European Union Law in the Face of Cliamte Change, Torino, Giappichelli, 2024.
[27] Cfr. L. Acconciamessa, Nessuna “eccezione costituzionalmente giustificata” alla CEDU, in www.SIDIBlog, 8 marzo 2024.
[28] Cfr. G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit.
[29] Cfr. G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit. e ivi note 123 e 124.
[30] Cfr. M. Buffoni, Giustizia per il clima, ai rigori della Cassazione passa la linea ambientalista. Ma la partita non è finita, in EconomiaCircolare.com, 7 agosto 2025; D. Castagno, La Corte di cassazione traccia la rotta: anche in Italia c’è un giudice per il clima, in https://climatedisplacements.wordpress.com/, 31 luglio 2025; P. De Stefani, Cambiamenti climatici: la CIG e la Cassazione italiana segnano una svolta nella giustizia climatica, in Annuario Italiano dei Diritti Umani, 28 luglio 2025; F. Garelli, La storica ordinanza della Corte Suprema italiana nel caso ENI: le implicazioni per la causa “Giudizio Universale” e per il contenzioso climatico in Italia, in Politica del Diritto, 3, 2025; A. Molfetta, «Eppur [qualcosa] si muove». Considerazioni a prima lettura intorno all’ordinanza sul regolamento di giurisdizione nella vertenza climatica Greenpeace e al. v. Eni e al., in Corti Supreme e Salute, 3, 2025, 1-12; R.R. Severino, Una storica vittoria per il clima?, in www.LaCostituzione.info, 4 agosto 2025,
[31] Ancora G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit.
[32] Cfr. M. Torsello, Commento Articoli 1173–1174 c.c., in M. Franzoni, R. Rolli e G. De Marzo (cur.), Codice civile commentato con dottrina e giurisprudenza, tomo I, Torino, Giappichelli, 2018, 1569.
[33] In proposito, C. Castronovo, F. Realmonte, Le ragioni del diritto: teoria giuridica ed esperienze applicative nel diritto dalla prospettiva delle obbligazioni, in Jus, 1-2, 1996, 87 ss., giustamente concludono che, nel sistema italiano, tutte le obbligazioni nascono da una fonte legale (domestica e non), purché collegata a un fatto – contratto, fatto illecito o ogni altro atto o fatto in tal senso qualificato dalla fonte legale – al quale riconnettere l’effetto giuridico obbligatorio.
[34] Cfr. M. Carducci, V. Mazzuoli, Teoria tridimensional das Integrações supranacionais. Uma análise comparativa dos sistemas e modelos de integração da Europa e América Latina, Rio de Janeiro, Forense, 2014.
[35] In ragione di questa complessa articolazione dell’ordinamento italiano, A. Ruggeri si interroga da tempo sull’opportunità di discutere di “sistema di norme”, piuttosto che di “sistema di fonti”, nell’osservazione della dinamica giuridica dei diritti (cfr., per es., A. Ruggeri, Sistema di fonti o sistema di norme? Le altalenanti risposte della giurisprudenza costituzionale, in www.diritticomparati.it, 22 novembre 2012).
[36] Sul ricorso all’art. 2058 Cod. civ., si v. L. Serafinelli, Cass. Civ., Sez. Un., cit., e G. Scarselli, Per una corretta lettura, cit.
[37] Cfr. Corte cost. sent. n. 205/2022 nonché sentt. nn. 307/1990, 64/1992, 132/1992, 258/1994, 118/1996, 27/1998, 226/2000, 443/2000, 342/2006, 107/2012, 268/2017, 118/2000, 35/2023 e 129/2023
[38] È questa la conclusione di Scarselli, con riferimento all’eventuale condanna dell’impresa fossile, convenuta nel processo a quo dell’ordinanza in commento, rispetto all’intero sistema industriale.
[39] Cfr., in merio, M. Carducci, Cambiamento climatico, cit.
[40] Cfr. M. Carducci, Prima la natura. La svolta epistemologica nell’Opinione Consultiva n. 32/25 della Corte Interamericana dei Diritti Umani, in www.diritticomparati.it, 9 settembre 2025.
[41] Cfr. S. Humpherys, 1,5 at ICJ, in www.ejiltalk.org, 25 agosto 2025.
[42] Cfr. Corte cass. SS.UU. n. 21993/2020, n. 23436/2022, 27175/2022, secondo cui alla P.A. è riconosciuta una discrezionalità attiva di eliminazione del danno o del pericolo di danno, attinente cioè alla scelta delle misure più idonee, non anche la discrezionalità nel non agire, perché quest’ultima è incompatibile con la natura inviolabile del diritto fondamentale alla salute, soprattutto quando sia a rischio il nucleo essenziale del diritto medesimo.
[43] R.R. Severino, Una storica vittoria per il clima?, cit.
[44] Sulla metafora crisafulliana, cfr. D. Tega, La traiettoria delle rime obbligate, in Sistema Penale, 2, 2021, 5-31.
[45] Cfr. M. Cunha Verciano, Il doppio limite, cit.
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Cass. Civ. SSUU n. 20381 del 21 lugliuo 2025
FATTI DI CAUSA
1. La Greenpeace O.n.l.u.s. e la Recommon A.p.s., associazioni ambien-taliste di levatura nazionale ed internazionale, nonché Francesca Zazzera, Ni-netto Martucci, Rachele Caravaglios, Noa Helffer, Marco Lion, Patrizia Bar-telle, Giorgio Crepaldi, Lucia Pozzato, Vanni Destro, Giovanna Deppi, Lucia Ruffato e Maria Antonietta D'Antonio, cittadini residenti in aree del territorio nazionale particolarmente esposte al cambiamento climatico, hanno conve-nuto dinanzi al Tribunale di Roma l'ENI S.p.a., il Ministero dell'Economia e delle Finanze e la Cassa Depositi e Prestiti S.p.a., per sentirne accertare l'inottemperanza agli obblighi inerenti al raggiungimento degli obiettivi climatici internazionalmente riconosciuti e la responsabilità per i danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati dal cambiamento climatico, con la conseguente condanna dell'ENI alla limitazione del volume annuo aggregato delle emissioni di CO2 in atmosfera derivante dalle attività industriali e commerciali e dai prodotti per il trasporto dell'energia da essa venduti, e del Ministero e della Cassa DDPP all'adozione di una policy operativa che definisca e monitori gli obiettivi climatici di cui l'ENI dovrebbe dotarsi, nonché, in subordine, con la condanna dei convenuti all’adozione delle iniziative necessarie a garantire il rispetto degli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi.
