Cass. Sez. III Sentenza n. 8051 del 27/2/2007 (Ud.11/01/2007)
Presidente: Vitalone C. Estensore: Franco A.Imputato: Zambrotti.
(Rigetta, Trib. Sala Consilina, 19 Dicembre 2005)
SANITÀ PUBBLICA - IN GENERE - Inquinamento atmosferico - Reato di costruzione di impianto senza autorizzazione - Nuovo titolare dell'impianto - Responsabilità - Fondamento.

Il reato di cui all'art. 24, comma primo, d.P.R. 24 maggio 1988 n. 203, realizzazione di impianto in difetto di autorizzazione alle emissioni in atmosfera, ora sostituito dall'art. 279, comma primo, D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152, si configura anche nei confronti di coloro che hanno proseguito l'esercizio dell'impianto omettendo di controllare che la autorizzazione per le emissioni fosse stata rilasciata all'origine.

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe il giudice del tribunale di Sala Consilina dichiarò Zambrotti Enrico, quale presidente del Consorzio Bacino SA/3, responsabile dei reati di cui: A) agli artt. 6 e 24, commi 1 e 2, D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, per avere realizzato l’impianto di compostaggio senza la prescritta autorizzazione alle emissioni in atmosfera e per avere attivato l’esercizio del detto impianto senza darne previa comunicazione alla competente autorità regionale; B) agli artt 6, lett. L), e 51, comma 1, d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, per avere, nella detta qualità, effettuato senza la prescritta autorizzazione in un’area retrostante all’impianto attività di stoccaggio di rifiuti ed in particolare di cassoni scarrabili contenenti rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata nei vari comuni del consorzio: e lo condannò alla pena dell’ammenda.

2. Con un primo ricorso per cassazione, a mezzo dell’avv. Gaetano Pastore, l’imputato deduce:

2.1. nullità della sentenza per mancata assunzione di una prova decisiva, ossia la deposizione del sindaco di Sant’Arsenio richiesta dalla difesa e prima ammessa dal giudice e poi ritenuta non necessaria, mentre il sindaco avrebbe dovuto riferire che i cassoni erano stati collocati in quel posto solo temporaneamente ed occasionalmente su richiesta del sindaco perché nel comune era in corso una fiera campionaria.

2.2. violazione dell’art. 522 cod. pen. perché egli era stato tratto a giudizio per rispondere del deposito dei cassoni rinvenuti il 16 luglio 2002, e cioè dei cassoni provenienti dal comune di Sant’Arsenio, mentre è stato condannato per avere consentito lo stazionamento usuale di rifiuti provenienti da vari comuni del consorzio, e ciò senza alcuna formale contestazione.

2.3.1. violazione di legge e vizio di motivazione perché risultava dalla documentazione prodotta che i lavori dell’impianto di compostaggio erano stati appaltati dal commissario di governo che aveva predisposto il progetto con ordinanza ed aveva poi consegnato al consorzio le opere, e quindi aveva autorizzato l’esercizio dell’impianto con ordinanza del 10 luglio 2002, poi prorogata. E’ perciò provato che il consorzio non solo non realizzò l’impianto senza autorizzazione, ma nemmeno iniziò l’attività senza comunicazione, che peraltro non era necessaria perché l’impianto era stato realizzato ed attivato in conseguenza di legittimi provvedimenti governativi.

2.3.2. Allo stesso modo, non era stata posta in essere una attività di stoccaggio, che consiste nelle operazione di deposito che precedono il trattamento dei rifiuti, mentre nella specie i cassoni erano stati temporaneamente allocati sul posto solo perché nel comune era in corso la fiera campionaria.

2.3.3. In ogni caso, la sua responsabilità è stata tratta solo dal fatto che egli era presidente del consorzio, senza verificare le sue concrete competenze, mentre la presidenza di un ente è cosa ben diversa da compiti di controllo tecnico.

