Questioni in tema di accertamento e riparto delle responsabilità nei reati urbanistico-edilizi. Il titolo illegittimo. Legislazione regionale e responsabilità penale

di Gianni REYNAUD

Relazione tenuta alla Scuola Superiore della Magistratura nellincontro di studio sul tema "L’accertamento della responsabilità penale nei reati ambientali ed urbanistici" Scandicci, Villa di Castelpulci, 10-12 aprile 2017

 

Relazione di Gianni Reynaud

Giudice del Tribunale di Torino

S O M M A R I O

PARTE PRIMA - 1. Illegittimità del titolo abilitativo e problematica sussistenza del reato urbanistico: dalla disapplicazione dell’atto amministrativo alla valorizzazione dell’oggetto della tutela penale - 2. La difficile ricerca di una soluzione interpretativa tra tutela sostanziale del territorio e rispetto del principio di tassatività - 3. Gli approdi della più recente giurisprudenza di legittimità: qualche punto fermo e le questioni ancora irrisolte – 4. L’indebolimento del potere di controllo preventivo della p.a. e la necessità di ripensare all’interpretazione e al modello di incriminazione degli abusi sine titulo

PARTE SECONDA - 5. Le contravvenzioni urbanistiche quali reati comuni e l’applicabilità delle norme generali sul concorso di persone nel reato - 6. Soggetti attivi “tipici”. Il committente ed il costruttore - 6.1. Il direttore dei lavori: la responsabilità per omissione… - 6.1.1. …e quella (più ampia) per concorso attivo - 6.2. Il titolare del permesso di costruire - 7. La querelle sulla responsabilità del proprietario per omessa vigilanza: la tesi affermativa… - 7.1. …e quella negativa fondata sull’insussistenza della posizione di garanzia - 8. Il concorso attivo del (com)proprietario - 9. Il concorso doloso degli organi comunali... - 9.1. ..e la responsabilità (commissiva) per colpa - 10. La responsabilità del progettista per opere soggette al permesso di costruire… - 10.1 …e per interventi eseguiti con s.c.i.a. alternativa al permesso - 11. I possibili concorrenti nel reato di lottizzazione abusiva negoziale. - 11.1. La posizione del notaio: dall’affermazione giurisprudenziale della corresponsabilità all’apparente esonero ex lege - 11.1.1. La corresponsabilità del notaio secondo il diritto vivente

PARTE TERZA - 12. Il testo unico in materia edilizia quale fonte non esclusiva della disciplina in materia e il ruolo concorrente della legislazione regionale – 13. La riserva di legge statale in materia penale: impossibilità per la legge regionale di criminalizzare o decriminalizzare le condotte dei consociati – 13.1. La legge regionale come fonte autorizzata d’integrazione di norme penali in bianco e i limiti di quest’impostazione nel settore dei reati urbanistici - 14. Poteri del giudice penale nel caso di apparente incompatibilità tra legge statale incriminatrice e legge regionale scriminante: obbligo dell’interpretazione costituzionalmente orientata e divieto di “disapplicazione” della legge regionale difforme pena il conflitto di attribuzione – 15. Difformità tra leggi dello Stato e delle Regioni in materia di titoli abilitativi edilizi: legittimità del “doppio binario” e irrilevanza per l’applicazione delle norme penali – 16. Percorsi ondivaghi della giurisprudenza di legittimità

PARTE PRIMA

- L’illegittimità del titolo edilizio -

1. Illegittimità del titolo abilitativo e problematica sussistenza del reato urbanistico: dalla disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo alla valorizzazione dell’oggetto della tutela penale.

Se la giurisprudenza non ha mai avuto dubbi nel ritenere il reato di costruzione sine titulo punito ai sensi della lettera b della fattispecie incriminatrice (o della lettera c, se l’abuso ricada in zone vincolate) quando vi sia un titolo abilitativo inefficace (ad es., quando siano decorsi i termini di efficacia del permesso di costruire), da oltre trent’anni si discute invece quale sorte riservi il diritto penale a chi costruisca in base ad un provvedimento amministrativo illegittimo . Secondo la dogmatica amministrativistica, il provvedimento illegittimo – perché affetto da uno dei tradizionali vizi dell’atto (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) – è infatti efficace sino a che l’atto sia annullato ovvero disapplicato dal giudice ordinario. Nulla quaestio in ordine alla situazione di chi inizi o prosegua i lavori a seguito dell’annullamento del provvedimento, poiché costui incorre certamente nel reato di costruzione senza permesso al pari di chi effettui le medesime attività in forza di un titolo non più efficace (v. Cass., Sez. III, 20-2-1995, Scalia, RGE, 1996, I, 237). Diverso, invece, è il problema della disapplicazione dell’atto – e, più in generale, della sindacabilità del titolo ritenuto illegittimo - da parte del giudice penale e delle conseguenze ai fini dell’integrazione dei reati urbanistici, questione attorno alla quale si è sviluppato uno dei più controversi dibattiti dottrinari e giurisprudenziali che abbiano mai riguardato la materia oggetto della nostra trattazione. Pur a distanza di decenni, e nonostante due interventi della Corte di cassazione a sezioni unite, la querelle non appare del tutto risolta (non si affronterà in questa sede il problema, solo in parte simile, dell’ammissibilità o meno del riconoscimento dell’effetto estintivo del reato al permesso di costruire in sanatoria che si reputi illegittimo, questione da tempo pacificamente risolta in senso negativo: v., di recente, Cass., Sez. III, sent. 21.2.2017 n. 12389, Minosi, che, ai fini in esame, ricostruisce il quadro normativo e giurisprudenziale della sindacabilità da parte del giudice penale del provvedimento amministrativo illegittimo).

Il tema qui affrontato, dunque, è quello dell’illegittimità del provvedimento abilitativo edilizio ai fini del giudizio sulla sussistenza del reato di costruzione sine titulo, soprattutto con riferimento alla disposizione generale secondo cui il permesso di costruire deve essere rilasciato «in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente» (art. 12, 1° co., TUE; per il generale principio secondo cui pure gli interventi eseguiti con s.c.i.a. postulano la conformità delle opere agli stessi parametri di piano e regolamento, v. artt. 22, 1° co, e 23, 1° co., TUE).

Com’è noto, la questione che sin da subito si pose riguardò l’equiparabilità tra assenza di concessione edilizia e illegittimità della stessa e la più risalente giurisprudenza l’affrontò – risolvendola, per lo più, in senso affermativo – facendo ricorso al potere di disapplicazione del provvedimento illegittimo attribuito al giudice ordinario dall’ art. 5 l. 20.3.1865, n. 2248, All. E, c.d. L.A.C., Legge Abolitrice del Contenzioso amministrativo (v., ex multis: Cass., sez. III, 23-3-1981, Volpicelli, CP, 1982, 1624; Cass., sez. III, 13-11-1984, Del Favero, CP, 1986, 357). Non sembrando conforme ad equità ritenere responsabili del reato di costruzione abusiva coloro che avessero in buona fede richiesto ed ottenuto la concessione edilizia confidando nella legittimità dell’operato degli organi comunali e tenendo anche conto delle critiche mosse dalla maggioritaria dottrina, che vi ravvisava una violazione del principio di tassatività della legge penale (R. BETTIOL, La tutela penale dell’assetto territoriale nelle norme per l’edificabilità dei suoli , Padova, 1978, 78; R. BAJNO, La tutela penale del governo del territorio, Milano, 1980, 92 ss.; G. FORNASARI, Costruzione edilizia in base a concessione illegittima e ambito di rilevanza della <<buona fede>> , in GM 1986, IV, 238 s.; L. DE LIGUORI,Riflessi penali della concessione edilizia illegittima, in GM, III, 1255 ss; B. CARAVITA DI TORRITTO, La <<disapplicazione>> dell’atto amministrativo da parte del giudice penale , in QCSM, 53, che parla di «giurisprudenza tecnicamente aberrante»), a tale rigoroso orientamento fu tuttavia ben presto apportato un importante correttivo:

l’equazione: concessione illegittima = assenza di concessione può considerarsi conforme al canone inviolabile di tassatività della fattispecie punitiva soltanto allorché l’illegittimità dell’atto amministrativo sia tale da eliminare radicalmente la sua attitudine a conseguire l’effetto per il quale è data all’autorità competente la potestà di emetterlo, sì che esso, quantunque esistente nella sua materialità, debba considerarsi giuridicamente tamquam non esset (…) Di “sostanziale inesistenza” del titolo si può parlare solo quando la concessione sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che la rilasci o del soggetto privato che la consegua o del concorso di entrambi

(Cass., sez. III, 10-1-1984, Tortorella, CP, 1985, 1448).

Si arrivò così a distinguere l’ipotesi della mera illegittimità da quella della inesistenza per illiceità della concessione, affermandosi che soltanto in quest’ultimo caso sussiste responsabilità penale per il reato di costruzione senza titolo (Cass., sez. III, 16-12-1985, Furlan, CP, 1987, 389). I più recenti approdi della Corte di legittimità, tuttavia, lasciavano (volutamente) in ombra l’impostazione teorica dalla quale la giurisprudenza aveva preso le mosse, vale a dire la disapplicazione dell’atto amministrativo, giacché in questa prospettiva sarebbe stato piuttosto arduo distinguere tra concessione illegittima e concessione illecita. Di qui l’affermarsi dell’orientamento secondo cui il giudice penale non può disapplicare l’atto amministrativo ai sensi dell’art. 5 L.A.C., trattandosi di potere che l’autorità giudiziaria ordinaria potrebbe esercitare soltanto nel caso di atti che incidano negativamente su diritti soggettivi ai sensi del precedente art. 4 della stessa legge (Cass., sez. III, 13-3-1985, Meraviglia e a., CP, 1985, 1197).

Nell’avallare tale opinione, le sezioni unite della Suprema corte confermarono l’orientamento secondo cui, comunque, nell’indagine sulla sussistenza del reato di costruzione in mancanza di concessione

deve parlarsi di assenza dell’atto non solo qualora l’atto in questione sia stato emesso da organo assolutamente privo del potere di provvedere, ma anche qualora il provvedimento sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia o del soggetto privato che lo consegue e, quindi, non sia riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, oltre la quale non è dato operare ai pubblici poteri

(Cass. S.U., 31-1-1987, Giordano e a., CP, 1987, 881).

Negli anni immediatamente successivi alla pronuncia della Corte a sezioni unite nel caso Giordano, la giurisprudenza per lo più ne recepì le conclusioni, sia quanto all’impossibilità per il giudice penale di utilizzare il meccanismo di disapplicazione degli atti amministrativi previsto dalla legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo (Cass., sez. III, 31-5-1988, Patroni, CP, 1989, 1833; Cass. sez. III, 13-6-1990, Di Felice, CP, 1992, 1579. La conclusione, con particolare riguardo alla questione interpretativa in parola, è condivisa dalla prevalente dottrina: R. BAJNO, La tutela, cit., 98 ss.; G. FORNASARI, Costruzione edilizia, cit., 234; A. ALBAMONTE, Rilevanza penale dell’illegittimità della concessione edilizia alla luce della l. 28 febbraio 1985 n. 47 , in CP, 1987, 2098; P. MICHELI, Giudice penale e concessione edilizia illegittima: la definitiva affermazione della portata sostanziale del <<sindacato>> sull’atto amministrativo , in CP, 1997, 3149; C. ROSSI, La concessione edilizia fra interpretazione teleologica e legalità penale , in DPP, 1998, 1160. Contra, con diffusa motivazione, Cass., sez. III, 9-1-1989, Bisceglia, CP, 1990, 135) sia, soprattutto, quanto all’equiparazione della concessione illecita all’ipotesi di assenza del titolo (Cass., sez. III, 20-9-1988, Dalla Negra, CP, 1990, 1576; Cass., sez. III, 8-11-1988, Borgogno, CP, 1990, 661). Su un punto, tuttavia, la decisione delle sezioni unite non apparve convincente e suscitò le immediate reazioni della dottrina e della giurisprudenza, vale a dire con riguardo all’individuazione dell’oggetto della tutela penale delle disposizioni che prevedono i reati urbanistici, ricostruito come meramente “formale”. Secondo la Corte, cioè, l’interesse tutelato dall’incriminazione di costruzione abusiva

è quello pubblico di sottoporre l’attività edilizia al preventivo controllo della pubblica amministrazione, con conseguente imposizione, a chi voglia edificare, dell’obbligo di richiedere l’apposita autorizzazione amministrativa

(Cass. S.U., 31-1-1987, Giordano e a., CP, 1987, 881).

Nell’economia del ragionamento svolto dalla Corte ai fini di cui ora si discute, il rilievo è importante, perché - secondo le sezioni unite - pur non potendo ricorrere alla disapplicazione, in determinati casi il giudice penale potrebbe comunque conoscere della legittimità dell’atto amministrativo che costituisca oggetto della fattispecie incrimiatrice se tale potere trovi

fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa (come, ad esempio, avviene con il disposto dell’art. 650 c.p.), ovvero, nell’ambito della interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora la illegittimità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa. Ne deriva, pertanto, che nel caso in esame, in tanto potrebbe ritenersi valida la (effettuata) equiparazione tra “mancanza di concessione” e “concessione illegittimamente rilasciata”, in quanto fosse possibile ritenere che la disposizione di cui al citato art. 17, lett. b), l. 28.1.1977 n. 10 (ora art. 20, lett. b l. 28.2.1985 n. 47) sia funzionale alla tutela dell’interesse all’osservanza delle norme di diritto sostanziale che disciplinano l’attività edilizia. Ma una simile opinione certamente non può essere condivisa

(Cass. S.U., 31-1-1987, Giordano e a., CP, 1987, 881).

Ebbene, proprio quest’ultima, radicale, negazione apparve subito insostenibile alla luce del nuovo quadro normativo delineato dalla l. 28.2.1985, n. 47 (in giurisprudenza, v: P. Agropoli, 31-10-1987, Russo,GM, 1988, III, 636; P. Gragnano, 10-3-1988, Peccerillo e a.,GM, 1990, III, 419; P. Lamezia Terme, 26-1-1990, Lucia,GM, 1993, III, 208; P. Alcamo, 6-2-1991, Cavataio e a.,CP, 1991, 1133. In dottrina: A. ALBAMONTE,Rilevanza penale, cit., 2097 s.; S. BENINI,L’oggetto dei reati urbanistici: un nodo ancora da sciogliere, in GM, 1989, III, 446 ss.; P. MENDOZA, Giudice penale e pubblica amministrazione tra gli orientamenti della Cassazione penale e i principi della Corte costituzionale , in CP, 1990, 1145 s.; F. NOVARESE, Disapplicazione e sindacabilità della concessione edilizia con particolare riferimento a quella in sanatoria ex art. 13 e 22 l. 28 febbraio 1985 n. 47, in GM, 1993, III, 215 ss.; P. MICHELI, Giudice penale, cit., 3148; G. MARINI, Urbanistica (reati in materia di), in Dig.Pen. 1999, Torino, XV, 100.) e il suggello alla “concezione sostanziale” dell’interesse protetto dai reati urbanistici fu poi posto da una successiva decisione delle sezioni unite della Corte, che, pur esaminando la fattispecie di cui all’art. 20, 1° co., lett. a, l. 47/1985, spese argomentazioni – e raggiunse conclusioni – valide per tutte le ipotesi di reato contenute nella disposizione incriminatrice e che conservano tutt’oggi la loro indubbia attualità. In particolare, la Cassazione notò che se l’impianto risultante dalla legge urbanistica fondamentale, la l. 17.8.1942, n. 1150, consentiva d’individuare l’oggetto della tutela penale nel “bene strumentale” del controllo e della disciplina degli usi del territorio, la configurazione normativa dell’interesse tutelato era venuta a mutare nel tempo e aveva segnato una vera e propria svolta con la c.d. legge sul condono edilizio, la l. 28.2.1985, n. 47. L’analisi dell’evoluzione normativa - concluse la Corte, facendo un’affermazione che ancora oggi costituisce un imprescindibile principio-guida per l’interprete del diritto penale urbanistico – rende

evidente che, se l’urbanistica disciplina l’attività pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, lo stesso territorio costituisce il bene oggetto della relativa tutela , bene esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività, ed il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente

(Cass. S.U., 12.11.1993, Borgia, CP, 1994, 905).

2. La difficile ricerca di una soluzione interpretativa tra tutela sostanziale del territorio e rispetto del principio di tassatività.

A seguito della sentenza Borgia può oggi dirsi comunemente accettato che il bene tutelato dalle norme incriminatrici è la tutela sostanziale del territorio. Questa considerazione – unita alla premessa contenuta nella sentenza Giordano circa l’interpretazione teleologica che deve sorreggere le norme penali tra i cui elementi costitutivi figuri la mancanza di un provvedimento amministrativo idoneo a rendere lecita un’attività – ha mosso parte della successiva giurisprudenza a ritenere sussistente il reato di cui all’art. 20, 1° co., lett. b , l. 47/1985 (oggi art. 44, comma 1, lett. b , TUE) quando l’atto abilitativo sia (non solo inesistente o frutto di conclamata attività illecita, ma) anche soltanto macroscopicamente illegittimo .

Secondo questa giurisprudenza, si legge in alcune decisioni che richiamano testualmente un passaggio della sentenza Borgia,

nell’ipotesi in cui si edifichi con concessione edilizia illegittima, non si discute più di disapplicazione di un atto amministrativo illegittimo e dei relativi poteri del giudice penale, ma di potere accertativo di detto magistrato dinanzi ad un atto amministrativo che costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato. In tale ipotesi l’esame deve riguardare non l’esistenza ontologica dello stesso, ma l’integrazione o meno della fattispecie penale “in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela (nella specie l’interesse sostanziale alla tutela del territorio), nella quale gli elementi di natura extrapenale…convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo” (Sez. un., 21 dicembre 1993)

(Cass., sez. III, 12-5-1995, Di Pasquale, CP, 1997, 3146; Cass., sez. III, 4-4-1995, Marano, FI, 1996, II, 505 s.; nello stesso senso: Cass., sez. III, 13-1-1995, Antonilli, CP, 1996, 3455; Cass., sez. VI, 2-3-1998, Calisse e a., RGE, 1999, I, 194; Cass., sez. III, 28-9-2001, Diana e a., RP, 2003, 72; Cass., sez. III, 22-4-2004, Verdelocco, GP, 2006, II, 174)

Anche a seguito della parziale declaratoria d’illegittimità costituzionale che ha interessato l’art. 5 c.p., è sul terreno della verifica della colpevolezza che l’interpretazione in parola può trovare un equo contemperamento , sicché, come si precisa in altra pronuncia

la concessione integra un elemento normativo materiale e deve essere sottoposta ad accertamento di legalità, pur se nell’ambito della rilevanza psicologica, che limita alla sola macroscopicità dell’illecito la sua punibilità. In parole povere il giudice può eseguire la verifica della legittimità dell’atto, restringendo il magistero repressivo al solo caso in cui questa illegittimità risulti in modo eclatante e sia tale da non sfuggire ad un soggetto normalmente informato a livelli minimi di conoscenza normativa

(Cass., sez. III, 28-10-1997, Controzzi e a., DPP, 1998, 1545).

Pur dopo la sentenza Borgia, l’orientamento di cui si è dato conto è stato tuttavia contrastato da coeve pronunce di opposto segno, che, da un lato, hanno rilevato come la tesi che esclude rilevanza ad un atto amministrativo macroscopicamente illegittimo desti forti perplessità - «considerata la indeterminatezza del concetto di macroscopicità, che confligge col principio di legalità e tassatività dei reati» (Cass., sez. III, 11-1-1996, Ciaburri, CP, 1996, 3454.) – e, d’altro lato, in maniera ancor più radicale, hanno osservato che

resta tuttora non apprezzabilmente contraddetto, e va pertanto seguito, il principio affermato dalle Sezioni unite con sentenza 31 gennaio 1987, ric. Giordano, secondo cui il reato di costruzione in assenza di concessione non è configurabile quando, come nella specie ritenuto, la concessione rilasciata prima dell’inizio dei lavori sia soltanto illegittima e, beninteso, non illecita

(Cass., sez. III, 23-12-1994, De Nobili, RP, 1996, 203. Nello stesso senso, sia pure in relazione a meri vizi del procedimento, Cass., sez. III, 27-6-1995, Barillaro, CP, 1996, 3103).

In effetti, l’unica conclusione che, da tempo, appare indiscussa è quella secondo cui sono punibili ai sensi dell’ipotesi di cui all’art. 20, 1° co., lett. b, l. 47/1985 (ora art. 44, 1° co., lett. b, TUE) – ovvero ai sensi della lettera c della fattispecie incriminatrice, qualora l’abuso ricada in zona vincolata - le condotte di edificazione in presenza di titolo giuridicamente inesistente o illecito (cfr., più di recente: Cass., sez. VI, 8-7-2002, Marra, CP, 2004, 4201; Cass., sez. III, 13-11-2002, Pezzella, GP, 2003, II, 501; Cass., sez. IV, 15-1-2004, Polito, RGE, I, 353; Cass., sez. III, 22-4-2004, Verdelocco, GP, 2006, II, 174; Cass., sez. III, 20-9-2004, Scacchi, GP, 2005, II, 648). Secondo un orientamento – che sembra tuttavia voler ricondurre l’ipotesi del provvedimento illegittimo per vizio macroscopico a quella, più tranquillizzante, del provvedimento illecito - non sarebbe neppure necessario accertare la sussistenza di un reato lato sensu collusivo tra privato che richiede il permesso e funzionario pubblico che lo rilascia, potendo l’illiceità desumersi dal grave contrasto tra l’atto adottato e la sua disciplina di riferimento:

in materia edilizia deve ritenersi inesistente la concessione edilizia non riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, in quanto frutto dell'attività criminosa del soggetto pubblico che la rilascia o del soggetto privato che la ottiene, e per la sua disapplicazione non è necessaria la prova della collusione tra amministratore e soggetti interessati o l'accertamento dell'avvenuto inizio dell'azione penale a carico degli amministratori, sempre che risulti evidente un contrasto con norme imperative talmente grave da determinare non la mera illegittimità dell'atto, ma la illiceità del medesimo e la sua nullità

(Cass, sez. III, sent. n. 38735 del 11-07-2003, Schrotter ed a.).

L’analisi della giurisprudenza di legittimità mostra peraltro come tra le due opposte tesi di cui si è dato conto ne sia stata elaborata una in qualche modo “intermedia”, nel senso che, per un verso, mira a rispettare il principio di tassatività nell’applicazione del reato di costruzione in assenza di titolo e, per altro verso, realizza comunque l’obiettivo di interpretare le fattispecie incriminatrici urbanistiche nell’ottica della tutela dell’interesse sostanziale protetto: salva la valutazione della sussistenza, in concreto, dell’elemento soggettivo, anche in relazione alla “macroscopicità” del vizio, nel caso di lavori effettuati in forza di un provvedimento affetto da mera illegittimità per contrasto con la normativa urbanistica s’incorrerebbe nel reato previsto dalla lett. a della citata disposizione incriminatrice . L’orientamento - inaugurato da Cass., sez. III, 15-3-1982, Basso, in CP, 1983, 1856 e poi ribadito, in particolare, da Cass., sez. III, 10-1-1984, Tortorella, CP, 1985, 1446 - è stato particolarmente approfondito da Cass., sez. III, 24-6-1992, Palmieri, CP, 1993, 2078 e ha trovato nuova linfa nella decisione presa dalle sezioni unite nel caso Borgia, la quale, pur non approfondendo ex professo il tema della fattispecie incriminatrice applicabile, ha tuttavia legittimato, nel giudizio sottoposto al suo esame, la configurabilità dell’ipotesi prevista nell’art. 20, 1° co., lett. a, l. 47/1985. Non a caso tale autorevole decisione è richiamata come precedente in successive pronunce che, in situazioni simili, hanno ritenuto la sussistenza della meno grave ipotesi di reato (v. Cass., sez. III, 12-6-1996, Vené, CP, 1997, 1858; Cass., sez. III, 28-11-1997, Bortoluzzi, RGE, 1999, I, 182).

3. Gli approdi della più recente giurisprudenza di legittimità: qualche punto fermo e le questioni ancora irrisolte.

Pur a distanza di 20 anni il problema appare tutt’altro che risolto e la dottrina resta spaccata (per la configurabilità del reato di costruzione sine titulo v.: A. ALBAMONTE, Responsabilità del costruttore e concessione illegittima alla luce della l. n. 47 del 28 febbraio 1985 , in CP, 1986, 570 ss.; F. NOVARESE, Orientamenti in tema di disapplicazione di concessione edilizia illegittima secondo la l. 28 febbraio 1985 n. 47, in GM, 1987, IV, 289 ss.; A. ALBAMONTE, Rilevanza penale, cit., 2097 s.; S. BENINI, L’oggetto, cit., 446 ss.; P. MENDOZA,Giudice penale, cit., 1145 s.; F. NOVARESE,Disapplicazione, cit., 215 ss.; P. MICHELI, Giudice penale, cit., 3148; G. MARINI, Urbanistica, cit., 100; M. PETRONE, Attività amministrativa e controllo penale, Milano, 2000, 118 ss. Propendono invece per la configurabilità del reato residuale di cui alla lett. a della fattispecie incriminatrice: R. BETTIOL, La tutela, cit., 79, nt. 27; R. BAJNO, La tutela , cit., 103 s.; G. FORNASARI, Costruzione edilizia, cit., 240 s.; G. DE LUCA, L’art. 20 lett. a) l. 28 febbraio 1985 n. 47: l’ultima spiaggia del pretore penale , in CP, 1989, 1072 ss.; G. CONTENTO , Il sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, con particolare riferimento agli atti discrezionali , in QCSM, 1989, 36; C. ROSSI, La concessione, cit., 1164. Perplessa, sul punto, L. VIGNALE, Concessione illegittima e contravvenzioni urbanistiche: un cerchio sempre difficile da quadrare , in CP, 1987, 1714 s. Pure perplesso, ma nel senso di ritenere preferibile la tesi dell’assoluta irrilevanza penale, BARBUTO, Reati edilizi e urbanistici, Torino, 1995, 329. Deve ricordarsi, da ultimo, che, sullo sfondo di questa spaccatura circa il reato configurabile, v’è sempre stata la questione – che non si pone in termini sostanzialmente diversi, quale che sia l’ipotesi criminosa ritenuta configurabile – della rilevanza della buona fede di chi abbia edificato sulla base di un titolo illegittimo, ignorando che lo stesso fosse viziato: cfr., con diversi accenti e anche per riferimenti: G. FORNASARI,Costruzione edilizia, cit., 242 ss.; F. NOVARESE, Orientamenti, cit. 295 s.; G. MARINI, Urbanistica, cit., 100; P. MICHELI, Giudice penale, cit., 3158 s.).

Dal canto suo, neppure la giurisprudenza di legittimità ha preso chiara posizione sul punto: emblematica la decisione cautelare, pur diffusamente motivata, con cui la Corte, affermando l’illiceità della costruzione avvenuta in forza di permesso illegittimo, non prende posizione sulla fattispecie di reato integrata: Cass., sez. III, 21-3-2006, Tantillo, CP, 2007, 2982.

La Cassazione è tornata più di recente sul tema, sempre nell’ambito di una pronuncia resa in materia di giudizio sulla contestata legittimità del sequestro preventivo dell’immobile costruito in forza di un permesso ritenuto illegittimo (in questo caso perché rilasciato senza nulla osta idrogeologico e autorizzazione paesaggistica in area ritenuta boscata). La pronuncia è interessante anche perché ha incidentalmente disatteso la prospettazione difensiva di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 TUE interpretato nel senso dell’equiparazione tra costruzione senza permesso e costruzione in forza di permesso illegittimo (era stata dedotta la violazione degli artt. 3, 1° co., 25 2° co., e 27, 1° co., Cost. per irrazionale equiparazione di situazioni diverse, violazione del principio di stretta legalità penale, violazione del principio di necessaria colpevolezza per l’applicazione di sanzioni penali). Ripercorrendo le principali tappe giurisprudenziali della dibattuta questione, la decisione afferma alcuni principi da cui è stata tratta la massima che segue:

ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) dell'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non possono ritenersi realizzate in "assenza" di permesso di costruire le opere eseguite sulla base di un provvedimento abilitativo meramente illegittimo, ma non illecito o viziato da illegittimità macrocospica tale da potersi ritenere sostanzialmente mancante. (In motivazione la Corte ha evidenziato che tale soluzione esclude sia una irragionevole equiparazione interpretativa "in malam partem" tra mancanza "ab origine" dell'atto concessorio e illegittimità dello stesso accertata "ex post", sia la violazione del principio della responsabilità penale per fatto proprio colpevole)

(Cass., sez. III, sent. n. 7423 del 18-12-2014, Cervino e aa.).

Trattandosi della più recente pronuncia della Corte di legittimità in argomento, per meglio comprendere la ratio decidendi vale la pena analizzare i passi salienti della motivazione, che, muovendo dai rilievi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata e richiamando i precedenti della giurisprudenza di legittimità in materia, li disattende nell’ottica di un’interpretazione costituzionalmente orientata.

10. La questione sollevata, seppure suggestiva, dev'essere disattesa alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata della fattispecie penale della cui legittimità si dubita. Ed invero, osserva il Collegio, le prospettate censure di costituzionalità avrebbero base giuridica e fondatezza argomentativa ove la norma in esame fosse interpretata, così come prospettato dai ricorrenti, secondo una modalità esegetica di tipo meccanicistico, fondata sull' equazione permesso di costruire illegittimo - assenza di permesso di costruire , equazione, questa sì, che, ove condotta senza valutazione in concreto della vicenda processuale, si presterebbe alle critiche di costituzionalità come prospettate dai ricorrenti . Deve, diversamente, osservarsi che l'esegesi corretta della norma sanzionatoria deve necessariamente condursi alla luce dei canoni interpretativi che qualsiasi giudice, sia esso di merito o di legittimità, deve seguire con riferimento a qualsiasi fattispecie penale di cui si ipotizzi la configurabilità e, dunque, nel caso di specie, valutando non solo la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato contestato ma anche di quello soggettivo.

Orbene, con riferimento al thema decidendum, la giurisprudenza di questa Corte ha già in passato puntualizzato che in caso di concessione edilizia "illegittima" il giudice penale non può disapplicare la concessione ed equiparare i lavori a quelli eseguiti in assenza di concessione ed integranti, pertanto, il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b) . Tuttavia, si è precisato, le opere eseguite in base a concessione edilizia illegittima (per l'obbligo di conformità alle norme urbanistiche già introdotto con la L. n. 47 del 1985, art. 6), possono integrare il reato di cui alla lett. a ): in tale caso, per la presunzione di legittimità degli atti amministrativi e per la esigenza di certezza dei rapporti giuridici che da essi derivano, deve escludersi l'elemento soggettivo della contravvenzione di cui all'art. 44, lett. a) quando la violazione della norma urbanistica, derivante da legge, da regolamento o da strumento urbanistico, non sia grossolana o macroscopica (v., ad es.: Sez. 3^, n. 2906 del 28/11/1997 - dep. 07/03/1998, Bortoluzzi M., Rv. 210460).

Con riferimento, poi, alla questione della concessione illegittima (oggi, del permesso di costruire illegittimo), si è chiarito deve ritenersi inesistente la concessione edilizia non riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, in quanto frutto dell'attività criminosa del soggetto pubblico che la rilascia o del soggetto privato che la ottiene, e per la sua disapplicazione non è necessaria la prova della collusione tra amministratore e soggetti interessati o l'accertamento dell'avvenuto inizio dell'azione penale a carico degli amministratori, sempre che risulti evidente un contrasto con norme imperative talmente grave da determinare non la mera illegittimità dell'atto, ma la illiceità del medesimo e la sua nullità (Sez. 3^, n. 38735 del 11/07/2003 - dep. 14/10/2003, Schrotter ed altri, Rv. 226576). Ciò si spiega ove si consideri che l'interesse protetto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, non è quello del rispetto delle prerogative della pubblica amministrazione nel controllo dell'attività edilizia e perciò della regolarità delle procedure di concessione, ma quello sostanziale della protezione del territorio in conformità alla normativa urbanistica, perciò non si pone un problema di disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo, quanto di controllo della legittimità di un atto amministrativo che costituisce un elemento costitutivo o un presupposto del reato. La qualificazione dell'illecito in una delle ipotesi previste dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), b) o c), dipende dal grado di aggressione del bene e, perciò, si è ritenuto ammissibile da parte di questa Corte il sequestro preventivo di una costruzione abusiva pur in presenza di una concessione edilizia purché si evidenzi la macroscopicità della violazione dell'interesse sostanziale protetto e, inoltre, l'esistenza di comportamenti contrari al principio del "neminem ledere" inducano ad escludere la possibilità di riferire l'attività edilizia posta in essere in base alla concessione alla sfera del lecito giuridico (Sez. 3^, n. 1756 del 12/05/1995 - dep. 30/06/1995, Di Pasquale, Rv. 202077; v. anche, Sez. 3^, n. 1708 del 13/11/2002 - dep. 16/01/2003, PM in proc. Pezzella, Rv. 223475).

11. Dall'esegesi operata dalla giurisprudenza di questa Corte, dunque, emerge un dato interpretativo indiscutibile. Al fine della qualificazione del fatto come integrante l'ipotesi di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), non è sufficiente la mera illegittimità del permesso di costruire ma è necessaria la macroscopica illegittimità di tale atto amministrativo che lo qualifichi in termini di illiceità […] La definitiva conferma, infine, della necessità di distinguere tra permesso di costruire meramente illegittimo (di per sé inidoneo ad integrare la fattispecie de qua) e permesso di costruire illecito (che consente, invece, di operare l'equiparazione con il p.d.c. assente), è ben espressa da quella decisione che, sul punto, ebbe ad affermare che la disposizione di cui alla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 20, lett. c) (oggi, D.P.R. n. 380 del 2001) postula che le opere siano realizzate in assenza di concessione: pertanto a fronte di provvedimento formale in tal senso la configurabilità del relativo reato è esclusa anche se il suddetto atto concessorio risulti illegittimo, purché non inesistente, cioè sostanzialmente mancante. Siffatta ultima situazione si verifica quando l'atto sia privo di uno dei suoi requisiti essenziali (forma, volontà, contenuto) oppure provenga da organo assolutamente privo del potere di adottarlo od infine sia frutto di attività criminosa del soggetto titolare del potere: quando invece si discuta unicamente di vizi del procedimento che ha preceduto il provvedimento e perciò delle modalità di esercizio del potere della P.A., il difetto non ottiene all'esistenza dell'atto finale, ma alla legittimità del complessivo comportamento tenuto dall'autorità (Sez. 6^, n. 2378 del 27/06/1995 - dep. 31/08/1995, P.M. e Barillaro ed altro, Rv. 202581,

(Cass., sez. III, sent. n. 7423 del 18-12-2014, Cervino e aa.).

In sostanza, la decisione contiene diverse affermazioni di principio importanti, che a nostro avviso possono essere così sintetizzate:

- il provvedimento è mancante (e cioè nullo o inesistente e non solo illegittimo) quando provenga da soggetto in assoluto non titolare del potere di emetterlo (il caso appare per lo più di scuola: si può pensare ad un permesso di costruire rilasciato da un Comune diverso da quello nei cui territorio l’area ricade), ovvero sia privo dei requisiti essenziali di forma e contenuto (anche qui, è un caso di scuola: il permesso “incomprensibile”);

- il provvedimento non è mai mancante e non origina responsabilità penale quando sia affetto soltanto da un vizio procedurale ;

- il giudice penale non ha il potere di disapplicare il provvedimento illegittimo per ritenere la sua mancanza;

- le contravvenzioni urbanistiche tutelano il bene del territorio in conformità alla pianificazione urbanistica ed al proposito è dunque consentito lo scrutinio di legittimità sull’atto amministrativo che costituisce elemento oggettivo della norma incriminatrice ;

- il provvedimento illecito è sempre tamquam non esset e va parificato al provvedimento mancante;

- nel caso di contrasto con le previsioni urbanistiche può ravvisarsi l’illecito di cui alla lett. a) della norma incriminatrice, purché la difformità sia grossolana o macroscopica ;

- la macroscopica illegittimità del provvedimento può qualificare l’atto in termini di illiceità .

