TAR Puglia (BA) sez. I n.410 del 19 marzo 2019
Ambiente in genere. Misure di compensazione ambientale

La disposizione della legge di bilancio 2019 ha cristallizzato – senza riferimento alcuno a pendenti controversie – l’incertezza del previgente quadro legislativo sulle misure di compensazione ambientale, tradottesi nella erogazione di proventi economici “liberamente pattuiti dagli operatori di settore con gli enti locali”, facendo però decorrere dalla data di entrata in vigore del DM 10 settembre 2010, cioè dall’avvento di una disciplina di tali misure improntata alla certezza giuridica, la possibilità (“fatta salva la libertà negoziale delle parti”) di una revisione dei pregressi accordi (dichiarati persistentemente efficaci) in base ai precisi parametri dettati dal citato decreto, il cui merito, a questo punto, è di aver contribuito a superare una parvenza di definizione delle misure di compensazione ambientale (“monetizzazione degli effetti deteriori” dell’impatto ambientale, come ha statuito la giurisprudenza costituzionale), del tutto insoddisfacente se correlata all’ammissibilità delle convenzioni ai sensi dell’art. 1, comma 5 della legge 239/2004 (quindi alla necessità di darne una regolazione compiuta sotto tutti gli aspetti).


Pubblicato il 19/03/2019

N. 00410/2019 REG.PROV.COLL.

N. 01331/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1331 del 2017, proposto da
Daunia Wind s.r.l., Daunia Serracapriola s.r.l., rappresentate e difese dagli avvocati Franco Gaetano Scoca, Pier Luigi Pellegrino, con domicilio eletto in Bari, Via Piccinni, 210

contro

Comune di Serracapriola, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Giacinto Lombardi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto in Bari, Via Giandomenico Petroni, 3

per l’accertamento

della nullità della convenzione rep.n. 1833 del 24.5.2006, stipulata tra la Daunia Wind S.r.l. e il Comune di Serracapriola, avente ad oggetto “convenzione regolante la concessione di aree in favore della società Daunia Wind s.r.l. per la costruzione, il funzionamento e la manutenzione di un impianto eolico”, e per la condanna dell’Amministrazione alla restituzione di €. 1.707.290,00, oltre interessi e rivalutazione monetaria.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Serracapriola;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 marzo 2019 il dott. Angelo Fanizza e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con ricorso ritualmente proposto le società Daunia Wind s.r.l. e Daunia Serracapriola s.r.l. hanno adito questo Tribunale per ottenere la declaratoria di nullità della “convenzione regolante la concessione di aree in favore della società Daunia Wind s.r.l. per la costruzione, il funzionamento e la manutenzione di un impianto eolico nonché ulteriori adempimenti”, sottoscritta in data 24.5.2006 tra il Comune di Serracapriola e la società Daunia Wind s.r.l., chiedendo la condanna dell’Amministrazione comunale alla restituzione della somma di €. 1.707.290,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria.

In sintesi, è accaduto che la società Daunia Wind s.r.l. ha presentato in data 23.3.2005 al settore energia della Regione Puglia una domanda volta al rilascio di un’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 387/2003 per la realizzazione di un impianto eolico.

Con la convenzione oggetto del contendere, stipulata ai sensi dell’art. 1, comma 5 della legge 239/2004, le parti hanno disciplinato il pagamento di un canone fissato “per l’intera durata della (…) convenzione” (30 anni dalla data di entrata in funzione dell’impianto con facoltà di rinnovo per ulteriori 29 anni, cfr. art. 3) e di un corrispettivo per le obbligazioni assunte dall’Amministrazione per la costituzione di diritti di servitù “e di ogni altro onere o disagio che potrà essere arrecato dalla realizzazione, funzionamento e manutenzione del citato impianto” (art. 4); la proponente si è, inoltre, impegnata ad impiegare l’imprenditoria locale in fase di realizzazione dei lavori; il Comune, da parte sua, oltre a istruire il procedimento autorizzativo sotto il profilo della verifica della compatibilità del progetto dal punto di vista urbanistico, paesaggistico e dell’interferenza con altri impianti nella zona d’intervento, ha assunto l’impegno di “non compiere alcuna attività che possa ostacolare l’esecuzione dei lavori e delle opere”, oltre che di astenersi “dal porre in essere fatti o atti che possano risultare di pericolo per l’impianto stesso ovvero che ne ostacolino il normale uso ovvero ancora che diminuiscano o rendano più scomodo l’esercizio dei diritti” (art. 7).