3. Con un secondo ricorso per cassazione a mezzo degli avv. Felice Lentini e Gaetano Pastore, l’imputato deduce:

3.1.1. violazione di legge e manifesta illogicità in relazione al reato di cui al capo B). Per il giudice, infatti, lo stoccaggio provvisorio va inteso come deposito temporaneo e transitorio di rifiuti effettuato in luogo diverso da quello di produzione. Sennonché, ai sensi dell’art. 6, lett. L), d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, l’attività di stoccaggio è stata limitata alle sole operazioni di deposito preliminare di rifiuti ed alla sola attività di messa in riserva dei materiali nel ciclo di recupero. Il fatto in esame non era quindi sussumibile nella fattispecie legale ritenuta, poiché non costituisce attività di stoccaggio ai sensi dell’art. 6, lett. L), cit., avendo la stessa sentenza impugnata dato atto che la società Ergon gestisce per conto del consorzio la sola attività di raccolta differenziata dei rifiuti, che temporaneamente allocati nei cassoni scarrabili vengono poi trasportati ad altre aziende per il recupero o lo smaltimento.

3.1.2. manifesta illogicità sul punto perché il giudice ha dato atto che il consorzio esercita la sola attività di compostaggio della frazione organica dei rifiuti; che ha affidato alla società Ergon la raccolta differenziata degli altri materiali ed a terzi le operazioni di recupero e smaltimento; e che quindi tali rifiuti vengono dalla Ergon solo temporaneamente allocati nei cassoni scarrabili. Quindi, poiché lo stoccaggio è una fase tipica delle sole attività di recupero o smaltimento, lo stesso non era configurabile per il ricorrente. Infatti la collocazione controllata dei rifiuti nei cassoni era operata dalla Ergon, affidataria invece delle diversa attività di raccolta differenziata e di trasporto e tale deposito controllato non interferiva con l’attività di compostaggio.

3.2. violazione degli artt. 125 cod. proc. pen., 43 cod. pen. e 6 d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22. Deduce difetto assoluto di motivazione sulla sussistenza dello elemento soggettivo del reato di cui al capo B), in quanto il giudice lo ha desunto unicamente dalla richiesta di autorizzazione allo stoccaggio provvisorio e recupero del 6 febbraio 2002, mentre tale richiesta era chiaramente finalizzata ad ottenere l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto di compostaggio. La motivazione è quindi meramente apparente perché si fonda su una richiesta di autorizzazione alla attività di recupero dei rifiuti rinvenienti dalla raccolta differenziata, di cui però non vi è traccia in atti.

3.3. violazione degli artt. 113 t.u.e.l., 2 d.lgs. 165/2001 e 107 d.lgs. 267/2000, perché il ricorrente è stato condannato nella qualità di presidente del consorzio. Ora i consorzi sono enti territoriali sovracomunali per la gestione dei servizi pubblici locali, cui si applicano le norme del testo unico enti locali. Quindi, poiché la normativa di settore ha chiaramente disgiunto le funzioni di indirizzo politico e amministrativo da quelle gestionali, attribuite ai dirigenti del consorzio, la sentenza impugnata ha errato nell’individuare nella legale rappresentanza dell’ente la fonte di obblighi tipici delle funzioni di gestione.

3.4. violazione degli artt. 125 cod. proc. pen., 28 d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, e 6 e 14 D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203. Deduce violazione di legge e motivazione apparente in ordine al reato di cui al capo a). Il giudice infatti ha dato per scontato che il sito di stoccaggio sarebbe stato realizzato dal consorzio, mentre dagli atti risulta che la realizzazione dell’impianto è avvenuta a cura del commissario straordinario per l’emergenza rifiuti. Quanto alla contestazione di attivazione dell’impianto senza previa comunicazione, essa non era necessaria per espressa previsione dell’art. 28, co. 1, lett. 1), del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, poiché la regione (nella specie in persona del sub commissario per l’emergenza rifiuti) con l’autorizzazione all’esercizio provvisorio del sito di compostaggio ha anche autorizzato le emissioni in atmosfera che sono connaturate alla attività di compostaggio.

