La normativa italiana contro gli inquinamenti: le ultime vicende

di Gianfranco AMENDOLA

 

Relazione inviata in occasione della tavola rotonda tenutasi presso la Scuola Superiore della Magistratura in data 1.2.2013

 

 

La normativa ambientale fino al 2006: sintesi storica

Dagli anni 30 agli anni 70

Le nozioni di “ambiente ” e di “inquinamento” non risultano rilevanti di per sé ma vengono considerate solo con riferimento ad altri oggetti di tutela. Tipico esempio è la legge sulla pesca del 1931 la quale vieta di gettare o infondere nelle acque materie atte ad intorpidire, stordire o uccidere i pesci. E’ evidentissimo, in questo caso, che ciò che si vuole proteggere non è la purezza delle acque di per sé ma l'ittiofauna (cioè i pesci) per i riflessi economici che la sua distruzione può comportare; e quindi non si deve inquinare l'acqua se da ciò può derivare un danno al nostro patrimonio ittico (e al patrimonio economico del paese). Esempi analoghi possono essere fatti in molti altri campi, dalle bonifiche agli impianti elettrici, dalla sanità alle opere pubbliche.

Nel 1966 compare la prima legge contro un inquinamento, la cosiddetta legge antismog che si occupa, appunto, dell'inquinamento atmosferico provocato dall'industria, dagli impianti di riscaldamento e dal traffico. Essa è però talmente piena di smagliature, di punti oscuri, di carenze ecc. da risultare in buona parte inefficace.

 

Dal 1970 AL 1993

E’ solo dalla seconda metà degli anni 70 – e soprattutto per impulso comunitario- che compaiono i primi testi di legge in questo settore. Nel 1976 nasce la legge Merli sull'inquinamento delle acque, nel 1982 il D.P.R. 915 sui rifiuti, nel 1985 la legge Galasso a difesa dell' ambiente-paesaggio, nel 1986 nasce ufficialmente, con portafoglio e poteri, anche il Ministero dell'ambiente, nel 1988 viene emanato il DPR 203 sull’inquinamento atmosferico da industrie, cui seguono, anche per evitare condanne in sede comunitaria, numerose altre leggi, spesso non coordinate tra di loro e senza alcun disegno organico di base: ciò avviene per le direttive della Cee sulla valutazione di impatto ambientale, sulle acque destinate all'uso alimentare, sulle aziende a rischio, tanto per fare alcuni esempi. Ancora peggio avviene quando si legifera sull'onda dell'emergenza. Il D.P.R. 915 del 1982 sui rifiuti, già prorogato e rinfrescato nel 1987 con la legge 441, viene totalmente dimenticato (probabilmente perché mai applicato) nel momento dell'emergenza provocata dalle «navi dei veleni», e il governo sforna il decreto legge 397 del 9 settembre 1989 che, in sostanza, con nuove parole ripete in buona parte le stesse prescrizioni già emanate nel 1982 e nel 1987 (e mai applicate). A questo si aggiunga una forte tendenza del Ministero dell'ambiente a « legiferare » con decreti amministrativi, spesso in contrasto con le leggi; tanto è vero che buona parte di essi vengono annullati dalla Corte costituzionale (ad esempio, tra i tanti, in tema di materie prime secondarie, linee guida per l'inquinamento atmosferico, inquinamento acustico, ecc.).

E non è certo un caso se proprio in questo periodo la Corte costituzionale sancisce, con una sentenza a dir poco rivoluzionaria, che oggi, con tutta questa confusione di norme, di obblighi e di divieti, l'ignoranza della legge da parte del cittadino italiano è una valida scusante in caso di violazione.

Si tratta, comunque, di leggi che, in buona parte, restano disapplicate anche e soprattutto per carenza delle pubbliche strutture e degli apparati di controllo ma, sotto il profilo sanzionatorio, esse vengono presidiate, di regola, con sanzioni penali di tipo contravvenzionale.

A questa ampia produzione legislativa dello Stato (che possiamo chiamare <<inquinamento da leggi>>) fa riscontro, sempre in questi anni, un'analoga, copiosa produzione di leggi « ecologiche » regionali. Come risulta dai dati del Ministero dell'ambiente, vengono promulgate 239 leggi dalle regioni a statuto ordinario anche se con una distribuzione geografica molto varia. E’, però opportuno precisare subito che gran parte di queste leggi hanno come oggetto il dísinquinamento (il 72 % della legislazione « ecologica » e cioè 174 su 239).