Come si vede, da un lato, la decisione riafferma principi consolidati e, d’altro lato – sul piano della individuazione del reato applicabile – sembra condividere la tesi che più sopra abbiamo definito “intermedia”, secondo cui, in caso di difformità del permesso dalla previsioni urbanistiche e regolamentari, sarebbe ravvisabile la meno grave contravvenzione di cui alla lett. a) della norma incriminatrice, mentre le più gravi ipotesi di cui alle lettt. b) e c) potrebbero ravvisarsi soltanto in caso di radicale inesistenza o illiceità del permesso. Il più marcato profilo di novità della decisione – che non a caso ha orientato i redattori che hanno ricavato la massima più sopra riportata – appare quello che consente di ricavare la illiceità in via, per così dire, “presuntiva” dalla macroscopicità del profilo di illegittimità. Si tratta, tuttavia, di “presunzione relativa” che non consente di affermare una ineludibile sovrapponibilità dei due piani, i quali, anzi, restano logicamente – e correttamente – distinti, attenendo il primo all’individuazione dell’elemento oggettivo del reato e il secondo all’elemento soggettivo. E che tale fosse l’opinione della Cassazione lo si ricava dal paragrafo finale della decisione (il n. 13), laddove, nell’annullare con rinvio l’ordinanza confermativa del sequestro preventivo, si demanda al giudice di merito, al fine di affermare od escludere l’astratta integrazione della contravvenzione di cui all’art. 44, lett. c), TUE, di valutare entrambi i profili: quello dell’illiceità del permesso di costruire; quello dell’eventuale buona fede dei ricorrenti:

12. Ed allora, conclusivamente, le prospettate censure di costituzionalità della fattispecie penale ipotizzata, per asserito contrasto con l'art. 3 Cost., comma 1, art. 25 Cost., comma 2 e art. 27 Cost., comma 1, si appalesano infondate, atteso che i paventati rischi di violazione del principio di eguaglianza dovuti all'equiparazione interpretativa tra mancanza ab origine del p.d.c. e la sua postuma (ove accertata) illegittimità, come quello di violazione del principio della responsabilità penale per fatto proprio "colpevole" (che renderebbe punibile il contravventore per l'assenza di collusione con i pubblici ufficiali) come, infine, quello della violazione del divieto di analogia in malam partem per l'assenza di una tale equiparazione del testo normativo, sono, all'evidenza, infondati ove si interpreti la norma - come già questa Corte più volte ha avuto modo di chiarire - nel senso che non la mera illegittimità ma l'illiceità del permesso di costruire (che, evidentemente, comporta la sussistenza di un coefficiente psicologico incompatibile con la c.d. buona fede) si appalesa idonea a integrare l'astratta fattispecie penale ipotizzata.

13. Alla luce della considerazioni che precedono, si appalesano quindi meritevoli di accoglimento il secondo ed il terzo motivo di ricorso, con conseguente annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata al tribunale del riesame in diversa composizione, che dovrà rivalutare la questione della configurabilità dell'ipotizzata fattispecie penale di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) , (e, correlativamente, di quella paesaggistica) alla luce dei principi affermati da questa Corte sia per quanto concerne la qualificazione del permesso di costruire come illecito sia per quanto concerne la valutazione della componente soggettiva dei ricorrenti, con particolare riferimento alla prospettata buona fede degli stessi , in assenza - come sembrerebbe dagli atti trasmessi a questa Corte - di elementi da cui emerga un'ipotesi collusiva con i pubblici amministratori

(Cass., sez. III, sent. n. 7423 del 18-12-2014, Cervino e aa.).

4. L’indebolimento del potere di controllo preventivo della p.a. e la necessità di ripensare all’interpretazione e al modello di incriminazione degli abusi sine titulo.

Chi scrive non si era sottratto all’impegnativa ricerca della soluzione interpretativa preferibile e lo aveva fatto – nel solco della strada tracciata dalla Cassazione a sezioni unite nei due interventi più volte richiamati e poi percorsa dalla successiva giurisprudenza – muovendo dall’individuazione del bene oggetto di tutela penale della norma incriminatrice che prevede il reato di lavori eseguiti in assenza di permesso. In quest’ottica avevamo ritenuto che una lettura della norma incriminatrice scevra da pregiudizi e condotta avendo a mente l’intero sistema delle disposizioni di legge portasse a ritenere – in parziale accordo, peraltro, con entrambe le affermazioni di principio contenute delle due decisioni delle Sezioni unite della Corte, opportunamente contemperate - che il reato di lavori eseguiti in assenza di permesso, sia pure secondo una precisa gerarchia interna o, se si vuole, secondo un certo criterio di funzionalizzazione, tutelasse sia la funzione di controllo riservata alla p.a., sia l’esigenza di impedire trasformazioni del territorio in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia. In particolare, ci era sembrato di poter affermare che si punisce chi costruisce senza aver previamente ottenuto il permesso perché in questo modo non è stato consentito all’autorità pubblica preposta di effettuare i necessari controlli finalizzati ad evitare che le attività di trasformazione effettuate dai privati possano ledere l’ordinato sviluppo del territorio, quale pianificato dall’amministrazione nel rispetto delle previsioni di legge. Detto in altre parole ancora, la tutela (immediata) del controllo pubblico sulle condotte lato sensu edificatorie dei privati assicurata dalla previsione del reato di costruzione sine titulo non sarebbe fine a sé stessa, ma consentirebbe di realizzare un’efficace (e mediata) tutela del bene sostanziale avuto di mira, con l’utilizzo di una tecnica di protezione anticipata frequentemente utilizzata per beni collettivi analoghi a quello dell’assetto del territorio (si pensi, ad es., al paesaggio). Criticando le teorie che ricostruiscono la fattispecie de qua come reato di danno – avendo riguardo vuoi alla lesione del controllo pubblico sull’attività edificatoria, vuoi al vulnus sostanziale al territorio – avevamo allora proposto di ricostruire la fattispecie come reato di pericolo in relazione al bene “tutela del territorio” . Nel punire chi proceda a significative trasformazoni del territorio (quelle che, appunto, necessitano del rilascio del permesso di costruire) senza conseguire il relativo titolo, il legislatore sembrava aver ritenuto che la sottoposizione del progetto di trasformazione del suolo al vaglio della competente autorità amministrativa fosse garanzia idonea a conseguire l’obiettivo di un ordinato sviluppo urbanistico e che tale valore fosse invece messo in pericolo dall’esecuzione di opere non assoggettate alle prescritte forme di controllo. La complessiva razionalità del sistema, del resto, sarebbe assicurata dalla speciale causa di estinzione del reato per sanatoria: se si accerta, attraverso una verifica ex post, che la condotta illecita tenuta non ha arrecato danno all’interesse protetto (conformità ex ante allo strumento urbanistico) e che essa sarebbe assentibile anche sulla base della pianificazione successivamente approvata (cd. doppia conformità), previo pagamento di una somma a titolo di oblazione (ciò che appare sufficiente a sanzionare la violazione formale illo tempore commessa), non si fa luogo all’applicazione della sanzione penale.

Sulla base di questi principi avevamo quindi affrontato il problema delle conseguenze che si verificano quando il meccanismo di controllo amministrativo non abbia funzionato affermando che

se ciò è dipeso dalla mancata attuazione della funzione di controllo – solo apparentemente espletata da chi non aveva il potere di farlo (atto inesistente per incompetenza assoluta), ovvero impedita ab origine da una condotta fraudolenta del privato (concretizzatasi in reati di falso o nella c.d. truffa edilizia) o da un’attività criminosa del soggetto pubblico, di regola in concorso con l’interessato beneficiario (permesso illecito per collusione) - l’interpretazione teleologica della norma incriminatrice porta ad equiparare l’ipotesi a quella dell’assenza di permesso (conclusione, come si è detto, oggi sostanzialmente pacifica in dottrina e giurisprudenza, sia pur variamente argomentata). Se, invece, senza dolo di alcuno, la procedura di controllo non si è svolta in conformità alle regole che la disciplinano – per violazione di leggi, regolamenti o per eccesso di potere – e alla richiesta del privato abbia fatto seguito il rilascio di un permesso illegittimo (anche se macroscopicamente tale) la fattispecie di cui all’art. 44, 1° co., lett. b, TUE non potrà dirsi integrata. A causa di condotte degli organi pubblici preposti che saranno di regola riconducibili al paradigma della colpa (negligenza, imperizia) dei funzionari intervenuti nel procedimento, il controllo non è stato efficace e, tuttavia, è avvenuto (o sarebbe potuto avvenire), sicché, essendo stata rispettata la finalità della norma precettiva, non può farsi ricorso all’interpretazione teleologica per ritenere comunque integrato il reato, tanto meno se per far ciò occorra violare il principio di tassatività della legge penale. Detto in altre parole, nella struttura della fattispecie la tutela dell’interesse finale che sottostà all’illecito (l’assetto territorio) passa necessariamente attraverso al meccanismo di controllo della competente pubblica amministrazione e se questo è avvenuto (pur se in modo errato o inadeguato) non v’è spazio per ritenere applicabile la norma…Ciò non significa, tuttavia, che l’esecuzione di lavori in forza di un permesso illegittimo non integri gli estremi di (altro) reato, perché, per le ragioni già esposte dando conto della giurisprudenza che ha sostenuto questa tesi, potrà residuare la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE

(G. REYNAUD, La disciplina dei reati urbanistici, Torino, 2007, 193).

Si è voluto ricordare il passo saliente del ragionamento conclusivo cui eravamo pervenuti – scusandoci per l’inelegante autocitazione – perché ci rendiamo conto che essa appare più difficilmente sostenibile alla luce della recenti “novelle” che hanno interessato il procedimento per rilascio del permesso di costruire delineato dall’art. 20 TUE (il cui testo originario è stato sostituito dall’art. 5, 2° co., lett. a, n. 2, d.l. 13.5.2001, n. 70, conv., con modiff., in l. 12.7.2011 n. 106 e poi ulteriormente modificato dall’art. 13 d.l. 22.6.2012, n. 83, conv., con modiff., in l. 7.8.2012, n. 134). Ed invero, in un sistema come quello attuale, che codifica il principio secondo cui (salvo che nelle zone vincolate) l’inerzia dell’amministrazione sull’istanza di rilascio del permesso di costruire – inerzia magari giustificata dall’inefficienza, dovuta anche all’endemica carenza di personale, degli apparati comunali – equivale a rilascio del provvedimento “tacito”, il perfezionamento dell’ iter amministrativo non assicura che vi sia effettivamente stata (né, forse, che vi sarebbe potuta essere, tenendo conto delle condizioni disastrate in cui versano molti uffici pubblici) quell’attività di controllo funzionale alla tutela dell’interesse sostanziale protetto che aveva costituito la ratio dell’interpretazione da noi ritenuta preferibile. E’ ben vero che, diversamente dall’originaria disciplina dell’ iter procedurale, è stata rafforzata (anche con la previsione del nuovo delitto di falso ideologico di cui all’art. 20, 13° co., TUE) l’autoresponsabilità del privato, richiedendosi che l’istanza sia corredata dall’attestazione, da parte di un soggetto professionalmente abilitato, di conformità del progetto (tra l’altro) «agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia» (art. 20, 1° co., TUE), ma, tenendo anche conto del fatto che il nuovo reato presuppone, ovviamente, il dolo e che l’interpretazione della disciplina urbanistica non è sempre agevole, il conseguimento tacito del necessario titolo giuridico non vale a far ritenere accertata la conformità dell’opera alla normativa urbanistico-edilizia sostanziale .

La recente riforma alla quale si è fatto cenno, dunque, da un lato pone problemi inediti rispetto alla soluzione del quesito da cui abbiamo preso le mosse nel caso in cui l’intervento soggetto a permesso perfezionatosi con silenzio-assenso contrasti con la disciplina urbanistico-edilizia e, d’altro lato, modifica la cornice sistematica all’interno della quale deve muoversi l’interprete per tentare di dare risposte adeguate ad interrogativi che si fanno sempre più complessi. Del resto, questioni non troppo dissimili si pongono anche nel caso in cui il privato che voglia realizzare un intervento assoggettato al regime del permesso di costruire secondo la normativa di fonte statale opti per la s.c.i.a. alternativa, giusta le previsioni di cui all’art. 23, co. 01, TUE, quale inserito dal recente d.lgs. 222/2016 (che sul punto non è tuttavia innovativo, riproponendo in quest’articolo le disposizioni, oggi soppresse, che in precedenza trovavano collocazione nell’art. 22, commi 3 e 5, TUE, ivi compresa la legittimazione delle regioni ad estendere i casi di s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire). Anche in queste ipotesi (cfr. art. 23, co. 1, TUE) è condizione indefettibile quella della conformità delle opere da realizzare alla normativa urbanistica e concludere nel senso che, in difetto di detta conformità (non rilevata dal competente organo comunale nel termine di trenta giorni dalla presentazione: ciò che, per quanto sopra osservato, non garantisce circa l’effettuazione di un reale controllo), il titolo debba ritenersi esistente ed efficace e, dunque, non consenta l’applicazione delle sanzioni previste dalle contravvenzioni che puniscono l’esecuzione di lavori sine titulo (salva invece la responsabilità per la meno grave contravvenzione di cui alla lett. a) è conseguenza che, in un quadro normativo che nel quale è stato progressivamente indebolito il principio del necessario ed espresso controllo preventivo della p.a. sui progetti di trasformazione urbanistica di maggiore impatto, ci appare più difficilmente sostenibile, pena lo svuotamento dell’efficacia dello strumento repressivo penale in materia di reati urbanistici.

Valorizzando, dunque, la necessità di dare alle norme incriminatrici un’interpretazione teleologicamente orientata in funzione del bene penalmente protetto e quella di giungere a conclusioni uniformi e razionali a prescindere dall’iter amministrativo prescelto (e modificando, pertanto, le diverse conclusioni cui eravamo giunti una decina di anni fa in REYNAUD, La disciplina dei reati urbanistici, cit., pp. 193 ss.), ci appare oggi preferibile la tesi che riconduce alle più gravi ipotesi di reato in materia urbanistica le condotte di esecuzione di lavori in contrasto con la disciplina urbanistica anche se il titolo si sia apparentemente perfezionato e quale che esso sia (il permesso di costruire effettivamente rilasciato, quello tacitamente perfezionato con silenzio-assenso, la s.c.i.a. alternativa). Ci rendiamo conto che la conclusione desta qualche perplessità sul piano del rispetto del principio di tassatività, ma – richiamando le conclusioni raggiunte dalle Sezioni unite della Cassazione nella sentenza Giordano e successivamente, anche di recente, ribadite – è preferibile riconoscere al giudice penale il potere-dovere di valutare la conformità al modello legale del titolo edilizio (apparentemente) formatosi in relazione ad un’attività di trasformazione del suolo per poter affermare che questa si sia svolta in modo “non abusivo”. Detto in altri termini, nell’applicare le previsioni penali di cui all’art. 44, 1° co., lett. b) e c), TUE, si dovrà dire che il reato di costruzione sine titulo sussiste anche quando lo stesso, pur apparentemente formato, sia (oltre che inefficace e/o inesistente) illecito o in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia sostanziale. E ciò, beninteso, fatta salva la necessità di ravvisare in capo al reo il necessario elemento soggettivo, ciò che – laddove la competente p.a. abbia rilasciato il permesso di costruire, ovvero il privato abbia seguito in modo scrupoloso e agendo con buona fede le norme che disciplinano la possibilità di ottenere il permesso tacito o di presentare la s.c.i.a. – richiederà l’accertamento di una difformità dal modello legale a tal punto evidente da ridondare in quella categoria giuridica elaborata dalla giurisprudenza definita “macroscopicità del vizio”.

Come più oltre si vedrà, analizzando il tema dei soggetti, una particolare posizione di garanzia (o, se si vuole, un “obbligo rafforzato”) di rispettare le previsioni urbanistiche è prevista per chi rivesta determinate qualifiche, come la Cassazione ha avuto modo di ribadire in una recente pronuncia, peraltro emessa proprio in relazione ad un intervento (si trattava di una sopraelevazione) che era stato eseguito in forza di una denuncia d’inizio attività incompatibile con le previsioni regolamentari sulle distanze rispetto al fabbricato insistente sul fondo limitrofo:

in tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo abilitativo in violazione di legge o degli strumenti urbanistici, ovvero nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima.

(Cass., sez. 3, sent. n. 10106 del 21-01-2016, Rv. 266291).

La conclusione cui siamo giunti impone peraltro di valutare, de iure condendo, se quella che è stata sinora la principale fattispecie penale in materia urbanistica – espressamente ancorata all’omesso rilascio di un provvedimento che oggi può formarsi tacitamente, che in alcuni casi, ad iniziativa del privato, può essere surrogato da una semplice s.c.i.a., che in particolari settori è sostituito da adempimenti di diverso genere (si pensi alle opere pubbliche disciplinate dall’art. 7 TUE, ovvero all’installazione di impianti di telecomunicazione o alla costruzione di impianti di energia da fonti rinnovabili) – non debba essere anche formalmente adeguata a quel che appare essere il miglior diritto vivente, onde fugare qualsiasi possibile dubbio di legittimità costituzionale. Del resto, un buon modello di fattispecie a cui ispirarsi - da tempo presente all’interno della legislazione penale urbanistica e che ha mostrato di ben funzionare e di evitare tutti i problemi interpretativi di cui si è sin qui discusso - è quello del reato di lottizzazione abusiva, che, secondo la condotta alternativa descritta nell’art. 30, 1° co., TUE, sussiste tanto se l’intervento sia stato realizzato in assenza della prescritta autorizzazione, quanto se esso si ponga comunque in contrasto con gli strumenti urbanistici o, più in generale, con la disciplina urbanistico-edilizia.

* * * * *

PARTE SECONDA

I soggetti responsabili delle contravvenzioni urbanistiche

5. Le contravvenzioni urbanistiche quali reati comuni e l’applicabilità delle norme generali sul concorso di persone nel reato

Secondo un tralaticio principio di diritto a lungo affermato nella giurisprudenza di legittimità, la principale contravvenzione urbanistica, quella un tempo

prevista dall’art. 20, lett. b), l. 47/1985, ha natura di reato proprio, perché la norma elenca con carattere tassativo i soggetti che possono essere chiamati a risponderne

[Cass. Sez. III, 9.1.2003, Costa, UA, 2003, 614; Cass. Sez. III, 9.10.2003, Policastrese, GD, 2003, (13), 83; Cass. Sez. III, 29.3.2001, Zorzi e a., DPP, 2001, 871].

In particolare – si aggiunge - essi sono

specificamente indicati in: titolare della concessione edilizia, committente, costruttore e direttore dei lavori

(Cass. Sez. III, 17.11.1998, Baccani, CP, 2000, 164; Cass. Sez. III, 29.3.2001, Zorzi e a., DPP, 2001, 871).

In realtà, la disposizione incriminatrice – oggi trasfusa, senza sostanziali modifiche, nell’art. 44, comma 1, lett. b, TUE – non ha mai elencato alcun soggetto quale autore del reato, né in modo tassativo né in modo esemplificativo. La massima, piuttosto, si spiega per il collegamento che si è sempre individuato - sin da quando le ipotesi di reato erano contenute nella legge urbanistica fondamentale – tra la norma penale (prima l’art. 41 l. 1150/1942 , poi l’art. 17 l. 10/1977, quindi l’art. 20 l. 47/1985 e oggi l’art. 44 TUE) e la disposizione che, in termini generali, individua la responsabilità di taluni soggetti per la conformità delle opere eseguite alle prescrizioni normative e a quelle urbanistiche (originariamente l’art. 31, u.c., l. 1150/1942, poi l’art. 6 l. 47/1985 e attualmente l’art. 29 TUE).

Osserva la giurisprudenza che

sussiste una stretta correlazione tra l’obbligo di condotta imposto dall’art. 6 l. 28.2.1985 n. 47 ai soggetti in esso indicati e le sanzioni di cui all’art. 20, sì da configurare il reato di costruzione senza la concessione edilizia, o in contrasto con le prescrizioni urbanistiche o edilizie, come reato <<proprio>>; invero il precetto penale è diretto non a <<chiunque>>, ma soltanto a coloro che, in relazione all’attività edilizia, rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto

(Cass. Sez. III, 21.9.1988, Maglione, CP, 1989, 2068).

Con la legge sul condono edilizio questo collegamento è indubbiamente divenuto più stretto, poiché – a differenza di quanto statuiva l’art. 31, u.c., della legge urbanistica fondamentale – la responsabilità del titolare della concessione edilizia, del committente e del costruttore (nonché quella, oggettivamente più limitata, del direttore dei lavori) è stata espressamente riferita «ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo» (art. 6, comma 1, l. 47/1985). Tra le norme contenute nel Capo I della legge vi era, effettivamente, anche quella incriminatrice, ma, come notarono i primi commentatori dell’art. 6 l. 47/1985, il precetto che la norma conteneva circa l’obbligo dei soggetti indicati di pagare le sanzioni pecuniarie e di sopportare, in via solidale, le spese per l’esecuzione in danno in caso di demolizione delle opere abusive induceva a ritenere che il legislatore avesse avuto a mente soprattutto la responsabilità di natura amministrativa.

La disposizione attualmente vigente, salva la sostituzione del permesso di costruire alla concessione edilizia, riproduce pedissequamente il contenuto dell’art. 6 l. 47/1985:

il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Essi sono, altresì, tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso

(art. 29, comma 1, TUE)

Vi è subito da notare che il Capo I del Titolo IV della Parte I del testo unico in materia edilizia è composto di soli quattro articoli (dal 27 al 29, con l’aggiunta dell’art. 28 bis) e non ospita le disposizioni che prevedono le sanzioni amministrative e penali, contenute nel successivo Capo II. Non sembra, tuttavia, che questa circostanza sia idonea a produrre conseguenze di rilievo: a parte il fatto che essa è verosimilmente imputabile ad un censurabile difetto di tecnica legislativa e che al legislatore delegato che ha approvato il d.p.r. 380/2001 non erano stati attribuiti poteri di modifica sostanziale del tessuto normativo preesistente, deve osservarsi che l’art. 27 TUE richiama, nel suo complesso, sia la responsabilità amministrativa, sia, come chiaramente si ricava dall’ultimo capoverso, quella penale. Le ragioni che inducono – oggi come ieri - a respingere la ricostruzione giurisprudenziale dei reati urbanistici come reati propri sono in realtà ben altre e da tempo, compattamente, la dottrina le pone in rilievo.

Ed invero, se le contravvenzioni urbanistiche non esordiscono con il pronome “chiunque”, ciò non significa che debba per forza trattarsi di reati propri. Né a tale conclusione può giungersi facendo riferimento alla circostanza che, di regola, tra il soggetto agente e il bene oggetto della trasformazione è ravvisabile un rapporto di disponibilità (giuridica o di fatto) ovvero che il primo assume un incarico in relazione all’attività di trasformazione. In realtà, come più oltre si avrà modo di sottolineare, l’effettivo significato della disposizione di cui all’art. 29 TUE è quello di prevedere, in capo ai soggetti indicati e per le ipotesi contemplate, tra loro parzialmente diverse, da un lato, un obbligo normativo di diligenza che, se violato, vale ad integrare gli estremi della colpa e, d’altro lato, una specifica posizione di garanzia rilevante per l’attribuzione di responsabilità penale nel caso in cui non si impedisca ad altri di commettere il reato (in quest’ultimo senso, v. Cass. Sez. III, 24.2.2004, Soldà e a., GP, 2005, II, 173, che – così come Cass. Sez. III, 9.3.1994, Mattaboni, RP, 1995, 802 - ritiene applicabile l’art. 6 l. 47/1985 anche all’illecito paesaggistico oggi previsto dall’art. 181 d.lgs. 42/2004, ma, ciò non di meno, afferma esattamente che «si è in presenza di un reato comune e non a soggettività ristretta»; anche per Cass. Sez. II, 2.8.1994, Silvestri, RP, 1995, 803, la contravvenzione prevista dalla legge Galasso «rientra tra i reati comuni, poiché la norma punisce tutte le violazione della legge de qua, senza individuare con precisione il soggetto attivo, rimettendone la specificazione alla mutevole realtà»). Con riguardo alle figure soggettive richiamate nell’art. 29 TUE può, semmai, genericamente parlarsi di soggetti attivi “tipici”, senza tuttavia escludere, appunto, la responsabilità di soggetti diversi.

Nell’ultimo decennio, la stessa Corte di cassazione sembra aver abbandonato il tradizionale schema secondo cui le contravvenzioni urbanistiche sarebbero reati propri, avendo invece più volte affermato – e di recente ribadito - che

le contravvenzioni edilizie previste dall'art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 devono essere qualificate come reati comuni e possono dunque essere commessi da qualsiasi soggetto, fatta eccezione per le condotte di inottemperanza all'ordine di sospensione dei lavori, per quelle ascrivibili esclusivamente al direttore dei lavori, nonché per alcune fattispecie riconducibili alla lettera a) della norma in quanto riferibili a specifici destinatari. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto corretta l'affermazione di responsabilità del socio di un'associazione culturale che aveva personalmente seguito tutte le fasi di esecuzione dei lavori abusivamente realizzati).

(Cass., sez. III, sent. n. 45146 del 08-10-2015, Rv. 265443; in motivazione la decisione richiama quali precedenti in termini: Cass., sez. III, sent. n. 8407 del 30-11-2006, Rv. 236183; Cass., sez. III, sent. n. 47083 del 22-11-2007, Rv. 238471).

Al di là della disputa dommatica, la questione della natura, propria o no, dei reati urbanistici non ha mai avuto concreta rilevanza pratica, poiché la stessa Cassazione ha sempre riconosciuto che

il carattere proprio del reato di violazione della legge edilizia non impedisce che, oltre ai soggetti individuati dalla normativa urbanistica, soggetti diversi s’inseriscano nella consumazione del reato alla stregua delle modalità del fatto, denotanti l’esistenza di un vincolo univoco con il reato per il quale si procede

(Cass. Sez. III, 21.1.1999, Quaranta, RP, 1999, 1016. Nello stesso senso, ex multis, Cass. Sez. III, 13.7.1988, Di Santo, CP , 1989, 1819; Cass. Sez. III, 21.9.1988, Maglione, CP, 1989, 2068; Cass. Sez. III, 25.3.2004, B., DPP, 2005, 581).

Sulla medesima scia, la giurisprudenza di merito osserva che nella responsabilità penale per contravvenzione urbanistica,

pur trattandosi di reato proprio, chiunque può, tuttavia, incorrere purché abbia posto in essere una condotta, anche meramente colposa, che abbia determinato o contribuito a determinare l’evento vietato

(App. Catania 21.10.1996, Santo e a., RGE, I, 1997, 414).

Tenendo conto della natura contravvenzionale del reato, appare corretto ritenere sufficiente l’elemento psicologico della colpa (in questo senso, v. anche Cass. Sez. III, 13.7.1995, Valente e a., RP, 1996, 895).

In generale, deve quindi affermarsi che trovano qui applicazione le regole del concorso di persone nel reato, sicché, secondo il tradizionale e maggioritario orientamento, sarà chiamato a rispondere dell’illecito chi abbia dato un materiale contributo causale alla commissione del fatto, ovvero chi abbia agito come concorrente morale, determinando o istigando altri alla realizzazione del reato. Con particolare riguardo a quest’ultimo aspetto – che meglio si approfondirà più oltre, discutendo del possibile ruolo concorrente del comproprietario che non abbia affidato i lavori e non vi si sia ingerito (e a questa ipotesi si riferisce la sentenza di seguito citata) – la giurisprudenza insegna che

ai fini della sussistenza del concorso morale nel reato di costruzione abusiva, è necessario individuare un comportamento, attivo o passivo, che comunque possa configurarsi come causativo del fatto

(Cass. Sez. III, 11.3.1994, La Rosa, RP, 1995, 811).

A proposito del generale problema del concorso (o, come talvolta si dice, della cooperazione) nei reati colposi, con particolare riguardo alle contravvenzioni urbanistiche e paesaggistiche un giudice di merito, facendo propria la più recente elaborazione teorica in materia, ha esattamente notato come sia al proposito necessario accertare:

a ) coscienza e volontà di concorrere alla condotta violatrice delle regole cautelari di comportamento; b) inosservanza di una regola cautelare da parte del concorrente; c) previsione e prevedibilità ed evitabilità dell’evento

(Pret. S. Anastasia, 11.11.1993, Filosa, GM, 1994, III, 356)

Tenendo conto che molte delle ipotesi contravvenzionali previste nella nostra materia sono qualificabili come reati di durata, occorre inoltre avere a mente che

il concorso di persone nel reato non deve necessariamente essere presente fin dal momento della programmazione e preparazione della condotta vietata, poiché l’adesione del correo può intervenire in qualsiasi istante dello svolgimento del comportamento illecito, purché la partecipazione avvenga quando l’attività sia ancora in itinere

(Cass. Sez. III, 5.3.1996, Mele, CP, 1997, 1480; nello stesso senso, Cass. Sez. III,8.11.2000, Petracchi, GP, 2002, II, 99, entrambe in relazione alla fattispecie della lottizzazione abusiva).

6. Soggetti attivi “tipici”. Il committente ed il costruttore.

Posto che tutte le ipotesi di reato urbanistico possono essere realizzate con l’esecuzione di opere edili (totalmente abusive, in difformità dal titolo o dalle previsioni urbanistiche e regolamentari, in violazione dell’ordine di sospensione, in assenza di autorizzazione a lottizzare), la principale figura di autore che la casistica rivela è quella del costruttore , non a caso menzionata nell’art. 29 TUE e comunque evocata, implicitamente od esplicitamente, nelle diverse fattispecie contenute nella disposizione incriminatrice. Salvo il caso della lottizzazione negoziale e di alcune delle ipotesi riconducibili alla previsione di cui all’art. 44, comma 1, lett. a, TUE – sempre che non si acceda a quell’opinione secondo cui le inosservanze punite da questa norma sono solo quelle commesse nell’ambito di attività edificatoria – l’esecutore dei lavori è un soggetto la cui condotta materiale (non importa se in concreto punibile o meno) è sempre necessaria per l’integrazione del reato. Poiché non tutti coloro che decidono di procedere ad interventi edilizi lo fanno in prima persona – trattandosi di attività che, di regola, richiede il possesso di determinate capacità, quando non l’impiego di una vera e propria organizzazione imprenditoriale – alla figura dell’esecutore materiale si affianca spesso quella del committente: il soggetto che decide di operare la trasformazione edilizia del territorio e che ne affida ad altri il compito . Anche questa figura trova espressa menzione nell’art. 29, comma 1, TUE.

In giurisprudenza sono moltissime le decisioni in cui si dà per scontata la responsabilità penale del committente e del costruttore dei lavori senza spendere soverchie argomentazioni al riguardo e, anzi, quando si discute del possibile concorso di altri soggetti lo si fa proprio in relazione alle condotte “tipiche” poste in essere da tali figure di autori (cfr., ex multis, Cass. Sez. III, 30.3.1999, Zarbo, CP, 2000, m. 663). Talune massime suonano addirittura (ed ingiustificatamente) come preclusive rispetto al possibile concorso di ulteriori rei:

il reato edilizio di cui all’ar. 20 legge 28.2.1985, n. 47 può essere addebitato solo a chi effettua le opere – nella specie destinate al mutamento funzionale – o a chi le commissiona

(Cass. Sez. III, 20.6.1996, Carli, RP, 1997, 516; CP, 1997, 3167).

Quello che è certo è che la punibilità di chi esegue le opere abusive non postula l’accertamento in capo al medesimo di alcun diritto, reale o di credito, sul bene oggetto dell’intervento, come si ricava dal seguente, risalente, principio:

la legge edilizia punisce colui che dà corso a lavori senza concessione, indipendentemente dalla proprietà del costruendo immobile

(Cass. Sez. III, 30.9.1988, Scamardella, CP, 1990, 308. Nello stesso senso: Cass. Sez. III, 25.11.1987, Tavani, CP, 1989, m. 821; Cass. Sez. V, 11.11.1999, Giovannella e a., GP, 2000, II, 287; CP, 2000, m. 1888).

Il principio è stato di recente ribadito:

in tema di violazioni edilizie costituenti reato, il committente si identifica in colui che ha la materiale disponibilità del bene oggetto dell'intervento abusivo, anche senza esserne il proprietario o senza avere con lo stesso un rapporto giuridicamente qualificato. (Fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità diretta del titolare di una procura speciale a vendere rilasciata da lungo tempo e comportante anche la disponibilità esclusiva dell'immobile).

(Cass., sez. 3, sent. n. 43608 del 15-09-2015, Rv. 265159)

Nemmeno è necessario che il rapporto di committenza si estrinsechi nella stipulazione di un contratto scritto d’appalto:

in tema di violazioni edilizie costituenti reato, il committente si identifica in chiunque concretamente si adoperi a realizzare l'opera abusiva, indipendentemente dall'assunzione di vincoli formali consacrati in stipulazioni contrattuali e dall'essere proprietario del suolo e, quindi, legittimato a chiedere il titolo abilitativo. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva fatto discendere la qualifica di committenti degli imputati dall'aver questi predisposto la documentazione urbanistica, dall'essere stati destinatari della "presa d'atto" a firma del responsabile dell'ufficio tecnico comunale, dall'aver richiesto una proroga per la presentazione della documentazione per l'eventuale rilascio di un permesso in sanatoria).

(Cass., sez. 3, sent. n. 21975 del 17-03-2016, Rv. 267107)

Quando l’intervento sia stato deciso nell’interesse di una persona giuridica o di un ente collettivo, è committente chi di fatto attribuisce l’incarico in rappresentanza del soggetto giuridico e/o ne controlla e supervisiona l’esecuzione. Di solito si tratta del legale rappresentante dell’ente:

nell’ipotesi in cui i lavori abusivi consistano in opere comunali, committente non deve essere considerato l’intero consiglio comunale, ma soltanto colui che, essendo il legale rappresentante <<pro tempore>> dell’ente territoriale, abbia conferito l’appalto

(Cass. Sez. III, 8.11.1991, Riva e a., CP, 1993, 1527).

Soltanto costui, dunque, assume la particolare posizione di garanzia che gli impone di controllare la conformità dell’esecuzione delle opere ai parametri di liceità previsti dalla legge (progetto, prescrizioni contenute nel titolo, disposizioni urbanistiche e normative; non anche, invece, il lecito smaltimento dei rifiuti prodotti: v. Cass. Sez. III, 28.1.2003, Capecchi, CP, 2004, 504). Se, tuttavia, sia già illecita la stessa decisione di dar corso ai lavori (ad esempio perché espressamente si deliberi di non munirsi del prescritto titolo abilitativo), saranno penalmente responsabili anche coloro che abbiano concorso a formare la volontà dell’ente e, eventualmente, gli organi ex lege competenti a controllarne l’operato:

in materia di costruzione senza concessione ad edificare, quando l’opera abusiva appartenga a una società per azioni, possono essere chiamati a rispondere del reato, oltre agli amministratori, anche, per effetto del meccanismo delineato dall’art. 40 cpv. c.p., i componenti del collegio sindacale ai quali spettano, secondo il catalogo enunciato dall’art. 2403 c.c., poteri di controllo, di vigilanza e di accertamento sull’attività di amministrazione e sul rispetto della legge, nonché obblighi d’intervento per scongiurare il verificarsi di danno al patrimonio sociale, quale quello riveniente dalla perdita di notevoli capitali impiegati nella realizzazione di una costruzione soggetta a provvedimento di demolizione

(Cass. Sez. Fer., 31.8.1993, Minelli, CP, 1994, 716).