Le ricorrenti hanno soggiunto che con determinazione dirigenziale n. 103 dell’1.2.2007 (nella quale è stata richiamata la convenzione oggetto del contendere) è stata rilasciata l’autorizzazione unica per la costruzione e l’esercizio dei progettati 21 aerogeneratori (cfr. pag. 4).

A ciò ha fatto seguito il conferimento di ramo d’azienda alla società Daunia Serracapriola s.r.l., disposto con atto notarile del 26.6.2007 e comunicato alla Regione Puglia in data 31.7.2007.

Con l’atto introduttivo del presente giudizio le ricorrenti hanno dedotto la nullità dell’impugnata convenzione per contrarietà a norme imperative, violazione della Direttiva 1996/92/CE (recepita con d.lgs. 79/1999), della Direttiva 2003/54/CE (recepita con legge 62/2005), della Direttiva 2009/28/CE (recepita con d.lgs. 28/2011), degli artt. 23, 41 e 117 della Costituzione, della legge 239/2004, del d.lgs. 387/2003, del DM 10 settembre 2010, del principio di liberalizzazione del mercato di produzione di energia elettrica e del principio di libertà di produzione di energia eolica.

In particolare, hanno richiamato la giurisprudenza costituzionale che ha precisato la natura delle misure di compensazione, stigmatizzando la qualificazione delle stesse in prestazioni meramente patrimoniali (cfr. pag. 13).

Hanno, inoltre, sostenuto che “il previsto canone compensativo” sarebbe stato, nella specie, “prefissato unicamente in ragione della mera localizzazione sul territorio dell’impianto eolico” e che la realizzazione dei quest’ultimo avrebbe costituito una “fonte di arricchimento” per l’Amministrazione (cfr. pag. 18).

La nullità della convenzione è stata, inoltre, dedotta per l’impossibilità dell’oggetto (con richiamo alla disciplina del DM 10 settembre 2010), per illiceità della causa (sull’assunto che l’invocata normativa sulla liberalizzazione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili precluderebbe sul piano giuridico la stipulazione dell’accordo contestato) e per frode alla legge (in quanto la convenzione avrebbe imposto un canone correlato unicamente alla realizzazione dell’impianto).

Sulla scorta delle proposte deduzioni, le ricorrenti hanno chiesto la restituzione delle somme versate in adempimento degli obblighi convenzionali, quantificate in €. 1.707.290,00, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Si è costituito in giudizio il Comune di Serracapriola (31.1.2018).

In vista dell’udienza di discussione del ricorso nel merito, fissata per il 6 marzo 2019, le parti hanno depositato le rispettive memorie e repliche.

In particolare:

- nella memoria del 4.2.2019 le ricorrenti hanno richiamato alcune pronunce della Sezione (n. 737 del 24 maggio 2018 e n. 830 del 7 giugno 2018) che hanno accolto ricorsi in fattispecie analoghe; hanno, inoltre, richiamato – quale sopravvenienza normativa – l’art. 1, comma 953 della legge 145/2018 (c.d. legge di bilancio 2019), che avrebbe “definitivamente preso atto dell’ormai consolidato orientamento normativo e giurisprudenziale” sulla contrarietà della contestata convenzione a norme imperative (cfr. pag. 7); hanno, però, dedotto l’illegittimità costituzionale di tale disposizione ove fosse applicabile alla fattispecie, in quanto il legislatore avrebbe perseguito “la volontà di definire una pluralità contenziosi pendenti in via legislativa”, sottraendo e violando le competenze e le funzioni spettanti agli organi giurisdizionali (cfr. pag. 12), in contrasto con l’affermazione della libertà di attività d’impresa, statuita dalla Corte costituzionale, nonché in violazione dell’art. 117, comma 1 della Costituzione e dell’art. 6, comma 1, della CEDU (principio del giusto processo), e ciò tanto più in ragione dell’assenza di motivi di interesse generale (cfr. pag. 17); hanno, altresì, censurato la legittimità costituzionale della citata disposizione in relazione agli artt. 2, 3, 24, 97, 101, 111 e 113 della Costituzione, prospettando che si tratterebbe di una legge provvedimento tesa ad eludere “la sanzione di nullità di siffatti accordi, disponendone il mantenimento dell’efficacia” (cfr. pag. 24); hanno, ancora, censurato la legittimità costituzionale della citata disposizione in relazione all’art. 117 della Costituzione e agli artt. 1 del primo protocollo e 6 della CEDU, evidenziando il legittimo affidamento discendente dalla legittimità del credito azionato e dalla violazione del principio di legalità da parte del legislatore, stante la “assoluta imprevedibilità dell’intervento normativo” (cfr. pag. 33) e la violazione del limite di proporzionalità “tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito dalle misure restrittive della proprietà” (cfr. pag. 34); hanno, ulteriormente, censurato la legittimità costituzionale della citata disposizione in relazione agli artt. 3 e 41 della Carta fondamentale sull’assunto che l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto eolico non sarebbe vincolata al pagamento di un canone (cfr. pag. 35); hanno, sotto altro profilo, dedotto che la norma della legge di bilancio sarebbe da disapplicare per contrasto con la Direttiva 2003/54/CE, la Direttiva 2009/72/CE e la Direttiva 2001/77/CE, in riferimento alle quali le ricorrenti hanno richiamato le previsioni contenute nei rispettivi “considerando”, tutti improntati – a loro dire – alla valorizzazione dell’apertura del mercato dell’energia, dunque all’assenza di restrizioni e alla riduzione degli ostacoli normativi all’aumento della produzione di energia da fonti rinnovabili;

- nella memoria del 14.2.2019 l’Amministrazione comunale ha evidenziato che l’iniziativa di stipulare una convenzione sarebbe partita dalla società Daunia Wind, la quale avrebbe preventivamente proposto e ottenuto delle successive modifiche dell’accordo, approvato con deliberazione di Consiglio comunale n. 19 del 10 maggio 2006; che negli anni sarebbero stati erogati i relativi proventi, ma in misura progressivamente ridotta a partire dal 2012, e ciò in quanto la cessionaria società Daunia Serracapriola avrebbe arbitrariamente ridotto l’importo da corrispondere (computando l’ammontare di alcuni tributi comunali), ma sempre e comunque nel contesto di un accordo privo di conflittualità; ha soggiunto, nel merito, che le somme oggetto della domanda di ripetizione sarebbero irripetibili perché costituirebbero il risultato dello spontaneo adempimento di un’obbligazione naturale (cfr. pag. 13): un assunto comprovato dalla condotta del Comune, che mai avrebbe compulsato l’esecuzione delle prestazioni previste dalla convenzione; ha, infine, opposto l’applicabilità alla fattispecie di causa del sopravvenuto art. 1, comma 953 della legge 145/2018;

- nelle memorie di replica le parti non hanno aggiunto elementi di sostanziale novità alle argomentazioni sviluppate nei precedenti scritti.

All’udienza pubblica del 6 marzo 2019 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto alla luce dell’applicabilità alla presente fattispecie della sopravvenuta disposizione di cui all’art. 1, comma 953 della legge 145/2018, ai sensi della quale “ferma restando la natura giuridica di libera attività d’impresa dell’attività di produzione, importazione, esportazione, acquisto e vendita di energia elettrica, i proventi economici liberamente pattuiti dagli operatori del settore con gli enti locali, nel cui territorio insistono impianti alimentati da fonti rinnovabili, sulla base di accordi bilaterali sottoscritti prima del 3 ottobre 2010, data di entrata in vigore delle linee guida nazionali in materia, restano acquisiti nei bilanci degli enti locali, mantenendo detti accordi piena efficacia. Dalla data di entrata in vigore della presente legge, fatta salva la libertà negoziale delle parti, gli accordi medesimi sono rivisti alla luce del decreto del Ministro dello sviluppo economico 10 settembre 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 219 del 18 settembre 2010, e segnatamente dei criteri contenuti nell'allegato 2 al medesimo decreto. Gli importi già erogati e da erogare in favore degli enti locali concorrono alla formazione del reddito d'impresa del titolare dell'impianto alimentato da fonti rinnovabili”.