 

Dal 1993 AL 1997

Alla fine del novembre 1993, in piena crisi economica ed occupazionale, inizia la deregulation; è infatti da quella data che nel governo prevale la concezione che, per aiutare la ripresa economica, occorre eliminare il più possibile i vincoli e le sanzioni penali previsti dalle leggi di tutela ambientale. E’ con questa ottica che, in totale e palese contrasto con la normativa comunitaria, si riscrive la legge Merli depenalizzando tutto il settore degli scarichi civili e da pubbliche fognature, si elaborano le categorie dei «residui» e dei «rifiuti quotati in borsa» per sottrarre i rifiuti industriali recuperabili alla normativa di settore e si riaprono i termini per buona parte delle industrie a rischio. Nel 1995 viene emanata la prima legge quadro contro l’inquinamento acustico la quale, pur prevedendo alcuni limiti di tollerabilità, li vanifica in buona parte con numerose esenzioni e con il rinvio, per l’applicazione, a decreti esecutivi che o non verranno mai emanati ovvero sono stati emanati con disposizioni di grande favore per alcuni settori particolarmente preoccupanti (per esempio, in relazione al rumore provocato da traffico ferroviario o aereo); ma soprattutto, con un drastico cambiamento di rotta, prevede, in caso di violazione, sanzioni solo amministrative .

 

Dal 1997 AL 2006

Il 1997 inizia l’era dei testi unici con il D. Lgs. n. 22 sui rifiuti (e normativa collegata, incluse le correzioni e le integrazioni del 1997 e del 1998) cui segue il D. Lgs. n. 152 del 1999 sull’inquinamento idrico. Esso si inserisce nel filone dell’inquinamento da leggi e si caratterizza per una produzione normativa di provenienza governativa (in base a delega di leggi comunitarie) che, pur in assenza di una legge quadro sull’ambiente, ha l’ambizione di essere esaustiva in alcuni settori, quali, appunto, quello sui rifiuti e sulle acque, ove, con articolati ed allegati sovrabbondanti, abroga la normativa precedente e la sostituisce con «testi unici» la cui principale caratteristica, -al di là dei principi ed obiettivi dichiarati, totalmente condivisibili-, è la approssimazione, la confusione, l’oscurità del dato normativo derivante da articoli lunghi, complicati, con richiami ad altre leggi, difficili da capire già solo a livello letterale, e dove molto spesso le eccezioni (a volte situate in altri articoli) prevalgono sulle regole. In tal modo, invece di semplificare, si complica il quadro normativo; ed anche i deboli tentativi di coordinare ed accorpare gli adempimenti delle imprese restano sulla carta, come dimostra la semplice lettura del D. Lgs. n. 372/1999 per l’attuazione della direttiva sulla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento. A livello sanzionatorio, come era prevedibile, le sanzioni amministrative sostituiscono rapidamente buona parte delle preesistenti sanzioni penali.

Le stesse carenze si riscontrano, ovviamente, nella più importante tra le nuove leggi varate in questo periodo, e cioè la legge quadro 22 febbraio 2001 in materia di inquinamento elettromagnetico, incentrata, come era prevedibile, su sanzioni solo amministrative.

Cambiati maggioranza e governo, la deregulation dilaga senza più remore. A condoni generali per chi ha violato le leggi di tutela ambientale si accompagnano leggi di favore per specifici settori industriali (quali le imprese della TAV per le terre da scavo) o anche per singole industrie (il petcoke di Gela). Diviene prassi comune e ripetuta il ricorso al <<commissariamento>> con cui si attribuisce ad un <<commissario per l’emergenza>> il potere di derogare alle leggi di tutela ambientale, anche quando l’emergenza diventa normalità. Nel settore dei rifiuti industriali, in pieno ed evidente contrasto con la normativa comunitaria, viene emanata una legge per la <<interpretazione autentica della nozione di rifiuto>> che, in sostanza, vuole ancora una volta escludere dal campo di applicazione della normativa tutti i rifiuti non destinati allo smaltimento o al recupero in senso stretto, con specifico riferimento ai rottami ferrosi. Nel settore delle acque, a sorpresa, nell’agosto 2003, convertendo in legge un decreto, il Parlamento introduce una norma <<bis>>, con cui, quattro anni dopo la emanazione del D. Lgs n. 152/99, ed oltre un anno dopo la fine del periodo transitorio, riapre i termini di vacatio legis e li proroga sino all’agosto 2004, vanificando quel poco di applicazione intervenuto nel frattempo a tutela delle acque dall’inquinamento.

 

Il Testo Unico Ambientale del 2006. Generalità

 

Dal 2006, tuttavia, con il D. Lgs. n. 152, comunemente chiamato Testo Unico Ambientale (TUA), abbiamo veramente toccato il fondo, nonostante alcuni (parziali) miglioramenti introdotti nel 2008.

Si tratta, come è noto, di un testo di 318 articoli (oltre i bis, ter ecc.) e 45 allegati, confuso, raffazzonato, non coordinato e non equilibrato, che molto spesso tratta argomenti di primaria importanza in poche e confuse disposizioni mentre dedica articoli lunghissimi a dettagli del tutto secondari, che di solito vengono affrontati, appunto, dalla normativa secondaria di attuazione.

In particolare, il settore degli inquinamenti (acque, rifiuti e aria) è affogato in contesti disomogenei e spesso fuorvianti, con principi che, altrettanto spesso, si contraddicono man mano che si leggono le centinaia di articoli e gli allegati.