Premesso che il cambiamento climatico antropogenico incide negativa-mente sui diritti umani individuali e collettivi, provocando conseguenze che vanno da un peggioramento della qualità della vita fino all'impossibilità di vivere nei rispettivi luoghi di residenza, gli attori hanno richiamato a) la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici, entrata in vi-gore il 21 marzo 1994, avente come obiettivo generale di prevenire i cambia-menti climatici pericolosi di origine umana, mediante la stabilizzazione delle concentrazioni di gas ad effetto serra nell'atmosfera, b) l'Accordo di Copenaghen del 2009, che ha fissato al di sotto di 2° C l'aumento globale della temperatura necessario per raggiungere il predetto obiettivo, c) gli Accordi di Cancun del 2016, che hanno riconosciuto la necessità di profondi tagli alle emissioni globali di gas serra, d) la risoluzione 10/4 del 2009 del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto che il cambiamento climatico costituisce una minaccia per i diritti umani per coloro che si trovano in posizioni vulnerabili, e) l'Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015, ratificato con legge 4 novembre 2016, n. 204, avente l'obiettivo di mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto di 2° C e di limitarlo preferibilmente a 1,5° C, in modo da ridurre significativamente i rischi e gl'impatti dei cambiamenti climatici, f) gl'impegni assunti dagli Stati nelle Conferenze delle Parti di Glasgow e Sharm el Sheik, g) il rapporto di sintesi AR6 dell'Intergovernmental Panel on Climate Change del marzo 2023, che riassume le migliori conoscenze scientifiche attualmente disponibili sui cambiamenti climatici, e dal quale emerge la consapevolezza della comunità internazionale in ordine alla necessità di compiere ogni sforzo per limitare l'aumento della temperatura al di sotto di 1,5° C e per ridurre l'uso complessivo di combustibili fossili.
Secondo gli attori, il riscaldamento globale, derivante dall'incremento della concentrazione di CO2 nell'atmosfera, produce gravi conseguenze sugli ecosistemi e sulle comunità umane dell'intero pianeta, determinando l'interruzione della produzione alimentare e dell'approvvigionamento idrico, danni alle infrastrutture ed agli insediamenti e il deterioramento della vita, della salute e del benessere degli esseri viventi, che, traducendosi a loro volta in un incremento dei flussi migratori e in un'amplificazione delle disuguaglianze tra regioni ed ambienti socioeconomici o tra le generazioni, possono costituire fonti di conflitto o fattori d'inasprimento dei conflitti già in atto. Consapevoli di tali effetti, le compagnie petrolifere hanno dapprima promosso campagne di disinformazione di massa, volte ad ostacolarne il riconoscimento da parte dell'opinione pubblica, ed in seguito adottato comportamenti volti a simulare un impegno nel contrasto del cambiamento climatico, mediante la promo-zione della ricerca in materia di energia nucleare e di progetti di compensa-zione delle emissioni inquinanti. Tra le stesse, l'ENI, presente in sessantadue Paesi ed attiva nell'esplorazione, nello sviluppo e nell'estrazione di petrolio e gas naturale in trentasette Paesi, anche attraverso le società da essa control-late, nonché responsabile dello 0,6% delle emissioni cumulate industriali globali e di emissioni di gas serra assolute pari a 419.000.000 di tonnellate di CO2 nell'anno 2022, pur essendosi vincolata nel suo codice etico a rispettare i diritti umani e gli obiettivi dell'Accordo di Parigi, ha adottato una strategia non in linea con le indicazioni della comunità scientifica e dell'IPCC, dotandosi di un piano di decarbonizzazione al 2050 che, oltre a non prevedere il totale abbandono dei combustibili fossili, contempla una riduzione delle emissioni di appena il 35% entro il 2030, cui corrisponde però, nel breve periodo, un incremento nella produzione di idrocarburi.
Ciò posto, gli attori hanno precisato di essere legittimati ad agire, ai sensi degli artt. 2043, 2050 e 2051 cod. civ. e degli artt. 300 e 313, comma set-timo, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nei confronti dell'ENI, in qualità di responsabile delle emissioni, per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, distinti da quello ambientale, cagionati dalla lesione dei diritti umani tutelati dagli artt. 2, 9, 32 e 41 Cost., dagli artt. 2 e 8 della CEDU e dagli artt. 2 e 7 della CDFUE. Hanno sostenuto, in proposito, l'immediata applicabilità delle fonti internazionali in materia di cambiamento climatico, in quanto assimilabili al diritto eurounitario, richiamando inoltre i principi dello sviluppo sostenibile e dell'azione ambientale, sanciti dagli artt. 3-ter e 3-qua-ter del d.lgs. n. 152 del 2006, che, imponendo espressamente un dovere di tutela ambientale non solo ai soggetti pubblici, ma anche alle persone giuri-diche private, comportano la piena giustiziabilità dei diritti dei singoli e delle associazioni nei confronti di azioni imprenditoriali condotte in modo difforme da tali principi e suscettibili di cagionare danni ambientali/climatici, al fine di ottenere l'imposizione di strategie aziendali volte a garantire uno sviluppo sostenibile ed a preservare la salute delle persone e l'ambiente (ivi compresi gli ecosistemi e la biodiversità) dalle conseguenze pregiudizievoli del cambia-mento climatico. Hanno affermato infine la corresponsabilità del Ministero e della Cassa DDPP, in qualità di azionisti di controllo dell'ENI, che ne hanno reso possibile l'attività inquinante e che ne traggono un utile, in quanto titolari di quote sufficienti a consentire loro l'esercizio di un'influenza dominante nell'assemblea della società, la nomina di parte dei componenti del consiglio di amministrazione, del presidente e dell'amministratore delegato, nonché di parte dei componenti del Comitato sostenibilità e scenari e del Comitato controllo e rischi.
1.1. Si è costituita l'ENI, ed ha eccepito a) la non giustiziabilità della pretesa azionata, in quanto incompatibile con il proprio diritto di determinare liberamente la propria politica aziendale, tutelata dall'art. 41 Cost., b) il difetto assoluto di giurisdizione, avendo la domanda ad oggetto l'adozione di misure che presuppongono valutazioni di natura politico-legislativa, spettanti al Parlamento ed al Governo, c) il difetto di giurisdizione dell'Autorità giudiziaria italiana, avendo gli attori allegato, a sostegno della domanda, anche condotte tenute all'estero ed attribuibili a società straniere distinte ed autonome rispetto ad essa convenuta, d) il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario, spettando in via esclusiva al Ministro dell'ambiente la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale, nonché la competenza ad avviare il procedimento amministrativo volto ad accertarne la sussistenza, e potendo i privati far valere soltanto il danno c.d. residuale, cioè quello direttamente subìto in conseguenza del danno ambientale, e) la carenza di legittimazione ed interesse degli attori, in quanto non portatori di un interesse concreto, diretto e specifico, ma di un generico interesse alla tutela dell'ambiente, del clima e delle risorse naturali, f) la prescrizione del diritto al risarcimento, relativamente ai danni risalenti ad epoca precedente al quinquennio anteriore alla proposizione della domanda, g) l'insussistenza di una condotta illecita, svolgendo essa convenuta una legittima attività d'impresa, avente rilevanza strategica nel settore energetico, e non essendo configurabile una violazione né degli artt. 9 e 41 Cost., non suscettibili di applicazione diretta nei suoi confronti, né degli artt. 2 e 8 della CEDU, applicabili agli Stati aderenti alla Convenzione, né delle regole di soft law, aventi carattere meramente programmatico.