 

Motivi della decisione

4. Il motivo sub 2.1. è infondato perché correttamente il giudice del merito (dopo l’esame del teste Mastrogiovanni, responsabile tecnico della società Ergon) ha ritenuto non decisiva ed anzi ininfluente la deposizione del sindaco di Sant’Arsenio (ed ha quindi revocato l’ordinanza con cui ne aveva disposto l’esame ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen.), e ciò sia perché era stato accertato che i cassoni in questione contenevano i rifiuti provenienti non solo dal comune di Sant’Arsenio ma anche dagli altri vari comuni che aderivano al consorzio; sia perché era già risultata provata (dalla deposizione del Mastrogiovanni) la circostanza che in quel sito, a metà luglio 2002, erano stati allocati anche i cassoni che solitamente erano ubicati nel territorio del comune di Sant’Arsenio, in quel periodo interessato da una fiera sia comunque perché la circostanza che i cassoni provenienti da Sant’Arsenio si trovassero solo temporaneamente sul posto non incide sulla qualificazione giuridica del fatto e sull’esistenza del reato. Il giudice ha infatti accertato in punto di fatto che i cassoni allocati presso il sito contenevano i rifiuti provenienti dalla raccolta differenziati dei vari comuni aderenti al consorzio; che tali rifiuti erano collocati nei cassoni per poi essere prelevati e traspostati presso gli impianti finali; che si seguiva abitualmente questo metodo perché era più comodo che i rifiuti, raccolti presso i comuni con mezzi piccoli, fossero depositati nei cassoni per poi essere da qui prelevati e portati ai siti finali con mezzi più grandi. Il motivo per il quale i rifiuti erano scaricati nei cassoni, quindi, è stato adeguatamente accertato dal giudice del merito, mentre è irrilevante la circostanza che per i cassoni di Sant’Arsenio si fosse eventualmente aggiunto un ulteriore motivo di tipo diverso e temporaneo.

5. Il motivo sub 2.2. è manifestamente infondato non essendo ravvisabile alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, e ciò sia perché il capo di imputazione non si riferiva affatto ai soli cassoni del comune di Sant’Arsenio, ma parlava genericamente di «attività di stoccaggio di rifiuti costituiti in particolare da plastica, vetro ed alluminio»; e sia comunque perché non vi è stata (e del resto nemmeno è stata prospettata) nessuna violazione o limitazione del diritto di difesa, che ha avuto modo di esplicarsi in relazione al deposito sul posto dei cassoni anche provenienti da comuni diversi.

6. I motivi sub 3.1.1., 3.1.2. e 2.3.2. sono infondati in quanto ineccepibilmente il giudice del merito ha ritenuto che i fatti così come accertati integrassero il reato di gestione e stoccaggio non autorizzato di rifiuti. Come già accennato, il giudice ha accertato che i rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata dei diversi comuni aderenti al consorzio erano raccolti con mezzi piccoli e quindi trasportati e collocati nei cassoni scarrabili in questione per poi essere da qui prelevati e trasportati con mezzi più grandi ai siti finali di smaltimento e recupero.

Orbene, nella specie certamente non ricorre l’ipotesi del deposito temporaneo di cui all’art. 6, primo comma, lett. m), d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (ora art. 183, primo comma, lett. m), d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), se non altro perché - anche a prescindere dalla sussistenza o meno di tutte le altre condizioni previste da detta disposizione, ivi compresa quella della quantità e della durata - il deposito temporaneo è costituito comunque dal «raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti» mentre nella specie è pacifico sia che i rifiuti non venivano depositati nel luogo di produzione, sia che il deposito avveniva non prima, bensì dopo la raccolta.

Nemmeno - come sembrerebbe sostenere il ricorrente - ricorre l’ipotesi dell’abbandono di rifiuti di cui agli artt. 14 e 51, secondo comma, d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (ipotesi peraltro punita allo stesso modo di quella ravvisata nella specie) perché è pacifico che i rifiuti non venivano abbandonati, ma appunto raccolti temporaneamente nei cassoni per poi essere avviati alle operazioni di smaltimento o recupero.