Si tratta di una norma con efficacia retroattiva, ammessa nell’ordinamento giuridico sul presupposto che “il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale (salvo la previsione dell’art. 25 Cost. per la materia penale)” (cfr. Corte costituzionale 10 giugno 2016, n. 132), la cui emanazione si è resa opportuna per dare ordine alla gestione, talvolta problematica, degli accordi bilaterali tra operatori del settore e Amministrazioni: accordi previsti (se non addirittura incentivati) dalla legge 239/2004, ma in difetto, al momento dell’emanazione della c.d. legge Marzano, di una pur minima disciplina che definisse il contenuto delle misure di compensazione.

Una situazione di disordine normativo, che ad avviso del Collegio risulta esemplificata nella fattispecie controversa.

Occorre, intanto, considerare che è stata la società Daunia Wind s.r.l. a proporre al Comune di Serracapriola, con nota del 14.5.2004, la realizzazione dell’impianto oggetto del contendere e che, in disparte dall’autonomo procedimento – peraltro positivamente definitosi – volto al rilascio dell’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 387/2003, le parti hanno preventivamente proceduto all’elaborazione di uno schema di convenzione approvato – dopo alcune, concordate, revisioni – con deliberazione del Consiglio comunale n. 19 del 10 maggio 2006.

A tale deliberazione ha fatto seguito la stipulazione della convenzione in data 24.5.2006, nella quale – a fronte del pagamento del canone di compensazione annuo e degli altri corrispettivi – si è prescritto a carico dell’Amministrazione:

a) (non soltanto) di provvedere “per quanto di sua competenza” all’ottenimento, al rilascio ed all’adozione di tutti gli atti ed i provvedimenti necessari ed opportuni al raggiungimento delle finalità della convenzione;

b) (ma anche) di “non compiere alcuna attività che possa ostacolare l’esecuzione dei lavori e delle opere” e di astenersi “dal porre in essere fatti o atti che possano risultare di pericolo per l’impianto stesso ovvero che ne ostacolino il normale uso ovvero ancora che diminuiscano o rendano più scomodo l’esercizio dei diritti” (art. 7).

La società proponente, di contro, si è ulteriormente impegnata – oltre al versamento degli emolumenti contestati – ad impiegare l’imprenditoria locale in fase di realizzazione dell’impianto (art. 5).

Il tenore di tali previsioni, ad avviso del Collegio, esclude un assetto negoziale dei reciproci interessi caratterizzato da coercizione, anzi espressione di una regolazione pattizia avvalorata, in punto di fatto, dalla pacifica circostanza che la proposta di convenzione è provenuta dalla società Daunia Wind.

Non è, pertanto, ravvisabile alcun elemento che possa confutare che i “proventi economici” corrisposti nel corso degli anni siano stati, a monte, “liberamente pattuiti dagli operatori del settore con gli enti locali”.

L’integrità della libertà di autodeterminazione negoziale, com’è noto, è stata ben approfondita nella pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 5 del 4 maggio 2018, ove si è posto l’accento sui formanti giurisprudenziali di tale peculiare tutela, in particolare sottolineandosi che il dovere di correttezza “non sia diretto solo a favorire l’utile conclusione della trattativa (con un contratto valido)”, ma è diretto a sanzionare “il caso in cui il comportamento sleale non ha reso la trattativa inutile (perché il contratto è stato validamente concluso), ma il contraente che ha subito la scorrettezza (ad es. una reticenza informativa antidoverosa), lamenta che a causa di tale slealtà ha concluso un contratto (valido ma) economicamente pregiudizievole”.

Non c’è stata, tuttavia, da parte del Comune resistente una condotta sleale nel procedimento che ha condotto alla stipula della convenzione del 24.5.2006, per diverse ragioni.