1.2. Si è costituito inoltre il Ministero, ed ha eccepito anch'esso il difetto assoluto di giurisdizione, sostenendo che la pretesa azionata comporterebbe un'invasione della sfera riservata al legislatore, cui l'Accordo di Parigi de-manda la definizione delle modalità concrete per la sua esecuzione, anche in riferimento all'autorità giudiziaria competente a valutarne il rispetto da parte dei soggetti pubblici e privati residenti in Italia, vincolando gli Stati soltanto al perseguimento di un risultato comune. Ha aggiunto che un sindacato sulla attività dell'ENI si tradurrebbe in una valutazione dell'opportunità delle sue scelte imprenditoriali, sotto il profilo dell'impatto sul fenomeno del cambia-mento climatico, che esula dalle competenze del potere giurisdizionale. Ha eccepito infine il difetto di giurisdizione dell'Autorità giudiziaria italiana, in riferimento alle condotte tenute dall'ENI in altri Stati, ai sensi dell'art. 4, par. 1, del Regolamento Ue n. 864/2007 dell'11 luglio 2007 o all'art. 7 del Regolamento UE n. 1215/2012 del 12 dicembre 2012.
1.3. Si è costituita infine la Cassa DDPP, che ha eccepito a sua volta a) il proprio difetto di legittimazione passiva, avendo la controversia ad oggetto condotte ascrivibili all'ENI, destinataria esclusiva dei provvedimenti richiesti, b) l'indeterminatezza dell'oggetto e del titolo della domanda proposta nei suoi confronti, non avendo gli attori allegato specifiche condotte ad essa ascrivibili, c) il difetto assoluto di giurisdizione, avendo la controversia ad oggetto questioni di natura politico-legislativa estranee all'ambito del potere giurisdizionale e spettanti alla competenza del Parlamento e dell'Esecutivo, ai sensi dello art. 57-bis del d.lgs. n. 152 del 2006 e dell'art. 35 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, d) il difetto di giurisdizione dell'Autorità giudiziaria italiana in ordine alle condotte denunciate, in quanto poste in essere, almeno in parte, da società del Gruppo ENI operanti in altri Stati, e) il difetto di legittimazione degli attori, avendo gli stessi agito a tutela di un interesse collettivo, senza allegare i danni individualmente subìti, f) la carenza di interesse degli attori, avendo gli stessi invocato un provvedimento idoneo a produrre effetti soltanto per il futuro, mediante l'allegazione di un pregiudizio meramente ipotetico e potenziale, f) l'impossibilità giuridica della tutela richiesta, inidonea a garantire il contenimento dell'aumento della temperatura entro il limite di 1,5° C, e comunque implicante una penetrante ingerenza nell'attività d'impresa dell'ENI, in assenza di qualsiasi fondamento normativo, g) la prescrizione della pretesa azionata, avente ad oggetto danni verificatisi in epoca precedente al quinquennio anteriore alla proposizione della domanda, h) l'infondatezza della do-manda proposta nei confronti di essa convenuta, non responsabile delle con-dotte autonomamente tenute dall'ENI, le cui scelte gestionali sono rimesse esclusivamente al consiglio di amministrazione, e non in grado di condizionarle, in virtù della mera partecipazione al capitale della stessa, i) l'insussistenza di una condotta illecita dell'ENI, la cui strategia non contrasta né con gli obiettivi fissati dall'Accordo di Parigi, aventi efficacia vincolante soltanto per gli Stati, né con il diritto alla vita o alla riservatezza degli attori, né con gli artt. 9 e 41 Cost., anch'essi vincolanti soltanto per lo Stato, l) la mancata allegazione di un danno-conseguenza concreto ed attuale, m) l'inidoneità del provvedimento invocato a riparare i danni subìti dagli attori ed a ripristinare lo status quo ante, n) l'insussistenza dei presupposti per la concessione di una misura coercitiva indiretta, ai sensi dell'art. 614-bis cod. proc. civ.
2. Con atto notificato il 10 giugno 2024, la Greenpeace, la Recommon E.t.s. (già Recommon A.p.s.), la Zazzera, il Lion, la Bartelle, il Crepaldi, la Pozzato, il Destro e la Ruffato hanno proposto ricorso per regolamento di giurisdizione, illustrato anche con memoria, chiedendo la dichiarazione della spettanza della giurisdizione al Giudice adìto, ed in subordine la proposizione della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge n. 204 del 2016, per contrasto con gli artt. 2, 9, 24, 41 e 117 Cost., nella parte in cui non consente di immettere nell'ordinamento statale tutte le norme necessarie a rendere immediatamente applicabili le disposizioni dell’Accordo di Parigi nei confronti sia dei soggetti pubblici che dei cittadini e delle imprese. Hanno resistito con controricorsi, anch'essi illustrati con memorie, l'ENI, il Ministero e la Cassa DDPP. Hanno spiegato intervento nel procedimento la Deppi, il Martucci, la Caravaglios, la Helffer e la D'Antonio, i quali hanno aderito alle richieste degli altri ricorrenti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va dichiarata l'ammissibilità dell'intervento spiegato nel presente procedimento da Giovanna Deppi, Ninetto Martucci, Rachele Caravaglios, Noa Helffer e Maria Antonietta D'Antonio, i quali, pur non avendo proposto il ricorso, non possono considerarsi terzi rispetto al regolamento di giurisdizione, vantando un indubbio interesse alla soluzione della questione sollevata dai ricorrenti, unitamente ai quali hanno agito dinanzi al Tribunale di Roma, ed assumendo quindi la posizione di litisconsorti necessari, nei confronti dei quali, in mancanza dell'intervento, avrebbe dovuto essere disposta l'integrazione del contraddittorio. Com'è noto, infatti, il regolamento di giurisdizione non costituisce un pro-cedimento autonomo rispetto al giudizio di merito, avendo carattere mera-mente strumentale ed incidentale rispetto al procedimento principale, con la conseguenza che sono legittimati a parteciparvi tutti e solo i soggetti che abbiano assunto formalmente la qualità di parti nel giudizio a quo (cfr. Cass., Sez. Un., 13/01/2005, n. 463; 9/08/2000, n. 558; 10/12/1993, n. 12167); essendo volto a rimuovere anticipatamente eventuali dubbi in ordine all'individuazione del giudice cui spetta la giurisdizione in ordine alla controversia, esso non consente d'altronde la proposizione di questioni diverse, quali quelle riguardanti la legittimazione di un terzo a partecipare al giudizio a quo e la ricorrenza dei presupposti e delle condizioni per un suo intervento: in linea di principio, deve pertanto negarsi l'ammissibilità dell'intervento di terzi formalmente estranei al giudizio di merito, anche nel caso in cui gli stessi possano vantare un interesse alla soluzione della questione di giurisdizione, per il fatto di essere parti in analoghi giudizi, giacché in questi ultimi la decisione adot-tata da questa Corte è destinata ad assumere il valore di mero precedente (cfr. Cass., Sez. Un., 31/05/2016, n. 11387; 21/10/2005, n. 20340; 22/11/ 1984, n. 5992). Non può tuttavia escludersi la legittimazione ad intervenire di quei soggetti che, pur essendo parti (anche non costituite) nel giudizio principale, si siano astenuti dal promuovere il regolamento di giurisdizione, essendo configurabile un litisconsorzio necessario processuale tra tutte le parti (cfr. Cass., Sez. Un., 26/03/2014, n. 7179; 9/12/2004, n. 22990), il quale impone, in caso di mancata instaurazione del contraddittorio nei con-fronti di alcune di esse, l'applicazione dell'art. 331 cod. proc. civ., anche per-ché la decisione sulla giurisdizione è destinata ad acquistare efficacia di giudicato anche nei loro confronti.