Ad esempio, quanto alle acque, nella disciplina dei limiti da rispettare per gli scarichi nella parte terza, quella che viene gabellata come regola dall’art. 101, comma 1 (“Tutti gli scarichi……devono comunque rispettare i valori limite previsti nell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto”), è, in realtà, la eccezione, tali e tante possono essere le deroghe che compaiono successivamente. Ed è paradossale che la stessa legge preveda sanzione per chi, gestendo un impianto di depurazione, superi i limiti di legge, mentre nessuna sanzione è prevista se trattasi di scarico “bruto”.

Il peggio si riscontra nel settore dei rifiuti, dove sono visibilissimi i guasti prodotti da un legislatore (già ben prima del 2006) incalzato dalle condanne della Corte europea di giustizia (abbiamo il record europeo) e tuttavia determinato a ricorrere ad ogni mezzo per favorire alcuni settori produttivi .

Si ricordano, in proposito, le scandalose vicende normative dei “residui”, delle “materie prime secondarie”, dei “materiali quotati in borsa”, dei “sottoprodotti” all’italiana, e della <<interpretazione autentica della nozione di rifiuto>> , che, in realtà, sono stati tutti espedienti per sottrarre rifiuti più o meno riutilizzabili alla normativa sui rifiuti, in pieno contrasto con la normativa comunitaria. Tanto è vero che tutti questi tentativi sono stati bocciati in sede comunitaria. Basta leggere, in proposito, la lettera indirizzata dalla Commissione UE il 5 luglio 2005 al Ministro degli Esteri Fini, la quale, dopo aver ricapitolato normativa e giurisprudenza comunitarie, concludeva che l’Italia <<avendo adottato e mantenendo in vigore l’articolo 1, commi da 25 a 27 e comma 29 della legge n° 308 del 15 dicembre 2004, per mezzo del quale alcune sostanze od oggetti, i quali ai sensi della direttiva 751442/CEE modificata sono da considerarsi rifiuti, vengono invece sottratti all’ambito della legislazione italiana sui rifiuti, e, avendo come prassi consolidata e persistente quella di adottare disposizioni volte a restringere l’ambito di applicazione della direttiva 75/442/CEE in Italia, con riferimento alla definizione di rifiuto di cui all’articolo 1, lettera a) della direttiva>>, si sottrae ai suoi obblighi verso la UE, e pertanto veniva sottoposta alla ennesima procedura di infrazione. Ciò nonostante, il giochino veniva ripetuto dal legislatore italiano nel 2006 a favore dei “rottami ferrosi”, guadagnandoci un’altra condanna in sede comunitaria.

Per non parlare delle allucinanti vicende normative relative alle “terre da scavo, anche da gallerie” tese, con ogni evidenza, a salvare dalla condanna penale le industrie dell’alta velocità1.

Del resto, la qualità dell’attuale normativa sui rifiuti è ben evidenziata dalla semplice lettura dell’attuale disciplina sulla bonifica dei siti contaminati, settore di fondamentale importanza per la tutela dell’ambiente e della salute. Essa è prevista dal titolo V e riguarda <<l’insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo, nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio>> (art. 240, comma 1, lett. p); dove, con ogni evidenza la riduzione dell’inquinamento viene posta non come conseguenza ma come alternativa rispetto alla rimozione della fonte inquinante. Trattasi di disciplina farraginosa, confusa e complicata, basata più su obblighi “burocratici” che sostanziali, notevolmente peggiore della già discutibile regolamentazione contenuta nel D. Lgs 22/1997. Tra le altre novità introdotte dal D. Lgs 152/06, merita di essere segnalato che l’art. 242, comma 2, in caso di evento potenzialmente pericoloso per l’ambiente, lascia ogni responsabilità al privato, il quale può anche concludere la procedura con una autocertificazione (salvo il potere di controllo successivo da parte della P.A) ovvero, se obbligato ad intervenire per la bonifica, potrà definire modalità e tempi di esecuzione con apposito accordo di programma (art. 246). Peraltro, mentre la normativa prima in vigore prevedeva la responsabilità per la bonifica di <<chiunque cagiona, anche in maniera accidentale>> un inquinamento o un pericolo di inquinamento, il D. Lgs 152/06 sembra eliminare ogni riferimento ad eventi accidentali, parlando di <<responsabile dell’inquinamento>>; aprendo, quindi, il varco a scappatoie e ad accertamenti spesso complicati in una materia in cui, invece, occorrono semplicità e rapidità. Inoltre, se si tratta di intervenire su siti con attività in esercizio, è sufficiente la messa in sicurezza operativa e la bonifica viene rinviata al momento della cessazione dell’attività. Infatti, in totale contrasto con i valori costituzionali, si dovrà comunque garantire che la produzione continui (art. 242, comma 10) 2. Sotto il profilo penale, mentre prima la sanzione (art. 51 bis D. Lgs. 22/97) si applicava a chi non rispettava gli obblighi di bonifica dopo aver cagionato <<l’inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento>>, il T.U.A. (art. 257, comma 1) prevede sanzione per omessa bonifica a carico di <<chiunque cagiona l’inquinamento… con superamento delle concentrazioni di rischio>>, eliminando la tutela anticipata riferita al pericolo3. In più, la sanzione penale dell’arresto e dell’ammenda, che prima era congiunta, adesso è diventata alternativa (in contrasto, peraltro, con la legge delega). Ma è ancor più significativo menzionare la assoluta novità dell’art. 257, comma 4, a norma del quale <<l’osservanza dei progetti approvati ai sensi degli articoli 242 e seguenti del presente decreto costituisce condizione di non punibilità per i reati ambientali contemplati da altre leggi per il medesimo evento e per la stessa condotta di inquinamento di cui al comma 1.>>. In altri termini, l’inquinatore, se bonifica, non è punibile per aver provocato l’inquinamento e per tutti gli altri reati ambientali connessi con il medesimo evento. Quindi, un evidente condono permanente che elimina alla radice ogni deterrenza della sanzione penale e costituisce oggettivamente un incentivo all’inquinamento4.