Come sempre accade laddove un reato sia commesso nell’interesse di una persona giuridica, rileva anche l’ esercizio di fatto dei poteri di gestione dell’ente. Al di là della sicura rilevanza penale della condotta del vero e proprio amministratore di fatto, vale a dire di chi «esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione», secondo la definizione datane dall’art. 2639, 1° co., c.c., norma considerata come espressione di un principio generale che va al di là dei reati societari cui essa espressamente si riferisce, il committente è colui che, quale che sia il proprio formale rapporto giuridico con il soggetto che ha la disponibilità del bene oggetto di trasformazione, di fatto commissiona (segue, controlla) i lavori (v. Cass., sez. III, sent. n. 45146 del 08-10-2015, Rv. 265443 che ha ritenuto corretta l'affermazione di responsabilità del socio di un'associazione culturale che aveva personalmente seguito tutte le fasi di esecuzione dei lavori abusivamente realizzati).

Come anche si dirà analizzando la figura del direttore dei lavori, il committente risponde del reato materialmente commesso dal costruttore se la sua condotta – anche soltanto omissiva – sia sorretta almeno da colpa, sicché nulla potrà essergli imputato laddove, senza negligenza, egli non fosse a conoscenza del commesso abuso (per l’assoluzione dal reato di lavori in difformità dal titolo, accertato in corso d’opera senza che ne fosse stata provata la conoscenza, o conoscibilità, da parte del committente, v. Pret. Milano 21.3.1996, Laino e a., RGE, I, 1997, 1063).

Quanto agli esecutori dei lavori, di regola è il responsabile dell’impresa che assume l’incarico a dover controllare la regolarità edilizia degli stessi:

l’assuntore dei lavori di costruzione edilizia risponde della inosservanza delle leggi urbanistiche non a titolo di concorso, ma direttamente quale soggetto attivo del reato. Invero, nel caso in cui la liceità dei lavori è condizionata al rilascio della concessione edilizia, l’assuntore ha l’obbligo giuridico, prima di eseguire le sue prestazioni, di accertarsi che la concessione sia stata rilasciata

(Cass. Sez. III, 13.12.1983, Cirelli, CP, 1985, 983).

La violazione di tale obbligo può determinare, a seconda dei casi, responsabilità per dolo o colpa:

l'esecutore dei lavori edilizi ha il dovere di controllare preliminarmente che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, rispondendo a titolo di dolo del reato di cui all'art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in caso di inizio delle opere nonostante l'accertamento negativo, e a titolo di colpa nell'ipotesi in cui tale accertamento venga omesso

(Cass., sez. 3, sent. n. 16802 del 08-04-2015, Rv. 263474)

Nel caso in cui l’esecuzione dei lavori sia poi affidata, in tutto o in parte, in subappalto a terzi, una risalente giurisprudenza insegna che

quando il subappaltatore non lavora in situazione di assoluta autonomia, anche il subappaltante, che si ingerisca concretamente nella realizzazione delle opere edilizie, deve rispondere, quanto meno a titolo di concorso, nella consumazione del reato urbanistico, incombendo anche su costui l’obbligo di controllare che i lavori siano eseguiti previo rilascio della prescritta concessione e in conformità alla stessa

(Cass. Sez. III, 19.2.1988, Berton, CP, 1990, 144).

Più di recente la Cassazione è tornata sull’argomento, precisando – a quanto pare, senza richiedere la prova dell’ingerenza nella realizzazione delle opere – che

sussiste la responsabilità dell’appaltatore delle opere stesse anche nel caso in cui questi si sia avvalso nell’esecuzione dei lavori di un terzo quale subappaltatore, atteso che il primo in virtù dell’appalto aveva assunto il ruolo di soggetto incaricato della esecuzione delle opere

(Cass. Sez. III, 18.11.2003, Gentile, CP, 2005, 1378; GP, 2004, II, 661).

Il principio è condivisibile, anche perché in tal caso, qualora si volesse sostenere la non riconducibilità dell’appaltatore alla figura del “costruttore” di cui all’art. 29 TUE sul rilievo che egli non ha svolto concreta attività costruttiva, la responsabilità potrebbe comunque essergli attribuita a titolo di (sub)committente.

L’obbligo di astenersi dal realizzare lavori abusivi grava poi su chiunque partecipi alla loro esecuzione, sicché, quando l’impresa si avvalga di dipendenti non è esclusa un’eventuale corresponsabilità pure di questi ultimi:

anche i prestatori di lavoro subordinato possono rispondere degli abusi edilizi a titolo di colpa, trattandosi di reati contravvenzionali, sempre che non vi sia un problema di buona fede

(Cass. Sez. III, 13.7.1988, Di Santo, CP, 1989, 1819).

Per costoro, però, sarà necessaria una più penetrante indagine sulla sussistenza del necessario coefficiente psicologico e occorrerà distinguere anche in relazione alle mansioni in concreto disimpegnate nell’impresa, posto che, ad es., non può pretendersi che il semplice manovale esiga dal proprio datore di lavoro la prova della regolarità edilizia dell’opera (in ben diversa situazione si trova, per contro, il dipendente che svolga la mansioni di geometra responsabile del cantiere). Sembra ispirarsi a queste valutazioni il principio – nella fattispecie affermato in relazione all’illecito paesaggistico, ma certamente estensibile ai reati urbanistici – secondo cui

un semplice operaio non può essere ritenuto responsabile della contravvenzione di cui all’art. 1-sexies l. 8.8.1985, n. 431, in tema di tutela del paesaggio, in assenza di una prova di un suo concorso nel reato, che non può essere limitato alla mera esecuzione, in stato di subordinazione, delle attività materiali, richieste ed espletate per conto e sotto la direzione del proprietario

(Cass. Sez. III, 20.10.1995, Camilli, CP, 1997, 185).

Ciò nondimeno, laddove l’abusività dell’intervento emerga da chiari elementi indiziari, sì che sarebbe stato impossibile non accorgersene, del reato commesso risponderanno anche gli operai:

l’esecutore dei lavori – anche se muratore od operaio – risponde della contravvenzione, qualora sia accertata non soltanto la sua materiale collaborazione alla realizzazione dell’illecito ma anche e soprattutto la piena consapevolezza dell’abusività dei lavori. Nella specie le modalità di esecuzione delle opere dimostrano chiaramente la cosciente e volontaria compartecipazione alla violazione dei precetti penali: i lavori erano in corso di notte alla luce di un faro, in un giorno festivo, nel quale erano in corso le elezioni amministrative e, quindi, in momenti nei quali i controlli sono certamente inesistenti o minori

(Cass. Sez. III, 27.4.1999, Iacovelli, RGE, 2000, V, 974. Nello stesso senso, Cass. Sez. III, 25.3.2004, B., DPP, 2005, 581).

Secondo la giurisprudenza, poi, occorre distinguere tra abuso e abuso, giacché

in tema di reati edilizi, e specificamente di lavori di costruzione edilizia in assenza del relativo permesso, gli esecutori materiali dei lavori, che prestano la loro attività alle dipendenze del costruttore, possono concorrere, per colpa, nella commissione dell'illecito per il caso di mancanza del permesso di costruire, se non adempiono all'onere di accertare l'intervenuto rilascio del provvedimento abilitante, ma vanno esenti da responsabilità sia in caso di lavori eseguiti in difformità dal titolo, dal momento che la legge ha attribuito espressamente al direttore dei lavori l'obbligo di curare la corrispondenza dell'opera al progetto, sia in caso di mancato rispetto colposo delle nome urbanistiche e di piano, perché dalla responsabilità è esonerato già il direttore dei lavori, che è organo tecnico ben più qualificato

(Cass., sez. III, sent. n. 8407 del 30-11-2006, Rv. 236183).

La riportata massima – che peraltro costituisce soltanto un obiter dictum nell’economia della decisione – non appare tuttavia perspicua, avendo la Corte effettuato un ben più articolato ragionamento, che distingue a seconda del coefficiente psicologico di colpevolezza dei dipendenti e a seconda della natura dell’abuso. Vale dunque la pena di integralmente riprodurre la parte saliente della motivazione:

se l'atteggiamento psichico di coloro che collaborano alla realizzazione dell'illecito, fornendo un contributo morale o materiale alla costruzione abusiva sia pure nella mera qualità di dipendenti, consiste nella volontà di commettere un abuso edilizio, stante la consapevolezza che l'attività posta in essere viene effettuata in assenza o in difformità dal prescritto titolo abilitativo, ciascuno debba rispondere, a titolo di dolo, della relativa contravvenzione, ricorrendo tutti gli estremi (oggettivi e soggettivi) del concorso di persone nel reato. In questo caso neppure può valere ad escludere la responsabilità dei meri prestatori d'opera il fatto che essi abbiano realizzato la condotta illecita per ottemperare alle disposizioni impartite dal datore di lavoro, in quanto l'efficacia scriminante riconducibile alle previsioni dell'art. 51 c.p. non afferisce a rapporti, sia pure gerarchici, di natura privatistica.

Più delicata è la questione se l'omesso, negligente accertamento dell'esistenza del provvedimento edilizio abilitante, anche da parte degli esecutori materiali dell'opera che non rivestono la qualifica di costruttore, integri gli estremi della colpa e possa configurare un'ipotesi di concorso colposo nell'illecito urbanistico. Rileva al riguardo il Collegio che la giurisprudenza pressoché unanime considera configurabile il concorso colposo nelle contravvenzioni e - stabilendo l'art. 42 c.p., comma 4, la loro punibilità indifferentemente a titolo di dolo o di colpa si ricordi che dottrina e giurisprudenza considerano altresì ammissibile, in linea di principio, pure il concorso dell'estraneo nel reato proprio - deve ammettersi che più persone possano partecipare alla commissione di una contravvenzione anche se la loro condotta è sorretta da atteggiamenti psichici eterogenei.

In caso di mancanza del permesso di costruire, pertanto - a giudizio del Collegio - anche i meri esecutori materiali possono rispondere direttamente per colpa con riferimento alla disciplina posta dall'art. 110 c.p. (salvi i casi di erroneo convincimento scusabile), dovendo essi sottostare all'onere di accertare l'intervenuto rilascio del provvedimento abilitante, onere che - come si è detto - non incombe soltanto sui soggetti indicati dal TU. n. 380 del 2001, art. 29.

Non è in questione, pertanto, lai individuazione della sussistenza di un obbligo giuridico di impedimento dei reati ai sensi dell'art.40 cpv. c.p.. Per i lavori eseguiti in difformità dal titolo, invece, deve rilevarsi che la legge ha attribuito espressamente al direttore dei lavori l'obbligo di curare la corrispondenza dell'opera al progetto, sicché la diligenza richiesta agli operai non può estendersi alla verifica dell'osservanza puntuale delle previsioni e prescrizioni assentite (fatti salvi i casi di realizzazione di piani ulteriori o parti aggiuntive rilevanti, nonché quelli di opere assolutamente non riferibili a quelle assentite).

Deve escludersi, infine, la responsabilità degli esecutori materiali per il mancato rispetto colposo delle norme urbanistiche e di piano, laddove si consideri che da tale responsabilità è esonerato già il direttore dei lavori, che è organo tecnico ben più qualificato

(Cass., sez. III, sent. n. 8407 del 30-11-2006, Rv. 236183).

La distinzione circa il grado di colpevolezza necessario affinché possa affermarsi la responsabilità dei dipendenti rispetto a quello dei lavoratori non subordinati emerge da una successiva sentenza che – rigettando il ricorso proposto dagli imputati, esecutori materiali dei lavori non operanti in regime di subordinazione, i quali invocavano quale precedente la decisione Iacovelli più sopra richiamata per essere mandati assolti dal reato urbanistico – ha chiarito che

l’interpretazione di cui al citato arresto giurisprudenziale (…) deve essere riferita, ed in ogni caso appare condivisibile, solo con riferimento al personale operaio, che esegue i lavori alle dipendenze di una impresa assuntrice delle opere, ma non anche nell’ipotesi dei coimputati in concorso con il committente (…) che abbiano assunto direttamente in proprio l’esecuzione dei lavori. In tal caso, invero, si palesa del tutto ingiustificato un esonero del diretto assuntore dei lavori dagli obblighi di doverosa diligenza richiesta nello svolgimento di una attività soggetta, ai fini della liceità, al rilascio di concessione amministrativa

(Cass. Sez. III, 30.5.2003, Pasca, CP, 2004, 1347).

La responsabilità di chi partecipi alla realizzazione delle opere postula tuttavia che possa apprezzarsene la possibile rilevanza penale ai sensi della legislazione urbanistica. Se, dunque, taluno effettui lavori di mera finitura di un fabbricato e non vi è prova che sapesse di cooperare all’ultimazione di un abuso edilizio, non potrà esserne ritenuto responsabile (v. Cass., sez. III, sent. n. 8407 del 30-11-2006, Rv. 236183, che ha annullato la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. b), TUE di alcuni operai sorpresi ad effettuare lavori di rivestimento in pietra locale di porzioni di pareti esterne di un manufatto abusivo).

La qualifica di soggetto che esegue i lavori può attagliarsi anche a chi si limiti alla installazione di un prefabbricato, magari dopo averlo venduto. La Cassazione ha al proposito insegnato che, sebbene la vendita del manufatto

non sia sufficiente ad integrare gli estremi della contravvenzione di cui agli artt. 31 e 41 l. 17.8.1942 n. 1150, quando, però, il venditore – o chi per lui – presta la propria assistenza tecnica per il montaggio del prefabbricato (personale specializzato e macchinari) egli partecipa alla realizzazione dell’opera abusiva (Nella specie, la S.C., dopo avere qualificato <<assuntore dei lavori>> l’imputato, titolare di ditta incaricata, per conto della società venditrice, di fornire all’acquirente di capannoni operai specializzati per il loro montaggio, ha osservato che il medesimo imputato aveva l’obbligo di accertarsi che l’acquirente avesse ottenuto la concessione edilizia)

(Cass. Sez. III, 18.3.1988, Miliotti, CP, 1989, 2256).

Il contributo dato all’esecuzione di opere abusive, tuttavia, sarà penalmente rilevante soltanto se costituisca una fase di attività che, per sua natura, rilevi come illecita alla stregua delle disposizioni incriminatrici. Così, ad esempio,

l’installatore di una cella frigorifera su opere abusivamente realizzate dal proprietario (una soletta di cemento armato ed una tettoia) non concorre nel reato addebitabile a quest’ultimo nel caso di mancato rilascio della concessione edilizia, poiché la mera collocazione di un impianto non costituisce parte integrante dell’opera di trasformazione del territorio. Diversamente, infatti, nessuna delle attività, per quanto subalterne e trascurabili, potrebbe sottrarsi alle conseguenze penali del mancato rilascio della concessione edilizia al proprietario, perché anche l’attività dell’idraulico vale a rendere integra l’opera edilizia illegittima

(Cass. Sez. III, 23.6.1987, Urdin, CP, 1989, 275).

6.1. Il direttore dei lavori: la responsabilità per omissione….

Di regola, la realizzazione di opere edili soggetta al permesso di costruire avviene sotto la supervisione di un tecnico che – anche in forza di cogenti disposizioni di regola dettate dalla normativa regionale - assume il ruolo di direttore dei lavori. Si tratta di un soggetto, normalmente un libero professionista, che, nell’interesse del committente ed in forza di un accordo negoziale, segue l’attività di esecuzione dei lavori per verificare che gli stessi si svolgano in conformità al progetto e per risolvere eventuali problemi tecnici che insorgano in corso d’opera. Laddove il professionista compia attività dirette alla realizzazione di un abuso – concorrendo materialmente o moralmente con l’esecutore materiale e/o il committente in una trasformazione edilizia del suolo in assenza o in difformità del necessario titolo abilitativo – non v’è dubbio che egli ne debba rispondere secondo le ordinarie norme sul concorso di persone nel reato. Probabilmente non potrebbe dirsi altrettanto, invece, nel caso in cui, in presenza di un’opera regolarmente assentita, rimanga inerte e non impedisca a terzi (in particolare all’esecutore dei lavori e al committente) di commettere un reato realizzando l’opera in difformità dal progetto. In ogni caso – trattandosi di incombente del tutto estraneo al mandato negoziale ricevuto e che, anzi, si porrebbe in contrasto con il vincolo fiduciario che ne è alla base – il direttore dei lavori non sarebbe tenuto a “vegliare” sul committente, affinché questi non commetta abusi.

Al fine di realizzare una tutela più forte dei beni oggetto di protezione penale, però, il legislatore ha da tempo configurato in capo al direttore dei lavori una posizione di garanzia per il rispetto della normativa urbanistica ed edilizia (così, espressamente, Cass. Sez. III, 24.2.2004, Soldà e a., GP, 2005, II, 170; CP, 2005, 1377) e, si badi, lo ha fatto non soltanto addebitandogli le conseguenze penali dell’omesso controllo sulla corretta esecuzione delle opere a cura del terzo assuntore, ma imponendogli altresì di vigilare sull’operato del suo stesso committente. Non v’è dubbio, pertanto, che il legislatore abbia qui esteso la responsabilità soggettiva penale a persone che, sulla base delle regole generali, con riguardo a condotte meramente omissive, non avrebbero potuto assumere la veste di concorrenti. In relazione a questo aspetto, dunque, la vera portata del principio oggi contenuto nell’art. 29, comma 1, TUE non è quella di “restringere” l’area dei possibili soggetti attivi delle contravvenzioni urbanistiche, bensì di ampliarla.

Le considerazioni svolte sul ruolo di possibile concorrente nel reato del direttore dei lavori sono da tempo pacifiche in giurisprudenza, posto che già sulla base dell’art. 31, u.c., della legge urbanistica fondamentale si sosteneva che

fra i soggetti attivi del reato urbanistico la responsabilità penale del direttore dei lavori, come tale risultante dagli atti allegati alla richiesta di concessione depositati al comune, si giustifica nel dovere che incombe a costui di accertare i presupposti legali indispensabili prima dell’inizio dei lavori commissionati e di constatare la perfetta corrispondenza dell’opera in fase di esecuzione rispetto al progetto approvato. Ove difformità siano riscontrate, il direttore dei lavori deve formalmente e puntualmente dissociarsi, informandone il committente e l’autorità comunale onde evitare il concorso nel medesimo reato

(Cass. Sez. III,5.12.1983, Fransci, CP, 1985, 747).

Quest’onere di « dissociazione », tuttavia, non risultava ex lege, sicché la successiva disciplina recepì l’insegnamento giurisprudenziale e lo articolò in una disposizione normativa che, dall’art. 6, comma 2, l. 47/1985 è confluita nel testo unico in materia edilizia:

il direttore dei lavori non è responsabile qualora abbia contestato agli altri soggetti la violazione delle prescrizioni del permesso di costruire, con esclusione delle varianti in corso d’opera, fornendo al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale contemporanea e motivata comunicazione della violazione stessa. Nei casi di totale difformità o di variazione essenziale rispetto al permesso di costruire, il direttore dei lavori deve inoltre rinunciare all’incarico contestualmente alla comunicazione resa al dirigente. In caso contrario il dirigente segnala al consiglio dell’ordine professionale di appartenenza la violazione in cui è incorso il direttore dei lavori, che è passibile di sospensione dall’albo professionale da tre mesi a due anni

(art. 29, comma 2, TUE).

La disposizione delinea una causa personale di non punibilità che vale esclusivamente per il reato nella forma omissiva . E’ implicito nella norma, cioè, che in questi casi la condotta abusiva appartiene ad altri soggetti e il direttore dei lavori può liberarsi da responsabilità «soltanto ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all’incarico prima previsti dall’art. 6 l. 28.2.1985, n. 47 ed ora dall’art. 29 d.P.R. n. 380 del 2001» (Cass. Sez. III, 24.2.2004, Soldà e a., CP, 2005, 1377; in termini, Cass. Sez. III, 27.6.1995, Solano, RGE, I, 849). In questo modo, secondo il tassativo modello legale, il professionista adempie agli obblighi che la posizione di garanzia gli impone e la giurisprudenza è piuttosto severa nell’esigere la dimostrazione della “dissociazione”:

la rinunzia all’incarico – o le dimissioni – deve essere rigorsamente provata e risultare ufficialmente, non essendo sufficiente un semplice accordo intervenuto tra gli interessati

(Cass., sez. III, 16.4.1997, Bordato, CP, 1998, 2118).

Altrettanto rigore, peraltro giustificato, si riscontra nel principio secondo cui

la reponsabilità penale del direttore dei lavori non può escludersi in relazione alla prospettazione del carattere meramente fittizio della prestazione, finalizzata ad un’ottemperanza soltanto formale di precetti normativi regolarmentari, tenuto conto della rilevanza che il rapporto di direzione dei lavori, consapevolmente assunto, acquista sul piano pubblicistico attraverso la comunicazione di esso al comune

(Cass., sez. III, 27.6.1995, Solano, RP, 1996, 778. Esattamente in termini, Cass., sez. III, 25.11.1997, Positano, CP, 1999, 265).


Ancora, laddove tempestivamente non si “dissoci” – insegna la giurisprudenza - il direttore dei lavori è responsabile anche per abusi commessi prima della sua investitura, in quanto

su di lui grava una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione dell’opera, sicché solo seguendo la procedura di cui all’art. 6 l. n. 47 del 1985, che impone un obbligo di comunicazione e di rinuncia all’incarico, qualora si tratti di totale difformità o di variazioni essenziali, può andare esente da responsabilità, tanto più che si è in presenza di un reato permanente. Pertanto, non assume rilievo l’epoca in cui è stata eseguita la soletta, giacché, altrimenti, sarebbe possibile sostituire i vari direttori dei lavori per escludere la loro responsabilità in relazione a violazioni da altri commesse sulla costruzione ancora non ultimata senza che agli stessi incomba come previst odalla legge un obbligo di vigilanza

(Cass. Sez. III, 28.1.2003, Pedrazzini e a., GP, 2004, II, 175).

Non si tratta, tuttavia, di una responsabilità oggettiva, essendo sempre necessario che il tecnico «sia cosciente della esecuzione illecita e, volutamente o per negligenza, non ponga in essere quanto gli si impone» (Cass. Sez. III, 4.2.1994, Romagnolo, RP, 1995, 812). Come si legge nella motivazione di altra decisione, la norma

non pone a carico del direttore dei lavori una presunzione di colpevolezza per l’abuso edilizio non denunciato, ove non abbia di fatto concorso a commetterlo. Dalla disposizione per cui il drettore dei lavori che abbia contestato agli altri soggetti la violazione delle prescrizioni della concessione edilizia, fornendo al sindaco contemporanea e motivata comunicazione della violazione stessa, non è responsabile non si può trarre l’opposta affermazione che egli si consideri concorrente nel reato per il solo fatto di aver omesso quelle formalità, la cui omissione, in difetto di concorso comporta solo a suo carico la segnalazione del sindaco al consiglio dell’ordine professionale di appartenenza al fine della sanzione della sospensione dall’albo professionale da tre mesi a due anni. Tuttavia, l’omissione della denuncia costituisce un comportamento di fatto oggettivamente rilevante, nel contesto delle prove raccolte, per la valutazione della condotta del direttore dei lavori e la determinazione del suo contributo concorsuale alla commissione del reato

(Cass. Sez. III, 16.3.2000, Pellegrini, RP, 2000, 1013).

Ciò significa, ad esempio, che non potrà essere ritenuto responsabile il direttore dei lavori che svolga il proprio compito con adeguata diligenza, recandosi periodicamente in cantiere, ma non si accorga dell’abuso perpetrato da altri soggetti successivamente all’ultima sua visita e subito scoperto dagli organi di vigilanza prima che egli se ne potesse rendere conto. Lo pone in luce una recente decisione di legittimità, nella quale si precisa che

il recesso tempestivo dalla direzione dei lavori, in ogni caso, deve ritenersi pienamente scriminante per il professionista e la <<tempestività>> ricorre quando il recesso intervenga non appena l’illecito edilizio obiettivamente si profili, ovvero appena il direttore dei lavori abbia avuto conoscenza che le corrette direttive da lui impartite siano state disattese o violate

[Cas. Sez. III, 10.5.2005, Scimone e a., GD, 2005, (44), 89].

Allo stesso modo, in sede di giurisdizione di merito si è esclusa la responsabilità dei titolari della posizione di garanzia per il reato di costruzione in difformità dal titolo, sul rilievo che

l’errorenea esecuzione delle opere determinata dalla imprecisione del progetto non è provato fosse a conoscenza del committente e del direttore dei lavori (non essendovi elemento alcuno in atti per stabilire quando i muri lato sud ed est al primo piano fossero stati costruiti, potendo cioè il fatto esser accaduto anche il giorno prima dell’accertamento)

(Pret. Milano 21.3.1996, Laino e a., RGE, 1997, I, 1064).

La giurisprudenza è tuttavia rigorosa nell’affermare che chi assume l’incarico di direttore dei lavori ha il dovere di vigilare costantemente sull’esecuzione degli stessi, non potendo conseguentemente addurre a propria discolpa il fatto di essersi assentato, soprattutto se per un tempo eccessivo, dal cantiere:

in tema di reati edilizi, l'assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l'onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all'incarico

(Cass., sez. III, sent. n. 7406 del 15-01-2015, Rv. 262423).

Circa la natura delle difformità dal progetto che impongono la più radicale reazione del titolare della posizione di garanzia – vale a dire la rinuncia all’incarico - la legge prevede che si tratti di variazione essenziale o difformità totale, sicché tale forma di “dissociazione” non sarà necessaria nel caso di difformità soltanto parziale. Ove tale eventualità si verifichi, il direttore dei lavori potrà andare esente da responsabilità limitandosi a contestare agli altri soggetti la violazione e ad informare le autorità comunali competenti. Opportunamente, invece, si prevede che nulla sia necessario fare nel caso in cui la difformità rispetto al progetto abbia le caratteristiche della variante in corso d’opera: in tal caso, infatti, sarà possibile presentare una s.c.i.a. in variante sino al momento della presentazione della dichiarazione di ultimazione dei lavori e, in caso di eventuale inosservanza, il fatto non integra gli estremi di reato (cfr. art. 22, commi 2 e 2 bis , TUE). La ratio della previsione induce a ritenere che nel richiamare le varianti in corso d’opera l’art. 29, comma 2, TUE intenda riferirsi alle sole varianti c.d. “leggere”, vale a dire quelle che rispondono ai requisiti indicati nell’art. 22, TUE, le quali impediscono altresì lo svolgimento delle attività di vigilanza urbanistica ed edilizia. In caso contrario, non v’è ragione di escludere l’attivazione del titolare della posizione di garanzia, poiché la difformità è certamente illecita ed impone un’immediata reazione, anche da parte degli organi di vigilanza.

6.1.1. …e quella (più ampia) per concorso attivo .

Si è detto che con riguardo al direttore dei lavori la previsione contenuta nell’art. 29, commi 1 e 2, TUE delinea una posizione di garanzia, idonea a costituire quell’obbligo giuridico di impedire l’evento che, in caso di violazione, comporta responsabilità penale per l’art. 40, comma 2, c.p. In questo senso si spiega il principio secondo cui, nella particolare forma della condotta omissiva, l’illecito del direttore dei lavori può essere definito

un reato <<proprio>>, dirigendosi il precetto non a <<chiunque>>, ma a quel soggetto che, in relazione all’attività edilizia in corso, riveste la qualifica di direttore dei lavori, sicché qualora l’attività sia cessata, è la stessa qualifica che è venuta meno, conseguendone che colui il quale l’aveva rivestita, avendola dismessa, torna a divenire estraneo alla previsione normativa

(Cass. Sez. III, 4.2.1994, Romagnolo, RP, 1995, 812).

Secondo altra giurisprudenza,

il direttore dei lavori non diventa immune da responsabilità penale con la semplice scadenza del termine di validità della concessione edilizia, se i lavori proseguono oltre detto limite temporale e se egli non abbia ufficializzato ritualmente la sua estraneità agli stessi, con espressa rinuncia all’incarico portata a conoscenza della competente autorità amministrativa

(Cass. Sez. III, 24.6.1997, Fumo, RP, 1997, 1020).

Al di là degli aspetti relativi alla titolarità della carica “formale” di direttore dei lavori, deve tuttavia osservarsi che la “estraneità” alla previsione normativa di cui al vigente art. 29 TUE, della quale parla la citata sentenza Romagnolo, non significa certo estraneità alla fattispecie di reato. Se, infatti, il “direttore dei lavori” – che mai abbia formalmente assunto tale veste con rituale comunicazione al comune, ovvero che sia cessato dalla carica formale – si ingerisce nell’attività edilizia ed apporta un attivo contributo materiale o morale all’altrui condotta illecita, certamente ne risponde in forza dei principi generali sul concorso di persone nel reato. In questo senso dev’essere inteso il principio giusta il quale

in materia di reati edilizi può essere qualificato direttore dei lavori anche colui che, sfornito del titolo per svolgere la specifica attività partecipi attivamente e concretamente ai lavori in posizione preminente rispetto all’esecuzione materiale, dando ordini agli operai e predisponendo i tempi dell’opera

(Cass. Sez. III, 24.6.1988, Dapaz, CP, 1989, 1555).

Allo stesso modo – pur non potendo rispondere per omesso impedimento del reato commesso da altri, giacché la posizione di garanzia vale soltanto per chi abbia assunto anche sul piano formale la veste di direttore dei lavori sul piano urbanistico – altri tecnici che in qualche misura partecipino attivamente alla realizzazione delle opere abusive potranno essere chiamati a rispondere delle contravvenzioni in esame. Può pensarsi, ad es., al direttore dei lavori strutturali, vale a dire al tecnico che assume la responsabilità di dirigere l’esecuzione delle opere in conglomerato cementizio o a struttura metallica, ovvero di quelle effettuate nelle zone sismiche, per assicurarne la rispondenza al progetto tecnico esecutivo (artt. 64, commi 3 e 5, e 93, comma 2,TUE). In alcuni casi, poi, tale generica qualifica viene utilizzata anche per individuare il tecnico che svolge funzioni di «rappresentante dell’ente appaltante con lo specifico compito di tutelare l’esecuzione a regola d’arte in conformità al capitolato d’appalto» (Cass. Sez. III, 24.2.2004, Soldà e a., GP, 2005, II, 173). Questi soggetti possono essere diversi – e, di regola, in concreto lo sono - da chi assume la veste di direttore dei lavori “architettonici” («come tale risultante dagli atti allegati alla richiesta di concessione depositati in comune», precisa Cass. Sez. III, 5.12.1983, Fransci, CP, 1985, 747), che assume la responsabilità della conformità urbanistica al progetto approvato con il permesso di costruire e al quale soltanto si riferisce la disposizione di cui all’art. 29 TUE. Per loro, dunque, non esiste alcuna posizione di garanzia, sicché non sono tenuti a verificare anche la conformità urbanistica delle opere e a dissociarsi in caso di eventuale violazione, ma laddove essi concorrano attivamente alla realizzazione del reato urbanistico – ad es. dando consigli o direttive per eseguire lavori difformi dal progetto – certamente risponderanno del reato in concorso con gli autori materiali (Cass. Sez. III, 24.2.2004, Soldà e a., GP, 2005, II, 170). Lo stesso accadrà per chi, pur senza averne l’abilitazione professionale, diriga “di fatto” i lavori, ma anche in questo caso la sua corresponsabilità va limitata alle condotte attive e non all’omesso controllo. Soltanto in questi termini può allora condividersi il principio secondo cui

in materia di reati edilizi, l’imputato il quale partecipi ai lavori che si svolgono sulla proprietà della moglie, dando gli ordini agli altri operai e predisponendo i tempi dell’opera, rettamente va qualificato, con conseguente affermazione di responsabilità, direttore dei lavori. Infatti tale attribuzione, pur nella carenza di un titolo per svolgere l’attività specifica cui fa riferimento la legge edilizia, gli spetta per la sua partecipazione attiva e concreta ai lavori e per il ruolo svolto oltre quelli che rientrano nell’ambito della esecuzione materiale

(Cass. Sez. III, 20.1.1984, Raviolo, CP, 1985, 983).

Oltre che sul piano soggettivo, la responsabilità commissiva del direttore dei lavori è più ampia di quella a cui fa riferimento l’art. 29 TUE con riguardo all’area delle difformità penalmente rilevanti. La citata disposizione, invero, è piuttosto chiara nel limitare la posizione di garanzia del direttore dei lavori alla sola conformità delle opere al progetto e alle prescrizioni contenute nel permesso di costruire ed in ciò distingue la situazione del professionista da quella degli altri soggetti indicati (il titolare del permesso, il committente e il costruttore), la cui responsabilità è invece estesa anche alla conformità delle opere alla normativa urbanistica e alle previsioni di piano. Contrariamente a quel che si era talora sostenuto sulla base della disciplina anteriore alla l. 47/1985 (v. Cass. Sez. III, 3.4.1984, Palladino, CP, 1985, 1654 e Cass. Sez. III, 8.4.1988, Visciglia, CP, 1989, 1077, che affermano la responsabilità del direttore dei lavori per omesso controllo dello svolgimento delle opere anche con riguardo alla conformità alle leggi urbanistiche), la posizione di garanzia prevista ex lege vale soltanto per la conformità delle opere al permesso di costruire. Questo non significa, tuttavia, che il direttore dei lavori non debba rispondere penalmente – non per omesso controllo, ma per lo svolgimento di una condotta attiva, materiale o morale, che contribuisce alla realizzazione del reato – insieme a chi, ad es., costruisca in base ad un titolo illecito, come tale da considerarsi tamquam non esset (lo sottolinea App. Catania 21.10.1996, Santo e a., RGE, 1997, I, 411). Lo stesso vale – nei limiti di quanto abbiamo più sopra osservato nella PARTE PRIMA – nel caso di edificazione in base ad un permesso meramente illegittimo o, comunque, nel caso di violazione degli strumenti urbanistici, del regolamento edilizio o della disciplina legislativa la cui inosservanza integra gli estremi dell’ipotesi di reato residuale di cui alla lett. a) della fattispecie incriminatrice. Al proposito la stessa Cassazione ha insegnato che

il direttore dei lavori non è, a norma dell’art. 6 della legge 28.2.1985, n.47, tenuto al controllo della conformità dell’opera alle prescrizioni urbanistiche, ma ben può concorrere (al pari di altri soggetti) nella relativa violazione allorché alla realizzazione di questa abbia dato un contributo causalmente efficiente (il che si verifica inevitabilmente nell’ipotesi di concessione edilizia macroscopicamente illegittima)

(Cass. Sez. III, 12.6.1996, Venè e a., GP, 1997, II, 510. Per un’altra applicazione in caso di opera illegittimamente autorizzata in assenza del necessario piano di lottizzazione, v. Cass. Sez. III, 3.4.1984, Palladino, CP, 1985, 1654).

Parimenti, sussisterà responsabilità penale per la contravvenzione di prosecuzione dei lavori sospesi laddove il professionista continui a prestare la propria attività in cantiere nonostante sia a conoscenza dell’ordine di sospensione dei lavori o, ancora, per il reato di lottizzazione abusiva laddove i lavori si svolgano in conformità al permesso di costruire rilasciato ma in assenza della necessaria autorizzazione a lottizzare.