E’ quindi evidente che nella specie si trattava di una c.d. «ecopiazzola», ossia di un luogo dove veniva effettuata attività digestione dei rifiuti, e precisamente di un contro di stoccaggio ai sensi del citato art. 6, lett. L), nel quale i rifiuti venivano accumulati lontano dal luogo di produzione in attesa dello smaltimento o del recupero definitivi. In tale luogo, pertanto, si effettuava attività di smaltimento, consistente nel deposito preliminare in vista di altre operazioni di smaltimento definitive o di attività di recupero, di modo che la gestione della piazzola doveva essere preventivamente autorizzata. La sua gestione senza la necessaria autorizzazione, infatti, lede l’interesse tutelato dalla norma di un controllo preventivo della pubblica amministrazione sulla gestione dei rifiuti.

Sul punto, del resto, la giurisprudenza di questa Suprema Corte, ha più volte affermato che «in tema digestione dei rifiuti le piazzole comunali destinate alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani, cosiddette piazzole ecologiche o ecopiazzole, hanno natura di centri di stoccaggio ai sensi dell’art. 6, comma primo, del D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, atteso che nelle stesse si effettuano attività di smaltimento, consistente nel deposito preliminare in vista di altre operazioni di smaltimento definitive ex punto D15 dell’allegato B al citato decreto n. 22, o attività di recupero, consistente nella messa in riserva ex punto R13 dello stesso allegato B» (Sez. III, 21 aprile 2005, Zumino, m. 231.938» e che «conseguentemente si verte in tema di stoccaggio quale fase preliminare alle attività di smaltimento o recupero, e come tale necessitante la prevista autorizzazione» (Sez. III, 26 ottobre 2005, Marino, m. 232.353).

E’ poi del tutto irrilevante la circostanza che la raccolta differenziata dei rifiuti nei vari comuni fosse compiuta dalla società Ergon, e ciò sia perché è stato accertato che questa società agiva per conto del consorzio, e sia soprattutto perché i rifiuti venivano stoccati in una area di pertinenza del consorzio (e precisamente nell’area retrostante i locali utilizzati per il compostaggio) e perché i cassoni in cui venivano collocati erano tutti in uso al consorzio, sicché non può negarsi che il consorzio partecipasse direttamente alla non autorizzata attività di gestione e stoccaggio dei rifiuti della raccolta differenziata.

7. Il motivo sub 3.2.6 anch’esso infondato perché, trattandosi di contravvenzione, l’elemento soggettivo del reato è stato correttamente rinvenuto nella colpa consistente nell’avere omesso di chiedere l’autorizzazione per la gestione e stoccaggio dei cassoni. Non vi è nessuna manifesta illogicità nell’avere la sentenza impugnata richiamato la richiesta in data 6 febbraio 2002 di «autorizzazione all’esercizio di attività di stoccaggio provvisorio e/o recupero di rifiuti», perché, quand’anche questa riguardasse - come assume il ricorrente - i rifiuti destinati al compostaggio, essa dimostra ugualmente la consapevolezza dell’imputato della necessità di chiedere una autorizzazione per lo stoccaggio temporaneo di rifiuti. D’altra parte, non risulta che il ricorrente abbia dedotto nel giudizio di merito, e del resto nemmeno deduce con il ricorso, che l’elemento psicologico del reato dovrebbe essere escluso perché egli versava in buona fede per ignoranza inevitabile, e quindi scusabile, della legge penale. Ignoranza che, peraltro, anche se esistesse nella specie sarebbe colpevole ed inescusabile, e quindi irrilevante, perché la nota sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale, che dichiarò incostitizionale l’art. 5 cod. pen. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile, ebbe a mettere in evidenza come sicuramente «inevitabile, rimproverabile ignoranza della legge penale versa chi, professionalmente inserito in un determinato campo d’attività non s’informa sulle leggi penali disciplinanti lo stesso campo». Ed il comportamento addebitato allo Zambrotti è appunto relativo alla sua attività professionale.