Più in generale, sotto il profilo penale si nota che il TUA, con una sola eccezione, prevede solo reati contravvenzionali, molto spesso a carattere formale, che prescindono dal reale pericolo o danno per l’ambiente, e tesi quasi sempre a garantire l’applicazione della normativa di regolamentazione amministrativa. L’unica eccezione è costituita dal delitto di traffico illecito di rifiuti (art. 260), che, pur non essendo un modello di chiarezza, si è rivelato uno strumento di grande utilità per le indagini anche grazie ai preziosi chiarimenti forniti dalla Cassazione.5

La prima conseguenza, ormai evidentissima, indotta da una legge di questo tipo è che l’applicazione della normativa contro gli inquinamenti (che già non eccelleva prima del 2006) è, di solito, molto carente (per usare un eufemismo). Del resto, è del tutto naturale che un pubblico ufficiale o un agente di p.g., di fronte a norme confuse e poco comprensibili, spesso anche a livello letterale, non “rischi” errori e si dedichi ad altro. O, al più, si limiti alle poche applicazioni “classiche”, ad esempio contro i soliti sfasciacarrozze o i soliti autolavaggi, dimenticando totalmente le grandi aziende inquinanti del suo territorio. Ovviamente, ci sono le eccezioni e le isole felici, ma sono, appunto eccezioni.

A questo si aggiunga la insufficienza cronica, comunque, degli organi di controllo sia amministrativo che tecnico in termini di personale e mezzi, oltre, a volte, di preparazione e di cultura. Con l’aggravante del fenomeno, tutto italiano, delle «competenze » per cui ci si trova di fronte ad un quadro confuso di attribuzione di competenze istituzionali (con variazioni e modifiche continue), che consentono ad ogni autorità di proclamarsi competente al momento dell' esercizio del potere e incompetente nel momento dell'accertamento delle responsabilità. Di contro, la frammentazione delle competenze legittima, quando si vuole forzare una decisione, il ricorso alla <<conferenza dei servizi >> troppo spesso utilizzate per scavalcare tutte le procedure e le competenze istituzionali che dovrebbero garantire la tutela ambientale. Risultato che sempre più spesso viene ottenuto anche con il ricorso alle procedure di “emergenza” previste per la protezione civile (commissariamenti ecc.)

Insomma, per tutelare l’ambiente ci vogliono una buona legge e un adeguato apparato pubblico di applicazione e di controllo. Oggi, in Italia mancano entrambi. Ed anche la novità (normativa) del SISTRI in tema di tracciabilità di rifiuti, che pure poteva essere positiva, è ormai naufragata tra sospensioni e rinvii, portando alla conseguenza opposta di rendere incerti gli obblighi e le sanzioni in tema di trasporto di rifiuti.

Occorre, cioè, prendere atto che ancora oggi, per tutelare l’ambiente sono molto spesso più efficaci le “vecchie” norme del codice penale, riferibili agli inquinamenti, dall’art. 674 c.p., all’avvelenamento di acque, al danneggiamento aggravato, al disastro.

 

Le novità normative del D. Lgs 121/2011 sulla tutela penale dell’ambiente.

 

Purtroppo, le novità normative degli ultimi anni non hanno apportato miglioramenti ma hanno continuato nella stessa direzione delineata dal TUA.

In questo quadro, occorre citare quella che poteva essere, invece, una importante novità positiva, e si è risolta, per una parte, in un nulla di fatto. Ci riferiamo al D. Lgs 121/2011, emanato sulla base della legge delega n. 96/2010 (c.d. legge comunitaria 2009), che è entrato in vigore il 16 agosto 2010 per dare attuazione a due importanti direttive comunitarie sulla tutela penale dell’ambiente (2008/99/CE) e sull’inquinamento provocato da navi (2009/123/CE).