In primo luogo, tale regolazione è sostanziata da una base di diritto positivo, ossia l’art. 1, comma 5 della legge 239/2004: una disposizione in ordine alla cui legittima applicazione le ricorrenti nulla hanno in realtà dedotto, avendo individuato, quale norma imperativa oggetto di violazione da parte dell’Amministrazione, il precedente comma 4, lett. f) (disposizione di tenore programmatico che ha imposto allo Stato e alle regioni di garantire “l’adeguato equilibrio territoriale nella localizzazione delle infrastrutture energetiche, nei limiti consentiti dalle caratteristiche fisiche e geografiche delle singole regioni, prevedendo eventuali misure di compensazione e di riequilibrio ambientale e territoriale qualora esigenze connesse agli indirizzi strategici nazionali richiedano concentrazioni territoriali di attività, impianti e infrastrutture ad elevato impatto territoriale, con esclusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili”).

In seconda battuta, sussistono i presupposti temporali previsti dall’art. 1, comma 953 della legge 145/2018: la convenzione è stata sottoscritta prima del “3 ottobre 2010, data di entrata in vigore delle linee guida nazionali in materia”.

Proprio tale profilo, ad avviso del Collegio, offre utili elementi di ricostruzione della vicenda controversa.

Si è detto in precedenza che all’atto della stipulazione della convenzione (24.5.2006) non esisteva nell’ordinamento di settore alcuna norma che definisse in maniera puntuale la misure di compensazione ambientale.

Prova di tale indefinitezza legislativa si rinviene nella sentenza della Corte costituzionale n. 119 del 26 marzo 2010, richiamata dalle ricorrenti e, soprattutto, anteriore all’emanazione delle linee guida (approvate qualche mese più tardi con DM 10 settembre 2010).

In tale pronuncia il Giudice delle Leggi ha, infatti, osservato che “per misure di compensazione s’intende, in genere, una monetizzazione degli effetti deteriori che l’impatto ambientale determina, per cui chi propone l’installazione di un determinato impianto s’impegna ad assicurare all’ente locale cui compete l’autorizzazione determinati servizi o prestazioni”, prospettando – ma de iure condendo – che tali misure potessero tradursi in una “riduzione delle emissioni inquinanti da parte dell’operatore economico proponente”.

Le ricorrenti non hanno, peraltro, allegato in atti alcun documento, relativo alla trattative intercorse con il Comune resistente, da cui possa evincersi una tensione a orientare l’oggetto della prestazione della proponente Daunia Wind verso misure di compensazione ambientale connotate dal contenuto tecnico esplicitato (soltanto a posteriori) nell’atto introduttivo del giudizio mediante il riferimento ad una disciplina – il DM del 2010 – emanata oltre tre anni e mezzo dopo la stipula della convenzione.

Neppure è stata fornita prova della possibilità di altrimenti definire le misure in questione in base alla particolare conformazione dell’area di intervento; nel preambolo della convenzione si è fatto cenno ad un’area “destinata attualmente secondo il vigente strumento urbanistico a zona di uso agricolo”, senza alcun riferimento alla presenza di evidenze naturali (es. boschi, colline, terreni montani) incise dalla realizzazione dell’impianto e, per tale motivo, bisognevoli di interventi ripristinatori.

In altri termini, l’analisi della regolazione trasfusa nell’impugnata convenzione esprime in modo palese un accordo liberamente consolidatosi nella monetizzazione dell’impatto ambientale.

Dunque va escluso un dolo contrattuale o, comunque, una condotta di approfittamento perpetrata dal Comune di Serracapriola.

Non solo.

Anche dopo l’emanazione del citato DM, quindi in una fase caratterizzata da una regolamentazione organica posta dal legislatore a definizione della natura e del contenuto misure di compensazione (cfr. Allegato 2, “criteri per l'eventuale fissazione di misure compensative”), le ricorrenti hanno continuato a corrispondere il canone per gli anni successivi, fino al 2016 (sebbene con progressive riduzioni degli importi, autonomamente decise).

Forse per l’insostenibilità finanziaria degli esborsi pattuiti in rapporto alla durata della convenzione (30 anni), le ricorrenti si sono risolte in seguito a dedurne la nullità e chiedere la restituzione di un “indebito” corrispondente ai proventi erogati: una soluzione reputata preferibile rispetto all’ipotesi di avvalersi della “revoca” (rectius: recesso) disciplinata dall’art. 6, opzione, quest’ultima, subordinata a specifiche vicende (impedimento per il finanziamento, il funzionamento, la gestione e la manutenzione dell’impianto), nella specie insussistenti alla luce della volontà di continuare ad esercitare l’attività produttiva, e, soprattutto, comportante la rinuncia ai “corrispettivi già versati in favore del Comune”.

