Cass. Sez. III n. 14360 del 28 marzo 2018 (Ud 31 gen 2018)
Presidente: Andreazza Estensore: Reynaud Imputato: Salvati
Caccia e animali.Requisiti del reato sanzionato dall’art. 727 codice penale

L’ipotesi di reato di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen. non postula la necessaria ricorrenza di situazioni, quali la malnutrizione e il pessimo stato di salute degli animali, indispensabili per poterne qualificare la detenzione come incompatibile con la loro natura, ma al proposito rilevano tutte quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell'animale, procurandogli dolore e afflizione, compresi comportamenti colposi di abbandono e incuria


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 15 gennaio 2015, il Tribunale di Terni, riqualificando il delitto di cui all’art. 544 ter cod. pen oggetto di imputazione nella contravvenzione di cui all’art. 727 cod. pen., ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’odierno ricorrente Gianfranco Salvati, essendo il reato estinto per intervenuta prescrizione.

2. Avverso detta sentenza, ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo il motivo di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

3. Si deducono, in particolare, l’erronea applicazione dell’art. 727 cod. pen. ed il vizio di carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione  quanto alla ritenuta sussistenza della menzionata contravvenzione. Di essa – si osserva - non ricorrerebbero innanzitutto gli elementi costitutivi, non essendo nella specie ravvisabili quelle condizioni di malnutrizione e di pessimo stato di salute degli animali che la casistica giurisprudenziale richiederebbe per poter affermare l’integrazione del reato. In secondo luogo, nell’aver ravvisato la responsabilità concorsuale del ricorrente in una non ben precisata condotta di omessa vigilanza su direttive impartite, non sarebbe comprensibile quale sia il rimprovero mosso all’imputato, che, quale assessore all’ambiente del comune di Terni, non avrebbe neppure materialmente avuto la detenzione dei cani ospitati nel canile municipale e del quale la stessa sentenza, contraddittoriamente, attesterebbe la buona fede nell’adempimento delle sue funzioni amministrative così rendendo evidente l’insussistenza di qualsiasi profilo di colpa.

CONSIDERATO IN DIRITTO
    
1. Pur essendo stato formalmente enunciato un unico, complesso, motivo, il ricorso deduce due diversi vizi, peraltro diversamente articolati con riferimento alla sussistenza dell’elemento oggettivo piuttosto che di quello soggettivo del reato. I differenti profili vanno dunque separatamente affrontati.

2. Cominciando la disamina dal motivo afferente alla dedotta erronea applicazione della legge penale con riferimento all’individuazione degli elementi  costitutivi della contravvenzione di cui all’art. 727 cod. pen. - la cui fondatezza, secondo il ricorrente, dovrebbe condurre ad accogliere il ricorso pronunciando l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste - osserva il Collegio come il motivo sia inammissibile perché manifestamente infondato.
Diversamente da quanto opina il ricorrente, di fatti, l’ipotesi di reato di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen. non postula la necessaria ricorrenza di situazioni, quali la malnutrizione e il pessimo stato di salute degli animali, indispensabili per poterne qualificare la detenzione come incompatibile con la loro natura, ma al proposito rilevano tutte quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell'animale, procurandogli dolore e afflizione (Sez. 7, n. 46560 del 10/07/2015, Francescangeli e a., Rv. 265267), compresi comportamenti colposi di abbandono e incuria (Sez. 3, n. 49298 del 22/11/2012, Tomat, Rv. 253882).
 Nel caso di specie, la sentenza impugnata – confermando in parte la descrizione del fatto contenuta nell’imputazione formulata con riguardo al delitto di cui all’art. 544 ter cod. pen. – attesta la sporcizia degli ambienti del canile municipale, il fatto che nella parte vecchia della struttura, assolutamente inadeguata, gli stessi fossero stipati in sovrannumero, che il magazzino ove venivano custodite le buste di cibo per i cani fosse infestato di ratti (tanto che all’interno di buste di cibo aperte vennero rinvenute feci di topo e addirittura piccoli ratti nati da pochi giorni), che il canale di scolo delle deiezioni dei cani era molto spesso otturato e la bassa pressione con cui usciva l’acqua dai tubi utilizzati per la pulizia non permetteva il suo spurgo sicché le sporcizie dei cani rimanevano stagnanti creando un persistente cattivo lezzo, che alcuni cani di piccola taglia erano messi all’interno di gabbie per gatti: una situazione nel complesso definita “ripugnante” dal consulente tecnico del pubblico ministero ing. Boeri. Che, dunque, la sentenza abbia ricondotto tale situazione (in fatto non contestata) alla previsione di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen., qualificandola come produttiva di gravi sofferenze per gli animali ospitati nel canile – benché questi fossero, come la stessa sentenza dà atto, per altro verso adeguatamente (talvolta per sin troppo) alimentati e provvisti di ottima assistenza farmaceutica – è conclusione de tutto corretta sul piano dell’applicazione della legge penale sostanziale.