Prescindiamo, in questa sede, dalla direttiva sugli scarichi inquinanti delle navi.

La direttiva sulla tutela penale dell’ambiente (che doveva essere trasposta negli ordinamenti giuridici degli Stati membri entro il 26 dicembre 2010) consta di 10 articoli e 2 allegati e prevede 9 fattispecie di illeciti ambientali, da punire“con sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive” se posti in essere intenzionalmente o con grave negligenza, che vale la pena di ricordare brevemente:

a) lo scarico, l’emissione o l’immissione illeciti di un quantitativo di sostanze o radiazioni ionizzanti nell’aria, nel suolo o nelle acque che provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora;

b) la raccolta, il trasporto, il recupero o lo smaltimento di rifiuti, comprese la sorveglianza di tali operazioni e il controllo dei siti di smaltimento successivo alla loro chiusura nonché l’attività effettuata in quanto commerciante o intermediario (gestione dei rifiuti), che provochi o possa provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora;

c) la spedizione di rifiuti, qualora tale attività rientri nell’ambito dell’articolo 2, paragrafo 335, del regolamento (CE) n. 1013/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2006, relativo alle spedizioni di rifiuti , e sia effettuata in quantità non trascurabile in un’unica spedizione o in più spedizioni che risultino fra di loro connesse;

d) l’esercizio di un impianto in cui sono svolte attività pericolose o nelle quali siano depositate o utilizzate sostanze o preparazioni pericolose che provochi o possa provocare, all’esterno dell’impianto, il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora;

e) la produzione, la lavorazione, il trattamento, l’uso, la conservazione, il deposito, il trasporto, l’importazione, l’esportazione e lo smaltimento di materiali nucleari o di altre sostanze radioattive pericolose che provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora;

f) l’uccisione, la distruzione, il possesso o il prelievo di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette, salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie;

g) il commercio di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette o di parti di esse o di prodotti derivati, salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie;

h) qualsiasi azione che provochi il significativo deterioramento di un habitat all’interno di un sito protetto;

i) la produzione, l’importazione, l’esportazione, l’immissione sul mercato o l’uso di sostanze che riducono lo strato di ozono.

In riferimento a queste fattispecie, l’art. 6 della direttiva richiede altresì che le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili se i reati vengono commessi a loro vantaggio e dai loro vertici apicali ovvero dai soggetti sottoposti alla loro autorità, ma in questo caso a causa della carente sorveglianza posta in essere sull’operato dei medesimi. E nell’art. 7 aggiunge che alle stesse persone giuridiche devono essere irrogate, se dichiarate responsabili, sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive.

In sostanza, quindi, la direttiva impone due orientamenti in tema di sanzioni: la introduzione di alcuni delitti, e la responsabilità delle persone giuridiche.

Iniziamo dal primo: gli Stati membri dovrebbero introdurre delitti, colposi o dolosi, per le attività che danneggiano l’ambiente, le quali generalmente provocano o possono provocare un deterioramento significativo della qualità dell’aria, compresa la stratosfera, del suolo, dell’acqua,della fauna e della flora, compresa la conservazione delle specie.

Ed è appena il caso di specificare che essa richiede la introduzione di delitti e non di contravvenzioni. Infatti, occorre tener presente che la UE non distingue, come fa l’Italia, gli illeciti penali in delitti e contravvenzioni ma conosce solo sanzioni amministrative e sanzioni penali, a seconda della gravità dell’illecito. Ma non c’è dubbio che, quando parla di sanzioni penali, nella direttiva in esame, ci si riferisce ai casi di maggiore gravità, che, per noi, non possono essere altro che delitti.

Così come non c’è dubbio che, sotto questo profilo, il nostro paese ha sempre privilegiato, come già abbiamo detto, la strada esattamente opposta: prevedere non delitti (con la sola eccezione delle attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti) ma contravvenzioni (con conseguenze molto meno gravi). E non per eventi di danno o pericolo concreto per l’ambiente, ma per violazioni prevalentemente “formali” e astratte, quali la mancanza di preventiva autorizzazione, l’inosservanza di prescrizioni, o il superamento di standard tabellari.

In questa situazione che cosa ha fatto il legislatore del D. Lgs 121/011 per dare attuazione a questa direttiva?

In realtà, niente, anzi, peggio. Infatti, invece di introdurre fattispecie di pericolo concreto o di danno rilevante per le matrici ambientali o per la salute e integrità fisica delle persone, come richiesto dall’art. 3 lett. a) della direttiva 2008/99/CE, si è limitato ad introdurre due nuove fattispecie penali: uccisione, distruzione, cattura ecc. di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette, art. 727-bis c.p.; distruzione o deterioramento di habitat, art. 733-bis c.p. Ovviamente, come contravvenzioni; e con una formulazione tale da creare doppioni e confusione rispetto ai reati di settore già esistenti, quali il delitto di cui all’art. 544 bis c.p. (“Uccisione di animali”), l’art. 30, lett. g) l. 152/19926, l’ art. 734 c.p, l’art. 30 della legge n. 394/1991 (legge quadro sulle aree protette).