Ad ogni modo, qualsiasi sviluppo possibile del rapporto convenzionale è stato azzerato dalla sopravvenuta disposizione della legge n. 145/2018, incidente sugli accordi previsti dalla legge 239/2004 e – occorre sottolinearlo a scanso di improprie assimilazioni – non ancora emanata al momento della decisione della fattispecie definita dalla Sezione con le sentenze n. 737 del 24 maggio 2018 e n. 830 del 7 giugno 2018.

In terzo luogo, non coglie nel segno il rilievo che la predetta disposizione della legge di bilancio non sarebbe applicabile al caso di specie per mancata prova dell’iscrizione nel bilancio comunale delle somme erogate dalle ricorrenti non corso degli anni.

È consolidato l’orientamento della giurisprudenza secondo cui “nella ripetizione di indebito incombe all'attore fornire la prova sia dell'avvenuto pagamento che della mancanza di causa debendi (Cass. 8 marzo 2001, n. 3387; Cass. 3 marzo 1998, n. 2334; Cass. 28 luglio 1997, n. 7027; Cass. 18 dicembre 1995, n. 12897; con riguardo all'onere probatorio circa la mancanza della causa debendi, più di recente: Cass. 14 maggio 2012, n. 7501; Cass. 11 ottobre 2010, n. 22872)” (cfr. Corte di Cassazione, sez. VI, 23 ottobre 2017, n. 24948).

La Suprema Corte ha, inoltre, delimitato il “contenuto dell'onere probatorio concretamente e ragionevolmente esigibile in capo a chi agisce in ripetizione, da un lato ammettendo il ricorso alle presunzioni, dall'altro puntualizzando che, laddove non siano in gioco pagamenti effettuati in ragione di una causa adquirendi successivamente venuta meno, per nullità, annullamento, risoluzione o rescissione del contratto, l'approccio alla prova della inesistenza della causa solvendi debba essere comunque circoscritto all’area specifica dei rapporti tra le parti, non essendo concretamente esigibile una probatio diabolica estesa a tutte le infinite possibili cause di dazione tra solvens e accipiens (Cass. n. 1734 del 2011)”; con la conseguenza che “la prova dell'inesistenza della causa debendi incombe sulla parte che propone la domanda, trattandosi di elemento costitutivo della stessa ancorchè essa abbia ad oggetto fatti negativi, dei quali può essere data prova mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario o anche mediante presunzioni da cui desumersi il fatto stesso” (cfr. Corte di Cassazione, sez. III, 13 giugno 2018, n. 15377).

Nella specie, le ricorrenti si sono limitate a prospettare una circostanza – cioè che il Comune non avrebbe contabilizzato nei bilanci annuali le somme percepite dalle società che conducono l’impianto eolico – non sorretta da alcun principio di prova e quindi più prossima ad una congettura che ad un indizio.

Eppure, al momento della stipulazione della convenzione (24.5.2006) l’art. 162 (rubricato: principi del bilancio) del d.lgs. 267/2000 prevedeva che “gli enti locali deliberano annualmente il bilancio di previsione finanziario redatto in termini di competenza, per l'anno successivo, osservando i principi di unità, annualità, universalità ed integrità, veridicità, pareggio finanziario e pubblicità” (comma 1); ed al momento del deposito del ricorso (12.12.2017) la medesima norma prevedeva, inoltre, che “tutte le entrate sono iscritte in bilancio al lordo delle spese di riscossione a carico degli enti locali e di altre eventuali spese ad esse connesse. Parimenti tutte le spese sono iscritte in bilancio integralmente, senza alcuna riduzione delle correlative entrate. La gestione finanziaria è unica come il relativo bilancio di previsione: sono vietate le gestioni di entrate e di spese che non siano iscritte in bilancio” (comma 4), ma soprattutto che “gli enti assicurano ai cittadini ed agli organismi di partecipazione (…) la conoscenza dei contenuti significativi e caratteristici del bilancio annuale e dei suoi allegati con le modalità previste dallo statuto e dai regolamenti” (comma 7).