Le conclusioni raggiunte e le ragioni che le giustificano sono quelle stesse sottese al principio secondo cui

il direttore dei lavori non risponde degli illeciti edilizi commessi da altri nel corso delle opere soggette al regime della sola autorizzazione e provviste del provvedimento di assenso, in virtù della sola omissione di controllo, essendo necessario un effettivo contributo, materiale o morale, alla commissione dell’illecito altrui

(Cass. Sez. III, 17.12.2002, Spertini, UA, 2003, 367)

La posizione di garanzia, di fatti, è limitata alla verifica di conformità delle opere al titolo abilitativo richiesto per le più incisive trasformazioni urbanistiche ed edilizie del territorio, ieri la concessione edilizia, oggi il permesso di costruire. Per questo nel caso appena richiamato la Corte Suprema ha accolto il ricorso proposto dal direttore dei lavori che era stato condannato per avere omesso di verificare la conformità delle opere eseguite in un caso in cui, trattandosi di intervento soggetto ad autorizzazione edilizia regolarmente rilasciata, si era in realtà realizzato un manufatto difforme dal progetto e bisognevole di concessione edilizia, senza che fosse provato il concorso morale o materiale del professionista diverso dall’omessa vigilanza. Laddove, però, sussista un effettivo contributo causale commissivo del direttore dei lavori – che, ad es., presti la propria attività professionale per consentire la realizzazione dell’abuso – questi potrà rispondere della contravvenzione urbanistica in concreto ravvisabile anche se l’originario progetto era stato assentito con semplice s.c.i.a.

A questo proposito, giova osservare come il mancato adeguamento lessicale dell’art. 29 TUE al mutato regime dei titoli abilitativi edilizi faccia sorgere un problema interpretativo: quid iuris, nel caso di omesso controllo dell’esecuzione di opere assentite con s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire ? La lettera della legge sembrerebbe escludere che rilevi la posizione di garanzia, ma, a ben vedere, la conclusione non convince. Ed invero, se da un lato si guarda all’assoluto parallelismo che, sul piano sanzionatorio, il testo unico in materia edilizia instaura tra la situazione di opere soggette al permesso di costruire e quelle soggette alla s.c.i.a. ad esso alternativa e, d’altro lato, si pone mente alla natura riepilogativa della precedente disciplina normativa (e non invece innovativa della stessa) che deve riconoscersi al decreto delegato che lo ha approvato, è preferibile ritenere che il direttore dei lavori risponda a titolo di omissione anche nel caso in cui trascuri di esercitare l’obbligo di vigilanza per la conformità al progetto di opere assentite con s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire richiesto dalla disciplina di fonte statale. Per analoghe – e simmetricamente contrarie – ragioni, il tecnico risponderà invece soltanto a titolo di concorso commissivo nell’altrui reato se questo tragga origine dalla difforme esecuzione delle opere rispetto ad un progetto approvato con permesso di costruire richiesto ai sensi dell’art. 22, comma 7, TUE, ovvero previsto dalle leggi regionali adottate ai sensi dell’art. 22, comma 4, TUE.

6.2. Il titolare del permesso di costruire.

L’ultimo soggetto espressamente indicato nell’art. 29 TUE quale responsabile della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano e alle prescrizioni contenute nel permesso è il titolare del permesso di costruire, spesso – ma non necessariamente – coincidente con la figura del committente. Il testo unico in materia edilizia, sostanzialmente confermando le previgenti disposizioni, prevede che

il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo

(art. 11, comma 1, TUE).

Al di là del proprietario dell’immobile oggetto dell’intervento edilizio, la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto che il diritto di ottenere il rilascio del permesso spetta a chiunque, in forza di diritto reale o di credito, sia titolare del ius aedificandi, come il comproprietario (qualora l’intervento in progetto non alteri la destinazione della cosa comune e non ne impedisca l’uso da parte degli altri comproprietari), l’usufruttuario (sempre che i lavori non comportino un mutamento di destinazione del bene oppure vi sia il consenso del nudo proprietario), il titolare di un diritto di servitù, l’affittuario, il promissario acquirente che si trovi nel possesso del bene. All’operatore del diritto penale non interessa approfondire il tema dei soggetti legittimati ad ottenere il permesso di costruire: ciò che rileva per l’accertamento dell’eventuale corresponsabilità nel reato urbanistico è la mera titolarità del permesso. Così come per il direttore dei lavori, si tratta della configurazione di una posizione di garanzia : chi è titolare del permesso ha l’obbligo giuridico di controllare che l’opera sia eseguita in conformità al progetto e alle prescrizioni del provvedimento amministrativo, nonché – ed in ciò la posizione di garanzia è più ampia rispetto a quella del direttore dei lavori - alla disciplina normativa e urbanistica vigente.

Per le stesse ragioni espresse al paragrafo precedente, nonostante la norma faccia riferimento al solo permesso di costruire, deve ritenersi che analoga responsabilità gravi sul titolare dell’equipollente s.c.i.a.

Il titolo – come si specifica con riguardo al permesso di costruire, ma con disposizione suscettibile d’essere estesa alla s.c.i.a. - «è trasferibile, insieme all’immobile, ai successori o aventi causa» (art. 11, comma 2, TUE). Si è al proposito osservato che

la possibilità, riconsosciuta dalla legge, che il permesso di costruire sia trasferito a favore di un soggetto diverso dall’intestatario <<insieme all’immobile>> sembra implicare l’operatività immediata ed automatica del trasferimento, al di fuori di ogni controllo preventivo dell’autorità comunale. La norma, così concepita, potrebbe essere ricondotta, anch’essa, all’esigenza della semplificazione che costituisce un leitmotiv del Testo unico in materia edilizia

(Stevanato 2003a, 196).

Lo stesso Autore riconosce, tuttavia – e la conclusione ci trova concordi – come «la voltura sia ancora necessaria, almeno come presa d’atto da parte dell’amministrazione comunale dell’avvenuto subingresso, previo controllo dell’effetttiva qualifica del nuovo soggetto di successore nel rapporto giuridico» (Stevanato 2003a, 196). Ciò significa che, in mancanza di voltura del provvedimento amministrativo, il titolare del permesso (e della posizione di garanzia prevista dall’art. 29, comma 1, TUE) continua ad essere il dante causa. Per le regole generali sul concorso di persone nel reato non è tuttavia esclusa la possibile responsabilità penale dell’avente causa, ma solo a titolo di concorso attivo.

.

7. La querelle sulla responsabilità del proprietario per omessa vigilanza: la tesi affermativa…

Nella maggior parte dei casi il titolare del permesso di costruire è anche proprietario dell’immobile (terreno o edificio) oggetto della trasformazione edilizia o urbanistica. Quando così non sia oppure quando si tratti di opera completamente abusiva, non preceduta dall’ottenimento di alcun titolo edilizio, occorre chiedersi se il proprietario del bene possa essere chiamato a rispondere del reato urbanistico in concorso con chi l’abbia materialmente commesso per non averne impedito la consumazione da parte di costoro, tra cui, spesso, vi è il comproprietario. Il problema ha originato una querelle giurisprudenziale sulla quale si è ora formato un orientamento largamente condiviso.

In passato si era affermato –in alcune pronunce con identica motivazione, redatte dal medesimo estensore – che al quesito andava data soluzione affermativa per un duplice ordine di ragioni (nello stesso senso, ma senza alcuna particolare motivazione, Pret. Napoli, 10.2.1983, Ciotola, GM, 1985, III, 465) . In primo luogo, si osservava,

il proprietario, il quale, essendo consapevole che sul suo terreno viene eseguita da un terzo una costruzione abusiva e potendo intervenire, deliberatamente se ne astiene, così facendo tiene una condotta omissiva, che condiziona rendendola possibile l’azione esecutiva dell’opera abusivamente costruita, la quale è, quindi, conseguenza diretta anche della sua omissione. L’ipotesi s’inquadra perciò nella previsione del primo e non del secondo comma dell’art. 40 c.p., perché il rapporto giuridico esistente tra il proprietario ed il bene del quale ha diritto di disporre qualifica l’omissione pur sempre come risultato di un atto di gestione compiuto nell’esercizio del diritto di proprietà, senza che per l’esistenza del rapporto di causa-effetto occorra un ulteriore obbligo giuridico di impedire l’evento

(Cass. Sez. III, 12.7.1999, Cuccì, CP, 2000, 2752; Cass. Sez. III, 14.7.1999, Mareddu e a., RP, 2000, 29; Cass. Sez. III, 14.10.1999, Di Salvo, CP, 2001, 3518 s.).

In secondo luogo,

il principio generale affermato nell’art. 41 comma 2 Cost., della funzione sociale della proprietà e dei limiti che al contenuto del diritto si possono apportare per assicurarne la realizzazione – e il regime concessorio, cui è sottoposto in base alla L. 28.1.1977 n. 10 il diritto del proprietario di edificare sul terreno di sua proprietà ne costituisce un esempio (Corte cost. 21.4.1983 n. 127) – comporta che il proprietario non possa utilizzare la cosa propria né consentire che altri la utilizzi in base al generale principio del neminem laedere, sancito negli artt. 2043 ss. c.c., in modo che ne derivi danno ai consociati ed abbia l’obbligo giuridico di non consentire che l’evento dannoso o pericoloso si realizzi (v. Sez. IV, 6.12.1990, n. 4793, Bonetti, secondo la quale la norma dell’art. 40 cpv. c.p. può e deve essere interpretata in termini solidaristici, avendo presenti le norme degli artt. 2, 32 e 41 – e, si aggiunge qui, per la medesima ratio dell’art. 42 – della Costituzione; contra, Sez. III, 27.10.1995, n. 300, Abbate). Di qui l’esistenza del rapporto di causalità anche sotto il profilo considerato dall’art. 40 comma 2 c.p.

(Cass. Sez. III, 12.7.1999, Cuccì, CP, 2000, 2752; Cass. Sez. III, 14.7.1999, Mareddu e a., RP, 2000, 29; Cass. Sez. III, 14.10.1999, Di Salvo, CP, 2001, 3519).

Da ultimo si poneva in luce che

la questione, così risolta sotto il profilo del nesso di causalità, per quanto riguarda la natura della condotta si prospetta quanto meno sotto l’aspetto del concorso morale, non potendosi dubitare che anche la semplice tolleranza da parte di chi ha la disponibilità giuridica e di fatto del fondo di un intervento dispositivo di tale rilievo, dal quale deriva la trasformazione edilizia del fondo stesso, ponga in essere un contributo essenziale alla realizzazione dell’illecito (cfr. Sez. I, 22.5.1997, n. 4805, Perfetto; Sez. I, 27.1.1996,n. 821, Figlia e a.). Infatti, grazie alla tolleranza del proprietario, l’autore dell’illecito è lasciato nella disponibilità del terreno che gli consente di costruire l’opera senza concessione: il che è assai più che dar luogo ad un rafforzamento della volontà dell’autore

(Cass. Sez. III, 12.7.1999, Cuccì, CP, 2000, 2752; Cass. Sez. III, 14.7.1999, Mareddu e a., RP, 2000, 29; Cass. Sez. III, 14.10.1999, Di Salvo, CP, 2001, 3518 s.).

Tali principi – riaffermati anche successivamente (v. Cass. Sez. III, 10.2.2000, Isaia, CP, 2002, 341; RP, 2001, 300 ; Cass. Sez. III, 12.11.2002, Bombaci, CP, 2003, 3159) – si collocano nell’ambito di un più risalente insegnamento, compendiato nella massima secondo cui

in tema di costruzione abusiva, anche i proprietari del terreno sul quale l’edificio viene da altri realizzato, possono essere destinatari della relativa sanzione penale, perché, avendo la disponibilità giuridica e di fatto del suolo, hanno il dovere d’impedire qualsiasi realizzazione edilizia ad opera di terzi; essi si liberano da tale responsabilità solo quando provano che il fatto è avvenuto a totale loro insaputa o contro il loro espresso divieto

(Cass. Sez. III, 29.1.1988, Camasta, CP, 1989, 1554).

La responsabilità per omesso controllo ex art. 40, comma 2, c.p. è stata talvolta estesa anche all’usufruttario (così – precisando che essa non grava invece sul nudo proprietario - Cass. Sez. III, 20.6.1996, Carli, CP, 1997, 3167; RP, 1997, 516; anche per Cass. Sez. V, 11.11.1999, Giovannella, CP, 2000, m. 1888 il nudo proprietario non è titolare di alcuna posizione di garanzia). Per contro,

il locatore di un terreno non è responsabile, neppure per colpa, della costruzione senza concessione realizzata dal conduttore, per avere questi acquisito l’autonoma disponibilità dell’area interessata ed il relativo titolo per richiedere la concessione (…) Né può farsi carico al locatore di un obbligo di vigilanza sull’azione svolta nel suo terreno dal conduttore per la mancanza di un rapporto di subordinazione del secondo al primo

(Cass. Sez. III, 11.11.1993, Minelli, CP, 1995, 381).

7.1. …e quella negativa fondata sull’insussistenza della posizione di garanzia.

La massima riportata in fine del paragrafo che precede sembra invero seguire l’orientamento diametralmente opposto a quello prima delineato, del quale è espressione la sentenza che - annullando la decisione di merito che aveva ritenuto la responsabilità penale del comproprietario per non aver impedito al contitolare di effettuare l’abuso edilizio – così statuisce:

il principio di diritto contenuto nell’art. 40 comma 2 c.p., secondo cui “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” appare erroneamente richiamato dai Giudici di merito in quanto il proprietario di un’area su cui viene realizzata una costruzione abusiva, il quale sia rimasto estraneo alla relativa attività edilficatoria anche in veste di semplice committente dei lavori, non ha – perché non impostogli da alcuna norma di legge – l’obbligo giuridico di impedire o di denunciare l’attività illecita di costruzione abusiva da altri su detta area posta in essere

(Cass. Sez. III, 16.5.2000, Molinaro e a., RP, 2000, 890. In termini, Cass. Sez. III, 27.10.1995, Abbate, CP, 1997, 193; GP, 1996, II, 432).

Si aggiunge che

in virtù del principio costituzionale secondo cui la responsabilità penale è personale e di quello, sancito dall’art. 40 coma 1 c.p., secondo il quale nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione, il proprietario dell’area sulla quale il manufatto viene realizzato non può essere dichiarato colpevole solo perché, in virtù del principio civilistico dell’accessione, di esso può acquisire la proprietà

(Cass. Sez. III, 16.5.2000, Molinaro e a., RP, 2000, 890).

La conclusione - in via di prima approssimazione, e salvo quanto si dirà al paragrafo successivo - non muta nemmeno tenendo conto dei legami familiari con l’autore del reato: se, da un lato,

non può quindi ritenersi che un soggetto, proprietario del terreno, che abbia tenuto un comportamento di mera inerzia rispetto alla costruzione abusivamente effettuata dai figli o dal coniuge o da altri, possa considerars responsabile del reato edilizio soltanto per non averne impedito la commissione

(Cass. Sez. III, 2.10.1998, Riccio e a., RP, 1999, 48),

dall’altro lato,

ancor più, ovviamente, tali considerazioni valgono per il coniuge dell’esecutore dei lavori che nemmeno sia proprietario o comproprietario del terreno o dell’immobile

(Cass. Sez. III, 2.10.1998, Riccio e a., RP, 1999, 48).

Facendo un’analisi approfondita della responsabilità penale per omissione, in altra occasione la Corte di legittimità insegna:

nel nostro sistema penale un comportamento omissivo assume rilevanza nell’ambito della responsabilità monosoggettiva solo in materia di reati omissivi, non essendo possibile che con una tale condotta possa essere commesso un reato di azione. Fuori da tale ipotesi una condotta omissiva può dar luogo a responsabilità penale qualora ricorrano gli estremi di cui all’art. 40 comma 2 c.p. e cioè quando il soggetto ha l’obbligo giuridico di impedire l’evento. Deve poi aggiungersi che nell’ambito della responsabilità concorsuale non mutano i termini del problema poiché è da escludere che chi ha assunto un atteggiamento meramente omissivo rispetto al fatto illecito altrui possa essere ritenuto concorrente nel reato da questi commesso

(Cass. Sez. III, 4.4.1997, Celi, GP, 1998, II, 364).

Quanto alla possibilità di ritenere sussistente il concorso, la Cassazione evidenza che

sia la compartecipazione dolosa che la cooperazione colposa richiedono che il concorrente, che non sia l’autore materiale del reato, abbia compiuto atti positivi i quali, seppure atipici rispetto al fatto descritto dalla norma incriminatrice, si siano tradotti in un contributo causale alla commissione del reato. Il concorso doloso richiede infatti in ogni caso che il compartecipe abbia concorso con atti positivi alla realizzazione dell’illecito, dando il suo contributo nell’ideazione, organizzazione o esecuzione del reato ovvero assicurando la sua collaborazione post delictum. Anche nel concorso morale la compartecipazione richiede il compimento di atti positivi in quanto il concorrente deve avere istigato o determinato l’autore del reato a commettere il reato stesso o deve averne rafforzato il proposito criminoso. Parimenti è da escludere la rilevanza di un comportamento meramente omissivo nell’ambito della cooperazione colposa. L’art. 113 c.p. assume una sua autonoma funzione incriminatrice proprio perché consente di configurare una responsabilità penale a carico di chi abbia collaborato con atti positivi atipici alla realizzazioe dell’altrui condotta colposa

(Cass. Sez. III, 4.4.1997, Celi, GP, 1998, II, 364 s.).

Valutando la posizione del comproprietario rispetto al fatto illecito commesso dai contitolari del diritto, la Corte di legittimità da tali argomentazioni trae queste conseguenze:

con riferimento al reato di cui all’art. 20 lett. b) l. 47/85, considerato che l’autore materiale di tale contravvenzione è da individuare in colui che, con la sua azione, esegue l’opera abusiva, un comportamento omissivo può dare luogo a responsabilità penale solo se ricorre l’obbligo di garanzia di cui all’art. 40 comma 2 c.p. Quindi nel caso in esame, dato che alla Celi è addebitato di essere rimasta inerte rispetto all’abuso edilizio commesso dai figli, per ritenere la stessa responsabile del reato edilizio dovrebbe affermarsi che aveva l’obbligo giuridico, quale proprietaria del terreno, di impedire l’abuso edilizio. Senonché è da escludere che un tale obbligo sussista a carico del proprietario dell’area interessata alla costruzione abusiva, poiché esso non è sancito da alcuna norma di legge

(Cass. Sez. III, 4.4.1997, Celi, GP, 1998, II, 365. Nello stesso senso, Cass. Sez. III, 12.5.1995, Pulvirenti, GP, 1996, II, 432; Cass. Sez. III, 27.10.1995, Abbate, RP, 1996, 601).

Anzi, osserva la Suprema Corte richiamando la previsione oggi contenuta nell’art. 29 TUE, la legge,

pur indicando alcuni soggetti (il titolare della concessione edilizia, il committente, il costruttore, il direttore dei lavori) che sono tenuti a garantire la conformità dell’opera alla concessione edilizia e pertanto sono da ritenere responsabili dell’eventuale costruzione in assenza di concessione, tra essi non include il proprietario del terreno. Or se non v’è alcuna norma di legge che impone a carico del proprietario dell’area l’obbligo di impedire la costruzione abusiva, è da escludere che un tale soggetto possa rispondere del reato edilizio sol perché è rimasto inerte dinanzi all’illecito commesso da altri

(Cass. Sez. III, 4.4.1997, Celi, GP, 1998, II, 365. In senso analogo: Cass. Sez. III, 27.10.1995, Abbate, RP, 1996, 601; Cass. Sez. III, 9.1.2003, Costa, UA, 2003, 614).

Questa impostazione è senza dubbio condivisibile. L’inerzia di chi non rivesta una posizione di garanzia ai sensi dell’art. 29 TUE non ha rilievo penale,

non può essere, cioè, sanzionata una condotta di mera tolleranza senza una collaborazione attiva ad una delle posizioni puntualmente specificate nella disposizione de qua

(Cass. Sez. III, 17.11.1998, Baccani e a., GP, 1999, II, 507; CP, 2000, 164).

La norma, dunque, rivela la sua vera natura, che non è quella – assegnatale dalla giurisprudenza tradizionale – di individuare i soggetti attivi del presunto reato proprio, bensì quella di estendere la responsabilità delle figure indicate all’omesso, costante, controllo circa la conformità delle opere in corso d’esecuzione ai parametri di legittimità sostanziale contenuti nel titolo, negli strumenti urbanistici, nelle disposizioni di legge. Tale forma di responsabilità non può essere ascritta a soggetti diversi da quelli indicati nell’art. 29 TUE, e quindi non può riguardare il (com)proprietario dell’immobile sul quale si eseguono i lavori abusivi il quale resti del tutto inerte rispetto all’altrui condotta illecita.

In assenza di un comportamento penalmente rilevante, poi, è del tutto ininfluente l’analisi dell’elemento soggettivo, sicché

una responsabilità a carico del proprietario del terreno neppure può essere configurata sol perché egli era consapevole dell’illecito da altri realizzato. Una tale consapevolezza non è idonea a far nascere l’obbligo di garanzia di cui all’art. 40 comma 2 c.p. o a configurare una ipotesi di concorso morale nel reato

(Cass. Sez. III, 4.4.1997, Celi, GP, 1998, II, 365).

8. Il concorso attivo del (com)proprietario.

Quanto si è venuto dicendo nei paragrafi precedenti non vale però ad escludere la possibile responsabilità penale del proprietario che – pur non essendo committente, costruttore o titolare del permesso di costruire (né, ovviamente, direttore dei lavori) – ponga in essere qualche contributo, materiale o anche soltanto morale, all’attività di illecita trasformazione del territorio posta in essere direttamente da terzi. E’ quanto si ricava, a contrariis, dal principio, ripetutamente ribadito, secondo cui

non può essere attribuito ad un soggetto, sic et simpliciter, per il mero fatto di essere proprietario dell’area, un dovere di controllo dalla cui violazione derivi una responsabilità penale per la costruzione abusiva, prescindendo dalla concreta situazione in cui venne svolta l’attività incriminata, cioè senza identificare, in relazione alla specifica situazione di fatto, il comportamento positivo o negativo posto in essere dal soggetto, che possa essere assunto ad elemento integrativo della colpa

(Cass. Sez. III, 1.6.1998, Capraro e a., RGE, 1999, I, 381; GP, 1999, II, 530 s. Esattamente in termini: Cass. Sez. III, 4.7.1988, Monechi, CP, 1990, 305; Cass. Sez. III, 29.3.2001, Zorzi e a., DPP, 2001, 871).

La prova della compartecipazione al fatto criminoso – sottolinea la giurisprudenza – dev’essere raggiunta in giudizio, perché occorre,

per affermarne la responsabilità penale, positamente dimostrare e motivare il diretto interessamento del proprietario o del comproprietario per la realizzazione del manufatto abusivo e non può invece sostenersi che sia questi a dover dimostrare la sua contrarietà alla realizzazione dell’opera. Ai fini penali, infatti, spetta al titolare dell’azione penale dimostrare – senza ricorrere a inversioni dell’onere probatorio – che il concorrente nel reato proprio abbia concretamente portato il suo contributo causale, o doloso o colposo

[Cass. Sez. III, 1.6.1998, Capraro e a., RGE, 1999, I, 382. Nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Torre Annunziata, sez. dist. Torre del Greco, 18.5.2005, GD, 2005, (35), 105. Per la censura della sentenza di merito che, in un caso del genere, aveva operato l’inversione dell’onere della prova, v. Cass. Sez. III, 7.9.2000, Cutaia, CP, 2001, m. 1085].

E’ sicuramente ammissibile, tuttavia, il ricorso a «presunzioni gravi, precise e concordanti, che denotano una sua compartecipazione almeno morale all’esecuzione dell’opera abusiva» (Cass., sez. III, 3-10-2002, Caravello, CP, 2003, 2775). Al proposito, appare minoritario l’orientamento secondo cui, per affermare la responsabilità del proprietario del bene oggetto dell’intervento abusivo

occorre quantomeno la sua piena consapevolezza dell’esecuzione delle opere da parte del coimputato, nonché il suo consenso anche implicito o tacito, in relazione all’attività edilizia posta in essere

(Cass. Sez. III, 1.10.2003, Neri, CP, 2004, 4198).

Neppure è sufficiente limitarsi ad accertare che il proprietario abbia tratto vantaggio dalla condotta abusiva [Cass. Sez. III, 9.10.2003, Policastrese, GD, 2003, (13), 83]. Anche quando si tratti – ciò che avviene nella maggior parte dei casi – di valutare la condotta del comproprietario, familiare dell’autore materiale dell’abuso, la Corte di legittimità ha rilevato che

non è accettabile fare richiamo ad una opinabile massima di esperienza quale è quella secondo la quale non sarebbe sostenibile che un componente non sappia che altro componente costruisca una casa abusiva e pertanto, in tal modo, contribuisce causalmente alla realizzazione dell’evento. Deve infatti osservarsi che anche la mera inerzia, a fronte dell’iniziativa del familiare, non sarebbe comunque sufficiente a integrare il concorso nelle contravvenzioni contestate, in difetto di un preciso obbligo giuridico di impedirne l’evento e di provvedere agli adempimenti formali che la legge pone esclusivamente a carico del committente

[Cass. Sez. III, 23.10.2003, Dell’Albani, GD, 2004, (10), 97].

L’opinione assolutamente maggioritaria – che ci trova concordi – è ben sintetizzata nella seguente massima della Corte di cassazione, che afferma principi successivamente ribaditi:

il semplice fatto di essere proprietario o comproprietario di un terreno sul quale vengono svolti lavori edili illeciti, pur potendo costituire un indizio grave, non è sufficiente da solo ad affermare la responsabilità penale, nemmeno qualora il soggetto che riveste tali qualità sia a conoscenza che altri eseguano opere abusive sul suo fondo, essendo necessario, a tal fine, rinvenire altri elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che egli abbia in qualche modo concorso, anche solo moralmente, con il committente o l’esecutore dei lavori abusivi. A tal riguardo, per poter fondare il giudizio di responsabilità, occorre considerare la situazione concreta in cui si è svolta l’attività incriminata, tenendo conto non soltanto della piena disponibilità, giuridica e di fatto, del suolo e dell’interesse specifico a effettuare la nuova costruzione (principio del cui prodest), bensì pure: dei rapporti di parentela o di affinità tra l’esecutore dell’opera abusiva e il proprietario; dell’eventuale presenza in loco di quest’ultimo; dello svolgimento di attività di materiale vigilanza sull’esecuzione dei lavori; della richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; del regime patrimoniale fra i coniugi e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all’esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale delle stesse

[Cass. Sez. III, 10.12.2004, Burgio e a., GD, 2005, (9), 98. Conforme, Cass. Sez. III, 9.12.2004, Di Marino, GD, 2005, (15), 100. In senso analogo: Cass. Sez. III, 20.1.2004, Mancuso, GP, 2005, II, 173; Cass. Sez. III, 25.2.2003, Capasso, CP, 2004, 4199; Cass. Sez. III, 22.1.2003, Di Stefano e a., GP, 2003, II, 725; Cass. Sez. III, 29.3.2001, Zorzi e a., DPP, 2001, 871; Cass. Sez. III, 20.3.1996, Aprile, CP, 1997, 2574; Cass. Sez. III, 3.7.2001, GP, 2002, II, 411, che si segnala anche per un’ampia ed esaustiva panoramica dei diversi orientamenti giurisprudenziali emersi in seno alla Corte di legittimità. Tra le più recenti conferme dell’orientamento in parola: Cass., sez. III, sent. n.38492 del 19-5-2016, Rv. 268014).

In relazione alla dedotta situazione di concorso nella condotta illecita del coniuge comproprietario, si è posto in rilievo che

nella valutazione del concorso non può non tenersi conto dell’influenza che sulle decisioni comuni, fra le quali certamente rientra la destinazione del fondo in comproprietà all’edificazione, ha il rapporto personale, di comunione di vita, e la stretta comunanza di interessi, che rendono coniuge naturalmente partecipe di tutte le deliberazioni di rilevanza familiare, a meno che l’interessato non provi in contrario che tali presupposti nel caso concreto per una qualsiasi causa non ricorrono

(Cass. Sez. III, 12.7.1999, Cuccì, CP, 2000, 2753; Cass. Sez. III, 14.7.1999, Mareddu e a., RP, 2000, 30. Conforme, Cass. Sez. III, 10.2.2000, Isaia, CP, 2002, 341; RP, 2001, 330).

Talvolta la Corte ha valorizzato altri specifici elementi, ritenendo corretto, per fondare il giudizio di responsabilità, rifarsi ad

ulteriori considerazioni basate sulla posizione di maggiore dipendenza economica e di minore autonomia decisionale della donna nel meridione, avuto riguardo all’età del ricorrente, ultracinquantenne al momento dei fatti, quale risulta dall’epigrafe della sentenza, sicché non sembra neppure credibile l’affermazione della coimputata di essere l’unica responsabile, sul costo dell’opera, sulla sua destinazione alla necessità della famiglia, giacché trattasi di sopraelevazione, secondo quanto appare dall’imputazione, e sul regime patrimoniale dei coniugi, che è quello di comunione dei beni

(Cass. Sez. III, 30.3.1999, Zarbo, RGE, 2000, I, 1203).

A quest’ultimo proposito, si è tuttavia affermato che

nel regime di comunione legale fra coniugi la costruzione abusiva realizzata con le risorse finanziarie di entrambi i coniugi, sul suolo di proprietà personale ed esclusiva di uno di essi, appartiene esclusivamente a quest’ultimo e l’imputazione non può essere estesa al coniuge non comproprietario, se non come committente dei lavori abusivi con apposita e specifica contestazione

(Cass. Sez. III, 25.9.2002, Romano e a., GP, 2003, II, 362; CP, 2003, 3159).

Debbono poi essere valorizzati anche gli indizi che depongono nel senso dell’estraneità all’illecito del (com)proprietario, ciò che, ad es., ricorre nel caso di «detenzione, possesso o usufrutto od uso da parte di altri» del bene sul quale è avvenuto l’abuso (Cass. Sez. III, 13.7.1995, Valente e a., RP, 1996, 895), della «esistenza di eventuali dissapori tra comproprietari da dimostrare rigorosamente da parte di chi li allega» (Cass. Sez. III, 20.3.1996, Aprile, CP, 1997, 2575; v. anche Cass. Sez. III, 14.11.2002, Rizzone, UA, 2003, 243). Sempre in quest’ottica, osserva la Cassazione,

nel caso in cui il terreno acquistato in comproprietà dagli imputati sia stato di fatto suddiviso fra gli stessi, non è giuridicamente corretto negare rilevanza a questi accordi interni tra i comproprietari. Essi sono irrilevanti sotto il profilo civilistico per difetto della forma scritta ex art. 1350 c.c., ma non possono dirsi ininfluenti sotto il profilo penalistico al fine di accertare il concorso materiale e morale di un comproprietario nell’abuso edilizio commesso dall’altro proprietario nell’area di sua spettanza convenzionale

(Cass. Sez. III, 12.5.1995, Pulvirenti, GP, 1996, II, 432).

Desta qualche perplessità – e richiede una precisazione – il principio giusta il quale

non può essere ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 20 della legge 28.2.1985, n. 47, il proprietario che abbia dato il semplice consenso o la sola approvazione ad un incarico conferito da altro proprietario o da altro detentore, atteso che trattasi di comportamenti che non si risolvono in un contributo causale alla realizzazione del fatto illecito

(Cass. Sez. III, 26.9.2002, Licari, GP, 2003, II, 178; CP , 2003, 2776).

L’affermazione ci pare condivisibile soltanto se ci si trova di fronte a condotte meramente omissive, quali quelle dell’inerzia o della tolleranza, mentre a diversa conclusione deve giungersi quando ci si trovi di fronte ad un vero e proprio accordo – ipotesi tipica, questa, del concorso morale – e, inoltre, quando l’esplicito consenso o la manifestata adesione all’altrui proposito criminoso abbia svolto un ruolo causale nel rafforzare la determinazione dell’autore a commettere il reato. In giurisprudenza, per contro, si trova spesso affermato il principio secondo cui il (com)proprietario,

se l’incarico sia stato dato da altro proprietario o da altro detentore, non può essere ritenuto responsabile dell’abuso anche se abbia espresso adesione alla realizzazione dell’opera

(Cass. Sez. III, 7.5.1998, Dionisi, RP, 1994, 113; Cass. Sez. III, 7.9.2000, Cutaia, CP, 2001, m. 1085; Cass. Sez. III, 3.5.2001, Bertin e a., DGAA, 2002, 273).

In altre pronunce si aggiunge che «una tale adesione non è sufficiente a realizzare un concorso nel reato di ordine psicologico» (Cass. Sez. III,20.5.1994, Castellaneta, RP, 1995, 1227; Cass. Sez. III, 1.6.1998, Capraro e a., RGE, 1999, I, 381; Cass. Sez. III, 29.3.2001, Zorzi e a., DPP, 2001, 871. Contra, sia pur come obiter dictum, Cass. Sez. III, 27.10.1995, Abbate, RP, 1996, 601). A nostro avviso, in termini assoluti tali affermazioni non possono sottoscriversi. Ed invero, poiché la condotta di chi rafforzi l’altrui proposito criminoso è comunemente ritenuta idonea ad integrare gli estremi del concorso morale, ci pare che tale debba – o, almeno, possa - essere considerata anche l’esplicita adesione all’azione illecita del terzo, che spesso, appunto, produce l’indicato effetto. Il problema, semmai – e ci si rende conto che non è di agevole soluzione – sta nell’accertare, «oltre ogni ragionevole dubbio», come richiede oggi il novellato art. 533, 1° co., c.p.p., se l’adesione all’altrui proposito criminoso abbia davvero avuto effetto rafforzativo dello stesso, dovendosi invece escludere la corresponsabilità se l’agente fosse già definitivamente risoluto a commettere il reato (c.d. omnimodo factorus).

9. Il concorso doloso degli organi comunali.

Tra i possibili concorrenti nei reati urbanistici che la casistica talora rivela vi sono gli organi pubblici deputati al controllo sugli interventi di trasformazione del suolo posti in essere da privati.

L’ipotesi più frequente in cui si è ravvisata siffatta responsabilità concorsuale è quella del rilascio di un atto amministrativo illegittimo per contrasto con disposizioni di legge o di regolamento ovvero con le previsioni degli strumenti urbanistici. Come si è detto a suo luogo, quando ciò sia conseguenza di un fatto illecito, il titolo (permesso di costruire o autorizzazione a lottizzare) è tamquam non esset e la successiva attività di trasformazione del territorio si considera come svolta sine titulo. Salvo il caso in cui i funzionari pubblici siano tratti in inganno dalle false rappresentazioni o informazioni contenute negli atti allegati alla richiesta, nei reati urbanistici che ne derivano (lavori senza permesso o lottizzazione illecita) concorrono quindi anche i pubblici ufficiali che si sono prestati a rilasciare l’atto contra legem. La stessa giurisprudenza, pur muovendosi nel solco del tradizionale principio secondo cui l’edificazione in assenza di concessione edilizia sarebbe reato proprio dei soggetti indicati nell’art. 6 l. 47/1985 (attuale art. 29 TUE), non ha avuto esitazioni nell’affermare che

tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall’art. 6, compreso il sindaco che con la concessione illegittima abbia posto in essere la condizione operativa della violazione di quegli obblighi

(Cass. Sez. III, 21.9.1988, Maglione, CP, 1989, 2068 s. Per un caso analogo, nell’ambito di un procedimento cautelare di sequestro del manufatto in corso d’opera, Cass. Sez. III, 23.2.1987, Pezzoli e a., CP, 1987, 2005).

In queste ipotesi, la responsabilità penale del pubblico ufficiale è necessariamente sorretta dal dolo, posto che la giurisprudenza considera il titolo come illecito (e quindi inesistente) solo se

risulti esservi stata collusione tra richiedente ed autorità amministrativa, nel qual caso, essendo la concessione il mezzo usato per commettere l’abuso edilizio, si applicano le norme del concorso di persone nel reato

(Cass. Sez. III, 31.5.1988, Patroni, CP, 1989, 1834, che, in assenza di prova di collusione, ha assolto dal reato urbanistico il sindaco il quale aveva rilasciato una concessione edilizia per un intervento avente carattere sostanzialmente lottizzatorio in comune sfornito di piano particolareggiato e in zona destinata a verde agricolo).