Per il resto, nulla è cambiato. Di certo, quindi, non sono stati introdotti i nuovi delitti voluti dalla direttiva né sono state introdotte sanzioni penali efficaci, adeguate e dissuasive.

Passiamo al secondo orientamento voluto dalla direttiva: adottare “le misure necessarie affinché le persone giuridiche dichiarate responsabili di un reato ai sensi dell’articolo 6 siano passibili di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive”; introdurre, cioè, la responsabilità delle persone giuridiche per taluni reati ambientali commessi a vantaggio o nell’interesse dell’ente.

Ci si riferiva, ovviamente, ai delitti di pericolo concreto e di danno, previsti nella stessa direttiva, e sopra riportati. E, quindi, il legislatore italiano, non avendo recepito questi delitti, ha “applicato” la direttiva, estendendo la disciplina per la responsabilità delle persone giuridiche, già prevista per alcuni reati dal D. Lgs. n. 231/2001, a una parte dei reati previsti dal testo unico ambientale, che, come già si è rilevato, sono tutta altra cosa e prescindono dai reali danni e pericoli per l’ambiente.

In particolare, sono previste sanzioni aggiuntive a carico degli enti, oltre che per le due nuove contravvenzioni sopra riportate anche per le seguenti fattispecie:

  1. Per l’inquinamento delle acque :

- scarico idrico in violazione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione (art. 137, c. 3) e dei limiti tabellari per talune sostanze (art. 137, c. 5 primo periodo);

- scarico in acque marine da parte di navi od aeromobili (art. 137, c. 13).

- scarico idrico in assenza di autorizzazione o con autorizzazione sospesa o revocata riguardante talune sostanze pericolose (art. 137, c. 2);

- scarico idrico in violazione dei limiti tabellari per talune sostanze particolarmente pericolose (art. 137, c 5 secondo periodo);

- scarico sul suolo, nel sottosuolo o in acque sotterranee (art. 137, c 11).

2) Per i rifiuti:

- gestione abusiva di rifiuti non pericolosi (art. 256, c. 1 lett. a) e deposito temporaneo presso il luogo di produzione di rifiuti sanitari pericolosi (art. 256, c. 6)

- gestione abusiva di rifiuti pericolosi (art. 256, c. 1 lett. b); realizzazione e gestione di discarica abusiva di rifiuti non pericolosi (art. 256, c. 3, primo periodo); miscelazione di rifiuti (art. 256, c. 5):

- realizzazione e gestione di discarica abusiva di rifiuti pericolosi (art. 256, c. 3, secondo periodo)

- omessa bonifica di sito contaminato da rifiuti non pericolosi (art. 257, c. 1) e pericolosi (art. 257, c. 2)

- trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario e mancata annotazione nel formulario dei dati relativi (art. 258, c. 4 secondo periodo);

- spedizione illecita di rifiuti (art. 259. c. 1);

- attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti;

- per la violazione delle prescrizioni in materia di SISTRI (art. 260-bis).

3) Per l’inquinamento atmosferico, si fa riferimento solo al superamento dei valori limite di emissione e dei valori limite di qualità dell’aria (art. 279, c. 5).

Molto ci sarebbe da dire su questa scelta, peraltro incerta fino all’ultima stesura del D. Lgs 121.

Di certo, grida vendetta la dimenticanza dei reati collegati all’AIA (autorizzazione integrata ambientale), dato che riguarda imprese che sono per definizione assai pericolose per l’ambiente. Così come grida vendetta la dimenticanza relativa ai delitti di danno o di pericolo del codice penale applicabili anche in caso di inquinamenti, quali il disastro previsto dagli artt. 434 e 449 cod. pen., l’avvelenamento o la corruzione di acque destinate all’alimentazione di cui agli artt. 439, 440 e 452 c.p., il danneggiamento aggravato di cui all’art. 635 cpv., n. 2 c.p. ecc.
Più in generale, appaiono del tutto condivisibili le osservazioni di chi ritiene “incomprensibile la scelta di configurare la responsabilità degli enti solo per lo scarico di acque reflue industriali contenenti sostanze pericolose, escludendo dal catalogo la contravvenzione di cui al primo comma dell’art. 137 dello stesso codice, atteso che lo scarico di sostanze anche non intrinsicamente pericolose ma in quantitativi rilevanti è condotta idonea a determinare un grave danno all’ambiente. Infine contraddittoria risulta la mancata inclusione nel catalogo della contravvenzione di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti di cui al successivo art. 256, comma 2, atteso che tale disposizione espressamente contempla tra gli autori propri del reato addirittura «i rappresentanti di enti».Ed in tal senso non è nemmeno chiaro il criterio seguito nella selezione operata in sede di stesura del testo definitivo della novella, atteso che, ad esempio, è stata mantenuta la responsabilità delle persone giuridiche per violazioni eminentemente formali come quella, ad esempio, dell’ottavo comma dell’art. 260-bis del d. lgs. n. 152/2006 avente ad oggetto le violazioni del sistema di tracciabilità dei rifiuti.”7

Ma, a nostro sommesso avviso, vi è una considerazione generale ben più rilevante che, a questo punto, va messa in evidenza.