3. Il ricorso è inammissibile anche nella restante parte, in cui si denunciano l’erronea applicazione dell’art. 727 cod. pen. ed il vizio di motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo della contravvenzione.
In particolare, sul rilievo che il Salvati, quale assessore all’ambiente del Comune di Terni e unitamente al dirigente dell’ufficio ambientale comunale ing. Rapisarda, del pari imputato insieme all’odierno ricorrente e prosciolto con la medesima formula, non avrebbe “adeguatamente vigilato sulla concreta attuazione delle direttive” circa la gestione del canile municipale, a lungo gestito da un’associazione animalista riconosciuta a livello regionale, la sentenza impugnata – si lamenta in ricorso -  non consentirebbe di comprendere quale fosse la fonte di queste direttive, quale il loro contenuto, a chi fossero state dirette, che tipo di obbligo di vigilanza sarebbe rimasto in capo all’assessore comunale all’ambiente ed alla struttura amministrativa dipendente dall’assessorato. Per contro, dando atto del particolare attivismo del Comune di Terni sul fronte delle esigenze della tenuta dei canili municipali, delle iniziative concretamente assunte e del significativo budget stanziato ed utilizzato, del tentativo di incidere sulla cattiva gestione del canile fatta negli anni dall’associazione di volontari, la sentenze attesterebbe in positivo un’assenza di colpa che dimostrerebbe l’insussistenza del reato sul piano dell’elemento soggettivo.

3.1. Quest’ultimo rilievo – osserva il Collegio – è manifestamente infondato, essendo evidente che l’esclusione di (taluni) profili di possibile condotta colposa, quali quelli da ultimo menzionati, non necessariamente comporta anche l’esclusione di altri, diversi, profili, quale quello della mancata vigilanza sull’esecuzione delle direttive impartite per la gestione del canile, in sentenza posto a base della riqualificazione del reato in contravvenzione e dell’impossibilità di addivenire ad una pronuncia assolutoria nel merito.

3.2. Le contestazioni rispetto a tale ultima conclusione, dunque, restano ancorate al dedotto vizio di motivazione, la cui proposizione è tuttavia inammissibile, poiché, se fondato, il suo accoglimento imporrebbe l’annullamento della sentenza con un (inutile) rinvio al Tribunale di Terni.
 Di fatti, sul piano dell’omessa vigilanza sull’esecuzione delle direttive, il ricorrente non allega che nella sentenza – o in atti processuali specificamente indicati per attestare un profilo di travisamento della prova – siano ravvisabili elementi che potrebbero consentire a questa Corte di ritenere superfluo il rinvio per essere evidente che il fatto non sussiste, che il ricorrente non l’ha commesso o che lo stesso non costituisce reato ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., essendo per contro necessario, nella stessa prospettiva in cui il ricorrente si pone, un nuovo apprezzamento valutativo che si traduca in una motivazione effettiva e logica. Se il motivo fosse fondato, dunque, trattandosi di reato prescritto – e non avendo il ricorrente rinunciato agli effetti della prescrizione – il giudice del rinvio, in ossequio al principio di cui all’art. 129, comma 1, cod. proc. pen. ed alle esigenze di economia processuale di cui tale norma è espressione, non potrebbe se non giungere alla medesima conclusione di proscioglimento processuale cui è pervenuta la sentenza impugnata.
Difetta, pertanto, un concreto interesse che sul punto legittimi l’impugnazione, dovendo farsi applicazione del principio, ripetutamente affermato dalla Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 224275). Nel ribadire recentemente tale principio in altra decisione, le Sezioni Unite di  questa Corte – richiamando anche un risalente precedente (Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403) – hanno in motivazione chiarito che l’art. 129 cod. proc. pen. «assolve a due funzioni fondamentali: la prima è quella di favorire l’imputato innocente, prevedendo l’obbligo dell’immediata declaratoria di cause di non punibilità “in ogni stato e grado del processo”, la seconda è quella di agevolare in ogni caso l’exitus del processo, ove non appaia concretamente realizzabile la pretesa punitiva dello Stato […] l’eventuale interesse dell’imputato a proseguire l’attività processuale, in vista di un auspicato proscioglimento con formula liberatoria di merito, sarebbe tutelato dalla possibilità di rinunciare alla prescrizione e deve bilanciarsi, alla luce della normativa vigente, con l’obiettivo, di pari rilevanza, della sollecita definizione del processo, che trova fondamento nella previsione di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.» (Sez. U, n. 28954 del 27/04/2017, Iannelli). Per coltivare il suddetto interesse, il ricorrente avrebbe dunque dovuto rinunciare alla prescrizione.

4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità,  consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.



P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 31/01/2018.