La giurisprudenza di merito si mostra consapevole della concreta difficoltà di accertare il pactum sceleris tra soggetti privati e pubblici e, pertanto, legittima un ampio utilizzo della prova indiziaria:

nonostante sia notorio come intorno all’attività edilizia ruoti tutta una serie di comportamenti illeciti sia di privati che di pubblici amministratori, è pur sempre difficile raggiungere la prova della collusione tra il privato ed il pubblico amministratore in quanto entrambi non hanno alcun interesse a denunciare fenomeni di concussione, di corruzione o di abuso di ufficio, ed è, peraltro, ben difficile che il giudice possa raggiungere la prova diretta dell’illecito tramite usuali mezzi di indagine (quali testimonianze o intercettazioni telefoniche o ambientali) dal momento che, quando l’accordo criminoso – o meglio gli effetti di esso – cominciano a palesarsi all’esterno, l’accordo stesso è ormai, come fatto storico, ben lontano nel tempo. Pur tuttavia, poiché, normalmente, per «realizzare» il vantaggio illecito oggetto dell’accordo criminoso i pubblici amministratori che ne fanno parte devono «piegare» a fini illeciti la normativa esistente ponendo in essere atti amministrativi abnormi o, comunque, contrari alle regole della buona amministrazione, ecco che proprio tali atti abnormi o, comunque, afflitti da uno o da più dei tipici vizi dell’atto amministrativo costituiscono una validissima prova logica della collusione. Se poi, come nel caso che ci occupa, all’atto viziato si collegano una serie di circostanze di fatto «sintomatiche» che conducono non all’errore scusabile ma al pervicace perseguimento di un fine illecito, ecco che la prova logica diventa altrettanto ferrea di una prova diretta

(App. Catania 21.10.1996, Santo e a., RGE, 1997, I, 420. Per l’accertamento del dolo tramite l’impiego di presunzioni, v. anche Cass. Sez. VI, 13.2.1998, Lanza e a., GP, 1999, II, 307).

Oltre ai delitti conto la fede pubblica eventualmente realizzati nel caso di adozione di un atto ideologicamente falso, il carattere doloso della condotta del pubblico ufficiale comporta, di regola, che questi sia altresì chiamato a rispondere di delitti contro la pubblica amministrazione, in particolare – quando non vi sia prova della corruzione, della concussione o dell’induzione indebita – del reato di abuso d’ufficio (per l’orientamento prevalente, che ritiene configurabile il delitto di cui all’art. 323 c.p. anche nel caso di illegittimità del titolo per violazione dello strumento urbanistico, v.: Cass. Sez. VI, 16.10.1998, Lo Baido, CP, 1999, 2109; FI, 2000, II, 140; DPP, 1999, 1005; Cass. Sez. VI, 23.9.1998, Brescia, CP, 1999, 2109; Cass. Sez. VI, 9.7.1998, Maccan, CP, 1999, 2112; Cass. Sez. VI, 11.5.1999, Fravili,RGU, 1999, I, 333; Cass. Sez. IV, 14.3.2000, Sisti e a., GP, 2000, II, 687; contra, Cass. Sez. VI, 2.10.1998, Tilesi e a., FI, 1999, II, 309). Ne deriva, pertanto, la possibilità di

configurare a carico dell’amministratore comunale il concorso formale tra i reati di abuso di ufficio e il reato di (concorso in) costruzione abusiva correlato al rilascio di concessione edilizia illegittima

(Cass. Sez. VI, 10.1.2000, Rovito, CP, 2001, 838).

Le aree di rilevanza penale delle due fattispecie criminose, tuttavia, non sono del tutto coincidenti secondo l’orientamento per cui

in tema di abuso di ufficio correlato alla realizzazione di un manufatto edilizio, ai fini della configurabilità del reato non è necessaria la prova della collusione tra rappresentanti della pubblica amministrazione ed il privato (che tuttavia può rilevare ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 20 lett. c l. 28.2.1985, n. 47), atteso che la nuova strutturazione della fattispece ad opera della l. 16.7.1997, n. 234 impone che si accerti semplicemente la sussistenza di una condotta del pubblico ufficiale consapevolmente produttiva di un ingiusto vantaggio patrimoniale (o di un ingiusto danno), in violazione di norme di legge o di regolamento

(Cass. Sez. VI, 9.11.2000, Ginanneschi, CP, 2002, 1008 s.).

Di regola, la responsabilità penale graverà su chi rilascia l’atto illegittimo, un tempo il sindaco con riguardo alla concessione edilizia (salva la possibilità di delegare l’incombente ad altri: per un caso di delega ad un assessore, v. Cass. Sez. VI, 16.10.1998, Lo Baido, CP , 1999, 2109), oggi il dirigente o responsabile del competente ufficio comunale deputato all’adozione del permesso di costruire (v. art. 13, comma 1, TUE). Non può escludersi, tuttavia, la responsabilità di altri funzionari pubblici, collusi con il richiedente, che svolgano in modo dolosamente infedele attività di carattere istruttorio nel procedimento amministrativo volto al rilascio del titolo, così da indurre l’ignaro responsabile ad adottare un atto illegittimo. Si pensi, ad es., al geometra addetto all’ufficio tecnico comunale che attesti falsamente la conformità di un progetto di costruzione allo stato dei luoghi (per questa ipotesi, sia pure in procedimento in cui era contestato il solo reato di falso in atto pubblico, Cass. Sez. V, 18.12.1991, Morroni, CP, 1993, 304), ovvero al componente della commissione edilizia comunale che dolosamente riesca a far ottenere il parere favorevole ad una richiesta di mutamento di destinazione d’uso di immobile in mancanza della necessaria concessione edilizia (Cass. Sez. IV, 7.4.1998, Fravilli, GP, 1999, II, 348, relativa però a procedimento per il solo delitto di abuso d’ufficio; per un’analoga ipotesi, contestata all’assessore all’urbanistica e a tutti i membri della commissione ediilizia, v. Cass. Sez. IV, 14.3.2000, Sisti e a., GP, 2000, II, 687). In giurisprudenza si è anche dato il caso di un accordo criminoso tra l’assessore all’urbanistica del Comune e un privato, il quale

aveva realizzato, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico di assoluta inedificabilità, e su una superficie di circa 300 mq., un capannone strutturato in ferro, con pilastri ancorati al suolo mediante basi in cemento armato e copertura in lamiera «grecata» e coibentata, avendo ottenuto, a sua richiesta, non la necessaria concessione edilizia, ma una mera autorizzazione «per opere (esplicitamente dichiarate ‘precarie e provvisorie’) di manutenzione straordinaria, consistenti nella realizzazione di un capanno in ferro e copertura in lamiera ondulata aperto», autorizzazione sottoscritta dall’assessore all’urbanistica

(Cass. Sez. V, 10.9.1998, Panariello e a., GP, 1999, II, 476).

Più di recente, la Corte di legittimità ha affrontato un’altra fattispecie, affermando che

sussiste la responsabilità a titolo di concorso nel reato di lottizzazione abusiva del tecnico comunale che, in funzione di capo della Ripartizione edilizia privata, abbia apposto il visto sulle licenze edilizie, in quando detta condotta, conferendo una valutazione positiva all’operato dei funzionari preposti, si insersce con efficacia eziologica nella determinazione dell’evento lesivo, costituendo una tappa necessaria dell’ iter procedimentale

(Cass. Sez. III, 14.6.2002, Drago, CP, 2003, 2430; GP, 2003, II, 117).

Deve aggiungersi che condotte illecite idonee ad integrare gli estremi del concorso nel reato urbanistico da parte di pubblici ufficiali possono essere poste in essere anche indipendentemente dal rilascio del permesso di costruire (o, situazione del tutto analoga, dell’autorizzazione che approva il piano di lottizzazione). Si pensi al caso, nella fattispecie ricondotto al delitto di abuso d’ufficio, ma certamente valutabile anche come concorso nella prosecuzione della contravvenzione urbanistica,

del sindaco che, allo scopo di favorire un proprio parente, pur avendo ricevuto dai vigli urbani un verbale di accertamento e denuncia di un’opera abusiva, omette l’immediata adozione dell’ordinanza di sospensione dei lavori

(Cass. Sez. VI, 12.7.2002, Marrapodi, CP, 2004, 493).

La giurisprudenza ha qualificato nei medesimi termini - ma anche qui sarebbe stato ipotizzabile pure il concorso nel reato urbanistico – la condotta, accertata come dolosa,

dell’amministratore comunale che, nella qualità di sindaco, tolleri che il privato costruisca un immobile senza concessione, in attesa della approvazione del piano particolareggiato, così violando l’art. 4, comma primo, della legge 28.2.1985, n. 47, per omissione della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia

(Cass. Sez. VI, 30.11.1998, De Vita, RP, 1999, 907. Per un caso analogo v. Cass. Sez. VI, 31.5.1996, Murano, CP, 1997, 2691).

In quest’ultima ipotesi, si avrebbe un concorso per omissione nell’altrui reato commissivo, giustificato dalla posizione di garanzia che la legge costruisce in capo al pubblico ufficiale che ha l’obbligo di esercitare la vigilanza urbanistico-edilizia nel territorio comunale ai sensi del vigente art. 27, comma 1, TUE, che, peraltro, non si riferisce più al sindaco, ma al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale (contra, BRESCIANO e PADALINO MORICHINI, I reati urbanistici, Milano, 2000, 58, sul rilievo – che non ci pare condivisibile – secondo cui i provvedimenti di sospensione lavori adottabili dall’autorità comunale investita dell’obbligo di vigilanza non sarebbero «idonei a garantire l’interruzione dell’attività illecita o la rimozione dei suoi effetti, ben potendo essere disattesi, come d’altra parte quasi sempre avviene»).

9.1. …e la responsabilità commissiva per colpa.

A prescindere dal problema – affrontato nella PARTE PRIMA - relativo al reato ipotizzabile (se la meno grave contravvenzione di cui all’art. 44, comma 1, lett. a, TUE, ovvero quelle più gravi di costruzione senza permesso), ci si deve domandare se con il titolare del permesso, il committente e il costruttore, che l’art. 29 TUE obbliga a verificare comunque, ed in ogni momento, la conformità delle opere alla disciplina normativa e urbanistica sostanziale, possa concorrere anche chi, sia pur non intenzionalmente, abbia rilasciato l’atto amministrativo viziato per contrasto con la legge o le previsioni di piano. E’ ben vero che il pubblico ufficiale che rilascia il permesso non è indicato nell’art. 29 TUE, ma è altrettanto evidente che la sua condotta (si badi, commissiva e non già omissiva) si pone quale antecedente ineliminabile dell’illecito e che, trattandosi di contravvenzione, si risponde pure a mero titolo di colpa . Questa, peraltro, sarebbe certamente sussistente, sub specie di colpa specifica per violazione di leggi, regolamenti o discipline.

Tutto depone, pertanto, nel senso della possibile corresponsabilità del funzionario pubblico anche in relazione a condotte meramente colpose e propendono decisamente in questo senso le non numerose pronunce che hanno affrontato il tema. Non si vede, del resto, per quale ragione dovrebbe farsi carico ai privati – i quali pure abbiano ottenuto in modo lecito un provvedimento amministrativo che li abilita ad operare la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio da essi progettata e sottoposta al vaglio del Comune – di un onere di diligenza maggiore e più penetrante di quello che compete ai pubblici funzionari istituzionalmente competenti a vagliare le domande di permesso di costruire. Lo ha messo in luce un giudice di merito che, condannando il sindaco in concorso con il privato costruttore per il reato di abuso edilizio in zona vincolata e per il connesso reato paesaggistico, avendo egli colposamente rilasciato la concessione edilizia senza che fosse stato ottenuto il nulla-osta ambientale, ha osservato che

il ruolo del sindaco è caratterizzato per sua natura dal necessario perseguimento e dalla necessaria garanzia dell’interesse collettivo, onde il quantum di esigibilità dell’osservanza di norme cautelari è per il sindaco medesimo maggiore rispetto a quello di ogni altro cittadino (…) Tanto che le indicazioni colposamente erronee fornite dagli amministratori comunali al privato in ordine alla legittimità di un’attività ediliziia invece vietata, ingenerano nel privato stesso il ragionevole affidamento sulla liceità della condotta che si accinge a realizzare e che, senza assicurazione da parte di organi pubblici, non avrebbe verosimilmente posto in essere

(Pret. S. Anastasia, 11.11.1993, Filosa, GM, 1994, III, 356)

Anzi, tenuto conto del fatto che l’indagine sulla colpevolezza in ordine al contrasto tra permesso di costruire e normativa urbanistica di riferimento non può prescindere dalla specifica competenza che il soggetto abbia nella materia, non può escludersi che la condotta del privato – soprattutto se trattasi di comune cittadino, privo di professionalità specifica in ambito urbanistico-edilizio - non sia in concreto punibile per difetto dell’elemento soggettivo e residui invece la responsabilità del funzionario comunale (magari insieme a quella del professionista cui l’inesperto committente si era affidato).

Sulla base di queste argomentazioni appare quindi facilmente comprensibile come già la risalente giurisprudenza non avesse dubbi nel fissare il principio secondo cui

il sindaco che rilascia una concessione edilizia illegittima risponde a titolo di concorso, o di cooperazione colposa, con il privato della contravvenzione prevista dall’art. 17 lett. b) l. 28.1.1977, n. 10

(Cass. Sez. III, 5.4.1984, Sorrentino, CP, 1985, 1907).

Negli stessi termini – ravvisandosi però la meno grave fattispecie di reato di cui alla lettera a della fattispecie incriminatrice – si è affermato che

la declaratoria d’illegittimità, per contrasto, con norme di regolamento edilizio, dell’ampiezza di cortili posti a servizio di fabbricati che abbiano formato oggetto di concessione edilizia, non involge la radicale illegittimità della medesima con riferimento a tutte le opere ad essa conformi e non comporta la inesistenza giuridica dell’atto come fonte di responsabilità penale degli operatori a termini dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 17 lett. b), ma soltanto, con riferimento allo specifico oggetto in ordine al quale la declaratoria sia stata effettuata, la responsabilità degli operatori stessi per inosservanza della norma regolamentare e dell’autorità concedente che abbia contribuito a darvi causa a termini dell’art. 17 lett. a) della l. n. 10 del 1977

[Cass. Sez. III, 10.1.1984, Tortorella, CP, 1985, 1449 (corsivo nostro, n.d.r.)].

In epoca meno remota, all’esito di un procedimento penale nei quale i costruttori di un manufatto realizzato in base ad un concessione illegittima ma non illecita erano stati condannati, quali unici imputati, per la meno grave ipotesi di contravvenzione urbanistica di cui all’art. 20 l. 47/1985, lett. a, il giudice di merito ha ravvisato

una eventuale responsabilità del sindaco di Alcamo (anche per mera incuria – Cass. 3 luglio 1978) il quale con il rilascio della concessione edilizia in atti ha potuto concorrere nel commettere la violazione di che trattasi. Deve quindi disporsi la trasmissione di copia degli atti al p.m. per l’eventuale esercizio dell’azione penale

(Pret. Alcamo 6.2.1991, Cavataio e a., CP, 1991, 1133).

Più di recente ancora, la responsabilità – anche in questo caso per la meno grave contravvenzione di cui alla lett. a) della fattispecie incriminatrice – è stata estesa al funzionario comunale che aveva rilasciato il provvedimento illegittimo, affermandosi il seguente principio

In materia edilizia, risponde del reato di cui all'art. 20 della legge 28 febbraio 1985 n. 47, ora sostituito dall'art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, il dirigente dell'area tecnica comunale che abbia rilasciato una concessione edilizia (ora permesso di costruire) illegittima, atteso che questi, in quanto incaricato in ragione del proprio ufficio del rilascio di quello specifico atto, è titolare in via diretta ed immediata della relativa posizione di garanzia che trova il proprio fondamento normativo nell'art. 40 cod. pen.

(Cass., Sez. III, sent. n. 19566 del 25/03/2004, D’Ascanio, Rv. 228888)

La posizione di garanzia è stata tratta dal già precisato potere-dovere di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia sancito dall’art. 27, co. 1, TUE. A differenza, però, del caso citato in fine del paragrafo precedente (dove tale norma è stata richiamata per ascrivere al titolare di detta posizione di garanzia, all’epoca il sindaco, la responsabilità per omessa vigilanza, non avendo impedito la realizzazione di un manufatto abusivo per cui non era stata richiesta né rilasciata la concessione edilizia), nella vicenda da ultimo menzionata il titolo edilizio era stato rilasciato, ed era stato rilasciato proprio dal funzionario comunale poi ritenuto responsabile. La forma del suo concorso nella contravvenzione di costruzione con titolo illegittimo era, dunque, commissiva e non già omissiva. Improprio, dunque, il richiamo al disposto di cui all’art. 40 cpv. c.p. operato in sentenza, come riconosciuto da altra, successiva, pronuncia della Corte di legittimità:

Non è configurabile, nel caso di rilascio di un permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex art. 40 cpv. per il reato edilizio di cui all'art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune in quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell'obbligo di impedire l'evento. (In motivazione la Corte ha precisato che la titolarità della posizione di garanzia, discendente dall'art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, ne determina la responsabilità ai sensi dell'art. 40, comma secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei provvedimenti interdittivi e cautelari, ma non in caso di condotta commissiva)

(Cass., Sez. III, sent. n. 9281 del 26/01/2011, Bucolo, Rv. 249785).

Tuttavia, sarebbe ovviamente errato ritenere che in siffatti casi non sia configurabile la corresponsabilità (commissiva) del funzionario che abbia rilasciato il titolo illegittimo in forza del quale si è posto mano ad un’attività illecita di trasformazione del territorio. Semmai, ciò che differisce è la natura dell’accertametno giudiziale ed il conseguente onere di motivazione di un eventuale sentenza di condanna, come la stessa Suprema Corte ha riconosciuto nel caso Bucoli, annullando con rinvio la pronuncia che era fondata esclusivamente sulla sussistenza della condotta omissiva di cui all’art. 40 cpv. c.p. sul presupposto della necessità

che vengano accertate le condizioni, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere configurabile il concorso nel reato. Si deve cioè accertare che l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa). Come rileva anche la ricorrente occorre provare "la cosciente e volontaria partecipazione alla condotta illecita"; nella sentenza, invece, non viene individuata "alcuna forma di concorso o cooperazione". In effetti la motivazione sul punto è completamente assente, essendosi limitato il Tribunale ad evidenziare la illegittimità del permesso di costruire e a far derivare da tale illegittimità la responsabilità del tecnico comunale ai sensi dell' art. 40 cp v. c.p.. 3.2) La sentenza impugnata va, pertanto, annullata, con rinvio per nuovo esame

(Cass., Sez. III, sent. n. 9281 del 26/01/2011, Bucolo, Rv. 249785. Gli stessi principi sono stati, più di recente, ribaditi da Cass., Sez. III, sent. n. 5439/17 del 25.10.2016, Colasante, che, essendo il reato prescritto, ha tuttavia annullato senza rinvio la pronuncia di condanna fondata esclusivamente sulla, impropriamente contestata, condotta omissiva).

Queste decisioni, dunque, non possono essere considerate quali precedenti per negare la possibile responsabilità concorsuale del funzionario che, colposamente, rilasci un permesso di costruire (macroscopicamente) illegittimo e così concorra alla realizzazione dell’abuso, come chiaramente esplicitato in una recente pronuncia di legittimità che – dichiarando non conferente il richiamo difensivo alla sentenza Bucoli – ha confermato l’accertamento di responsabilità per il reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. b, TUE effettuato nel giudizio di merito (sia pur nella specie poi travolto dalla prescrizione) sul rilievo che dalla sentenza impugnata risultava

che lo SCARPA con la propria condotta ha contribuito causalmente al prodursi dell’evento in quanto solo per effetto del rilascio della concessione edilizia n., 60/2005 il FLORIS MENDES ha potuto edificare le ulteriori opere sul terreno già urbanisticamente sfruttato e non più sfruttabile in relazione al nuovo indice di copertura nella specie superato (Nel caso di specie la concessione, rilasciata dal funzionario nonostante il parere contrario della commissione edilizia, era stata ritenuta illegittima nell’ambito di ricorso straordinario al Capo dello Stato promosso da un confinante)

(Cass., Sez. III, sent. n. 4911/17 del 14.7.2016, Scarpa)

10. La responsabilità del progettista per opere soggette al permesso di costruire…

Un’ultima figura soggettiva che talvolta viene in rilievo nella commissione dei reati urbanistici è quella del tecnico progettista quando questi, intervenendo nella fase prodromica alla formazione del titolo edilizio, concorra a determinarne l’illecito perfezionamento, così da predisporre una “formale copertura” alla successiva attività di trasformazione del territorio che va invece considerata, agli effetti dell’art. 44 TUE, come sine titulo. Giova ribadire, innanzitutto, che non ha alcuna importanza il fatto che il progettista non sia indicato tra i soggetti di cui all’art. 29 TUE, poiché – come bene si osserva in pronuncia di merito che ha specificamente affrontato il problema in parola – se è vero che la legge

non include tale figura nell’elenco di coloro che sono responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica e alle previsioni di piano, (ma) è anche vero che la responsabilità penale di costui rimane provata alla stregua dei principi generali in materia di concorso di persone nei reati contravvenzionali, di nesso di causalità e di concorso di cause, ai sensi degli artt. 40, 41 e 42 cod. pen.

(App. Catania 21.10.1996, Santo e a., RGE, 1997, I, 413).

In termini assoluti non può pertanto condividersi la massima – apparentemente di segno contrario – secondo cui

il progettista di un manufatto abusivo non risponde del reato di cui all’art. 20 l. 28.2.1985, n. 47, neanche a titolo di concorso, atteso che la fase di redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei lavori, e non può configurarsi un nesso di causalità tra la redazione del progetto e l’attività di attuazione dello stesso per la quale sussiste rilevanza penale

(Cass. Sez. III, 12.12.2002, Ridolfi, CP, 2004, 3346).

Il punto è che occorre valutare la singola situazione concreta, con particolare riguardo, da un lato, al contributo causale dato dal progettista alla commissione del reato e, d’altro lato, alla rimproverabilità soggettiva del suo operato. Conviene distinguere due ipotesi, a seconda che si tratti di permesso di costruire o equipollente denuncia d’inizio attività.

La domanda per ottenere il permesso di costruire deve essere corredata, tra l’altro, «dagli elaborati progettuali» e - a seguito della sostituzione della disposizione operata dal d.l. 13.5.2011, n. 70, conv., con modiff., in l. 12.7.2011, n. 166 - «da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina del’attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, alle norme relative all’efficienza energetica» (art. 20, comma 1, TUE). Sia la predisposizione di un progetto tecnico che illustra, descrive e definisce la natura dell’intervento per cui si chiede l’autorizzazione, sia l’asseverazione di conformità sono momenti indefettibili del procedimento amministrativo e si tratta di attività che rientrano nelle competenze di determinati professionisti iscritti ad albi (di regola, geometri, architetti o ingegneri civili). La casistica mostra come talvolta, al fine di indurre in errore i competenti uffici comunali ed ottenere un permesso che, altrimenti, non spetterebbe, il progetto, la relazione tecnica che di solito lo accompagna e la dichiarazione asseverata contengano dati alterati (ad es. sulla distanza dai confini), false rappresentazioni dello stato dei luoghi (ad es. l’omessa indicazione di edifici ubicati nelle vicinanze, ovvero la diversa conformazione del fabbricato oggetto dell’intervento), informazioni non veritiere (ad es. circa l’inesistenza di vincoli o la conformità alla disciplina urbanistica o alle altre discipline di settore).

A questo riguardo, prima della sostituzione dell’art. 20 TUE ad opera del d.l. 70/2011, con specifico riferimento ad un progetto di intervento edilizio con falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, la giurisprudenza riteneva che

le planimetrie presentate a corredo della richiesta di certificazioni o autorizzazioni, redatte, secondo le vigenti disposizioni, dall’esercente una professione necessitante speciale autorizzazione dello Stato, hanno natura di certificato, poiché assolvono la funzione di dare alla pubblica amministrazione una esatta informazione dello stato dei luoghi. Ne consegue che rispondono del delitto previsto dall’art. 481 c.p. il professionista che redige le planimetrie e la committente che firma la domanda fondata sulla documentazione infedele

(Cass. Sez. V, 8.3.2000, Stenico, CP, 2001, 1791. Conforme, Cass. Sez. V, 23.4.1993, Santachiara, CP, 1995, 54).

La “novella” più sopra menzionata, nel confermare la penale responsabilità del progettista per falso ideologico, ha previsto un’ipotesi di reato ad hoc aggravando il trattamento sanzionatorio:

ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni di cui al comma 1, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al medesimo comma è punito con la reclusione da uno a tre anni. In tali casi, il responsabile del procedimento informa il competente ordine professionale per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari.

(art. 20, comma 13, TUE).

Se in conseguenza della falsità ideologica delle certificazioni tecniche o asseverazioni redatte dal progettista i competenti organi comunali, tratti in inganno, rilascino un permesso di costruire, di regola la condotta del progettista (unitamente a quella del richiedente), quale autore mediato in forza del principio di cui all’art. 48 c.p., integra gli estremi di un più grave reato di falso:

qualora venga allegata, a corredo di una richiesta di concessione edilizia, una planimetria redatta da un professionista qualificato, che assolva alla funzione di fornire alla P.A. un’esatta informazione sulla natura del terreno concernente l’erigendo manufatto, la medesima non potrà che essere ritenuta parte integrante dell’atto pubblico costitutivo del diritto di edificare. Ne deriva che, qulaora detta planimetria rappresenti falsamente lo stato dei luoghi e l’amministrazione competente sia indotta in errore in ordine a tale situazione di fatto che, se fosse stata attestata conformemente al vero, avrebbe rappresentato un impedimento all’accogliemento della richiesta di concessione, il privato istante deve ritenersi punibile ai sensi dell’art. 479 c.p. in relazione all’art. 48 dello stesso codice

(Cass. Sez. II, 28.1.1997, Testa, GP, II, 567).

Accogliendo l’orientamento successivamente avallato dalla Corte di cassazione a sezioni unite (Cass. S.U., 20.11.1996, Botta, CP, 1997, 1315; DPP, 1997, 1353) circa la natura di autorizzazione amministrativa del provvedimento che abilita il privato ad edificare (ieri la concessione edilizia, oggi il permesso di costruire), si dovrebbe ravvisare il meno grave reato di falso ideologico per induzione in autorizzazione amministrativa, punito ai sensi degli artt. 48, 477 e 480 c.p. [sembra orientata in questo senso App. Aquila, 6.2.2004, GM, 2005, II, 1976; contra, ritenendo che, ai fini della soluzione del problema in parola non rilevi la natura del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, bensì il tipo di valutazione e di accertamento compiuto dalla p.a., Cass. Sez. V, 3.4.1998, Campetelli e a., GP, 1998, II, 673; anche Cass. Sez. V, 23.1.2004, Bertucci e a., GP, 2005, II, 338, riferendosi al provvedimento di condono edilizio e senza nemmeno accennare alla decisione delle Sezioni Unite, afferma che «il documento del privato (o dell’incaricato di p.s.) recepito dalla p.a., riceve un contenuto aggiuntivo per effetto delle successive integrazioni di fonte pubblicistica e per tale nuovo profilo, che presenta indubbia autonomia funzionale, è qualificabile come atto pubblico, soggetto alla disciplina di cui all’art. 476 c.p.»]. Al di là della questione sulla corretta qualificazione giuridica del reato di falso in cui il progettista in tali casi incorre e della possibilità di ravvisare ulteriori delitti, come la c.d. truffa edilizia nel caso in cui il fatto abbia determinato un effettivo danno patrimoniale al Comune (cfr. Cass. sez. II, 17.5.2000, Villani, CP, 2001, 1822; Pret. Siracusa, Sez. dist. Noto, 22.1.1996, Caccamo e a., RP, 1996, 493), preme qui rilevare come tali fattispecie non esauriscano i profili di illiceità penale ravvisabili qualora al conseguimento del titolo edilizio faccia seguito lo svolgimento dei lavori. Quando ciò accada, per le stesse ragioni già esplicitate esaminando la posizione dei funzionari comunali che rilascino un permesso illecito, anche il progettista – il cui contributo causale nell’illecito commesso dal committente è evidente – concorrerà nell’illecito urbanistico. Nella pronuncia di merito che più sopra già si è richiamata si pone bene in luce che se l’attività progettuale

non incide (per mancanza del nesso di causalità) sulla consumazione dell’abuso edilizio che si verifica in un momento successivo al rilascio di una concessione conforme alla normativa urbanistica generale e di piano (si pensi all’ipotesi più comune di costruzione in difformità della – legittima – concessione), lo stesso non può dirsi nel caso in cui, come nella specie, l’abuso edilizio si consuma proprio in virtù di una concessione illegittimamente rilasciata in dispregio della normativa urbanistica vigente, ipotesi in cui, ovviamente, la fase di progettazione è prodromica e funzionale all’attivita illecita volta ad ottenere l’atto concessorio in violazione della legge

(App. Catania 21.10.1996, Santo e a., RGE, 1997, I, 414).

In modo analogo a quanto affermato per gli organi comunali – tenendo conto della sussistenza del nesso causale e della natura contravvenzionale del reato – potrà ritenersi la responsabilità penale del progettista per il reato urbanistico anche nel caso in cui la sua opera induca al rilascio di un permesso non illecito, ma solo illegittimo. Quando, cioè, la falsa rappresentazione progettuale che tragga in errore i funzionari comunali sia dovuta a semplice colpa del professionista, nell’iter procedimentale che prelude al rilascio del provvedimento non sono ravvisabili reati, né contro la fede pubblica, né contro il patrimonio, trattandosi in entrambi i casi di delitti puniti a titolo di dolo, sicché il permesso di costruire erroneamente rilasciato non è frutto di attività criminosa. Esso, tuttavia, può essere in contrasto con il regolamento edilizio o gli strumenti urbanistici, sicché la successiva attività edificatoria – certamente riconducibile alla colposa condotta del progettista – salva la valutazione dell’elemento soggettivo, integra gli estremi oggettivi di reato (a seconda delle tesi, quello di cui alla lett.a, ovvero le più gravi ipotesi di cui alle lett. b e c). Se, poi, la condotta colposa del professionista si leghi ad una condotta dolosa di terzi (committente e/o pubblici funzionari) che conduca al rilascio di un permesso illecito, sarà certamente configurabile la contravvenzione di costruzione sine titulo, sicché anche il progettista concorrerà in tale reato. Nella sentenza della corte catanase – che ha ritenuto la penale responsabilità in un caso del genere – si legge ancora:

anche ad avviso della migliore dottrina, vi sarà responsabilità del progettista non solamente nell’ipotesi di progettazione che, ad esempio, rappresenti falsamente la realtà dei luoghi (dimensioni del lotto, distanze dei fabbricati confinanti, etc.), ma anche – ed anzi con maggiore evidenza – nell’ipotesi in cui il progettista rediga il progetto sapendo o dovendo sapere che l’edificazione è contraria alla disciplina urbanistica. Al riguardo, si ipotizza, sempre in dottrina, proprio il caso in cui al progettista venga richiesta la redazione di un progetto per l’edificazione di un fabbricato di cospicue dimensioni su di un lotto piccolo e/o situato in una zona non edificabile (ovvero, come nel nostro caso, in una zona con diverso indice di edificabilità). In questi casi – si dice correttamente – il progettista non potrà ritenere che il progetto sia un semplice studio di fattibilità destinato a rimanere nel cassetto del committente, e, pertanto, dovrà rifiutare la redazione del progetto, altrimenti, quando i lavori abusivi saranno iniziati dal committente, anch’egli ne risponderà per avere posto in essere una causa necessaria alla produzione dell’evento, ai sensi dell’art.41 c.p.

(App. Catania 21.10.1996, Santo e a., RGE, 1997, I, 414).

10.1 …e per interventi eseguiti con s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire

La disciplina procedimentale della segnalazione certificata d’inizio attività delinea per il progettista un analogo ruolo responsabilizzante, che ben si giustifica se si pone mente al fatto che per gli interventi soggetti all’iter semplificato il controllo della p.a. può non essere preventivo e, magari, neppure effettivo. Proprio per questo la legge richiede opportune cautele e prevede che la segnalazione sia

accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie

(art. 23, comma 1, TUE).

Al termine dei lavori, poi,

il progettista o un tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale, che va presentato allo sportello unico, con il quale si attesta la conformità dell’opera al progetto presentato con la s.c.i.a.

(art. 23, comma 7, TUE).

Per sottolineare la particolare delicatezza e l’importanza che il professionista assume nel procedimento della s.c.i.a., il legislatore ha avvertito la necessità di dettare una specifica disposizione sulle possibili conseguenze sanzionatorie di un’attività svolta in modo non corretto:

per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli artt. 359 e 481 del codice penale. In caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui all’art. 23, comma 1, l’amministrazione ne dà comunicazione al competente ordine professionale per l’irrogazione delle sanzioni discplinari

(art. 29, comma 3, TUE).

Rispetto alle posizioni che il “diritto vivente” aveva già chiaramente assunto, sul piano penale la norma citata appariva pleonastica. Si è visto, infatti, come la giurisprudenza già ritenesse applicabile il reato di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità al progettista infedele nell’ambito dei disegni e delle relazioni presentate ai fini di ottenere la concessione edilizia. Piuttosto, appariva anomalo che la norma non fosse stata estesa anche al progettista che svolgeva il proprio compito nell’ambito del procedimento per il rilascio del permesso di costruire e, anzi, la disposizione si sarebbe anche potuta leggere, a contrariis, per sostenere l’irrilevanza penale del falso ideologico commesso dal tecnico nella redazione dei progetti di cui all’art. 20, comma 1, TUE. Bene ha fatto il legislatore, dunque, a chiarire il punto – prevedendo anzi un più rigoroso trattamento sanzionatorio – con la previsione oggi contenuta nell’art. 20, comma 7, TUE.

Al di là di questo aspetto – che non costituisce specifico tema d’indagine nella nostra trattazione – preme qui rilevare come pure le condotte dolose o colpose commesse dal progettista nell’ambito dell’iter per il perfezionamento della s.c.i.a. che sia equipollente al permesso di costruire richiesto dalla legge statale rilevino quali indefettibili contributi causali nel fatto di chi, sulla base del titolo semplificato (ottenuto in modo illecito o comunque irregolare), proceda poi alla materiale trasformazione del territorio. Giusta la previsione di cui all’art. 44, comma 2 bis, TUE, le fattispecie di reato ipotizzabili sono, in modo speculare, le stesse che conseguono allo svolgimento di lavori in forza di un permesso illecito o illegittimo. La previsione di cui all’art. 29, comma 3, TUE, dunque, non può in alcun modo essere utilizzata per sostenere che, al di fuori del falso ideologico, non vi sia responsabilità penale del progettista o, in ogni caso, non siano ipotizzabili altri reati. Esclusi i delitti di falso in atto pubblico (o autorizzazione amministrativa) – non ipotizzabili nel caso di s.c.i.a., posto che si tratta certamente di un atto privato – e, forse, la truffa edilizia (potrebbe in questo caso dirsi che manchi l’atto dispositivo del soggetto indotto in errore), nulla muta quanto alla responsabilità del progettista per i reati urbanistici qualora si segua l’iter semplificato piuttosto che quello del permesso di costruire.