L’applicazione di sanzioni alle persone giuridiche non è uno scherzo. Come abbiamo visto nei settori cui già erano applicate (D. Lgs. n. 231/2001), con queste sanzioni un’impresa, specie se di piccole dimensioni (come la stragrande maggioranza delle imprese italiane) può essere messa in ginocchio e fuori mercato in pochi giorni, avendone un danno irreparabile.

Questo ha un senso in caso di vero danno o pericolo alla salute o all’ambiente, ma diventa molto più discutibile se, come fa il nostro paese, si collegano queste nuove, gravose sanzioni a contravvenzioni che possono essere anche di minima gravità sostanziale o addirittura solo formali.

In altri termini, dovrebbero essere collegate ai delitti contro l’ambiente che, però, non ci sono.

 

Le novità normative del governo Monti

 

Resta da vedere se la svolta recente di indirizzo politico connessa con l’avvento del “governo dei Professori” abbia proseguito nella stessa direzione ovvero se, nei primi provvedimenti varati dal nuovo governo, sia riscontrabile qualche segnale di novità e di diversa attenzione per la tutela ambientale.

Nel cd. decreto salva Italia (decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201 coordinato con la legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214, intitolato <<Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici>>), si amplia notevolmente la categoria dei rifiuti speciali (da lavorazione) assimilabili agli urbani, e, quindi, sottoposti al più benevolo (anche come costi) e meno garantista regime di questi ultimi; si peggiorano le già pessime disposizioni sulle bonifiche; e, stranamente, ci si occupa di un problema evidentemente ritenuto di urgenza nazionale, e cioè di semplificare lo smaltimento dei rifiuti prodotti dai <<soggetti che svolgono le attivita' di estetista, acconciatore, trucco permanente e semipermanente, tatuaggio, piercing, agopuntura, podologo, callista, manicure, pedicure e che producono rifiuti pericolosi e a rischio infettivo (CER 180103: aghi, siringhe e oggetti taglienti usati)>>; sancendo, a tal fine, che i predetti soggetti possono, in buona misura, derogare agli obblighi generali previsti per trasporto, registro di carico e scarico e formulari.

Con il decreto-legge 25 gennaio 2012, n. 2 coordinato con la legge di conversione 24 marzo 2012, n. 28 («Misure straordinarie e urgenti in materia ambientale.») e con il decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 coordinato con la legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27 («Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività.») si ritorna sull’annoso problema delle terre da scavo per perseguire tre obiettivi: ampliare ben oltre il consentito l’ambito delle terre da scavo, inserendovi anche materiali del tutto estranei; evidenziare in tutti i modi, con insistenza quasi maniacale, che i materiali di cui si tratta (terre da scavo e matrici di riporto) possono essere non rifiuti ma sottoprodotti; ed infine ampliare oltre ogni limite, con regolamento amministrativo, le condizioni per considerarli sottoprodotti onde sottrarli alla disciplina sui rifiuti. In totale rotta di collisione con la normativa comunitaria, con la giurisprudenza della Corte di giustizia europea (che, già nel 2007, aveva condannato analogo tentativo italiano di sottrarre, sempre con “interpretazione autentica”, le terre da scavo all’ambito dei rifiuti) e con la giurisprudenza della Suprema Corte8.

Con decreto legge 9 febbraio 2012 convertito con legge 4 aprile 2012 n. 35, si dettano <<disposizioni urgenti in materia di semplificazione e sviluppo>>, fra le quali spicca l’art. 14, intitolato, alla “semplificazione dei controlli sulle imprese”. Già a prima vista, infatti, si capisce senza alcun dubbio che ciò che si vuole non è una “semplificazione” dei controlli al fine di renderli più efficaci, ma al fine di non dare fastidio alle imprese. E, infatti, si parla di <<promuovere lo sviluppo del sistema produttivo e la competitivita' delle imprese e di assicurare la migliore tutela degli interessi pubblici >>, di <<eliminazione delle attivita' di controllo non necessarie rispetto alla tutela degli interessi pubblici>>, di <<recare il minore intralcio al normale esercizio delle attività dell'impresa>>, di <<collaborazione con i soggetti controllati>>. In sostanza, si vuole far passare un messaggio chiaro agli organi di controllo pubblico: in questo momento di difficoltà economica, le imprese devono essere lasciate in pace e meno controlli si fanno meglio è. Anche in campo ambientale.