2. Premesso che l'istanza di regolamento trova giustificazione nel proprio interesse ad ottenere una pronuncia immediata e definitiva sulla giurisdizione, alla luce delle eccezioni proposte al riguardo dai convenuti e dell'inter-venuta dichiarazione d'inammissibilità di un'analoga domanda proposta da altri soggetti dinanzi al medesimo Tribunale, gli attori insistono sulla proponibilità della domanda, in quanto avente ad oggetto il risarcimento dei danni per lesione di diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, dalla CEDU e dalla CDFUE, sostenendo comunque che il regolamento di giurisdizione è ammissibile anche nel caso in cui la domanda risulti improponibile, per avere ad oggetto un diritto non previsto dall'ordinamento, o strumentale, in quanto diretta a perseguire finalità diverse da quelle tipiche, poiché ciò non elide il profilo sostanziale della domanda proposta, indipendentemente dalla sua fondatezza nel merito.
3. Ciò posto, ribadiscono la giustiziabilità della pretesa azionata, richiamando la sentenza della Corte EDU del 9 aprile 2024, Verein KlimaSeniorin-nen Schweiz c. Suisse, che, nel dichiarare ammissibile la domanda di un'associazione di diritto svizzero e di alcuni cittadini, volta a far valere omissioni delle autorità statali nel settore dei cambiamenti climatici, ha riconosciuto la complementarità dell'intervento giudiziario rispetto ai processi democratici, affermando che, pur non potendo sostituire l'azione del Potere legislativo ed esecutivo, il compito della magistratura consiste nel garantire il rispetto dei requisiti legali.
Precisato che vi è ormai certezza in ordine all'esistenza di un cambia-mento climatico di origine antropica, che rappresenta una grave minaccia per il godimento dei diritti umani e richiede l'adozione di misure urgenti che coinvolgono sia il settore pubblico che quello privato, al fine di limitare l'aumento della temperatura a 1,5° C, gli attori evidenziano di aver invocato un inter-vento tanto inibitorio quanto risarcitorio, mediante l'allegazione di condotte illecite sanzionate dagli artt. 2043, 2050 e 2051 cod. civ., degli artt. 2 e 8 della CEDU e degli artt. 2 e 7 della CDFUE. Aggiungono che la domanda trova fondamento nelle norme dell'Accordo di Parigi, il cui recepimento, per effetto dell'ordine di esecuzione, ha determinato l'introduzione nell'ordinamento in-terno di tutte le norme indispensabili a darvi attuazione, ed in particolare del principio di limitazione dell'aumento della temperatura a non più di 1,5° C, dell'obbligo d'intraprendere rapide riduzioni in linea con le migliori conoscenze scientifiche e della progressività della riduzione della produzione di gas climalteranti, con il conseguente adattamento dell'ordinamento interno a quello pattizio, attraverso la creazione di norme non scritte, necessarie ad adempiere gli obblighi assunti dallo Stato a livello internazionale e vincolanti sia per lo Stato che per i soggetti pubblici e privati, che spetta all'interprete individuare ed applicare.
Negano che la pretesa azionata comporti un'invasione della sfera politica, osservando che la nozione di atto politico è di stretta interpretazione, giacché la giustiziabilità degli atti del pubblico potere costituisce un principio fondante della Costituzione, destinato a trovare applicazione anche nel caso in cui, come nella specie, un'attività pubblica o privata, pur non vincolata da norme specifiche, sia contestata mediante la richiesta di un accertamento della responsabilità civile per fatti illeciti lesivi di diritti fondamentali. Ribadiscono che in ordine a tale pretesa, riguardante diritti soggettivi costituzionalmente pro-tetti, non è configurabile un difetto assoluto di giurisdizione, il quale si riferisce all'invasione della sfera di attribuzioni di altri poteri dello Stato o di altri ordinamenti dotati di autonomia, in controversie coinvolgenti attribuzioni pubbliche neppure astrattamente suscettibili di dar luogo a un intervento del giudice.
4. In ordine alla limitazione della libertà di determinazione della politica aziendale, gli attori osservano che l'art. 9, terzo comma, Cost. prevede una clausola di responsabilità intergenerazionale in funzione della tutela ambientale, che si impone a tutti i poteri pubblici, ivi compreso quello giurisdizionale, consentendo un sindacato sul rispetto dell'obbligazione climatica, che può es-sere esercitato anche nei confronti delle imprese pubbliche e private, cui si rivolge anche la nuova formulazione dell'art. 41 Cost., secondo cui l'iniziativa economica non può svolgersi in modo da recare danno alla salute ed all'ambiente. Richiamano in proposito anche gli artt. 3-ter e 3-quater del d.lgs. n. 152 del 2006 e gli artt. 2 e 9 della Convenzione di Aarhus, ratificata con legge 16 marzo 2001, n. 108, che prevedono la piena giustiziabilità dei diritti dei singoli e delle associazioni nei confronti di attività economico-imprenditoriali condotte in modo difforme dai principi dell'azione ambientale.
Aggiungono che l'ENI si è vincolata al rispetto dei diritti fondamentali attraverso il suo codice etico, rilevando comunque che la loro legittimazione ad agire per l'accertamento della sua responsabilità trova fondamento nella vio-lazione dell'art. 8 della CEDU, qualificabile come fatto illecito generatore di responsabilità ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. Precisano che l'art. 8 cit. opera sia nei rapporti tra privati che nei confronti delle autorità statali, a carico delle quali sono configurabili non solo obblighi negativi, ma anche obblighi positivi, comprendenti anche quello di applicare e mantenere un quadro giuridico adeguato che offra protezione contro gli atti di violenza commessi da privati, sicché in materia ambientale la norma è applicabile sia nel caso in cui l'inquinamento sia causato direttamente dallo Stato, sia nel caso in cui lo stesso si sia dimostrato incapace di regolamentare correttamente l'industria privata. Il rispetto dei predetti obblighi impone alle autorità nazionali, ivi compresi i tribunali, di garantire ai cittadini e alle associazioni il diritto di accesso alla giustizia, previsto dall'art. 6 della CEDU, il quale dev'essere pratico ed effettivo, e comprende non solo il diritto di proporre un ricorso, ma anche quello di ottenere una decisione della controversia da parte di un giudice.