Le ricorrenti avrebbero, quindi, potuto procurarsi ed allegare gli elementi di prova dell’assunto genericamente prospettato nel corso della discussione finale.

Di contro l’Amministrazione ha allegato prova delle reversali di pagamento, non contestate dalle ricorrenti ai sensi dell’art. 64, comma 2 del codice del processo amministrativo.

Vanno, infine, affrontate le questioni riguardanti la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale e la violazione grave e manifesta del diritto comunitario, entrambe dedotte dalle ricorrenti con riferimento all’art. 1, comma 953 della legge 145/2018.

Quanto alla prima di tali questioni, il Collegio è dell’avviso che non sussistano i presupposti per una rimessione della questione alla Corte costituzionale.

In prima battuta si deve richiamare l’inquadramento strutturale del bilancio dello Stato, che dopo la riforma di cui alla legge 468/1978 “ha subìto una profonda trasformazione che, da strumento descrittivo di fenomeni di mera erogazione finanziaria, lo ha portato a connotarsi essenzialmente come mezzo di configurazione unitaria degli obiettivi economico-finanziari, nel quadro degli indirizzi socio-economici elaborati dal Governo ed approvati dal Parlamento, sicché esso si pone ormai come strumento di realizzazione di nuove funzioni di governo (come la programmazione di bilancio, le operazioni di tesoreria, ecc.) e più in generale di politica economica e finanziaria” (cfr. Corte costituzionale, 14 giugno 1995, n. 244). Ad avviso della Corte la legge di bilancio costituisce, dunque, la manifestazione di un indirizzo politico, e insieme agli altri strumenti che compongono la manovra finanziaria persegue il primario interesse pubblico di “programmare, definire e controllare le entrate e le spese pubbliche, per assicurare l’equilibrio finanziario e la sostanziale osservanza, in una proiezione temporale che supera l’anno, dei principi enunciati dall’art. 81 della Costituzione”.

A fronte dell’illustrazione delle finalità tipiche del bilancio dello Stato, è da ritenere fuori centro la prospettazione delle ricorrenti secondo cui la disposizione in questione avrebbe mirato a risolvere per via legislativa una “pluralità di contenziosi pendenti” in tema di convenzioni (cfr. pag. 12 della memoria del 4.2.2019).

Sul punto, il Collegio non ignora che vi siano precedenti della giurisprudenza riguardanti l’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della Giustizia, ma i casi citati dalle ricorrenti si riferiscono a normative nelle quali si era fatto espressamente cenno alla pendenza di contenziosi, senza possibilità di interpretazioni alternative (ad esempio, nella sentenza della CEDU dell’11.12.2012, c.d. De Rosa, si è controverso, analogamente alla sentenza della CEDU del 7.6.2011, c.d. Agrati, intorno all’interpretazione autentica dell’art. 8 della legge 124/1999, relativa ad un inquadramento del personale ATA che regolava degli insorti conflitti facendo “salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge”; altrettanto è a dirsi per la sentenza della CEDU del 14.2.2011, c.d. Arras, riguardante la legge 234/2004, quest’ultima finalizzata ad “estinguere il contenzioso giudiziario relativo ai trattamenti corrisposti a talune categorie di pensionati già iscritti a regimi previdenziali sostitutivi”).

La disposizione della legge di bilancio 2019 ha, invece, cristallizzato – senza riferimento alcuno a pendenti controversie – l’incertezza del previgente quadro legislativo sulle misure di compensazione ambientale, tradottesi nella erogazione di proventi economici “liberamente pattuiti dagli operatori di settore con gli enti locali”, facendo però decorrere dalla data di entrata in vigore del DM 10 settembre 2010, cioè dall’avvento di una disciplina di tali misure improntata alla certezza giuridica, la possibilità (“fatta salva la libertà negoziale delle parti”) di una revisione dei pregressi accordi (dichiarati persistentemente efficaci) in base ai precisi parametri dettati dal citato decreto, il cui merito, a questo punto, è di aver contribuito a superare una parvenza di definizione delle misure di compensazione ambientale (“monetizzazione degli effetti deteriori” dell’impatto ambientale, come ha statuito la giurisprudenza costituzionale richiamata dalle stesse ricorrenti), del tutto insoddisfacente se correlata all’ammissibilità delle convenzioni ai sensi dell’art. 1, comma 5 della legge 239/2004 (quindi alla necessità di darne una regolazione compiuta sotto tutti gli aspetti).