11. I possibili concorrenti nel reato di lottizzazione abusiva negoziale.

Nel reato di lottizzazione abusiva il profilo dei possibili soggetti attivi assume caratteristiche particolari dovute, da un lato, alla normale complessità della condotta criminosa, che vede di regola coinvolti numerosi soggetti, e, d’altro lato, al fatto che essa ha uno sviluppo cronologico che spesso abbraccia lassi temporali apprezzabilmente lunghi, nell’arco dei quali interviene, assumendo ruoli diversi, una molteplicità di persone. Ed invero, osserva la giurisprudenza,

la lottizzazione abusiva viene prevalentemente configurata come reato a carattere permanente e progressivo, in cui, dopo l’iniziale frazionamento dei lotti, anche la condotta successiva, che consista nell’esecuzione di opere di urbanizzazione o nella costruzione di opere edilizie, prolunga l’evento criminoso (…) il carattere generalmente plurisoggettivo del reato (…) implica nella quasi totalità dei casi la partecipazione di un venditore-lottizzatore e di vari acquirenti, animati dallo stesso intento edificatorio

(Cass. Sez. III, 5.12.2001, Venuti e a., RP, 2003, 70).

Più in particolare, nell’illecito

confluiscono condotte convergenti verso un’operazione unitaria caratterizzata dal nesso causale che lega le condotte dei vari partecipi dirette a condizionare la riserva pubblica di programmazione territoriale

(Cass. Sez. III, 6.7.1999, Grillo e a., RP, 2000, 242)

e

la correità non investe la partecipazione alle singole azioni rilevanti sul piano della qualificazione criminosa, e segnatamente, la edificazione delle singole opere

(Cass. Sez. III, 4.5.1988, Antonuccio, CP, 1989, 1829).

A seconda dei casi, invero, può trattarsi di <<proprietari, costruttori, geometri, architetti, mediatori di vendita, notai, esecutori di opere, ecc.>> (Cass. Sez. III, 25.1.1984, Mazzotta, CP, 1985, 984).

Il rilievo è condiviso in dottrina, che, dal canto suo, aggiunge:

l’ipotesi che una lottizzazione abusiva possa essere effettuata ad opera di una sola persona, pur astrattamente configurabile, (si pensi al caso del proprietario, o comunque di colui che ha la disponibilità di un terreno, che da solo esegua il frazionamento materiale dell’area e magari, avvalendosi di mezzi meccanici, anche una parte delle opere di urbanizzazione), appare tutt’altro che frequente in concreto, mentre la regola è quella della normale partecipazione di più soggetti, svolgenti ruoli diversi, alla realizzazione, o al tentativo di realizzazione mediante il frazionamento e la vendita del suolo, dell’insediamento abusivo. A ben vedere, anzi, per la lottizzazione negoziale, per la quale non è sufficiente il solo frazionamento, richiedendosi anche la vendita dei singoli lotti, dovrebbe parlarsi di reato necessariamente plurisoggettivo proprio, essendo richiesto un numero minimo di soggetti (almeno un venditore e un acquirente) per l’esistenza del reato, tutti astrattamente responsabili

(BRESCIANO e PADALINO MORICHINI, I reati urbanistici, cit., 299).

Se per quanto riguarda la c.d. lottizzazione materiale – quella che consiste nello svolgimento di opere in assenza dell’autorizzazione a lottizzare o, comunque, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici o della legge – l’individuazione dei possibili soggetti responsabili non presenta particolari connotazioni rispetto alle altre figure di reato urbanistico, profili specifici sorgono con riguardo alla forma c.d. negoziale in cui il reato può manifestarsi. Di uno di essi, quello relativo alla natura plurisoggettiva del reato, già si è accennato, sicché occorre innanzitutto soffermarsi sulle due figure necessarie per consumare questa particolare ipotesi di reato-contratto, figure che, avendo a mente la fattispecie negoziale di regola utilizzata per la consumazione del reato – cioè la compravendita – possiamo qui sinteticamente definire venditore e acquirente, con l’avvertenza, in relazione alla più ampia tipologia contrattuale con cui l’illecito può perfezionarsi, che la sintentica denominazione va più correttamente riferita al dante causa e all’avente causa.

A proposito del venditore, nulla quaestio: si tratta del titolare del terreno suddiviso in lotti o comunque oggetto del trasferimento a fini della successiva edificazione in assenza del piano di lottizzazione o in violazione della normativa urbanistica. Se la titolarità compete ad una persona giuridica, secondo le regole generali la responsabilità graverà su coloro che hanno assunto la decisione e/o agito in nome e per conto dell’ente, sicché desta perplessità il principio secondo cui

ai fini della configurabilità del concorso di soci di una società a responsabilità limitata nel reato di lottizzazione abusiva, non è necessaria una loro ingerenza materiale nelle vendite, potendo la loro partecipazione essere accertata sulla base della consapevolezza delle vendite dei lotti e del loro interesse a trarre da esse il maggior profitto, non avendo rilievo che la gestione degli affari sociali sia riservata all’amministratore

(Cass. Sez. III, 9.3.1988, Acanfora, CP, 1989, 1830).

Di regola, l’iniziativa illecita è del lottizzatore e, in ogni caso, certamente egli conosce e condivide il proposito edificatorio di chi acquista, sicché non possono porsi problemi nemmeno sul piano della colpevolezza:

la condotta dell’acquirente non configura un evento imprevisto ed imprevedibile per il venditore, perché anzi contribuisce alla concreta attuazione del disegno criminoso di questi

(Cass. Sez. III, 26.1.1998, Ganci e a., RP, 1998, 460).

La giuriprudenza insegna che anche nei suoi confronti la consumazione del reato, laddove non cessi prima, si protrae sino all’ultimazione dell’ultima opera edilizia programmata:

il concorso del venditore-lottizzatore permane sino a quando continua l’attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei singoli lotti, giacché – com’è stato giustamente osservato – egli da una parte ha dato causa a quella condotta edificatoria e quindi risponde dell’evento ex art. 41 c.p., dall’altra potrebbe sempre fare cessare la condotta e l’evento connesso, denunciando l’operazione lottizzatoria al pubblico ministero (che può chiedere il sequestro preventivo dell’area lottizzata ex art. 321 c.p.p.), o al sindaco (che deve disporre la sospensione della lottizzazione ex comma 7 dell’art. 18 legge 47/1985, con conseguente interruzione dei lavori e l’acquisizione dell’area al patrimonio disponibile del comune)

(Cass. Sez. III, 6.7.1999, Grillo e a., RP, 2000, 242).

Quanto agli acquirenti, la giurisprudenza osserva innanzitutto che

senza la collaborazione e l’evidente lucro dei compratori, che ottengono un terreno per edificare a prezzi inferiori a quelli del mercato edilizio, non sarebbe possibile concretare il reato di lottizzazione abusiva

(Cass. Sez. III, 26.1.1998, Ganci e a., RP, 1998, 460; Cass. Sez. III, 26.1.1998, 26.1.1998, Cusimano, GP, 1998, II, 636).

Del resto, si aggiunge,

attraverso l’acquisto consapevole di un lotto frazionato si manifesta altresì la volontà dell’acquirente di cooperare nel reato: non è necessario un previo concerto o un’azione concordata; essendo sufficiente, al contrario, una semplice adesione di volontà quale assenso al disegno criminoso da altri concepito e ben ravvisabile in concreto

(Cass. Sez. III, 13.7.1995, Barletta e a., GP, 1996, II, 352.Contra, Cass. Sez. III, 12.1.1982, Violoni e a., FI, 1983, II, 281).

Spesso la corresponsabilità degli acquirenti emerge da chiari e significativi elementi. In un caso, ad es., la Corte di legittimità ha ritenuto correttamente motivata la condanna inflitta dal giudice di merito, osservando che questi aveva ricavato

la consapevolezza dell’abusività della lottizzazione operata dai venditori negli acquirenti dallo schema negoziale predisposto, dalla z.t.o. del P.R.G., dalle trasformazioni edilizie già effettuate con opere infrastrutturali (strada interpoderale) ed immobili abusivi (immobili destinati alla residenza fra cui <<ville e villette>>), dalla recinzione dei singoli lotti, incompatibile con una comunione pro indiviso, dalla richiesta di concessioni edilizie <<per costruzioni agricole nella realtà costituite da campi da tennis, spogliatoi, piscine, laghetti artificiali, ville e villette>>, e dalla conoscenza, da parte di chiunque, dell’impossibilità di lottizzare cioè di frazionare ed acquistare un suolo agricolo a piccoli lotti con una destinazione residenziale e l’effettuazione di opere di urbanizzazione

(Cass. Sez. III, 8.11.2000, Petracchi, GP, 2002, II, 106).

Certo, non si può escludere che l’acquirente agisca in buona fede, senza rendersi conto di partecipare ad un’operazione di lottizzazione illecita e la giurisprudenza, di fatti, segnala che

l’acquisto a fini edificatori non implica, di per sé, una partecipazione all’attività illecita, purché si ponga in modo autonomo ed avulso dal programma del venditore. Quando, invece, l’acquirente sia consapevole dell’abusività dell’intervento, la sua condotta inserisce un determinante contributo causale alla concreta attuazione del disegno iniziale: in tal modo le azioni, apparentemente distinte, si collegano tra loro e determinano la formazione di una fattispecie unitaria ed inidivisibile, diretta in modo convergente al conseguimento del risultato lottizzatorio

(Cass. Sez. III, 5.3.1996, Mele, CP, 1997, 1480).

Non è così e <<le due posizioni sono separabili solo se risulti provata la malafede dei venditori, che, traendo in inganno gli acquirenti, convincono della legittimità delle operazioni>> (Cass. Sez. III, 22.5.1990, Oranges, CP, 1992, 1885 ; il principio è richiamato da Cass. Sez. III, 26.1.1998, Cusimano, GP, 1998, II, 633). Laddove ciò accada, il reato sussiste comunque in capo al venditore (v. Cass. Sez. III, 4.12.1995, Cascarino, CP, 1997, 197).

Nemmeno la qualità di subacquirente vale a conferire una patente di liceità all’acquisto operato dall’avente causa dell’originario lottizzatore, poiché la contraria tesi, osserva la Cassazione respingendo il ricorso proposto per questo motivo,

costituirebbe un sistema elusivo per vanificare le diposizioni legislative in materia di lottizzazione negoziale, sicché detta semplice qualità non ne esclude la responsabilità, tanto più ove si consideri che in considerazione del tempo trascorso il programma lottizzatorio aveva cominciato a delineare i suoi aspetti materiali sul territorio

(Cass. Sez. III, 8.11.2000, Petracchi, GP, 2002, II, 105).

Anche in relazione ad un risalente e criticabile orientamento secondo cui la lottizzazione abusiva sarebbe reato che richiede necessariamente il dolo (affermato da Cass., Sez. U., 3.2.1990, Cancilleri, CP, 1990, 830, ma poi correttamente abbandonato: v., ex multis, Cass., sez. II, sent. n. 36940 del 11/05/2005, Stiffi e a., RV 232189) la giurisprudenza ha spesso ancorato la responsabilità penale concorsuale degli acquirenti alla coscienza e volontà di realizzare una lottizzazione illecita, sia pur accontentandosi di ricavarne la prova da elementi indiziari:

un indice inequivoco della sussistenza di tale coscienza e volontà nel soggetto acquirente di un lotto derivato deve ritenersi costituito dalla consapevolezza – che costui acquisisce attraverso il certificato di destinazione urbanistica che deve essere obbligatoriamente allegato all’atto di trasferimento – dell’oggettivo contrasto del frazionamento operato con la destinazione prevista dai vigenti strumenti di pianificazione. Chi acquista in condizioni siffatte comprende << ictu oculi>>, anche se non è esperto di leggi urbanistiche, che l’immobile di cui vuole divenire proprietario – proprio attraverso il suo distacco dal più ampio appezzamento in cui originariamente si inseriva – è stato predisposto in concreto ad un’attività edificatoria non consentita

(Cass. Sez. III, 13.7.1995, Barletta e a., GP, 1996, II, 352).

Come si diceva, tuttavia, appare oggi consolidato l’orientamento che reputa sufficiente anche in capo agli acquirenti (o subacquirenti) il profilo soggettivo della colpa:

il reato di lottizzazione abusiva, che è a consumazione alternativa, potendosi realizzare sia per il difetto di autorizzazione sia per il contrasto con le prescrizioni della legge o degli strumenti urbanistici, può essere integrato anche a titolo di sola colpa. (Fattispecie di acquisto, come autonome residenze private, di unità immobiliari facenti parte di complesso turistico - alberghiero)

(Cass., sez. III, sent. n. 38799 del 6/09/2015, Rv. 264718).

Un’altra categoria di soggetti che può concorrere nel reato di lottizzazione abusiva è quella dei tecnici abilitati alla redazione dei frazionamenti catastali , il cui tipo dev’essere depositato in comune a norma dell’art. 30, comma 5, TUE, che all’attestazione di tale avvenuto deposito subordina la sua approvazione da parte dell’agenzia del territorio. Con riguardo all’identica disposizione contenuta nell’art. 18, comma 5, l. 47/1985, la dottrina aveva osservato che essa,

pur essendo diretta a condizionare l’approvazione del tipo di frazionamento da parte dell’ufficio tecnico erariale alla suddetta incombenza, non può non aver effetti sull’accertamento della responsabilità penale del tecnico in caso di lottizzazione abusiva. Difatti, con giurisprudenza costante la Corte di cassazione ha ritenuto che il tecnico autore del frazionamento catastale utile ai fini della lottizzazione abusiva risponde di tale reato in concorso con il proprietario del terreno, tutte le volte che abbia redatto il frazionamento con la consapevole volontà di commetere l’illecito. Orbene, il tecnico che abbia redatto un frazionamento catastale omettendo di depositarlo presso il comune difficilmente può sottrarsi all’addebito di responsabilità, ove il frazionamento stesso sia stato utilizzato per realizzare una lottizzazione abusiva, stante l’obbligo di condotta che gli derivava dalla norma citata, la cui violazione evidenzia una volontà colpevole. Parimenti, è da concludersi nel caso in cui il frazionamento inerisca ad una lottizzazione abusiva, non potendo di certo il tecnico addurre la buona fede, risultando <<per tabulas>> l’intento lottizzatorio al quale è strumentale, appunto, il frazionamento stesso.

(Albamonte 1993, 2439 s.).

Confermando la condanna inflitta dal giudice di merito, la Corte di legittimità ha riconosciuto un’ipotesi del genere osservando che il professionista

risulta aver operato – in qualità di tecnico – l’ulteriore frazionamento di due particelle già frazionate, comprese anch’esse nella maggiore estensione della proprietà originaria. Egli pure si inserì, dunque, con efficienza causale nel determinismo produttivo dell’evento ed anche qualora, all’epoca dello svolgimento dell’anzidetta attività professionale, non fosse stato ancora annotato sul mappale il precedente frazionamento egli ebbe comunque a rendersi pienamente conto della reale situazione in occasione delle effettuate operazioni di ricognizione e di picchettamento

(Cass. Sez. III, 13.7.1995, Barletta e a., GP, 1996, II, 353).

D’altra parte, anche di recente la Cassazione ha confermato che

In tema di reati edilizi, l'accatastamento di un terreno integra una delle forme del reato di lottizzazione abusiva, e precisamente quella cd. "negoziale"

(Cass., Sez. III, sent. n. 37641 del 28/05/2015, Rv. 265179)

11.1. La posizione del notaio: dall’affermazione giurisprudenziale della corresponsabilità all’apparente esonero ex lege.

Sulla base della disciplina precedente l’entrata in vigore della l. n. 47/1985 la prevalente giurisprudenza non aveva dubbi nell’affermare come

l’evento della lottizzazione negoziale sia ascrivibile, dal punto di vista della causalità materiale, anche al notaio, il quale presti il proprio ministero negli atti pubblici di trasferimento della proprietà dei lotti frazionati, attività questa che costituisce l’antecedente necessario della successiva edificazione del territorio da parte della pluralità degli acquirenti

(Cass. S.U. 3.2.1990, Cancilleri, CP, 1990, 830. Nello stesso senso, Cass. Sez. III, 25.1.1989, Ruscica, CP, 1990, 982).

Trattandosi di pubblico ufficiale tenuto a denunciare le notiatiae criminis apprese nell’esercizio delle funzioni si era anche posto il dubbio circa la sua incriminabilità per il delitto di cui all’art. 361 c.p., ma proprio la generale convinzione sulla corresponsabilità nella contravvenzione urbanistica portava a ritenere che «il notaio che roghi contratti di acquisto di lotti abusivi concorre nel reato di lottizzazione abusiva e non risponde di omessa denuncia di reato»> (Cass. Sez. VI, 6.4.1988, Grasso, CP, 1989, 1827).

La dottrina avallava le conclusioni giurisprudenziali, osservando che

il concorso del notaio non può negarsi quando egli, con la normale diligenza, possa venire a conoscenza (…) che gli atti, che gli si richiede di rogare, costituiscono momento di un’operazione lottizzatoria (in base alle dichiarazioni delle parti o in base ad elementi inequivoci emergenti dalla natura, dal numero, dal contenuto degli atti stessi nonché dalla qualità delle parti)

(Albamonte 1986a, 2020).

Ed invero,

la condotta del notaio in tal caso si inserisce nella dinamica causale del reato di lottizzazione abusiva, come attività indispensabile ai fini della realizzazione dell’evento illecito, costituito dall’alienazione dei lotti; il concorso del notaio si manifesta in ogni caso, quantomeno sotto il profilo dell’ultimo comma dell’art. 40 c.p., cioè quello della sottrazione all’obbligo giuridico di impedire l’evento illecito

(Bresciano 1990a, 929).

La responsabilità conseguente all’applicazione delle ordinarie regole sul concorso di persone nel reato – si aggiungeva – non può escludersi ritenendo che

il notaio, essendo obbligato a prestare la propria opera, possa non essere punibile ai sensi dell’art. 51 comma 1 c.p., in tema di esercizio di un diritto o adempimento di un dovere. Infatti (…) l’art. 28 comma 1° della legge notarile, 16.2.1913 n. 89, vieta al notaio di ricevere atti che siano espressamente vietati dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico (e non vi è dubbio che debba ritenersi contrario all’ordine pubblico un contratto che costituisca momento integrativo di un reato, vendita del terreno)

(Albamonte 1986a, 2021. In termini, Bresciano 1990a, 929)

A conclusioni diverse si giungeva invece quando l’attività notarile non consisteva nel rogare un atto di compravendita ma nel compiere le formalità necessarie per effettuare la trascrizione di un contratto già concluso con scrittura privata. Ed invero, nel caso in cui

il notaio si limita ad autenticare le firme delle parti, che già hanno in precedenza stipulato fra loro con scrittura privata, non ha l’obbligo di sindacare la liceità del contratto, ma compie un atto dovuto, così come è dovuta la successiva trascrizione, ne consegue che, in tale ipotesi, il notaio non concorre nel reato di lottizzazione abusiva perché la sua opera non si inserisce nella dinamica causale dell’illecito

(Cass. Sez. III. 13.3.1985, Sbardella, CP, 1986, 992. Conforme, Cass. Sez. III, 12.1.1982, Violoni e a., FI, 1983, II, 281).

Nel confermare questo orientamento, le sezioni unite della Cassazione precisavano che la dichiarazione di autenticazione delle sottoscrizioni

è atto di certificazione in senso proprio, del tutto autonomo rispetto al documento certificato, che si concreta nell’attività meramente strumentale di esternazione di un fatto giuridico, che ha già prodotto tutti suoi effetti inter partes. La neutralità dell’atto, che è e resta distinto dalla scrittura privata, comporta – come la giurisprudenza largamente prevalente di questa Corte Suprema ha affermato – che non è possibile ravvisare neppure in astratto la responsabilità del notaio a titolo personale o di concorso nel reato di lottizzazione abusiva, non compiendo egli alcun atto negoziale rilevante sul piano della causalità materiale del reato. Né egli potrebbe rifiutarsi, a norma dell’art. 27 della legge professionale, di certificare l’autenticità della sottoscrizione ogni volta che vi fosse richiesto: perché, non ricevendo un atto, ma semplicemente esternandolo, non troverebbe applicazione la deroga dell’art. 28 legge citata, che vieta di <<ricevere>> atti espressamente proibiti dalla legge o manfestamente contrari al buon costume e all’ordine pubblico, di tal guisa essendogli precluso il controllo di legalità del contenutuo dell’atto autenticato

(Cass. S.U. 3.2.1990, Cancilleri, CP, 1990, 830).

La l. n. 47/1985 dettò regole innovative anche in relazione alle stipula e alla trascrizione degli atti con cui è astrattamente possibile realizzare una lottizzazione abusiva negoziale, stabilendo, da un lato la previsione della nullità speciale degli atti tra vivi, redatti in forma pubblica o privata, aventi ad oggetto il trasferimento - o la costituzione o lo scioglimento della comunione – di diritti reali relativi a terreni ove agli stessi non fosse allegato il certificato di destinazione urbanistica relativo all’area interessata (art. 18, comma 2, l. 47/1985) e, d’altro lato, l’obbligo dei pubblici ufficiali che ricevono o autenticano atti di trasferimento di appezzamenti di terreno con superficie inferiore a diecimila quadrati di trasmettere entro trenta giorni copia dell’atto al sindaco del comune ove è si trova l’immobile (art. 18, comma 6, l. 47/1985). Il successivo art. 21, rubricato << sanzioni a carico dei notai>> – dopo aver espressamente stabilito, al 1° comma, che il ricevimento e l’autenticazione da parte dei notai di atti nulli previsti dalla legge sul condono edilizio comporta responsabilità disciplinare – dispose che

tutti i pubblici ufficiali, ottemperando a quanto disposto dall’articolo 18, sono esonerati da ogni responsabilità inerente al trasferimento o alla divisione dei terreni; l’osservanza della formalità prevista dal sesto comma dello stesso articolo 18 tiene anche luogo del rapporto di cui all’articolo 2 del codice di procedura penale

(art. 21, comma 2, l. 47/1985).

L’interpretazione dell’art. 21 l. 47/1985 suscitò da subito contrasti. Tra i primi commentatori, qualcuno notò che la previsione normativa era chiaramente diretta a fare

luce sui profili di responsabilità penale (ovviamente esclusa quella civile) connessi allo svolgimento del ministero notarile in materia urbanistica, che avevano ricevuto diverse <<letture>> giurisprudenziali: da quella che fondava la responsabilità penale sull’art. 361 c.p. (<<omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale>>), a quella che la individua nel concorso nel reato di lottizzazione abusiva, fino al collegamento all’artl. 40 c.p. per non aver impedito un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire. L’ultima parte della norma sotto esame è indicativa di un mutamento di rotta (…) ed è logico pertanto che i notai non siano destinatari anche dell’art. 20 l. n. 47 del 1985

(ZANELLI, Commento all’art. 21 l. 28.2.1985, n. 47, in Carullo A. (a cura di), Commentario della legislazione sul condono edilizio, in NGCC, 1985, 1108).

Altri, per contro, ritennero che

dall’art. 21 della l. n. 47 esce rafforzata la configurabilità del concorso dei notai nel reato di lottizzazione abusiva: in primo luogo – ove vi fossero ancora dubbi -, esplicitamente viene affermato dal legislatore che gli atti di predisposizione di una lottizzazione abusiva sono vietati per il notaio in quanto assimibilabili a quelli contrari all’ordine pubblico, di cui all’art. 28 comma 1° della legge notarile; in secondo luogo, viene esplicitamente riferito il divieto non solo al ricevimento di atti ma anche all’autenticazione da parte dei notai di atti nulli in quanto in violazione dell’art. 18

(ALBAMONTE,Il reato di lottizzazione abusiva nella l. n. 47 del 1985, inCP, 1986, 2021. Nello stesso senso, BRESCIAO, Nota a Cass., sez. III, 25.1.1989, Ruscica, in CP, 1990, 929).

Con riguardo alla citata previsione contenuta nel capoverso della disposizione, questa dottrina osservò che

è vero che l’art. 21 comma 2° stabilisce che i pubblici ufficiali ottemperando a quanto disposto dall’art. 18 sono esonerati da ogni responsabilità inerente al trasferimento o alla divisione dei terreni, ma sifffatta non responsabilità del notaio può ricorrere ove non sia stato da lui violato il sostanziale precetto dell’art. 18, che fa divieto di eseguire lottizzazioni abusive. Appare allora evidente che il notaio, per andare esente da responsabilità, non si possa limitare a riceverere il certificato di destinazione urbanistica o la dichiarazione sostitutiva equipollente per allegarla all’atto ricevuto o autenticato, ma debba preventivamente accertarsi che tali documenti, sulla base degli elementi indizianti di cui al comma 1° dell’art. 18, non sia ravvisabile una lottizzazione abusiva. In conclusione, il notaio, per non incorrere in responsabilità penale come concorrente nella lottizzazione, deve astenersi dal prestare la propria opera ai fini della commercializzazione o divisione dei terreni ove, dalla documentazione prodotta in rapporto agli ulteriori elementi indiziari, risulti in modo non equivoco che l’attività negoziale abbia lo scopo lottizzatorio

(ALBAMONTE, Il reato di lottizzazione, cit., 2021. Lo stesso Autore, in un successivo contributo, mostra tuttavia di aver mutato opinione: v. ALBAMONTE, Responsabilità dei notai e lottizzazioni abusive, in CP, 1990, 587 s.).

Interpretata nel senso della previsione di esonero da responsabilità penale del notaio che avesse adempiuto agli obblighi imposti dall’art. 18, commi 2 e 6, l. 47/1985, la norma fu sospettata di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 3 Cost., giacché determinarebbe un ingiustificato privilegio a favore dei pubblici ufficiali, e dei notai in particolare, anche nel caso in cui costoro, pur consapevoli dell’illiceità della lottizzazione, prestino la loro opera per perfezionare il trasferimento dei terreni. Con un’ordinanza dalla stringata motivazione, la Corte costituzionale dichiarò la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sulla base delle seguenti considerazioni:

che l’art. 21 impugnato sancisce espressamente i compiti di cui è fatto obbligo al notaio per combattere l’abusivismo delle lottizzazioni;

che tali compiti sono tali da escludere ogni possibilità di perpetrazione del fatto illecito, giacché il notaio, trasmettendo al sindaco, entro trenta giorni, copia dell’atto rogato, mette in condizioni l’autorità preposta alla vigilanza di intervenire fino ad acquisire i beni abusivamente lottizzati al patrimonio della comunità;

che, proprio per questo, è lo stesso legislatore ad equiparare la trasmissione della copia dell’atto alla tramissione del rapporto, cui è obbligato ogni pubblico ufficiale che, nell’esercizio delle sue funzioni, rilevi un fatto che possa costituire reato;

che più di questo non è possibile pretendere, in quanto, una volta che il pubblico ufficiale ha compiuto gli atti che la legge stessa reputa idonei ad impedire il reato, ogni ulteriore intromissione nell’atteggiamento interiore del soggetto agente equivarrebbe a punire le intenzioni anche quando queste non si manifestano su atti esteriori idonei a conseguire l’evento vietato

(Corte cost. 29.12.1989, n. 595, CP, 1990, 586).

11.1.1. La corresponsabilità del notaio secondo il diritto vivente.

Nella sua originaria versione il testo unico in materia edilizia non conteneva novità al proposito, poiché l’art. 30, 2° e 6° co., e l’art. 47 riproducevano le previsioni rispettivamente dettate dalla l. n. 47/1985 agli artt. 18, commi 2 e 6, e 21. L’art. 1, d.p.r. 9.11.2005, n. 304 (recante, regolamento di semplificazione in materia di comunicazioni di atti di trasferimento di terreni e di esercizi commerciali) ha tuttavia abrogato il 6° comma dell’art. 30 TUE e il rinvio che a tale norma era contenuto nell’ultimo periodo dell’art. 47, 2° co., TUE, sicché l’unico obbligo che residua in capo ai notai nei casi considerati dalla norma è quello di allegare al rogito il certificato di destinazione urbanistica dell’area oggetto di trasferimento. Sia pur con l’avvertenza che questo costituisce oggi l’unico adempimento posto a carico dei notai, non sembrano esservi ragioni per non condividere gli approdi a cui era giunta la più recente elaborazione della Suprema Corte nell’affermare che

gli approdi attuali possono riassumersi nell’esclusione della responsabilità del notaio, qualora adempia a tutti gli oneri di informazione e di comunicazione a lui attribuiti in una particolare <<collaborazione>> con gli organi pubblici ed alleghi agli atti i certificati di destinazione urbanistica, fatta salva sempre l’applicazione dei principi generali in materia di concorso di persone nel reato

(Cass. Sez. III, 8.11.2000, Petracchi, GP, 2002, II, 105).

In sostanza, se il notaio rispetta le prescrizioni formali previste dall’art. 30 TUE la sua condotta – che, sul piano oggettivo, certamente concorre a realizzare la fattispecie illecita – non può essere penalmente sanzionata in forza del principio oggi contenuto nell’art. 47, comma 2, TUE, il quale, come giustamente rileva un’attenta dottrina, «introduce una vera e propria causa di non punibilità» (BRESCIANO e PADALINO MORICHINI, I reati urbanistici, cit., 314, seguiti da PATARNELLO, Il reato di lottizzazione abusiva negoziale con particolare riferimento alla figura del notaio rogante , in RGE, 2002, II, 198) analoga a quella prevista per il direttore di lavori che si “dissoci” dalla condotta illecita da altri commessa per l’esecuzione delle opere in difformità dal titolo. Non sfugge, tuttavia, che a seguito della “novella” sopra menzionata, la “dissociazione” del notaio quale richiesta dalla legge ha oggi un contenuto assai poco pregnante, tanto che la giurisprudenza, richiamando le stesse raccomandazioni dell’associazione di categoria, sembra richiedere qualcosa in più. Ed invero, mentre la dottrina rileva come la causa di non puibilità opera per il notaio

anche nel caso in cui abbia conoscenza dell’antigiuridicità dell’altrui condotta (…) il notaio che roga o autentica un atto di lottizzazione abusiva può conoscere o non conoscere l’antigiuridicità dell’operazione, ma se si limita a <<sapere>> non determina, non rafforza, né istiga l’autore o gli autori

(PATARNELLO, Il reato, cit., 199),

la più recente giurisprudenza adotta parametri più severi. Non solo, di fatti, la Cassazione ha più volte affermato la corresponsabilità del notaio nel reato di lottizzazione abusiva, ma, nel precisare che l’intervento di detto pubblico ufficiale non vale neppure ad escludere una possibile colpa in capo agli acquirenti degli immobili illecitamente lottizzati, ha insegnato che

non può ritenersi automaticamente sussistente la buona fede dell'acquirente per il solo fatto che si sia rivolto per il rogito della compravendita ad un notaio, il cui intervento - sia per la possibilità di incomplete o mendaci dichiarazioni o documentazioni a lui rese o prodotte al fine di non fare emergere l'intento lottizzatorio, sia per l'eventualità di un contributo, doloso o colposo, del pubblico ufficiale alla realizzazione dell'evento illecito - non fa venir meno l'originaria illegalità dell'immobile, né può consentire all'acquirente, in dolo o in colpa, di godere di un bene di provenienza illecita e al costruttore abusivo di conseguire il proprio illecito fine di lucro (Conf. Sez. 3, 28104/2013, non massimata)

(Cass., Sez. III, sent. n. 51710 del 03/12/2013, Rv. 257348)

In motivazione, la Corte puntualizza poi come lo stesso notaio

potrebbe concorrere alla lottizzazione abusiva, sia contribuendo con la propria condotta alla realizzazione dell'evento illecito (facendo proprio il fine degli autori del reato, magari anche con attiva induzione propiziatoria) sia per violazione del dovere della normale diligenza professionale media esigibile ai sensi dell'art. 1176 cod. civ., comma 2 (…) A fronte dell'apparenza del requisito formale della commerciabilità del bene, emergente dalle dichiarazioni di rito della parte venditrice che assevera titolo abilitativo e provenienza dell'immobile, il notaio deve preoccuparsi che l'atto non nasca invalido o invalidabile e che lo stesso strumento riduca al massimo i rischi dell'emergenza di liti interpretative tra le parti. Spetta al notaio, dunque, l'esame puntuale della documentazione storica dell'immobile, per la completa tranquillità di non rischiare la invalidità dell'atto: egli, quale privato esercente di pubbliche funzioni, deve assumere una pregnante funzione di controllo documentale, sussistendo un interesse generale da tutelare oltre quello delle parti costituite in atto.

Le conclusioni sopra riportate sono in sintonia con le regole di condotta dettate dai Protocolli dell'Attività Notarile - Regola n. 13, ove viene testualmente enunciato:

- che la prestazione del notaio dovrà essere finalizzata non solo ad assicurare il rispetto dei requisiti formali necessari ai fini della validità degli atti, ma anche ad evitare che l'atto notarile costituisca elemento per la realizzazione di lottizzazioni abusive, anche quale elemento inserito in un procedimento progressivo e complesso di realizzazione della fattispecie abusiva;

- che il ruolo del notaio dovrà essere diretto, altresì, a colmare la presumibile asimmetria informativa delle parti in una materia complessa quale è quella urbanistica ed edilizia;

- che eventuali vizi nei requisiti attinenti la validità degli atti non sono rilevabili da una mera visura delle note di trascrizione, ma richiedono un esame dei titoli di provenienza.

Alla stregua di tali considerazioni la Regola n. 13 prescrive al notaio l'osservanza delle seguenti condotte:

- informare le parti sulle conseguenze giuridiche legate al fenomeno della lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio, sia materiale che negoziale, nei casi in cui l'operazione presenti elementi di incongruità in relazione agli elementi che possono evincersi dalla definizione di lottizzazione abusiva riportata nell'art. 30, comma 1, cit. T.U. sull'edilizia (D.P.R. 380 del 2001);

- astenersi dal prestare qualunque contributo attivo e consapevole all'altrui illecita attività finalizzata al suddetto scopo;

- presentare o trasmettere, senza ritardo, al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria, denunzia scritta in tutti i casi in cui, sulla base degli elementi indicati nel cit. D.P.R. n. 380 del 2001, art. 30 emerga il sospetto di una lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio

(Cass., Sez. III, sent. n. 51710 del 03/12/2013, Rv. 257348)

Quando, poi, la condotta del notaio trascenda la mera attività rogatoria o di autenticazione compiuta con l’osservanza delle prescrizioni di legge e si inserisca dando un apporto causale attivo all’altrui condotta lottizzatoria (di solito, quella dei venditori), è indubitabile la responsabilità penale a titolo di concorso nella lottizzazione abusiva. E’ ciò che ha ritenuto la Cassazione nella citata sentenza Petracchi, che ha confermato la condanna inflitta dai giudici di merito a due notai sul rilievo che in atti sussisteva la prova che nella stipula degli atti negoziali con cui la lottizzazione si era attuata essi avevano avuto un ruolo attivo nel rassicurare taluni acquirenti (evidentemente in buona fede) sulla correttezza dell’operazione e nel dispensare ai lottizzatori consigli giuridici volti rendere più difficile l’accertamento del reato. Si è conseguentemente affermato, in modo del tutto condivisibile, il seguente principio di diritto:

se è vero che la responsabilità del notaio nel reato di lottizzazione abusiva deve escludersi qualora egli adempia a tutti gli oneri a lui imposti dagli artt. 18 e 21 l. n. 47 del 1985, la stessa può essere affermata a titolo di concorso ove risulti dalla dimensione complessiva strutturale di ogni singolo atto (comunione pro indiviso anche di numerosi acquirenti), dal sistema negoziale predisposto per eludere alcune prescrizioni dello strumento urbanistico (minima unità colturale), e dalla stipulazione, diluita nel tempo, di vari atti presso pochi professionisti, da parte degli stessi venditori, per il medesimo terreno sito in z.t.o. E (agricola) la cosciente e volontaria partecipazione al reato in parola anche tramite alcuni consigli tecnici, che, per la qualità e le modalità di attuazione, non possono che essere stati forniti da esperti del diritto

(Cass. Sez. III, 8.11.2000, Petracchi, GP, 2002, II, 105).