5. Quanto infine al difetto di giurisdizione dell'Autorità giudiziaria italiana, gli attori richiamano gli artt. 4, par. 1, e 7, n. 2 del Regolamento UE n. 1215/ 2012, secondo cui le persone possono essere convenute dinanzi all'autorità giurisdizionale dello Stato membro in cui domiciliano, ed in materia di illecito civile dinanzi all'autorità giurisdizionale del luogo in cui si è verificato l'evento dannoso, precisando che tale luogo può essere identificato sia in quello in cui si è concretizzato il danno sia in quello in cui si è verificato l'evento generatore. Affermano che nella specie il danno si è certamente concretizzato in Italia, indipendentemente dalla circostanza che l'evento generatore si sia verificato all'estero, richiamando anche la giurisprudenza eurounitaria, secondo cui la giurisdizione si radica nel luogo in cui il fatto illecito ha prodotto i suoi effetti dannosi nei confronti della vittima, ed aggiungendo che a conclusioni diverse non potrebbe pervenirsi neppure in base all'art. 4, par. 1, del Regolamento UE n. 864/2007 dell'11 luglio 2007, che in materia di obbligazioni extracontrattuali dichiara applicabile la legge del paese in cui il danno si verifica, indipendentemente dal paese in cui è avvenuto il fatto generatore e da quello in cui si verificano le conseguenze indirette del fatto.
In proposito, sostengono anche l'irrilevanza della riconducibilità delle emissioni a società le cui azioni non sono detenute dall'ENI, osservando che le emissioni delle società di combustibili fossili devono essere valutate sulla base della teoria della cd. corporate personhood, secondo cui il ruolo strategico della capogruppo nella definizione delle politiche per l'intero gruppo comporta la sua responsabilità per le emissioni ad effetto serra complessive delle sue attività e dei suoi prodotti, e precisando comunque che le decisioni strategiche che contribuiscono all'emergenza climatica, con conseguente viola-zione dei diritti umani, non sono imputabili alle società del Gruppo ENI, ma alla capogruppo, la quale adotta dichiaratamente politiche aziendali contrarie alla migliore scienza disponibile e agli obiettivi climatici fissati dalla comunità internazionale.
6. Tanto premesso, si osserva innanzitutto che, come ripetutamente affermato da queste Sezioni Unite, l'ammissibilità del regolamento di giurisdizione non può essere esclusa in virtù della mera circostanza che l'iniziativa sia stata assunta dalla medesima parte che ha promosso il giudizio di merito, dovendosi ritenere configurabile anche in tal caso, ove siano insorti ragione-voli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adìto, un interesse concreto ed attuale alla risoluzione della questione, in via definitiva ed immodificabile, da parte delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, in modo tale da evitare che una decisione adottata al riguardo dal giudice di merito possa subire successive modifiche nel corso del giudizio, ritardando la definizione della controversia (cfr. Cass., Sez. Un., 12/05/2022, n. 15122; 26/02/2021, n. 5513; 18/12/2018, n. 32727).
A maggior ragione, poi, l'utilizzazione del predetto strumento deve ritenersi giustificata nel caso in esame, in considerazione della novità delle questioni (inerenti non solo alla giurisdizione, ma anche al merito) suscitate dalla domanda proposta dagli attori, relativamente alle quali non si riscontrano precedenti nella giurisprudenza di legittimità, laddove in quella di merito l'unica pronuncia in qualche modo pertinente è costituita da una sentenza del medesimo Tribunale adìto dagli attori, intervenuta nel corso del presente pro-cedimento principale, che, in riferimento ad una controversia analoga (ma non identica), ha dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione, escludendo che la domanda fosse conoscibile da alcun giudice ordinario o speciale, in ragione della mancanza dell'ordinamento di una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio (cfr. Trib. Roma, 26/02/2024, n. 3552). A ciò si aggiungano le plurime eccezioni d'inammissibilità sollevate dalle difese dei convenuti, le quali hanno alimentato le incertezze in ordine alla spettanza al Giudice ordinario del potere di statuire sulla pretesa avanzata dagli attori, contestandone la giustiziabilità e prospettando la possibile invasione da parte del Giudice della sfera riservata al Parlamento ed all'Esecutivo, nonché la riconducibilità, almeno parziale, della controversia alla giurisdizione dell'Autorità giudiziaria italiana.
7. La natura processuale della questione, nella cui soluzione questa Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto, consente di procedere all'esame diretto degli atti di causa, e segnatamente dell'atto di citazione, dal quale si evince che la domanda proposta dinanzi al Tribunale di Roma ha ad oggetto a) l'accertamento dell'inottemperanza dell'ENI, del Ministero e della Cassa DDPP al raggiungimento degli obiettivi climatici internazionalmente riconosciuti, volti a garantire il contenimento dell'incremento della temperatura entro 1,5° C, b) la conseguente dichiarazione della responsabilità solidale dei convenuti per tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subìti e subendi dagli attori in conseguenza del cambiamento climatico, per violazione del combinato disposto degli artt. 2 e 8 della CEDU e degli artt. 2043, 2050 e 2051 cod. civ., c) la condanna dell'ENI a limitare il volume annuo aggregato di tutte le emissioni di CO2 in atmosfera, in misura tale che a fine 2030 lo stesso venga ridotto di almeno il 45% rispetto ai livelli del 2020, ovvero in altra misura che garantisca il rispetto degli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale, con la fissazione di una somma di denaro da pagarsi in caso d'inottemperanza o ritardo nell'esecuzione del provvedimento, d) la condanna del Ministero e della Cassa DDPP, ai sensi dell'art. 2058 cod. civ. e dell'art. 614-bis cod. proc. civ., ad adottare una policy operativa che definisca e monitori gli obiettivi climatici di cui l'ENI dovrebbe dotarsi, con la fissazione di una somma di denaro da pagarsi in caso d'inottemperanza o ritardo nell'esecuzione del provvedimento, e) in subordine, la condanna dei convenuti alla adozione di ogni iniziativa necessaria a garantire il rispetto degli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale per contenere l’aumento della temperatura entro 1,5° C.
Lo specifico riferimento agli artt. 2043, 2050, 2051 e 2058 cod. civ. rende evidente che attraverso la domanda in esame gli attori hanno inteso far valere una responsabilità extracontrattuale dei convenuti per i danni cagionati dall'inottemperanza dell'ENI al dovere di adottare, nell'esercizio dell'attività industriale e commerciale svolta sia direttamente che attraverso le società da essa partecipate, le misure necessarie per ridurre il volume di emissioni di CO2 in atmosfera, in misura tale da consentire di raggiungere l'obiettivo fissato dagli accordi internazionali in tema di contrasto del cambiamento climatico, consistente nella limitazione dell'incremento della temperatura globale entro il li-mite dell'1,5° C rispetto ai livelli preindustriali. Il fondamento di tale responsabilità viene individuato nella violazione degli obblighi derivanti dai predetti accordi, e segnatamente dall'Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015, ritenuto vincolante anche nei confronti dei privati, per effetto dell'ordine di esecuzione impartito con legge n. 104 del 2016, e nella conseguente lesione del diritto alla vita ed al rispetto della vita privata e familiare, previsto dagli artt. 2 e 8 della CEDU, ritenuti a loro volta produttivi di obblighi positivi e negativi a carico non solo degli Stati aderenti alla Convenzione, ma anche dei privati, nonché nella violazione degli art. 9, terzo comma, e 41, secondo e terzo comma, Cost., come modificati dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, che, nel sancire il principio della tutela dell'ambiente, precisano che l'iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno allo stesso o alla salute, prevedendo inoltre che la stessa debba essere indirizzata e coordinata a fini ambientali.