Infine, con il “decreto sviluppo”, cioè il decreto legge 22 giugno 2012 n. 83 convertito con legge 7 agosto 2012 n. 134, recante “misure urgenti per la crescita del Paese” si riapre la possibilità di nuove trivellazioni petrolifere, si esonerano dalla pur benevola disciplina del TUA le bonifiche per aree militari, e si classifica come sottoprodotto –e non rifiuto- il digestato ottenuto in impianti aziendali o interaziendali dalla digestione anaerobica, eventualmente associata anche ad altri trattamenti di tipo fisico-meccanico, di effluenti di allevamento o residui di origine vegetale o residui delle trasformazioni o delle valorizzazioni delle produzioni vegetali effettuate dall'agro-industria, conferiti come sottoprodotti, anche se miscelati fra loro, e utilizzato ai fini agronomici.

Appare, peraltro, sempre più evidente evidente che oggi il “partito del non rifiuto” si è riciclato nel “partito del sottoprodotto”, con l’unico fine di sottrarre rifiuti di lavorazione alla relativa disciplina9.

 

Conclusione

 

In conclusione, anche queste ultime vicende legislative in tema di tutela dell’ambiente confermano nel nostro legislatore una cultura, prima ancora che una politica, secondo cui la tutela ambientale è residuale rispetto agli interessi “forti”, specie in periodo di crisi economica ed occupazionale.

Purtroppo manca del tutto un qualsiasi dubbio che forse è vero il contrario e che un vero sviluppo non può che partire dalla tutela dell’ambiente e dal ripensamento sul tipo di sviluppo non sostenibile, ormai giunto al capolinea, imposto sinora al paese, basato sull’uso di risorse non rinnovabili, sugli sprechi e sulle diseguaglianze. Tanto è vero che si continua a parlare solo di “crescita” in senso quantitativo.

La riprova ultima, del resto, si è avuta con la vicenda ILVA dove non si è esitato, con un decreto legge veramente inqualificabile, a consentire la continuazione della produzione prima della messa in sicurezza degli impianti, laddove la magistratura di Taranto ha dimostrato in modo inoppugnabile che questa continuazione provocherà ulteriori morti e malattie tra i lavoratori e la popolazione. Trentaquattro anni fa la Cassazione a sezioni unite scrisse che “il bene della salute… è assicurato all’uomo.. come uno ed anzi il primo dei diritti fondamentali anche nei confronti dell’Autorità pubblica, cui è negato in tal modo il potere di disporre di esso…. Nessun organo di collettività neppure di quella generale e del resto neppure l’intera collettività generale con unanimità di voti potrebbe validamente disporre per qualsiasi motivo di pubblico interesse della vita o della salute di un uomo o di un gruppo minore…” (sentenza n. 5172 del 6 ottobre 1979).

Porre in dubbio oggi questo insegnamento significa porre in dubbio uno dei principi fondanti della nostra Costituzione.

 

1 Per approfondimenti, citazioni e richiami ci permettiamo di rinviare ai nostri Violazioni e sanzioni in tema di rifiuti nel nuovo testo unico ambientale, Poligr. Stato, Roma 2006, e Inquinamenti, istruzioni per l’uso, EPC, Roma 2009

2 Nel documento delle Regioni, elaborato a commento del D. Lgs 152/06, si osserva che “la modifica dell’impianto giuridico costituito dall’art. 17 D. Lgs 22/1997 tende a spostare l’obbiettivo della norma dalla primaria tutela dell’ambiente alla tutela dell’attività produttiva…”.

3 In questo senso, cfr. Cass. Pen, sez. 3, c.c. 29 novembre 2006, n. 9794, Montigiani, in www.lexambiente.it, e Id., 14 marzo 2007, Magni, le quali parlano di nuova fattispecie più favorevole al reo.

4 Per approfondimenti, consulta, da ultimo, il nostro Bonifica di siti contaminati e sanzioni penali in www.industrieambiente. it

5 Si rinvia, in proposito, da ultimo, al nostro Traffico di rifiuti, in Ambiente e sicurezza sul lavoro 2012, n. 4, pag. 54 e segg. specie per quanto attiene alle ultime interpretazioni giurisprudemziali.

6 Non a caso, RUGA RIVA, Il decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela penale dell’ambiente: nuovi reati, nuova responsabilità degli enti da reato ambientale, in www.lexambiente.it., conclude che “Insomma, il nuovo reato, ad una valutazione complessiva, non sembra affatto rafforzare la tutela penale dell’ambiente (animale) richiesta dalla direttiva 2008/99/CE. In sua assenza le varie condotte ivi descritte sarebbero state punite comunque, attraverso fattispecie già vigenti”

7 relazione dell’ufficio Massimario Corte di Cassazione del 3 agosto 2011, cui si rinvia per approfondimenti,

8 In proposito, anche per citazioni e richiami si rinvia al nostro Il regolamento sulle terre e rocce da scavo in Ambiente e sicurezza sul lavoro 2012, n. 11.

9 In proposito, si rinvia, da ultimo, al nostro Il partito del sottoprodotto, in www.industrieambiente.it