Allo stesso modo – a nostro avviso – si dovrà ritenere la responsabilità concorrente del notaio che nei casi considerati presti la propria opera violando la prescrizione di cui all’art. 30, comma 2 TUE e ciò a prescindere dal fatto che l’atto nullo possa oggi essere convalidato a norma del successivo comma 4-bis, introdotto dall’art. 12, 4° co., l. 28-11-2005, n. 246: l’operatività della causa di non punibilità è invero condizionata al rispetto di quell’adempimento e il professionista che lo violi agevola, sia pur colposamente, la commissione del reato ( contra, Bresciano e Padalino Morichini 2000, 316 s., secondo cui in tal caso il notaio risponderebbe del reato di cui all’art. 361 c.p.).

PARTE TERZA

Legislazione regionale e responsabilità penale

12. Il testo unico in materia edilizia quale fonte non esclusiva della disciplina in materia e il ruolo concorrente della legislazione regionale.

Le disposizioni normative sui “reati urbanistici” – così come quelle concernenti i reati che vengono chiamati “edilizi” in senso stretto, vale a dire quelli relativi alle violazioni della disciplina delle opere in cemento armato e a struttura metallica e della disciplina per le costruzioni in zone sismiche – sono contenute nel d.p.r. 6.6.2001, n. 380, rubricato testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. Benché da un testo unico ci si attenderebbe un’esposizione organica e completa delle disposizioni relative alla materia trattata, l’agevolazione per l’interprete è soltanto apparente, e ciò per diverse ragioni.

In primo luogo, al di là del fatto che il testo unico è un decreto delegato che ha mero carattere compilativo di una legislazione frammentaria succedutasi, per stratificazione, nel tempo, come chiaramente si desume dal contenuto della legge di delega e dall’attuazione che di essa è stata data (v. art. 7, l. 8.3.1999, n. 50), è lo stesso legislatore a confessare i limiti della “codificazione” nell’articolo che, aprendo il provvedimento, ne definisce l’ambito di applicazione:

1. Il presente testo unico contiene i principi fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell’attività edilizia.

2. Restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, e le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia

(art. 1 TUE).

Del resto, com’è stato esattamente notato, confrontando le disposizioni finali del testo unico relative alle abrogazioni della disciplina previgente (art. 136) e alle norme che rimangono in vigore (art. 137)

ci si avvede che quest’ultimo elenco è più cospicuo, nel senso che molte leggi riguardanti il settore dell’edilizia sono tuttora vigenti nel loro complesso, se si eccettuano talune disposizioni, che appaiono numericamente poche. Il corollario di siffatta situazione normativa sembra evidente: il cittadino o l’operatore giuridico che intendano conoscere il regime cui è soggetto un intervento edilizio in un dato contesto urbanistico, eventualmente al fine di conoscere la legittimità o meno della configurazione di un reato in materia, sono costretti a consultare la normativa esistente prima dell’approvazione del Testo unico in questione, oltre alle disposizioni di quest’ultimo

(VIPIANA, La nuova disciplina dei reati urbanistici nel Testo unico in materia edilizia. Profili generali, in DPP, 2002, 420).

In secondo luogo, un testo legislativo di fonte statale non potrebbe comunque contenere un panorama esaustivo della legislazione urbanistico-edilizia per l’assorbente ragione che non si tratta di materia che rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. Ne era ben consapevole il legislatore delegato della riforma, che, all’art. 2 TUE, rubricato «competenze delle Regioni e degli enti locali», ritenendo evidentemente che si trattasse di disciplina riconducibile alla materia “urbanistica”, menzionata dall’allora vigente art. 117, 1° co., Cost. tra quelle devolute alla legislazione concorrente delle Regioni, così dispone:

1. Le Regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico.

2. Le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano esercitano la propria potestà legislativa esclusiva, nel rispetto e nei limiti degli statuti di autonomia e delle relative norme di attuazione.

3. Le disposizioni, anche di dettaglio, del presente testo unico, attuative dei principi dei riordino in esso contenuti, operano direttamente nei riguardi delle Regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi medesimi.

4. I Comuni, nell’ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all’art. e del D. lg. 18 agosto 2000 n. 267, disciplinano l’attività edilizia.

5. In nessun caso le norme del presente testo unico possono essere interpretate nel senso della attribuzione allo Stato di funzioni e compiti trasferiti, delegati o comunque conferiti alle Regioni e agli enti locali dalle disposizioni vigenti alla data della sua entrata in vigore

(art. 2 TUE).

La successiva riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, attuata con l.c. 18.10.2001, n. 3, ha ridisegnato, com’è noto, gli ambiti di competenza nella produzione normativa. Tra le materie indicate come riservate alla legislazione esclusiva dello Stato ed alla legislazione concorrente di Stato e Regioni non si fa menzione né dell’edilizia, né dell’urbanistica, ma, all’art. 117, co. 3, Cost., tra le materie attribuite alla legislazione concorrente, compare l’inedita “voce” «governo del territorio». Secondo l’opinione subito affermata dalla dottrina maggioritaria, la nuova “materia” altro non sarebbe se non l’evoluzione dell’urbanistica, sicché <<non sembra dubbio che le materie “urbanistica” ed “edilizia” rientrino tra quelle di competenza regionale concorrente>> (LUCIANI, Il sistema delle fonti nel testo unico dell’edilizia, in RGE, 2002, II 20; MUSOLINO, La suprema Corte di cassazione tra interpretazione adeguatrice e “disapplicazione sostanziale”, in CP, 2002, 767; CIVITARESE MATTEUCCI, Il testo unico sull’edilizia alla luce del nuovo titolo V parte II della Costituzione, in RGU, 2003, 128).

La tesi interpretativa dominante è stata accolta dalla stessa giurisprudenza penale:

anche in seguito della modifica dell’art. 117 della Costituzione, introdotta dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3, la competenza legislativa delle regioni in materia di urbanistica è concorrente con quella statale, e non esclusiva, in quanto certamente ricompresa nella espressione <<governo del territorio>> contenuta nel novella art. 117

[Cass. 5.3.2002, Palladino, GP, 2003, II, 40; CP, 2003, 2775. Nello stesso senso, Trib. Torre Annunziata – sez. Gragnano, 18.12.2002, D&G, 2003, (12), XI].

Dello stesso avviso, infine, si è mostrata la Corte costituzionale. Chiamata a pronunciarsi a seguito di ricorsi proposti da alcune Regioni che lamentavano la violazione delle prerogative loro riconosciute dalla Costituzione da parte della l. 21.12.2001, n. 443 (c.d. “legge obiettivo”), nella parte in cui (art. 1, commi da 6 a 12 e comma 14) disciplina in via generale il regime amministrativo degli interventi edilizi, stabilendo a quali titoli abilitativi essi debbono essere assoggettati – e la disciplina è stata poi sostanzialmente trasfusa nel testo unico dell’edilizia con il d.lgs. 27.12.2002, n. 301 - la Corte muove dalla considerazione secondo cui

è innanzitutto da escludersi che la materia regolata dalle disposizioni censurate sia oggi da ricondurre alle competenze residuali delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, comma 4, Cost. La materia dei titoli abilitativi ad edificare appartiene storicamente all’urbanistica, che, in base all’art. 117 Cost, nel testo previgente, formava oggetto di competenza concorrente. La parola “urbanistica” non compare nel nuovo testo dell’art. 117, ma ciò non autorizza a ritenere che la relativa materia non sia più ricompresa nell’elenco del comma 3: essa fa parte del “governo del territorio”. Se si considera che altre materie o funzioni di competenza concorrente, quali porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, sono specificamente individuati nello stesso comma 3 dell’art. 117 Cost. e non rientrano quindi nel “governo del territorio”, appare del tutto implausibile che dalla competenza statale di principio su questa materia siano stati estromessi aspetti così rilevanti, quali quelli connessi all’urbanistica, e che il “governo del territorio” sia stato ridotto a poco più di un guscio vuoto

(Corte cost. 1.10.2003, n. 303, in CorG, 2004, 35).

Il principio secondo cui l’individuazione dei titoli abilitativi degli interventi edilizi rientra nella competenza concorrente di Stato e Regioni è stato riaffermato in successive decisioni della Corte. Merita ricordare in questa sede l’importante pronuncia emessa con riguardo alla disciplina statale dell’ultimo condono edilizio, censurata da numerose Regioni anche in relazione alla dedotta violazione del principio del riparto di competenze, sul presupposto che essa riguarderebbe materie – l’edilizia o l’urbanistica – non contemplate nell’art. 117, commi 2 e 3, Cost. e quindi riservate alla competenza residuale delle Regioni. Disattendendo questa prospettazione e richiamando le precedenti pronunce nn. 303/2003 e 362/2003, la Corte ha ribadito che

nei settori dell’urbanistica e dell’edilizia i poteri legislativi regionali sono senz’altro ascrivibili alla nuova competenza di tipo concorrente in tema di <<governo del territorio>>

(Corte cost. 28.6.2004, n. 196, FI, 2005, I, 351).

13. La riserva di legge statale in materia penale: impossibilità per la legge regionale di criminalizzare o decriminalizzare le condotte dei consociati

La potestà normativa, concorrente o esclusiva, riconosciuta alle Regioni non può comunque esercitarsi nella materia penale, poiché, secondo la communis opinio dottrinale, la riserva di legge incriminatrice posta dall’art. 25, 2° co., Cost. fa riferimento alla sola legge statale (v., per tutti, VASSALLI, Nullum crimen sine lege, in NovissDigIt, XI, 1964, 496; BRICOLA, Sub art. 25, 2° e 3° comma, in Branca G. (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, 1981, 251 ss.). La conclusione è pacifica anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale e, affermata per la prima volta nella sent. n. 6/1956, salva un’isolata pronuncia (Corte cost., sent. 104/1957), è sempre stata ribadita. Quanto al fondamento costituzionale di tale asserzione, giova richiamare - per lo spessore delle argomentazioni e per il fatto che è stata resa nella nostra materia – una parte dell’ampia motivazione della pronuncia con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, 1° co., l. reg. Sicilia 10.8.1985, n. 37, recante nuove norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, riordino edilizio e sanatoria delle opere abusive, che aveva esteso l’operatività della causa d’estinzione dei reati edilizi prevista negli artt. 31 ss. l. 28.2.1985, n. 47 (c.d. condono edilizio) a casi non previsti dalla legge dello Stato:

non può esser taciuto che dottrina e giurisprudenza che, in assoluta maggioranza, limitano la riserva di legge penale alla sola legge statale (in sede di vicende costitutive della punibilità) e che, pertanto, escludono ogni legittimità (nella stessa sede) di leggi penali regionali, appaiono a disagio allorché si tratta di scegliere la disposizione costituzionale sulla quale fondare la pur comune conclusione: spesso si fa, infatti, riferimento all'art. 25, 2° comma, Cost., a volte all'art. 3, 1° comma od all'art 5 Cost. (interpretati, peraltro, questi ultimi articoli come <<ispiratori>> dell'intero sistema costituzionale); e non poche volte ci si richiama all'art. 13, 2° comma od all'art. 120, 2° e 3° comma, Cost. E, nell'occasione, si danno dei citati articoli interpretazioni che sono esplicitamente collegate (quasi a <<conforto>> o <<sostegno>>) ad altre, diverse disposizioni. Da tale incertezza è agevole desumere che soltanto il sistema e la sua intrinseca teleologia riescono a rendere sostenibili, a <<giustificare>>, le interpretazioni che, in ordine ai temi qui in esame, dei citati articoli vengono offerte.

Vero è che, come l'effettivo ambito di comprensione del <<generale>> principio di legalità in sede penale non è, almeno di regola, desunto, nella sua ampiezza, dalle sole, peraltro non univoche, formule costituzionali che pur lo enunciano bensì, come è ormai generalmente ammesso, dalla ratio profonda che le ispira, così la reale comprensione, in ispecie, del principio di riserva di legge penale va principalmente ricavata dal fondamento politico - ideologico, sistematico e teleologico dello stesso principio piuttosto che dalle dichiarazioni costituzionali, necessarie e solenni ma non sempre tecnicamente precise, che lo enunciano; dichiarazioni i cui contenuti e limiti vanno, appunto, ricavati, anche e soprattutto, dai precitati fondamenti e, in particolare, dall'oggettiva, determinante funzione che, nell'intero ramo penale dell'ordinamento statale, la riserva in questione esplica.

(Corte cost. 25.10.1989, n. 487, CP, 1990, 201 s. La sentenza è pubblicata anche in FI, 1990, I, 26).

Dopo aver in tal modo argomentato l’esclusione della potestà legislativa regionale nel campo dell’incriminazione, la Corte ne precisa gli ulteriori limiti con riguardo alla portata “scriminante” di fatti che, per la legge statale, costituiscono reato e afferma che, «avendo il legislatore statale il monopolio delle vicende costitutive della punibilità ed avendo già, in concreto, esercitato la sua potestà incriminatrice, non è legittimo che una legge regionale abroghi norme statali incriminatrici» (Corte cost. 487/1989, CP, 1990, 206). Pur non affrontando ex professo la questione dell’ammissibilità in funzione scriminante delle disposizioni di legge regionale (questione che la dottrina dominante risolve in senso negativo, ma sulla quale non mancano dissensi), la Corte opta sostanzialmente per la tesi negativa. Decidendo la questione di legittimità costituzionale sollevata, i giudici della Consulta osservano quanto segue: la disposizione censurata recita

che <<il secondo comma dell'art. 31 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 è...sostituito>>... dall'art. 3 l. reg. n. 26 del 1986: la norma regionale impugnata ha in tal modo, sostituendosi, appunto, al legislatore statale, arbitrariamente resa applicabile l'estinzione del reato prevista dalla stessa legge statale ad ipotesi che, essendo escluse dal secondo comma dell'art. 31 della stessa legge, non potevano legittimamente esser <<decriminalizzate>> con legge regionale

(Corte cost. 25.10.1989, n. 487, CP, 1990, 208).

Se ne sono tratte le consequenziali conclusioni:

poiché la previsione di cause d'estinzione del reato è riservata alla legge statale, in quanto a quest'ultima spetta la potestà incriminatrice; poiché alla stessa legge compete, conseguentemente, individuare le situazioni alle quali si applicano le citate cause; e poiché, pertanto, l'ambito delle predette situazioni, individuato in una legge statale, non può esser illegittimamente esteso o ristretto ad opera di leggi regionali (neppure di quelle che dispongono in materie c.d. <<esclusive>>) deve dichiararsi costituzionalmente illegittimo il primo comma dell'art. 3 della legge regionale siciliana n. 26 del 1986. Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 deve dichiararsi illegittimo anche il secondo comma dell'art. 3 della legge regionale n. 26 del 1986

(Corte cost. 25.10.1989, n. 487, CP, 1990, 208).

Come si vede, secondo la giurisprudenza costituzionale, alle Regioni – anche quelle a statuto speciale e anche nelle materie in cui esse hanno la potestà legislativa esclusiva (qual è l’urbanistica, in forza dell’art. 14 dello Statuto regionale siciliano) – non soltanto è precluso assoggettare a sanzione penale condotte che, per la legge dello Stato, sono lecite, ma è vietato pure incidere nella materia penale restringendo l’operatività delle leggi incriminatrici statali (v., ancora: Corte cost. 18.1.1991, n. 18, CP, 1991, 1031 e Corte cost., 22.6.1995, n. 273, FI, 1996, I, 1191, che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di due disposizioni della l.r. Abruzzo 13.7.1989, n. 52, le quali, diversamente dai presupposti stabiliti nella legge dello Stato, prevedevano l’estinzione dei reati edilizi nel caso, rispettivamente, di spontanea demolizione dell’opera e di integrale pagamento della sanzione amministrativa irrogata per l’abuso; Corte cost. 13.5.1993, n. 231, CP, 1994, 513, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione di legge della Provincia autonoma di Trento che consentiva il rilascio della concessione in sanatoria, con conseguente estinzione dei reati urbanistici, ex art. 22, 3° co., l. 28.2.1985 n. 47, anche nel caso di opere non conformi agli strumenti urbanistici vigenti all’epoca della costruzione, difformemente da quanto previsto dall’art. 13 l. 47/1985). La conclusione – ribadita da Corte cost. 28.6.2004, n. 196, FI, 2005, I, 327 - è comunemente accolta anche nella giurisprudenza ordinaria:

le leggi regionali non possono (…) rendere non punibili azioni od omissioni penalmente rilevanti neppure nelle materie in cui le regioni hanno autonoma potestà normativa, poiché è riservata esclusivamente allo Stato la potestà normativa penale. Pertanto, solo l’entrata in vigore di una nuova legge statale, e non anche quella di una legge regionale, può determinare la non punibilità di un fatto commesso anteriormente e che non costituisce più reato secondo la stessa legge

(Cass. Sez. III, 2.12.1983, CP, 1985, 747; sostanzialmente nello stesso senso, Cass. Sez. III, 8.7.1994, Battiato, CP, 1995, 2674. Contra, tuttavia, qualche isolata pronuncia di merito: Pret. Codogno 26.1.1976, IP, 1976, 129; Pret. Vigevano 31.1.1975, RIDPP, 1975, 708; Pret. Atri. 23.1.1987, Celli, GM, 1991, II, 851).

Nella materia dei reati urbanistici, in cui – quantomeno per le principale fattispecie incriminatrici di costruzione sine titulo o in difformità dal titolo - il discrimine tra condotte lecite e condotte vietate è sempre dipeso dalla natura dell’intervento compiuto e dalla tipologia del titolo abilitativo richiesto, si sono dati diversi casi di previsioni di legge regionale che, in modo apparentemente o sostanzialmente difforme dalla legge statale – nella parte in cui essa richiedeva il previo rilascio della concessione - subordinavano particolari tipi di opere a regimi abilitativi (l’autorizzazione o la denuncia di inizio attività) per i quali, nel caso di abuso, si applicava il regime sanzionatorio amministrativo piuttosto che quello penale. Analogamente, in materia di tutela penale del paesaggio, alcune leggi regionali hanno talvolta tentato di limitare l’ambito di operatività del reato previsto dall’art. 1-sexies d.l. 312/1985, ampliando le ipotesi che, ai sensi dell’art. 82, 11° co, d.p.r. 24.7.1977, n. 616, nel testo modificato dall’art. 1 d.l. 312/1985, rendono inapplicabile il generale vincolo paesaggistico posto dall’art. 82, 5° co., d.p.r. 616/1977. La Corte costituzionale, tuttavia, ha sempre bloccato siffatte tendenze “espansive” mostrate dai legislatori regionali, riconoscendo l’effettivo contrasto con le leggi statali e dichiarando l’illegittimità costituzionale delle norme regionali per violazione del principio di riserva di legge statale in materia penale (cfr. Corte cost. 31.3.1994, n. 110, FI, 1996, I, 1539, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione legislativa adottata dalla Regione Piemonte al fine di estendere l’ambito territoriale delle zone sottratte al vincolo paesaggistico posto dalla legge statale), oppure adottando provvedimenti interpretativi di rigetto con cui ci si sforzava di assegnare alle norme di matrice regionale apparentemente derogatorie un significato compatibile con le previsioni statali (cfr. Corte cost. 28.4.1992, n. 201, CP, 1993, 244; Corte cost. 18.6.1997 n. 187, FI, 1998, I, 1939; DPP, 1997, 799; Corte cost. 26.3.1998, n. 77, DPP, 1998, 702).

13.1. La legge regionale come fonte autorizzata d’integrazione di norme penali in bianco e i limiti di quest’impostazione nel settore dei reati urbanistici.

Un limitato ambito in cui la potestà normativa regionale potrebbe legittimamente incidere sull’ambito di operatività dei reati urbanistici, secondo una certa impostazione, si riscontrerebbe nel caso di leggi dello Stato che autorizzino le Regioni, in particolari materie, ad individuare il regime dei titoli abilitativi. Quale norma del genere può essere segnalata quella secondo cui

le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività

(art. 10, 2° co., TUE).

In questi casi, è la stessa legge statale che, dopo aver operato in linea generale le scelte fondamentali circa l’opportunità di punire con sanzione penale determinate condotte, rimette al legislatore regionale l’individuazione della concreta operatività della norma incriminatrice con riferimento a determinate, e circoscritte, situazioni, nel caso di specie quelle relative ai mutamenti di destinazione d’uso degli immobili. In un’ipotesi di applicazione della disposizione citata quale in allora prevista nell’art. 25, 2° co., l. 47/1985 con riguardo all’attuazione datane con l.r. Toscana 14.10.1999, n. 52, la Cassazione – implicitamente avallando la legittimità di tale soluzione sul piano costituzionale - ha osservato come, nei casi contemplati, essa consenta alle leggi regionali di stabilire per quali interventi

si renda necessario un regime concessorio (assistito da sanzione penale) e per quali altri un regime autorizzatorio (assistito da sanzione amministrativa)

(Cass. Sez. III, 13.11.2001, Lippi, CP, 2002, 3865; GP, 2002, II, 532.).

Deve osservarsi, del resto, che già la Corte costituzionale, nella decisione ampiamente citata al paragrafo precedente, ha in generale riconosciuto che

alle leggi regionali non è precluso concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d'applicazione di norme penali statali (cfr., fra le altre, le sentenze di questa Corte n. 210 del 1972 e n. 142 del 1969) né concorrere ad attuare le stesse norme e cioè non è precluso realizzare funzioni analoghe a quelle che sono in grado di svolgere fonti secondarie statali. Tutte le volte in cui non sia in gioco la riserva di legge penale statale (nelle ipotesi, cioè, in cui ad es. la legge statale abbia già autonomamente operato le scelte fondamentali sopra ricordate) disposizioni attuative di leggi statali ben possono esser emanate da altre fonti ed in particolare dalle leggi regionali.

Va, poi, ricordato che dottrina e giurisprudenza ritengono che ampio spazio in materia penale sia consentito alle regioni allorché dalle leggi statali si subordinino effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali: in tal caso, nel determinare i presupposti dai quali sono condizionati gli effetti penali (e, conseguentemente, nel modificare i presupposti stessi) le leggi regionali indirettamente, e per determinazione delle stesse leggi statali, incidono su fattispecie penali previste da leggi statali

(Corte cost. 25.10.1989, n. 487, CP, 1990, 206 e 207).

Nel formulare tali osservazioni, la Corte aveva probabilmente a mente le c.d. “norme penali in bianco” che, per la loro attuazione ed integrazione, rinviano a fonti normative diverse dalla legge dello Stato e, talvolta, a discipline regolamentari di rango secondario (si pensi, ad es., ai reati in materia di stupefacenti previsti dal d.p.r. 9.10.1990, n. 309, il cui ambito di operatività dipende dalla concreta individuazione delle sostanze vietate effettuata con decreto ministeriale, ovvero, quanto alla legislazione più recente, al reato di doping quale previsto dall’art. 9 l. 14.12.2000, n. 376, che utilizza un similare meccanismo di rinvio alla fonte regolamentare). Nel caso dei reati urbanistici, tuttavia, l’impiego di un siffatto meccanismo di integrazione della norma penale che rimandasse alle leggi regionali la facoltà di stabilire quali interventi siano assoggettati a permesso di costruire e quali alla denuncia d’inizio anche ai fini dell’applicabilità delle disposizioni incriminatrici (oggi contenute nell’art. 44 TUE) equivarrebbe a rendere i legislatori regionali arbitri di stabilire la rilevanza penale delle condotte di abuso edilizio. Sarebbero costoro, in ultima analisi, a decidere – con discipline peraltro diverse da Regione a Regione – quali comportamenti ricondurre alla sanzione penale, con ciò violando i fondamenti politico-ideologico, sistematico e teleologico attorno ai quali la sent. Corte cost. 487/1989 ha costruito il contenuto della riserva di legge penale posta dalla Costituzione. Allo stesso modo, a fronte di disposizioni di legge statale che prescrivono un certo titolo abilitativo per una determinata, e definita, categoria di interventi urbanistico-edilizi, sarebbe inammissibile che le norme di fonte regionale modificassero i confini della categoria, al contempo, indirettamente, estendendo o restringendo l’area del penalmente rilevante. In sostanza, come bene è stato detto,

fino a quando esisteranno figure di reato correlate necessariamente alla definizione tecnica degli interventi edilizi, in quanto aventi come parametro il “titolo” edificatorio, sussisterà un limite (trasversale) alla potestà legislativa regionale, cui resta preclusa la possibilità di definire i tipi degli interventi edilizi stessi. In concreto le regioni possono articolare ulteriori tipologie di interventi edilizi, ad esempio specificando meglio – come spesso è stato fatto – le tipologie del recupero edilizio, ma non certo stabilire, ad esempio, che ciò che per lo Stato è ristrutturazione edilizia in una regione diventi manutenzione straordinaria. Altro è dire, cioè, che in una regione l’ampliamento di un edificio sia subordinato ad autorizzazione preventiva o a denuncia o qualche altra “cosa”, anche in dipendenza di dove è situato l’edificio su cui si opera, altro è dire che tale intervento possa essere definito di ristrutturazione in diffomità dalla nozione legale tipica statale, incidendo così sul regime penale dell’intervento abusivo

(CIVITARESE MATTEUCCI, Il testo unico sull’edilizia, cit., 141 s.).

Deve osservarsi, ancora, come tale conclusione appaia oggi sicuramente rafforzata - e confermata – dal nuovo Titolo V della Costituzione, per due ordini di ragioni. In primo luogo, l’art. 117, 2° co., lett. l, Cost., compie una netta scelta di campo nel riservare alla legislazione esclusiva dello Stato l’intervento sull’ordinamento penale, in tal modo delineando ciò che prima mancava (come Corte cost. 487/1989 aveva rilevato): una precisa disposizione costituzionale che riconosce il monopolio statale nella produzione normativa rilevante sul piano penale. In secondo luogo, si noterà come l’art. 116, 3° co., Cost., nel fondare il potere del legislatore ordinario – peraltro vincolandolo all’osservanza di un procedimento legislativo che richiede una particolare maggioranza e l’intesa tra lo Stato e le Regioni interessate - di attribuire alle Regioni a statuto ordinario forme e condizioni particolari di autonomia, precisa che ciò potrà avvenire soltanto con riguardo ad alcune delle materie che la Costituzione riserva alla legislazione esclusiva dello Stato. Nell’indicare – con disposizione che appare tassativa – le materie in questione, la citata norma costituzionale precisa che in relazione a quelle di cui all’art. 117, 2° co., lett. l, Cost., ciò potrà avvenire <<limitatamente al’organizzazione della giustizia di pace>>. Letta a contrariis, la disposizione conferma che nelle altre materie – compreso, quindi, l’ordinamento penale – non è possibile attribuire alle Regioni alcun particolare (anche solo parziale) potere d’intervento legislativo.

Anche nel nuovo quadro normativo, dunque, la rilevanza penale di certi interventi edilizi non può essere in alcun modo intaccata dalla legislazione regionale, alla quale pure la disciplina statuale di principio accorda la possibilità di modificare il titolo abilitativo previsto dalla legge statale per alcune tipologie di opere, specificando, tuttavia, che l’esercizio di tale facoltà non può incidere sull’applicazione delle sanzioni penali di cui all’art. 44 TUE (cfr. artt. 10, 3° co, e 22, 4° co., TUE). E’ in conformità a tale principio – che appare espressione di una regola generale, costituzionalmente necessaria – che, a nostro avviso, debbono interpretarsi disposizioni apparentemente derogatorie quali quella prevista per il caso dei mutamenti di destinazione d’uso (nello stesso senso, PELISSERO, Sub d.p.r. 6-6-2001, n. 380, in Palazzo-Paliero (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2007, 1073, che parla «di un difetto di tecnica legislativa che impone di estendere la precisazione contenuta nell’ultima parte dell’art. 10 3° co., anche al 2° co.»; contra, FALCONE, La denuncia d’inizio attività dopo il d.lgs. n. 301/2002, in GDAmm, 2003, 338, il quale, più in generale, afferma che «l’art. 44 lett. b), t.u. edilizia sembra configurare un’ipotesi di norma penale in bianco, atteso che, per la determinazione del precetto, occorre fare rinvio alla legislazione regionale; con la conseguenza che la sanzione penale non è applicabile a quegli interventi che la legge regionale consente di eseguire, a regime, mediante denuncia d’inizio attività»).

Con riferimento alle modifiche della destinazione d’uso, una recente pronuncia della Corte di cassazione, richiamando la previsione di cui all’art. 10, 2° co., TUE, ha riconosciuto che

in tema di mutamento di destinazione d'uso di immobili, il legislatore regionale ha il potere di stabilire per quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti si renda necessario un regime concessorio o di permesso di costruire e per quali altri sia invece sufficiente un regime autorizzatorio o di denuncia di inizio di attività. (Fattispecie, relativa ad interventi edilizi su locali ubicati al piano terra di uno stabile, con mutamento di destinazione d'uso da "civile abitazione" e "autorimessa-depositi" ad "attività commerciale", nella quale la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata per un nuovo esame volto ad accertare l'applicabilità dell'art. 10 della legge reg. Sicilia 10 agosto 1985 n. 37, commi 2 e 3, che consente, alle condizioni prescritte, il mutamento di destinazione d'uso con una mera autorizzazione del Sindaco, che nel caso concreto risultava essere stata rilasciata).

(Cass., sez. III, sent. n. 25814 del 06/04/2016- Rv. 267663)

La massima non è in contrasto con i principi qui affermati, poiché nel caso di specie il titolo edilizio (sia pur quello semplificato richiesto dalla legislazione regionale) era stato effettivamente rilasciato, sicché – come più oltre meglio si dirà – non è possibile, in questi casi, ritenere integrata la fattispecie penale di costruzione sine titulo: posto che gli interventi sul patrimonio edilizio esistente eseguibili con il titolo semplificato, nella specie la s.c.i.a. di cui all’art. 22, 1° co., TUE postulano il mantenimento della destinazione d’uso, per la legge statale sarebbe necessario il permesso di costruire, sicché, in caso di mancato ottenimento del titolo, si sarebbe dovuta ritenere la responsabilità per il reato di cui all’art. 44, 1° co, lett. b), TUE.

Sempre con riferimento al disposto di cui all’art. 10, 2° co., TUE, in altra, precedente, occasione la Suprema corte ha seguito analogo orientamento, valorizzando il potere di individuazione del titolo assegnato alla legislazione regionale, concludendo però che nel caso di specie la individuazione del titolo edilizio da parte della regione non comportava conseguenze sul piano dell’applicazione delle sanzioni penali

In tema di mutamento di destinazione d'uso di immobili, il legislatore regionale ha il potere di stabilire per quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti si renda necessario un regime concessorio o di permesso di costruire e per quali altri un regime autorizzatorio o di denuncia di inizio di attività. (Fattispecie di trasformazione di sottotetto per la quale l'art. 18, comma quarto, della legge reg. Sicilia 16 aprile 2003 n. 4 ha previsto la necessità, alternativamente, della concessione ovvero della denuncia di inizio di attività ai sensi dell'art. 22, comma terzo, d.P.R. n. 380 del 2001, entrambe assistite da sanzione penale).

(Cass., sez. III, sent. n. 21923 del 07/03/2008, Rv. 239985).

14. Poteri del giudice penale nel caso di apparente incompatibilità tra legge statale incriminatrice e legge regionale scriminante: obbligo dell’interpretazione costituzionalmente orientata e divieto di “disapplicazione” della legge regionale difforme pena il conflitto di attribuzione

Dev’essere segnalato come, nella materia de qua, la recente giurisprudenza penale, facendo uso del proprio potere di “filtro” rispetto a possibili questioni di legittimità costituzionale sorte in via incidentale nel corso di processi in relazione a disposizioni di legge regionale apparentemente contrastanti con quelle statali, abbia spesso evitato il ricorso alla Corte costituzionale sforzandosi di dare alle prime un’interpretazione “adeguatrice”.

Occorre innanzitutto ricordare che, nel caso di apparente incompatibilità tra una disposizione di legge statale che richiede un certo titolo abilitativo per un intervento edilizio e una norma di legge regionale che sembri adottare una diversa soluzione, al giudice ordinario è vietato “disapplicare” la disciplina regionale che appaia in contrasto con una legge dello Stato , ciò che – secondo una linea interpretativa spesso affermata - sarebbe invece possibile fare, ai sensi dell'art. 5 l. 20.3.1865, n. 2248, all. E, soltanto quando si tratti di una fonte normativa secondaria. Vieppiù a seguito della modifica del titolo V della Costituzione – l’art. 117, 1° co., Cost., nella formulazione oggi vigente, equipara espressamente la legge statale e quella regionale – le leggi statali e regionali sono poste sullo stesso piano e la Costituzione, da sempre, non ammette un controllo di legittimità costituzionale “diffuso” nemmeno con riguardo alle leggi regionali, rimettendo invece, in via esclusiva, alla Corte costituzionale il potere di decisione sul punto (cfr. art. 134 Cost.). La conclusione è stata affermata in modo chiaro dai giudici della Consulta, chiamati a decidere un conflitto di attribuzione promosso dalla Regione Emilia-Romagna in relazione ad una sentenza della Corte di cassazione (Cass. 14.11.1989, Predieri, CP, 1991, I, 1100) che aveva affermato il potere del giudice ordinario di disapplicare alcune leggi regionali in materia di inquinamento delle acque, considerandole alla stregua di un atto amministrativo i cui contenuti esse avrebbero recepito (deliberazione 8 maggio 1980 del Comitato interministeriale previsto dall'art. 3, l. 10.5.1976, n. 319) e ritenendole costituzionalmente illegittime per avere interferito in una materia, quella penale, riservata allo Stato. Ritenendo ammissibile il conflitto – sollevato sul rilievo che l’autorità giudiziaria avrebbe in tal modo esercitato poteri che non competerebbero, violando le norme costituzionali che disciplinano il regime di sindacabilità delle leggi, anche regionali - la Corte costituzionale ha innanzitutto premesso che

non può esservi dubbio che la prospettata disapplicazione di leggi regionali, sia sotto il profilo di una loro equiparazione ad atti amministrativi, sia in quanto ritenute costituzionalmente illegittime, violi, ove accertata, le invocate norme costituzionali e incida, in particolare, sulla competenza legislativa garantita alla Regione dall'art. 117, 1° comma

(Corte cost. 14.6.1990, n. 285, FI, 1991, I, 2352 s.).

Nel merito, esaminando la contestata decisione giurisdizionale, la Corte ha poi rilevato che

i giudici della Cassazione hanno ritenuto di poter disapplicare la normativa regionale, nella specie costituita dalla legge n. 7 del 1983 e dalle successive leggi nn. 13 del 1984 e 42 del 1986 (le quali - prosegue la motivazione- <<si muovono nella medesima logica>>), trattandole alla stregua di un atto amministrativo. Essi hanno dunque esercitato un potere del tutto abnorme, non previsto nel nostro ordinamento costituzionale, con palese violazione degli artt. 101, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione. (…) Accertato che non spetta alla Corte di cassazione disapplicare le leggi regionali, la sentenza oggetto del conflitto deve essere annullata in applicazione degli artt. 41 e 38 della legge 11 marzo 1953, n. 87

(Corte cost. 14.6.1990, n. 285, FI, 1991, I, 2353).