7.1. La domanda degli attori s'inserisce nel noto filone, da tempo diffuso a livello internazionale e da poco approdato anche in Italia, della c.d. climate change litigation, nell'ambito del quale si caratterizza, rispetto ad altre analoghe iniziative, per il fatto di avere come destinatari una società privata (quale viene ormai considerata a tutti gli effetti l'ENI, a seguito della trasformazione avviata con l'art. 15 del d.l. 11 luglio 1992, convertito con modifica-zioni dalla legge 8 agosto 1992, n. 359), ed altri due soggetti, uno dei quali è un'Amministrazione dello Stato, mentre l'altro, pur a seguito della trasformazione in società per azioni (prevista dall'art. 5 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326), continua ad avere una natura piuttosto discussa, ritenendosi ancora da parte di alcuni che esso costituisca, sotto il profilo sostanziale, un'amministrazione pubblica ad ordinamento autonomo (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 12/02/2007, n. 550; Cons. Stato, Sez., Comm. Spec., 7/11/2012, n. 8178). Al di là di tali incertezze, peraltro, ciò che appare dirimente, ai fini della soluzione della questione in esame, è la circostanza che nel giudizio di merito tanto il Mini-stero quanto la Cassa sono stati convenuti non già nella veste di amministrazioni pubbliche, responsabili della mancata adozione dei provvedimenti di rispettiva competenza necessari per il conseguimento degli obiettivi climatici fissati dalle fonti indicate, ma in quella di azionisti di riferimento dell'ENI, cui gli attori hanno addebitato l'omesso o inadeguato esercizio delle facoltà loro spettanti in qualità di soci, al fine d'indirizzare l'attività della società partecipata verso il rispetto dei predetti obiettivi.
Nell'altro giudizio introdotto dinanzi al Tribunale di Roma, e conclusosi con la dichiarazione del difetto assoluto di giurisdizione, la domanda era stata invece proposta nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, ed aveva ad oggetto l'accertamento della responsabilità extracontrattuale o da contatto sociale qualificato dello Stato per inadempimento dei doveri (aventi le medesime fonti indicate dagli attori) d'intervento e di protezione contro gli effetti degenerativi dell'emergenza climatica, a tutela dei diritti fondamentali della persona, con la richiesta di condanna della convenuta all'adozione di ogni necessaria iniziativa per l'abbattimento delle emissioni nazionali artificiali di CO2 nella misura ed entro i termini indicati, ed in particolare a conformare il Piano Nazionale Integrato per l'Energia e il Clima (PNIEC) alle disposizioni idonee a realizzare il predetto obiettivo. Tale iniziativa rispecchiava, sotto il profilo soggettivo, un modello adottato in altri Paesi, nei quali l'azione era rivolta contro lo Stato legislatore o lo Stato-amministrazione, al medesimo fine di ottenerne direttamente la condanna all'adozione di misure limitative delle emissioni climalteranti (cfr. nei Paesi Bassi, Gerechtshof Den Haag, 9/10/2018, Stichting Urgenda v. Netherlanden), oppure al diverso fine di ottenere la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di atti normativi in materia ambientale recanti misure inadeguate al raggiungimento degli obiettivi clima-tici fissati dalle fonti internazionali (cfr. in Germania, Bundesverfassungsgericht, 24/03/2021, Neubauer et al. v. Deutschland) o la fissazione di termini per l'adozione di misure volte a ridurre le emissioni di gas serra nell'atmosfera (cfr. in Francia, Tribunal administratif de Paris, 3/02/2021, Notre Affaire à Tous et al. c. France).
A differenza delle predette ipotesi, la fattispecie in esame si configura come una comune azione risarcitoria, fondata sull'allegazione di un danno, consistente nella lesione del diritto alla vita ed al rispetto della vita privata e famigliare, la cui ingiustizia viene predicata in virtù del richiamo da un lato agli obblighi positivi e negativi derivanti dagli artt. 2 e 8 della CEDU, e dall'altro ai doveri d'intervento previsti dalle fonti internazionali in tema di contrasto del cambiamento climatico, obblighi e doveri dei quali viene affermata l'effi-cacia vincolante non solo a carico degli Stati che hanno aderito alla CEDU ed agli Accordi richiamati, ma anche a carico dei singoli soggetti pubblici e privati, segnatamente di quelli operanti direttamente o a mezzo di altri soggetti da loro partecipati nel settore della produzione, del trasporto e della commercializzazione di combustibili fossili, al quale la c.d. attribution science, cui si deve l'approfondimento di tali fenomeni, imputa il maggior contributo alle emissioni di CO2 nell'atmosfera, responsabili dell'incremento della tempera-tura globale. In tal senso dev'essere intesa anche l'invocazione degli artt. 2050 e 2051 cod. civ., ritenuti idonei a fondare una responsabilità oggettiva o presunta dei predetti soggetti, in ragione dell'intrinseca pericolosità dell'attività svolta, che impone a chi la esercita di adottare tutte le misure idonee evitare che la stessa arrechi danno a terzi, o comunque del dinamismo dannoso connesso alla natura dei materiali trattati, che implica un dovere di custodia e controllo a carico di chi ne abbia la disponibilità. Sulla base di tali allegazioni in fatto ed in diritto, viene poi chiesto l'accertamento della responsabilità solidale dell'ENI, in quanto esercente direttamente la predetta attività industriale e commerciale, e degli altri due convenuti, in quanto titolari di una posizione di controllo (inteso in senso privatistico) che consente loro d'inter-venire indirettamente su tale attività, con la condanna degli stessi ad adottare le misure idonee a ridurre le emissioni entro i limiti previsti dalle fonti inter-nazionali indicate.