8. I motivi sub 2.3.1. e sub 3.4. - entrambi relativi al reato di cui al capo a) - sono parimenti infondati.

8.1. Quanto al reato di cui all’art. 24, primo comma, D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203 (avere realizzato l’impianto di compostaggio senza la prescritta autorizzazione), il ricorrente eccepisce che egli non sarebbe responsabile di questo reato perché l’impianto era stato realizzato non dal consorzio ma dal commissario di governo per l’emergenza rifiuti che aveva predisposto il progetto ed appaltato i lavori di costruzione, consegnando poi l’impianto al consorzio. L’eccezione è chiaramente infondata sia perché - quand’anche vera - la circostanza che eventualmente il progetto sia stato predisposto ed i lavori siano stati appaltati dal commissario di governo non esclude quanto accertato in punto di fatto dal giudice del merito, e cioè che la realizzazione dell’impianto di compostaggio era comunque riconducibile al consorzio, e sia soprattutto perché detta circostanza sarebbe in ogni caso irrilevante.

E difatti, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, in tema di impianti originanti emissioni nell’atmosfera, la contravvenzione di cui all’art 24, prima comma, D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, ha natura di reato omissivo permanente, e la consumazione si protrae sino a quando il responsabile dell’impianto non presenta, anche oltre il termine prescritto, la domanda di autorizzazione per le emissioni atmosferiche prodotte (Sez. III, 27 aprile 2006, Giovannini; Sez. III, 12 febbraio 2004, Armemo, m. 228.879; Sez. III, 27 marzo 2002, Pinon, m. 221.954; Sez. III, 1 febbraio 2002, Magliulo, m. 221.267; Sez. III, 7 ottobre 1999, Cipriani, m. 214.989; Sez. III, 18 novembre 1997, Pasini, m. 209.339). Ne consegue che il reato non si è esaurito con il comportamento omissivo di colui che è legale rappresentante della società o dell’ente al momento in cui è iniziata la costruzione dell’impianto senza la previa autorizzazione ma è comunque proseguito con il comportamento omissivo anche dell’attuale ricorrente che è stato legale rappresentante del consorzio che (peraltro fin dall’inizio) ha gestito l’impianto, e sul quale dunque continuava a permanere l’obbligo di chiedere la autorizzazione. invero, la permanenza del reato di omessa presentazione della domanda di autorizzazione, radica la responsabilità anche di coloro i quali hanno proseguito nell’esercizio dell’impianto sapendo e comunque dovendo sapere (e controllare) che la domanda di autorizzazione non era stata presentata, a suo tempo, con le prescritte modalità, dal precedente amministratore o dal costruttore dell’impianto (Sez. III, 29 maggio 1996, Simonetti, m. 206237). Esattamente, quindi, l’imputato è stato ritenuto responsabile di un comportamento omissivo proprio, avendo colpevolmente violato l’obbligo che anch’egli aveva di presentare la domanda di autorizzazione.

8.2. Quanto al reato di cui all’art. 24, secondo comma, D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, il ricorrente eccepisce che nella specie non sarebbe stata necessaria la comunicazione di attivazione dell’impianto ai sensi dell’art. 28, comma 2, lett. I), d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, perché la regione (in persona del sub commissario per l’emergenza rifiuti) con la autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impianto di compostaggio avrebbe autorizzato anche le emissioni in atmosfera che sono connaturate alla attività di compostaggio.