In materia di reati urbanistici, si sono dati casi in cui la Corte di cassazione, pur non menzionando il potere previsto dall’art. 5 l. 20.3.1865, n. 2248, all. E, sembra aver disapplicato leggi regionali che escludevano l’obbligo – previsto dalla legge statale - del previo rilascio della concessione edilizia per determinate tipologie di opere, senza sforzarsi di risolvere l’apparente contrasto tra norme in chiave interpretativa (sembra appartenere a questo filone, a proposito, però, di un reato paesaggistico, Cass. Sez. III, 3.12.2002, Chenetti, GP, 2003, II, 221). Ad esempio, cassando il provvedimento con cui il tribunale del riesame aveva annullato il decreto di sequestro preventivo di un cantiere, sul rilievo che l’interessato aveva regolarmente denunciato l’inizio dei lavori per un intervento non abbisognevole di concessione edilizia alla luce della normativa regionale, la Corte ha osservato che «le opere sequestrate (fondazioni e pilastri per un capannone industriale) comportano una innegabile modificazione del territorio, rilevante ai fini della normativa urbanistica nazionale, sanzionata penalmente» e che «la normativa regionale nel settore può svolgere un ruolo integrativo, ma non sovrapporsi a quella nazionale, estendendo le tipologie di opere sottratte alla concessione» (Cass. Sez. III, 25.1.2001, s.d., RGE, 2002, 1166). In un altro caso, confermando la sentenza di merito che, disattendendo la normativa di matrice regionale, aveva ritenuto la responsabilità penale per il reato di cui all’art. 20 l. 28.2.1985, n. 47, la Cassazione si è limitata ad osservare che

quella che impone la preventiva concessione in vista di ogni tipo di costruzione è norma di carattere generale in cui si sostanzia un precetto penale assoluto che non può essere né integrato né interpretato, né tanto meno eliminato, dalla legislazione regionale la quale non gode di nessuna autonomia nello stabilire l’esigenza o meno della concessione, compito questo spettante allo Stato e attuato nelle varie leggi che disciplinano in modo inderogabile la materia. In tema di disciplina edilizia le regioni possono intervenire solo nei limiti in cui tale potere sia stato loro conferito da leggi dello Stato: e, per quanto attiene al fondamentale principio della necessità della concessione ad edificare da parte dei privati, nessun potere in deroga è stato dato alle regioni

(Cass. Sez. III, 8.7.1994, Battiato, CP, 1995, 2674).

In dottrina, la decisione è stata ritenuta corretta sul rilievo che essa si sarebbe attenuta al principio, sancito da Cass. S.U. 12.2.1993, Tognetti (CP, 1993, 1394), per cui «il contrasto “va risolto sulla base della regola dettata, esplicitamente, dall’art. 9 della l. 24 novembre 1981, n. 689” secondo il quale quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale che preveda una sanzione amministrativa si applica in ogni caso la disposizione penale» (MENDOZA, Potere normativo delle regioni e disposizioni penali in materia edilizia, in CP, 1995, 2676). Il rilievo, tuttavia, non appare condivisibile, da un lato perché in materia urbanistica – giusta l’incipit contenuto nella disposizione incriminatrice («salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative…»: art. 44, 1° co., TUE) - è pacifico il concorso tra sanzioni amministrative e sanzioni penali, d’altro lato perché in queste situazioni non si tratta di risolvere un’antinomia tra disposizioni di contenuto diverso, “scegliendo” quella da applicare e magari “sostanzialmente disapplicando” l’altra, come avvenuto nel caso di specie, bensì di stabilire il titolo abilitativo previsto per certi interventi quale momento logicamente preliminare all’individuazione delle norme sanzionatorie (penali e/o amministrative) da comminarsi in caso di abusi.

In altre decisioni – avendo evidentemente ben presente la giurisprudenza costituzionale – la Suprema Corte ha più correttamente argomentato in modo diverso la (ritenuta) superfluità di dar vita ad un giudizio incidentale di legittimità costituzionale, assegnando alla normativa regionale in apparente contrasto con quella statale penalmente sanzionata un’interpretazione conforme a Costituzione:

in materia urbanistica, la disposizione di cui all’art. 5. l. reg. Sicilia 10.8.1985, n. 35, come modificata dalla l. reg. Sicilia 15.5.1986, n. 26, per la quale è assentibile con semplice autorizzazione la posa di prefabbricati ad una sola elevazione non adibiti ad uso abitativo, deve essere interpretata in modo da non collidere con i principi fissati a livello nazionale e può pertanto applicarsi esclusivamente in relazione alla edificazione di manufatti precari, o aventi natura pertinenziale o di modeste dimensioni, andando diversamente a contrastare con il principio costituzionale dell’art. 117, pur come novellato dalla l. cost. n. 3 del 2001, atteso che la competenza regionale in materia urbanistica deve rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione nazionale

(Cass. Sez. III, 11.1.2002, Castiglia, CP, 2003, 247. Nello stesso senso, sempre in relazione alla medesima legge regionale: Cass. Sez. III, 9.12.2004, Garufi, RP, 2006, 231; Cass. Sez. III, 25.5.2005, David, RP, 2006, 847; Cass. Sez. III, sent. n. 19076 del 24/03/2009, Rv. 243722. Per altri casi di interpretazione adeguatrice in materia di reati urbanistici, v.: Cass. Sez. III, 11.3.2003, Leccese, CP, 2004, 1024; Cass. Sez. III, 14.3.2003, Girardi, CP, 2004, 3369).

In altra ipotesi ancora, decidendo il ricorso proposto contro il provvedimento con cui il giudice di merito, quale tribunale del riesame, aveva annullato un decreto di sequestro preventivo di un cantiere edile asseritamente abusivo sul rilievo che non poteva configurarsi l'ipotizzato reato di costruzione senza concessione edilizia per via di una legge regionale che, per le opere in questione, aveva sostituito il regime concessorio con quello della denuncia di inizio di attività, la corte di legittimità ha osservato:

il giudice del riesame ha applicato, nel caso in esame, la normativa della Regione Lombardia di cui alla legge n. 22-1999 avente ad oggetto il "recupero di immobili e nuovi parcheggi: norme urbanistico-edilizie per agevolare l'utilizzazione degli incentivi fiscali in Lombardia" ritenendo, con l'erronea lettura dell'art. 4, che per le opere eseguite dall'indagato (sbancamento di terreno per l'impostazione delle opere murarie di fondazione per un edificio da realizzare ex novo) non operi il regime concessorio perché sostituito con quello della denuncia di inizio di attività.

Ragioni di ordine testuale, razionale e sistematico non consentono, però, di accedere a tale interpretazione poiché la norma, che non disciplina in maniera organica la materia della denuncia di inizio di attività urbanistiche, enuncia espressamente i principi cui intende ancorarsi nell'esercizio della potestà legislativa prevista dall'art. 1l7 Cost. che impone il rispetto di quelli fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (…) Pertanto, essendo possibile una lettura adeguatrice della norma in questione in conformità al suo significato letterale ed alla sua ratio, non sorge alcuna questione di legittimità costituzionale

(Cass. 23.1.2001, Toma, CP, 2002, 757; UA, 2001, 686, ove la decisione è indicata soltanto con la data di deposito).

Contro questa decisione (criticata, in dottrina, da ALBE’, La denuncia di inizio attività va limitata alle sole ipotesi ammesse dalle leggi statali, in UA, 2001, soprattutto per non aver affermato, in concreto, la buona fede dell’imputato che agì in conformità alla legge regionale vigente: trattandosi, tuttavia, di giudizio cautelare, la relativa questione meglio si sarebbe dovuta affrontare in sede di merito), la Regione Lombardia ha sollevato un conflitto di attribuzione, sostenendo che la Suprema Corte avrebbe sostanzialmente disapplicato la legge regionale, così invadendo le proprie competenze. In dottrina, tuttavia, si è valutato criticamente il ricorso alla Consulta, rilevandosi che

la Cassazione, qualora si fosse limitata a rimettere la questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale, operando una scelta apparentemente anche più agevole, avrebbe corso il concreto rischio di incorrere in una declaratoria di inammissibilità

(MUSOLINO, La suprema Corte, cit., 2002, 769).

In effetti, i giudici ordinari hanno dato ampiamente conto delle ragioni che li inducevano ad attribuire alla normativa di matrice regionale un significato conforme alla legge statale incriminatrice e, posto che nei casi di conflitto di attribuzione sollevati contro un provvedimento giurisdizionale la Corte costituzionale non può censurare eventuali errores in iudicando, il destino del ricorso avanzato dalla Regione Lombardia appariva segnato.

Il conflitto di attribuzioni è infatti stato dichiarato inammissibile. La Corte, ribadendo la propria giurisprudenza sul punto, ha statuito che

anche gli atti giurisdizionali sono suscettibili di essere posti a base di un conflitto, non soltanto tra poteri dello Stato, ma anche tra Regioni e Stato: sempre che, tuttavia, il conflitto stesso non si risolva in un improprio strumento di sindacato e di censura del modo di esercizio della funzione giurisdizionale, assumendo le connotazioni di un mezzo di impugnazione atipico (…) Perché sia dunque ammissibile un conflitto di attribuzione, quando a base della vindicatio sia posto un atto giurisdizionale, è necessario che da parte del potere o dell’ente – che da quell’atto pretende di aver subìto una lesione nella propria sfera di attribuzioni costituzionali - <<sia contestata radicalmente la riconducibilità dell’atto che determina il conflitto alla funzione giurisdizionale…ovvero sia messa in questione l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente>>

(Corte cost. 24.7.2003, n. 276, FI, 2004, I, 376 ss.; UA, 2003, 1284 s.).

Nel caso sottoposto al loro esame, i giudici della Consulta hanno ritenuto insussistenti tali presupposti:

infatti, la regione stessa non contesta tanto una vera e propria <<disapplicazione>> di una norma regionale, quanto piuttosto una <<interpretazione palesemente erronea>> di essa da parte della Corte di cassazione (…) Si versa, pertanto, in un contrasto avente ad oggetto esclusivamente la portata da annettere ad una proposizione ermeneutica, la quale, per di più, promana, nella ipotesi in esame, proprio da parte dell’organo che – a norma dell’art. 65 ord. giud. – è chiamato ad assicurare <<…l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni…>>. La situazione è quindi ben diversa da quella scrutinata nella sentenza n. 285 del 1990

(Corte cost. 24.7.2003, n. 276, FI, 2004, I, 378; UA, 2003, 1285).

Per altra ipotesi di interpretazione adeguatrice di leggi regionali apparentemente in contrasto con quella statale vedi l’insegnamento secondo cui

in materia edilizia, la disposizione della Legge Regione Sicilia 10 agosto 1985 n. 37, come modificata dalla Legge Regione Sicilia 15 maggio 1986 n. 26, ai sensi della quale non occorre il permesso di costruire per l'impianto di prefabbricati non adibiti ad uso abitativo, deve essere limitata ai soli manufatti precari, atteso il necessario coordinamento con la normativa statale, con i cui principi generali le disposizioni regionali non possono collidere. (In applicazione di tale principio la Corte ha affermato come la realizzazione di più opere, che singolarmente considerate non avrebbero richiesto il rilascio del permesso di costruire, integrate in modo da realizzare un complesso edilizio non precario, in difetto del preventivo provvedimento autorizzatorio, configura il reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001).

(Cass., Sez. III, sent. n. 24201 del 25/05/2005, Rv. 231948. Per un caso simile, v. Cass., Sez. III, sent. n. 28560 del 26/03/2014, Rv. 259938)

Ancora, con successiva pronuncia la Cassazione ha ribadito il principio con riguardo ad altro caso apparentemente derogatorio previsto dalla legislazione regionale siciliana:

in materia urbanistica, le disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali stabiliti dalla legislazione nazionale, e conseguentemente devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi. (Fattispecie relativa alla realizzazione di una tettoia per la quale la Corte, diversamente da quanto previsto dalle leggi regione Sicilia 10 agosto 1985 n. 37 e 16 aprile 2003 n. 4, contenenti nuove norme in materia di controllo dell'attività urbanistica, edilizia e riordino urbanistico, ha ritenuto necessario il permesso di costruire)

(Cass., Sez. III, sent. n. 33039 del 15/06/2006, Rv. 234935)

15. Difformità tra leggi dello Stato e delle Regioni in materia di titoli abilitativi edilizi: legittimità del “doppio binario” e irrilevanza per l’applicazione delle norme penali.

Laddove il contrasto tra legge statale incriminatrice e legge regionale scriminante (o viceversa) non sia eliminabile in sede interpretativa e, in forza dei consueti canoni sull’applicazione della legge, il giudice dovesse applicare la fonte di matrice regionale (ad esempio perché successiva a quella statale: art. 15 preleggi), sembrerebbe inevitabile il ricorso alla Corte costituzionale e, in passato, ciò è spesso avvenuto (v, ad es.: Trib. Lucca – sez. Viareggio 24.11.2000, Cardazzo, CP, 2001, 1936, in relazione agli artt. 2, 3 e 4 della l. reg. Toscana 14.10.1999, n. 52, nella parte in cui prevedono che gli interventi di ristrutturazione edilizia siano subordinati alla denuncia d’inizio attività piuttosto che alla concessione edilizia, con conseguente irrilevanza penale di eventuali abusi; Trib. Napoli 27.1.2004, RGE, 2004, I, 821, in relazione all’art. 6, 2° co,, l.r. Campania 28.11.2001, n. 119, nella parte in cui assoggetta ad autorizzazione gratuita la realizzazione di parcheggi in ipotesi ulteriori rispetto a quelle previste dall’art. 9 l. 122/1989; contra, nella sostanza, e pur senza spendere soverchie argomentazioni, App. L’Aquila 21.12.1988, Celli, GM, 1991, II, 851, che ha ritenuto inapplicabile ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 20, lett. b, l. 47/1985 l’art. 1, l.r. Abruzzo 5.2.1985, n. 10, nella parte in cui sottopone al previo rilascio della concessione edilizia l’attività di attivazione di una cava, mentre, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, essa non può invece ritenersi soggetta a tale regime in forza della legge statale). Peraltro, a causa delle potestà normative riconosciute alle Regioni nelle materie su cui incide l’attività edilizia – e tenendo anche conto della soppressione del controllo preventivo originariamente effettuato dallo Stato mediante l’apposizione del visto da parte del Commissario di Governo sulle leggi approvate dal Consiglio regionale prima della promulgazione, in base al vecchio testo dell’art. 127 Cost. - le “invasioni di campo” dei legislatori regionali nella disciplina degli illeciti penali in questione sono state tutt’altro che isolate.

Con l’entrata in vigore del testo unico in materia edilizia, l’opzione per il giudizio incidentale di legittimità costituzionale – in passato indubbiamente corretta, laddove le disposizioni di fonte statale e regionale non potessero in alcun modo essere contemperate – ha tuttavia ceduto il passo ad una diversa prospettiva. Ed invero, segnando la linea di un’inversione di tendenza, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata da Trib. Napoli 27.1.2004, in relazione all’art. 6, 2° co., l.r. Campania 28.11.2001, n. 19, nella parte in cui richiede la sola autorizzazione gratuita per la realizzazione di interventi che la legge statale sottopone alla concessione edilizia, in tal modo sottraendo al regime sanzionatorio penale abusi che vi sarebbero sottoposti, osservando che il giudice remittente aveva trascurato

di valutare le modifiche alla disciplina dei titoli abilitativi introdotte dal Dpr 380/01, tra le quali, in particolare (…) le conseguenze del riconoscimento espresso alle Regioni del potere di ampliare, o restringere, l’ambito degli interventi soggetti a Dia ovvero a permesso di costruire, fermo restando il regime sanzionatorio previsto dal testo unico (art. 10, comma 3, e art. 22, comma 4, d.p.r. 380/01

[Corte cost. 23.12.2004, n. 415, D&G, 2005, (7), 84].

Di fatti, il testo unico in materia edilizia ha posto le premesse per risolvere in radice questi casi di “conflitto di norme” che, nel vigente sistema, a ben vedere, è “apparente” e non “reale” . Se il riparto di competenze tra Stato e Regioni nella materia de qua è informato a due principi – da un lato, quello del monopolio statale nella legislazione penale (art. 117, 2° co., lett. l, Cost.) e, dall’altro lato, quello della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio (art. 117, 3° co., Cost.), con la conseguente possibilità di definire nel dettaglio quali tipi di iter amministrativo riservare ai singoli interventi urbanistici e/o edilizi – non è detto che la concreta attuazione degli stessi debba necessariamente dare luogo ad antinomie, pur in un sistema, qual è quello tradizionalmente adottato nel nostro ordinamento, che di regola ricollega la natura della sanzione (penale o amministrativa) in caso di abusi al titolo abilitativo cui l’intervento è subordinato. La riprova della bontà di questa affermazione – e il fondamento normativo che la giustifica, richiamato anche nella decisione della Corte costituzionale da ultimo citata – si ritrova in quelle due disposizioni del testo unico dell’edilizia (la prima, contenuta nel provvedimento normativo già ab origine e la seconda introdotta con la “novella” attuata con d.lgs. 27.12.2002, n. 301) secondo cui il legislatore regionale è libero di «individuare con legge ulteriori interventi che, in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire» anche se per essi la legge statale preveda la sufficienza della s.c.i.a. o di altro iter amministrativo semplificato (art. 10, 3° co., TUE), o, in termini più ampi, di «ampliare o ridurre l’ambito applicativo delle disposizioni» di legge statale che subordinano la legittimità di talune attività di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio alla semplice s.c.i.a. (art. 22, 4° co., TUE). Qualora le Regioni si avvalgano di questa possibilità, entrambe le citate disposizioni prevedono espressamente che nulla cambi circa l’ambito di operatività delle fattispecie penali contenute nell’art. 44 TUE, che, nella parte in cui fa riferimento ad interventi effettuati in mancanza, difformità o variazione essenziale rispetto al permesso di costruire, dovrà essere applicato avendo esclusivamente riguardo alle attività assoggettate a questo titolo abilitativo dalla legge dello Stato (nello stesso senso, in dottrina: TRAVI, Nuove modifiche al Testo unico in materia di edilizia, in UA, 2003, 146; BISORI, Riflessi penali delle modifiche al Testo unico edilizia, in UA, 2003, 381; RICCIARELLI, La denuncia di inizio attività tra legge obiettivo e nuovo testo unico dell’edilizia, in CP, 2004, 3359).

Dal sistema normativo costruito attorno a tali disposizioni di principio, emerge che la materia dei titoli abilitativi per gli interventi edilizi e urbanistici può dipanarsi lungo un duplice binario: quello della legislazione regionale, rilevante per l’individuazione dell’ iter amministrativo che dev’essere seguito al fine di poter legittimamente dare corso a trasformazioni del territorio; quello, non necessariamente coincidente con il primo, che rileva ai fini dell’applicazione delle norme incriminatrici . Del resto, in tutte le materie che la legge fondamentale della Repubblica affida alla legislazione concorrente di Stato e Regioni ci si dovrà abituare – oggi più che nel passato - alla compresenza di differenti discipline normative sul territorio nazionale, ma queste sono destinate a cedere il passo all’unica (ed unitaria) normativa di fonte statuale laddove vengano in rilievo, per quanto qui interessa, conseguenze di natura penale.

Un’ulteriore applicazione di questi principi nella materia oggetto della presente trattazione è riscontrabile con riguardo all’ambito di operatività della sanatoria straordinaria prevista dalla legge sul condono edilizio, un terreno che è spesso stato teatro di discussioni circa l’incidenza delle norme di fonte regionale ai fini dell’estinzione dei reati. Anche in questo caso è possibile – e non dà luogo a problemi nemmeno sul piano della legittimità costituzionale – trovarsi di fronte a disposizioni di legge statale e di leggi regionali che, ferme restando le conseguenze sul piano penale poste dalla normativa dello Stato, disciplinino in modo diverso alcuni aspetti della sanatoria. Lo ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale, la quale, pronunciandosi sulle eccezioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo all’art. 32 d.l. 269/2003, conv., con modif., in l. 326/2003, ha osservato che

in riferimento alla disciplina del condono edilizio (per la parte non inerente ai profili penalistici, integralmente sottratti al legislatore regionale, ivi compresa – come affermato in precedenza – la collaborazione al procedimento delle amministrazioni comunali), solo alcuni limitati contenuti di principio di questa legislazione possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo articolo 117 Cost. (ad esempio certamente la previsione del titolo abilitativo edilizio in sanatoria di cui al 1° comma dell’art. 32, il limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle volumetrie massime condonabili). Per tutti i restanti profili è invece necessario riconoscere al legislatore regionale un ruolo rilevante – più ampio che nel periodo precedente – di articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale in tema di condono sul versante amministrativo

(Corte cost. 28.6.2004, n. 196, FI, 2005, I, 351 s.).

In questo settore, l’eventuale “doppio binario” normativo (questa locuzione fu da noi utilizzata per la prima volta proprio con riguardo alla disciplina del condono edilizio: cfr., volendo, REYNAUD, Il condono edilizio al vaglio della Corte costituzionale, in LP, 2004, 809 s.) non contrasta con quella che secondo la Corte è

una più generale caratteristica della legislazione sul condono, nella quale normalmente quest’ultimo ha effetti sia sul piano penale che sul piano delle sanzioni amministrative, ma che non esclude la possibilità che le procedure finalizzate al conseguimento dell’esenzione della punibilità penale si applichino ad un maggior numero di opere edilizie abusive rispetto a quelle per le quali operano gli effetti estintivi degli illeciti amministrativi

(Corte cost. 28.6.2004, n. 196, FI, 2005, I, 353 s.).

16. Percorsi ondivaghi della giurisprudenza di legittimità.

Le argomentazioni che abbiamo svolto sulla legittimità del c.d. “doppio binario” e sulla riconosciuta possibilità per le Regioni, senza violare la riserva di legge statale in materia penale, di consentire l’impiego della s.c.i.a. (originariamente, della d.i.a.) anche per l’esecuzione di interventi edilizi ulteriori ed aggiuntivi rispetto a quelli per i quali il titolo semplificato è ammesso dalla legge statale – e ciò in quanto trattasi di semplificazione che opera soltanto sul piano procedimentale, senza conseguenze di carattere penale - sembrano non essere (sempre) condivise dalla Corte di cassazione.

In un caso risalente ad epoca immediatamente successiva all’entrata in vigore del testo unico, la Corte ha di fatti sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, 3° co., l.r. Lombardia 19.11.1999, n. 22 – come modificato ed integrato dall’art. 3 l.r. 23.11.2001 n. 18 – per contrasto con gli artt. 3, 5, 25, 97 e 117 Cost., nella parte in cui, in tra l’altro,

prevedendo una indiscriminata alternatività tra d.i.a. e permesso di costruire, cioè la possibilità di costruire con d.i.a. anche nuove costruzioni o ristrutturazioni urbanistiche senza l’esistenza di una pianificazione di dettaglio, si pone in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio, in materia di ordinamento civile e penale e con il principio di buon andamento della P.A.

(Cass. Sez. III, 26.11.2003, RGE, 2004, I, 846).

Nel caso di specie, la disciplina regionale in tema di titoli abilitativi sembra, per la sua ampiezza, difficilmente conciliabile con quella statale, ma, trattandosi di processo definito in sede di merito quando già era entrata in vigore la c.d. “super-dia” ad opera della l. 21.12.2001, n. 443 (legge-obiettivo), come modificata dall’art. 13 l. 1.8.2002, n. 166 – la cui disciplina è stata poi trasfusa nel TUE delineando il quadro normativo che nel paragrafo precedente si è sommariamente tratteggiato – a nostro avviso la Suprema Corte avrebbe potuto risolvere la questione in via interpretativa, negando effetti penali al diverso regime amministrativo previsto dalla legge lombarda.

Nel commentare la pronuncia, un attento studioso dei peculiari profili di cui si discute (MUSOLINO, Il legislatore regionale non può autorizzare la “superDIA” in assenza di precise disposizioni planovolumetriche, in UA, 2004) ha pure lui sostenuto che con l’interpretazione adeguatrice sarebbe stato possibile dare alla disposizione regionale un significato compatibile con la legge statale, ciò che la stessa Corte aveva fatto in occasione di due precedenti pronunce (sia pure in modo un po’ “forzato”, come riconosce l’Autore, ricordando che nel primo caso la decisione aveva indotto la Regione Lombardia a sollevare avanti alla Corte costituzionale il conflitto di attribuzione di cui si è dato conto al paragrafo precedente: si tratta di Cass. Sez. III, 7.3.2001, Toma, CP, 2002, 756 ; UA, 2001, 686; Cass. Sez. III, 15.3.2002, Catalano, CP, 2003, 2411). In realtà – osserviamo noi – nelle precedenti occasioni, non essendo in allora vigente nemmeno la legge obiettivo nella sua originaria formulazione, le rationes decidendi dell’interpretazione adeguatrice furono altre da quella che si sarebbe dovuta utilizzare nel caso di specie. E’ un fatto, quindi, che la Corte di cassazione abbia mostrato di disattendere l’interpretazione delle vigenti norme qui proposta, quella che a nostro avviso costituisce oggi una chiave di lettura fondamentale del rapporto tra legislazione statale e regionale nella nostra materia.

Può peraltro ipotizzarsi – come in dottrina è stato fatto (cfr. MUSOLINO, Il legislatore regionale, cit., 985 e, volendo, REYNAUD, La disciplina, cit., 26 ss.) - una diversa spiegazione delle ragioni che hanno indotto la Cassazione a muovere quel passo. L’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale – diffusa e articolata – sembra infatti perseguire il fine di ottenere dai giudici della Consulta un “chiarimento” su un particolare aspetto della potestà regionale in tema di estensione della previsione del titolo abilitativo edilizio semplificato, vale a dire quello, su cui si appuntano le principali argomentazioni del giudice remittente, relativo alla necessità che le Regioni rispettino pur sempre, quale principio fondamentale della legislazione statale in materia, il limite dell’esistenza di pianificazione urbanistica di dettaglio (la questione sembra peraltro superata dalle successive previsioni, che, impregiudicate le conseguenze penali in caso d’abuso, prevedono il potere regionale di estensione del titolo semplificato della s.c.i.a. al di fuori di quel limite, oggi non più previsto dall’art. 22 TUE). In ogni caso, pronunciandosi sulla questione di legittimità costituzionale e rilevando che la legge regionale denunciata era stata medio tempore abrogata dalla l.r. 11.3.2005, n. 12, che contiene una nuova, organica e differente, disciplina del governo del territorio, la Corte costituzionale ha ordinato la restituzione degli atti al giudice a quo per nuova valutazione della rilevanza della questione (Corte cost. 24.6.2005, n. 248).

In altra, più recente, occasione, chiamata a pronunciarsi in sede cautelare avverso l’ordinanza del tribunale del riesame che aveva revocato il sequestro preventivo di una tettoia ritenuta abusiva perché realizzata in assenza di permesso di costruire, la Corte – pur escludendo rilevanza “scriminante” ad una norma di fonte di regionale che, per casi come quello sub iudice, sembrava restringere il campo di operatività del permesso di costruire a vantaggio di titoli semplificati che in caso di abuso non prevedono sanzioni penali – ha preferito seguire la più tranquillizzante strada dell’interpretazione conforme, piuttosto che ricondurre il caso all’ipotesi di cui all’art. 22, co 4, TUE, per farne derivare la rilevanza penale dell’abuso (che nella specie, come di regola avviene nella casistica, appariva peraltro “totale”, nel senso che, a quanto sembra di capire, non era stato seguito l’iter amministrativo semplificato). Ed invero, pur dando conto del fatto che la legislazione regionale siciliana – che in materia urbanistica ha competenza esclusiva – prevede una disciplina eccezionale che appare in deroga a quella statale circa le opere soggetto al permesso di costruire (v. l.r. 10.8.1985, n. 37, art. 9 – relativa alle opere interne - e l.r.. 16.4.2003, n. 4, art. 20, relativa alla chiusura di terrazze, balconi, verande con opere strutturali precarie), la Cassazione, richiamando la sent. Corte cost. n. 489/1989 più sopra citata, ricorda come detta legislazione non possa interferire con il campo di applicazione delle norme penali di fonte statale, citando poi anche le disposizioni del testo unico che fondano quello che noi abbiamo definito il principio del « doppio binario » e che avrebbero dunque consentito di risolvere il caso senza ulteriori chiose:

La Corte Costituzionale - nell'interpretazione del principio della riserva di legge in materia penale, posto dall'art. 25 Cost., comma 2, - ha costantemente affermato il monopolio del legislatore statale, fondando tale posizione su un'esegesi del complessivo sistema costituzionale che disvela la statualità del ramo penale del diritto in ogni vicenda costitutiva o estintiva della punibilità. È stato evidenziato, in particolare, che: a) la scelta circa le restrizioni dei beni fondamentali della persona è cosi impegnativa che non può non essere di pertinenza dello Stato; b) la riserva di competenza alla legge statale è anche una conseguenza della necessità che vi siano in tutto il territorio nazionale condizioni di eguaglianza nella fruizione della libertà personale, pena la violazione dell'art. 3 Cost.; c) un eventuale pluralismo di fonti regionali penali contrasterebbe con il principio dell'unità politica dello Stato (Si vedano, al riguardo, le ampie e diffuse argomentazioni svolte nella sentenza n. 487 del 25/10/1989, riferita proprio a disposizioni legislative della Regione Siciliana incidenti sul regime del condono edilizio posto dalla L. n. 47 del 1985, art. 31). La Consulta dunque, in coerenza con tali principi, ha più volte censurato leggi regionali comunque incidenti sul sistema penale, in senso cioè favorevole o contrario al reo.

Deve escludersi, pertanto, in ossequio al principio di legalità, che la scelta di criminalizzare o meno una certa condotta possa attribuirsi alla Regione, consentendo l'opzione fra attrarre o meno una certa attività al regime del permesso di costruire. In proposito:

- la formulazione del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 10, commi 2 e 3 consente alle Regioni l'esercizio di una flessibilità normativa nella direzione di ampliare l'area applicativa del permesso di costruire, non determinando comunque un ampliamento siffatto l'irrogazione delle sanzioni penali individuate dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44;

- ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 4, le Regioni a statuto ordinario possono, con legge, ampliare o ridurre l'ambito applicativo della denuncia di inizio dell'attività (D.I.A.), con la specificazione che gli ampliamenti o le riduzioni delle categorie sottoposte dalla legge statale a permesso di costruire non incidono, però, sul regime delle sanzioni penali, che alla sola normativa statale si correla, in considerazione dei limiti posti dalla Costituzione alla potestà legislativa regionale

(Cass., Sez. III, sent. N. 33039 del 15/06/2006, Rv. 234935).

Dopo aver fatto queste condivisibili affermazioni, la Cassazione si sforza di operare un’interpretazione della legge regionale per concludere che il caso di specie non è ad essa riconducibile e analoghi percorsi argomentativi e decisionali – talvolta un po’ « forzati » - vengono seguiti in altre occasioni (Cass., Sez. III, sent. n. 35011 del 26/04/2007, Rv. 237533, sempre relativa alla stessa disposizione regionale e con riguardo, nella specie, alla chiusura di un balcone con veranda).

A nostro avviso, in questi ed altri analoghi casi, basterebbe richiamare le disposizioni da ultimo citate nella motivazione della sent. Cass. 33039/2006 per concludere che laddove non sia stato perfezionato l’iter amministrativo semplificato previsto dalla legge regionale si versa in un’ipotesi di costruzione sine titulo ai sensi dell’art. 44, 1° co., lett. b), TUE, indipendetemente dal fatto che la legislazione regionale – ai soli fini amministrativi – consenta la formazione di un titolo edilizio diverso da quello del permesso di costruire. Non così, invece, se sia stato seguito e perfezionato l’iter amministrativo previsto dalla legge regionale, sia esso la s.c.i.a. o, per le regioni a statuto speciale, altro titolo semplificati. Nel caso della legislazione siciliana più volte richiamata, ad es., si tratta di un procedimento simile a quello della c.i.l.a. di cui all’art. 6 bis TUE, procedimento che le regioni, anche quelle a statuto ordinario, possono estendere a opere diverse da quelle previste dalla disposizione, ovviamente senza pregiudizio dell’applicazione delle sanzioni penali. Di fatti, benché l’art. 6 bis, co. 4, lett. a, TUE, non richiami la clausola di salvezza delle conseguenze penali in caso di abuso di cui, invece, all’art. 22, co. 4, TUE, in omaggio ai principi secondo cui la legislazione regionale non può interferire nel campo di applicazione della legge penale, deve concludersi che, ai fini sanzionatori, non può riconoscersi alcun rilievo al fatto che, in forza di previsione della legge regionale, l’intervento abusivo sia stato realizzato (o si sarebbe potuto realizzare) secondo lo schema (piuttosto che della s.c.i.a.) di altro titolo abilitativo semplificato, come la c.i.l.a.

Deve aggiungersi che non pare al proposito dirimente – per escludere la conclusione qui sostenuta – che l’art. 44, comma 2-bis, TUE, nell’estendere le fattispecie di abuso previste per gli interventi soggetti al permesso di costruire a quelli soggetti ad altro titolo, menzioni soltanto l’ipotesi di cui all’art. 23, comma 01, TUE, vale a dire quella della s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire.

Lungi dall’interpretare analogicamente la norma incriminatrice e anche senza invocare l’interpretazione “adeguatrice”, la chiara, ed espressa, specificazione contenuta nell’art. 22, 4° co., TUE - a cui non si potrebbe attribuire altro significato – rende evidente come la legge (che, peraltro, ribadisce con altrettanta chiarezza lo stesso principio nell’art. 10, 3° co., TUE e un principio analogo nell’art. 22, co. 7, TUE) indichi come rilevanti per l’applicazione della norma incriminatrice di cui all’art. 44 TUE soltanto gli abusi concernenti interventi subordinati al permesso di costruire secondo la legge statale, quali che siano state, al proposito, le determinazioni delle diverse legislazioni regionali. A prescindere, dunque, dalla possibilità di ricorrere alla s.c.i.a. - in alternativa al permesso di costruire o in forza di specifiche disposizioni adottate dalle Regioni (o dalle province autonome) – ovvero dal fatto che si sia ottenuto un permesso di costruire quando la legge dello Stato ritiene sufficiente il titolo semplificato, per valutare la rilevanza penale di condotte di abuso ai sensi dell’art. 44, 1° co., lett. b, TUE, occorrerà verificare se le opere siano soggette al regime del permesso di costruire secondo la “normale” disciplina di fonte statale. Ma se il diverso titolo edilizio previsto dalla legislazione regionale sia stato ottenuto, non si potrà ritenere la sussistenza del reato di costruzione sine titulo sul mero rilievo che per quelle opere, secondo la legge statale, sarebbe stato necessario il permesso di costruire.

Quest’ultima conclusione – sia pur non espressamente affermata ed argomentata – è sottesa a diverse pronunce del giudice di legittimità. Oltre a quelle richiamate in fine del §. 14 a proposito della previsione di cui all’art. 10, 2° co., TUE, si consideri la sentenza che segue, emessa con riguardo ad una vicenda in cui era stato seguito il prescritto iter amministrativo semplificato per la trasformazione di un balcone in una veranda con opere definibili come « precarie » sul piano strutturale (e non anche funzionale, come invece richiesto dalla legge statale per escludere l’applicazione del regime del permesso di costruire). Proprio perché era stato qui conseguito il diverso titolo edilizio, la Corte ha annullato la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 44,1° co., lett. b, TUE, ma la massima (tralaticia e di non agevole comprensione, soprattutto nel caso di specie) suona in termini assai diversi:

La natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici per le quali l'art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ovvero nel senso della temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti

(Cass. Sez. III, sent. n. 16492 del 16/03/2010 Ud., Rv. 246771)

La sensazione di chi scrive, dunque, è che il tema non sia stato ancora completamente e convincentemente sviscerato e appare auspicabile – in particolare da parte della Corte regolatrice – un approfondimento che conduca all’affermazione di linee-guida chiare, sì da orientare gli interpreti e, prima ancora, i cittadini (e i loro professionisti), cui va assicurato il diritto di operare trasformazioni urbanistiche nel rispetto delle regole, conoscendo ex ante e senza arbitrari margini di incertezza le eventuali sanzioni previste per i casi di abuso, nel contempo riaffermando senza esitazioni il principio cardine secondo cui compete allo Stato il monopolio della potestà legislativa in materia penale.