Non può quindi essere esteso alla fattispecie in esame il ragionamento seguito dal Tribunale di Roma in riferimento all'azione proposta nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, secondo cui «la domanda risarcitoria ricollegata alla titolarità di un diritto soggettivo (e come tale considerata scrutinabile dal giudice ordinario), per come formulata, è diretta in concreto a chiedere, quale petitum sostanziale, al giudice un sindacato sulle modalità di esercizio delle potestà statali previste dalla Costituzione», giacché l'accertamento dei presupposti dell'illecito «non può prescindere da un sindacato sul quando e sul quomodo dell'esercizio di potestà pubbliche (che pure tiene conto delle indicazioni provenienti dalla scienza) e la pretesa risarcitoria è solo la conseguenza eventuale di tale accertamento»; né appare pertinente l'affermazione contenuta nella medesima sentenza, secondo cui «l'interesse di cui si invoca la tutela risarcitoria ex artt. 2043 e 2051 cod. civ. non rientra nel novero degli interessi soggettivi giuridicamente tutelati, in quanto le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambia-mento climatico antropogenico — che comportano valutazioni discrezionali di ordine socioeconomico e in termini di costi-benefici nei più vari settori della vita della collettività umana — rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nell'odierno giudizio». Nel caso di specie, gli attori non fanno valere una responsabilità dello Stato legislatore per «atti, provvedimenti e comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico, consistente nella determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell'ordinamento e della politica dello Stato nella delicata e complessa questione, indubbiamente emergenziale, del cambiamento climatico antropogenico», ma una responsabilità dei convenuti, quali soggetti operanti direttamente o indirettamente nel settore della produzione e distribuzione dei combustibili fossili, per la mancata adozione delle misure necessarie a ridurre le emissioni climalteranti prodotte dall'attività aziendale: il compito affidato al Giudice consiste pertanto soltanto nel verificare se le fonti internazionali e costituzionali invocate (o altre norme, eventualmente individuate dal Giudice di merito, in ossequio al principio jura novit curia) risultino idonee ad imporre un dovere d'intervento direttamente a carico dei convenuti, tale da fondare una responsabilità extracontrattuale degli stessi, e quindi da giustificarne la condanna al risarcimento in forma specifica, ai sensi dell'art. 2058 cod. civ.
7.2. In quest'ottica, deve innanzitutto escludersi che il sindacato sollecitato al Giudice di merito comporti un'invasione della sfera riservata al potere legislativo, configurabile peraltro, come ripetutamente affermato da queste Sezioni Unite, soltanto quando il giudice ordinario o speciale non abbia applicato una norma esistente, ma una norma da lui stesso creata, in tal modo esercitando un'attività di produzione normativa che non gli compete (cfr. Cass., Sez. Un., 26/12/2024, n. 34499; 9/07/2024, n. 18722; 26/11/2021, n. 36899), e non anche quando sia stato chiamato a pronunciarsi su una comune azione risarcitoria, ancorché fondata sull'allegazione dell'omesso o illegittimo esercizio della potestà legislativa, la quale non dà luogo ad un difetto assoluto di giurisdizione, neppure in relazione alla natura politica dello atto legislativo, ove sia stata dedotta la sola lesività della disciplina che ne è derivata (cfr. Cass., Sez. Un., 24/11/2021, n. 36373).
Non può essere poi fatto valere in questa sede il difetto di giustiziabilità della pretesa azionata, che, in quanto configurabile soltanto nell'ipotesi in cui si sostenga l'impossibilità d'individuare nell'ordinamento una norma astratta-mente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio, non dà luogo ad una questione di giurisdizione, proponibile con lo strumento di cui all'art. 41 cod. proc. civ., ma ad una questione di merito, la cui soluzione è demandata al giudice adìto (cfr. Cass., Sez. Un., 27/03/2023, n. 8675; 16/01/2015, n. 647; 4/08/2010, n. 18052).
Nella specie, l'esame di detta questione presuppone, tra l'altro, la verifica della vincolatività, nei confronti dei singoli soggetti pubblici o privati, degli obblighi derivanti dagli accordi internazionali invocati e dalla CEDU, anche alla luce dell'avvenuto recepimento degli artt. 2 e 8 di tale Convenzione ad opera degli artt. 2 e 7 della CDFUE, nonché della recente pronuncia della Corte EDU, che, in considerazione della relazione causale esistente tra le azioni e/o le omissioni dello Stato in ordine all'adozione di misure idonee a impedire il sur-riscaldamento globale e i danni o il rischio di danni per i singoli individui, ha ravvisato nella mancata adozione delle predette misure da parte delle autorità statali una violazione dell'art. 8 cit., ritenendo che il diritto alla vita ed al rispetto della vita privata e familiare includa il diritto degli individui a una protezione efficace contro i gravi effetti del cambiamento climatico sulla loro vita, salute, benessere e qualità della vita (cfr. Corte EDU, sent. 9/04/2024, Verein Klimaseniorinnen Schweitz et al. c. Suisse). Trattasi peraltro, anche in questo caso, di una questione che esula dall'ambito oggettivo del regolamento di giurisdizione, il quale verte esclusivamente sull'individuazione del giudice cui spetta la competenza giurisdizionale a decidere la controversia, con la conseguente improponibilità, in questa sede, di questioni di compatibilità con il diritto dell'Unione Europea o di questioni di legittimità costituzionale, anche per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., riguardanti il merito della controversia (cfr. Cass., Sez. Un., 14/01/2022, n. 1083).
Per le medesime ragioni, deve escludersi la possibilità di sollevare nel presente procedimento questioni relative alla configurabilità di un danno individuale, attuale e concreto, sulla base delle allegazioni in fatto degli attori, oppure alla legittimazione ad agire delle associazioni attrici, riconosciuta ai fini della proposizione della domanda dinanzi alla Corte EDU sulla base del criterio dello status di vittima, interpretato in modo non rigido e meccanico, ma evolutivo e flessibile, alla luce degl'interessi in gioco e delle condizioni della società contemporanea, e contestata invece nell'ordinamento interno dalla difesa dei controricorrenti, sulla base di un'interpretazione restrittiva dell'art. 310 del d.lgs. n. 152 del 2006, che, in caso di ritardo del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio nell'attivazione delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale, riconosce la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno, tra gli altri, alle persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse tale da legittimarne la partecipazione al procedimento relativo all'adozione delle predette misure.
8. Per quanto riguarda infine il difetto di giurisdizione del Giudice italiano, eccepito dai convenuti in riferimento alla domanda di risarcimento dei danni cagionati all'estero, si osserva che, come si evince da una lettura complessiva dell'atto di citazione, in verità non del tutto chiaro in proposito, a sostegno di tale pretesa gli attori non hanno inteso far valere la responsabilità delle società controllate dall'ENI aventi la loro sede in altri Paesi ed operanti al di fuori del territorio italiano, ma una responsabilità della società controllante per l'attività svolta dall'intero gruppo ad essa facente capo, ricollegabile alla mancata adozione di una strategia industriale e commerciale idonea a garantire la riduzione delle emissioni di CO2 nell'atmosfera entro i limiti quantitativi e temporali indicati, al fine di contribuire al contenimento dell'incremento della temperatura globale nella misura prevista dalle fonti richiamate. Il danno-evento derivante dalla predetta omissione è stato poi individuato nella lesione del diritto alla vita, alla salute e al benessere degli stessi attori, nonché, nella prospettiva intergenerazionale che caratterizza l'iniziativa in esame, al pari delle altre in tema di climate change litigation, nella compromissione dello ambiente in pregiudizio delle generazioni future.