Questa tesi non può essere condivisa. Il citato art. 28, comma 2, d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, indica quali sono le condizioni e le prescrizioni necessarie che devono essere individuate dalla autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento e recupero dei rifiuti, fra le quali la lett. f) prevede anche i limiti di emissione in atmosfera, che per i processi di trattamento termico dei rifiuti non possono superare determinati valori fissati dalle direttive comunitarie. Il fatto però che la autorizzazione allo smaltimento e recupero dei rifiuti debba prevedere anche i limiti di emissione in atmosfera, non significa che questa autorizzazione inglobi e sostituisca la autorizzazione prevista dall’art. 6 del D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, per la costruzione e gestione di nuovi impianti che possano dar luogo ad emissioni nell’atmosfera (che costituisce mezzo di controllo preventivo sugli impianti potenzialmente inquinanti per verificare la tollerabilità delle emissioni ed adottare appropriate misure di prevenzione dell’inquinamento atmosferico) e tanto meno la comunicazione dell’attivazione del nuovo impianto prevista dall’art. 8 (finalizzata a garantire l’accertamento previsto dall’ultimo comma del medesimo art. 8: cfr. Sez. III, 16 dicembre 2005, n. 15521/06, Pappacena, m. 233.921). E ciò perché si tratta di autorizzazioni che sono finalizzate a tutelare interessi diversi e che presuppongono controlli diversi, ed in particolare perché l’autorizzazione allo smaltimento e recupero dei rifiuti, pur dovendo indicare limiti di emissione in atmosfera, non presuppone tutti quegli accertamenti sulla idoneità degli impianti a prevenire l’inquinamento atmosferico che sono invece richiesti per il rilascio della autorizzazione di cui all’art. 6 D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203.

Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha già altre volte affermato il principio - che deve essere qui ribadito - secondo cui, in tema di gestione di rifiuti, gli impianti di trattamento di rifiuti che comportino emissioni in atmosfera sono soggetti sia alle disposizioni di cui al d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (ora d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), sia alla disciplina di cui all’art. D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203 (tutela dall’inquinamento atmosferico) atteso che la normativa nazionale e comunitaria in tema di inquinamento atmosferico completa e non assorbe quella sui rifiuti (cfr. Sez. III, 5 aprile 2002, Kiss Gmunter H., m. 221.875; Sez. III, 4 maggio 2004, Gambato, m. 230.104; Sez. III, 7 dicembre 1992, Fava, in. 192.634). D’altra parte, nel caso di specie, non si tratta nemmeno di rifiuti destinati alla produzione di energia, per i quali potrebbe porsi il problema della applicabilità di una normativa (nazionale e comunitaria) particolare.

L’interpretazione che qui si segue, inoltre, appare confermata anche dalle disposizioni del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. L’art. 208 di questo decreto legislativo, infatti, prevede il rilascio di una autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti (autorizzazione che accerta la conformità alle vigenti disposizioni in materia urbanistica, di tutela ambientale, di salute di sicurezza sul lavoro e di igiene pubblica), specificando però, al comma 2, che «resta ferma l’applicazione della normativa nazionale di attuazione della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento, per gli impianti rientranti nel campo di applicazione della medesima, con particolare riferimento al decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59» (il quale ha per oggetto la prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento e disciplina il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale per gli impianti di cui all’allegato I). Ciò, invero, sembra confermare che il legislatore ha inteso tenere ben distinte, atteso il loro diverso oggetto e le loro diverse finalità, l’autorizzazione al trattamento dei rifiuti da quella per gli impianti che possono dar luogo ad inquinamento atmosferico.

9. Sono infine infondati anche i motivi sub 2.3.3 e sub 3.3., dal momento che la responsabilità dello Zambrotti è stata dal giudice del merito fatta risalire - con congrua ed adeguata motivazione - al fatto che era stato accertato che egli non svolgeva soltanto funzioni di indirizzo politico, ma anche concrete funzioni gestionali, sia perché egli era non solo legale rappresentante dell’ente ma anche presidente del consiglio di amministrazione, sia perché comunque aveva in concreto anche la responsabilità diretta della gestione dell’impianto e delle aree annesse, tanto che successivamente la richiesta di autorizzazione alle emissioni in atmosfera era stata presentata proprio da lui. Del resto, il giudice del merito ha mandato assolto il coimputato Abatemarco, vice direttore generale del consorzio, perché non risultavano sue competenze specifiche in ordine alla gestione dell’impianto, dato che tale gestione era rimessa al presidente del consiglio di amministrazione.

10. Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.