Il contesto cui tale disposizione allude non è, allora, quello riferibile a (pendenti) controversie, bensì quello afferente ai “proventi economici liberamente pattuiti” tra i contraenti in applicazione del principio di autonomia negoziale; non è il “conflitto” che possa essersi posteriormente determinato (com’è accaduto nel caso di specie), ma l’improcrastinabilità di regolazioni consensuali di interessi prive di retrostante attenzione ai profili di tutela ambientale.

Ad avviso del Collegio è, inoltre, frutto di un’estremizzazione, e come tale non persuasivo, l’assunto secondo cui la censurata disposizione sarebbe incostituzionale perché avrebbe operato una “sanatoria generalizzata delle convenzioni nulle stipulate dagli enti locali” (cfr. pag. 23 della memoria del 4.2.2019).

Tale posizione muove dal presupposto indimostrato che tutte le convenzioni relative ad impianti alimentati da fonti rinnovabili sarebbero caratterizzate da previsioni unicamente patrimoniali; ma ciò è contraddetto (addirittura) dalla motivazione della sentenza della Sezione n. 737/2018 (relativa al parco eolico realizzato nel Comune di Ordona, sempre nel foggiano), eletta dalle ricorrenti a precedente vincolante nel presente giudizio. In tale pronuncia si è, infatti, menzionato un atto di impegno (stipulato tra la Regione Puglia, il Comune di Ordona e la società proponente) nel quale erano state fissate – come ha rilevato la Sezione – alcune “misure compensative non meramente patrimoniali (ossia che non consistono in elargizione di somme di denaro), tra cui l’impegno a favorire l’imprenditoria pugliese, ad assumere con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato lavoratori, tra cui addetti ai lavori socialmente utili e di pubblica utilità, o disoccupati, o soggetti in lista di mobilità, anche portatori di invalidità, purché compatibile con le necessità aziendali dell’attività di produzione di energia eolica”.

Misure non dissimili – venendo alla convenzione oggetto del presente giudizio – da quelle disciplinate all’art. 5 (parimenti si è formalizzato l’impegno al diretto coinvolgimento dell’imprenditoria locale).

Pure infondato è il rilievo sull’imprevedibilità dell’emanazione della norma di bilancio, al contrario facilmente pronosticabile in considerazione della conclamata precarietà della disciplina di settore, come più sopra si è detto.

Infine, le ricorrenti hanno censurato la legittimità costituzionale del citato comma 953 sotto il profilo della violazione della libertà d’impresa e del regime di liberalizzazione del settore della produzione di energia elettrica, con estensione di tale censura ai profili di dedotta incompatibilità della norma nazionale con il diritto comunitario (su tale incompatibilità è stata formulata la domanda di disapplicazione della disposizione della legge di bilancio 2019 ovvero di rinvio pregiudiziale della relativa questione alla Corte di Giustizia UE).

Neanche tali domande possono, tuttavia, trovare accoglimento.

La Direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2016 (c.d. Bolkestein, recepita con d.lgs. 59/2010) ha, infatti, espressamente escluso l’applicazione del regime di libertà di prestazione dei servizi (art. 16) per il “settore dell’energia elettrica, i servizi contemplati dalla direttiva 2003/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2003 relativa a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica” (art. 17); sarebbe a dire la Direttiva del 2003 (che ha abrogato la Direttiva 1996/92/CE e che costituisce, a ben vedere, l’architrave della successiva Direttiva 2009/28/CE) richiamata dalle ricorrenti a fondamento delle censure di violazione della disciplina eurounitaria.

In conclusione, il ricorso va respinto.

La complessità delle questioni esaminate giustifica la compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 6 marzo 2019 con l'intervento dei magistrati:

Angelo Scafuri, Presidente

Desirèe Zonno, Consigliere

Angelo Fanizza, Primo Referendario, Estensore

         
         
L'ESTENSORE        IL PRESIDENTE
Angelo Fanizza        Angelo Scafuri