Trattandosi di un fatto dannoso verificatosi, almeno in parte, al di fuori del territorio nazionale, ma imputato ad un soggetto avente la propria sede nel nostro Paese, trova applicazione la disciplina dettata dagli artt. 4, par. 1, e 7 n. 2 del Regolamento UE n. 1215/2012, i quali, nel disporre in linea generale che «le persone domiciliate nel territorio di un determinato Stato membro sono convenute, a prescindere dalla loro cittadinanza, davanti alle autorità giurisdizionali di tale Stato membro», prevedono una competenza spe-ciale ed esclusiva in materia di illeciti civili dolosi o colposi, stabilendo che in tal caso una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta «davanti all'autorità giurisdizionale del luogo in cui l'evento dannoso è avvenuto o può avvenire»: quest'ultimo criterio è stato costantemente interpretato da questa Corte, in conformità del consolidato orientamento della giurisprudenza eurounitaria (cfr. Corte di Giustizia UE, 11/01/1990, in causa C-220/88, Dumez France e Tracoba; 16/07/2009, in causa C-189/08, Zuid-Chemie BV), nel senso dell'attribuzione all'attore danneggiato di una facoltà di scelta tra due fori speciali, concorrenti ed alternativi, costituiti rispettiva-mente dal luogo in cui si è concretizzato il danno e da quello in cui si è veri-ficato l'evento generatore di tale danno (cfr. Corte di Giustizia UE, 9/07/2020, in causa C-343/19, Verein für Konsumenteninformation; Cass., Sez. Un., 17/ 12/2021, n. 40548; 9/02/2021, n. 3125; 15/12/2020, n. 28675). La giurisprudenza eurounitaria ha peraltro affermato che la regola sulla competenza speciale prevista dall'art. 7 n. 2 del Regolamento n. 1215/2012 dev'essere interpretata in maniera autonoma e restrittiva, costituendo una deroga alla regola generale di cui all'art. 4, par. 1, secondo cui la competenza spetta ai giudici dello Stato membro nel cui territorio il convenuto ha il suo domicilio (cfr. Corte di Giustizia UE, 12/09/2018, in causa C-304/17, Löber): è stato quindi chiarito che l'espressione «luogo in cui l'evento dannoso è avvenuto» non può essere interpretata estensivamente fino al punto da comprendere qualsiasi luogo in cui possano essere avvertite le conseguenze lesive di un fatto che ha causato un danno effettivamente avvenuto in un altro luogo, precisandosi che, mentre il luogo in cui si è verificato l'evento generatore del danno si identifica con quello in cui è stata tenuta la condotta lesiva, per individuare il luogo in cui si è concretizzato il danno occorre avere riguardo al «danno iniziale», e non alle conseguenze negative derivanti da un pregiudizio verificatosi altrove (cfr. Corte di giustizia UE, 4/07/2024, in causa C-425-22, La MOL Magyar Olajés Gázipari Nyrt.; 12/05/2021, in causa C-709/19, Vereniging van Effectenbezitters; 29/07/2019, in causa C-451/18, Tibor-Trans; nel medesimo senso, Cass., Sez. Un., 17/05/2023, n. 13504).
8.1. Ai fini dell'applicazione dei predetti criteri di collegamento, occorre poi considerare che le emissioni climalteranti, pur avendo la loro origine nel luogo in cui si svolgono la produzione, il trasporto e la commercializzazione dei combustibili fossili, hanno una portata naturalmente diffusiva, estendendo i loro effetti all'intera atmosfera terreste, nell'ambito della quale si determina l'incremento della temperatura globale che produce il cambiamento climatico; la lesione del diritto alla vita ed alla vita privata e familiare allegata a sostegno della domanda si verifica invece nel luogo in cui gli attori risiedono, dove è destinata a determinarsi quella compromissione dell'aspettativa di vita, delle condizioni di salute e della qualità complessiva dell'esistenza, che costituisce l'effetto ultimo della sequenza causale innescata dal cambiamento climatico, ed in cui gli attori hanno individuato il danno individuale, concreto ed attuale da loro subìto. Sulla base di tali considerazioni, nel caso di specie, il luogo in cui si verifica l'evento generatore del danno dev'essere individuato in quello (o in tutti quelli, avuto riguardo alla pluralità di luoghi e di Stati in cui si svolge direttamente o indirettamente l'attività dell'ENI) in cui si producono le emissioni climalteranti, mentre il luogo in cui si concretizza il danno fatto valere dagli attori va identificato in quello in cui gli stessi risiedono: l'applicazione di quest'ultimo criterio consente quindi di affermare che la giurisdizione in or-dine alla pretesa risarcitoria avanzata dagli attori spetta all'Autorità giudiziaria italiana, mentre l'utilizzazione del primo porterebbe ad individuare una pluralità di giudici competenti, identificabili in quelli di ciascuno dei Paesi (ivi compresa l'Italia) in cui si producono le emissioni di CO2. In proposito, va peraltro evidenziato che, nel ricostruire la sequenza causale generatrice del danno allegato, gli attori ne hanno individuato l'origine nella strategia industriale e commerciale dell'ENI, la cui elaborazione, spettante in definitiva agli organi di governo della società, che operano nel luogo in cui la stessa ha la sua sede legale ed operativa, consentono di collocare la condotta dannosa nel territorio nazionale, con la conseguenza che, anche sotto tale profilo, la competenza giurisdizionale dev'essere assegnata all'Autorità giudiziaria italiana.
Nessun rilievo può assumere, in contrario, la circostanza, fatta valere dai convenuti, che una parte (verosimilmente, la maggior parte) delle emissioni lamentate dagli attori siano prodotte da soggetti che, pur appartenendo al gruppo d'imprese facente capo all'ENI, non s'identificano giuridicamente con quest'ultima, essendo dotati di una personalità giuridica distinta ed autonoma ed avendo la loro sede in Paesi diversi dall'Italia, nell'ambito dei quali svolgono più o meno esclusivamente la loro attività: tali soggetti non rivestono infatti la qualità di parti del giudizio principale, nel quale è stata convenuta esclusivamente l'ENI, in qualità di società capogruppo, cui è affidata l'elaborazione e l'approvazione della strategia industriale e commerciale dell'intero gruppo, ritenuta dagli attori all'origine della mancata adozione, da parte delle società controllate, delle misure necessarie per ridurre le emissioni climalteranti che costituisce l'evento generatore del danno da loro lamentato. L'accertamento dell'imputabilità all'ENI delle emissioni prodotte dalle predette società, in relazione alla distinta soggettività giuridica di cui queste ultime sono dotate e dell'autonomia di cui godono nell'effettuazione delle rispettive scelte imprenditoriali costituisce una questione estranea all'oggetto del presente procedimento, riguardando l'individuazione non già del giudice cui spetta la giurisdizione in ordine alla pretesa risarcitoria, ma del soggetto cui è addebitabile la produzione del danno allegato a sostegno della domanda, la quale attiene al merito della controversia.
9. In conclusione, va dichiarato che la giurisdizione in ordine alla do-manda proposta dagli attori spetta all'Autorità giudiziaria italiana, con la con-seguente rimessione delle parti al Tribunale di Roma, dinanzi al quale il giudizio dovrà proseguire, anche per il regolamento delle spese relative alla presente fase.
P.Q.M.
dichiara la giurisdizione dell'Autorità giudiziaria italiana, e rimette le parti al Tribunale di Roma, dinanzi al quale il giudizio dovrà essere riassunto nei termini di legge.
Così deciso in Roma il 18/02/2025