Cass. Sez. III n. 24466 del 21 giugno 2007 (Up 15 mag. 2007)
Pres. Lupo Est. Petti Ric. Murri
Rifiuti. Abbandono (responsabilità)

Per la configurabilità del reato di abbandono di rifiuti al fine di individuare il titolare d'impresa o il responsabile dell' ente, non occorre avere riguardo alla formale investitura, ma alla funzione in concreto svolta in quanto la sanzione amministrativa si applica solo al privato, a colui cioè che si limita a smaltire i propri rifiuti al di fuori di una qualsiasi attività imprenditoriale. Colui il quale invece abbandona i rifiuti nell'esercizio, ancorché di fatto, di un' impresa ovvero quale responsabile di un ente, ancorché non riconosciuto, risponde del reato anche se privo della formale investitura

Svolgimento del processo

Con sentenza del 13 giugno del 2006, il tribunale di Brindisi condannava Murri Francesco Fiorentino alla pena di € 4.000,00 di ammenda, quale responsabile, in concorso di circostanze attenuanti generiche, del reato di cui all’articolo 51 comma secondo decreto legislativo n. 22 del 1997, per abbandono in un’area attigua alla masseria “La Cattiva” di carcasse di veicoli e materiale ferroso, così modificata l’originaria imputazione di smaltimento dei rifiuti senza autorizzazione. Fatto accertato il 18 maggio del 2002. Con la sentenza il tribunale disponeva altresì il dissequestro dell’area e la restituzione all’avente diritto.

Il fatto nella sentenza impugnato è ricostruito nella maniera seguente:

A seguito di accesso alla c.da “La Cattiva” sita in agro di Mesagne, in data 15 dicembre 2002, gli agenti procedettero al sequestro di un’area di circa 10.000 mq perché sulla stessa erano stati rinvenuti numerosi autoveicoli in disuso ed altri rifiuti non pericolosi. Le ulteriori indagini svolte dai CC della stazione di Mesagne consentirono di appurare che l’area menzionata era nella disponibilità della famiglia Murri e, segnatamente, dell’odierno imputato, in diverse occasioni segnalato in loco dai CC e, in particolare, dal M.llo Cito, comandante della stazione di Mesagne. Dalla documentazione acquisita nel corso delle indagini emerse che il 15 dicembre 1992 era stato stipulato un atto di cessione in comodato avente per oggetto i terreni siti in C.da La Cattiva fra la società “Progresso Agricolo s.r.l.” (cedente), rappresentata dal Presidente-Amministratore Unico Murri Giulio (padre del prevenuto), e la Cooperativa Agricola Meridionale C.A.M.EA. s.r.l. (cessionaria), in persona del Presidente-Amministratore Unico Murri Francesco, attuale imputato. La durata del contratto era stata stabilita in anni due, tacitamente rinnovabili. A seguito della morte di Murri Giulio, avvenuta il 23 luglio 200l, la compagine amministrativa della Progresso Agricolo s.r.l. e della Coop. Agricola Meridionale era costituita da Chianese Maria, vedova di Murri Giulio e madre dell’attuale imputato, quale presidente di entrambe le società, e dallo stesso imputato quale vice presidente della sola CAMEA s.r.l. in carica fino al 31 dicembre del 2003, ovvero ampiamente dopo la consumazione dei fatti per cui si procede e, in virtù del contratto di comodato in precedenza richiamato, in possesso dell’area interessata dal deposito di rifiuti.

Tanto premesso in fatto, il tribunale osservava che il prevenuto, quale vice presidente della società era senza dubbio responsabile dell’abbandono di quei rifiuti anche perché era concretamente interessato alla gestione, come si desumeva dalla deposizione del m.llo Cito, dal quale era stato frequentemente notato nella contrada e dalla circostanza che aveva accettato l’incarico di custode senza alcuna obiezione.

Ricorre per cassazione l’imputato per mezzo del proprio difensore deducendo:

la violazione degli artt. 521, 522, 518 c.p.p. perché era stato condannato per un fatto diverso da quello originariamente contestato nel senso che gli era stata contestata l’ipotesi di cui al primo comma dell’articolo 51, il quale configura un reato comune, mentre è stato condannato per quella di cui al secondo comma del medesimo articolo che configura un reato proprio perché può essere commesso solo dal titolare di un’impresa o dal rappresentante di un ente;

la violazione dei criteri di valutazione della prova nonché mancanza ed illogicità della motivazione sul punto per avere il tribunale erroneamente ritenuto che l’imputato fosse comunque interessato alla gestione della società che era formalmente amministrata da altri.

 

Motivi della decisione

Il ricorso va dichiarato inammissibile per la infondatezza di entrambi i motivi.

In ordine al primo si osserva che in tema di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, la modificazione che assume rilievo, ai fini della eventuale applicabilità della norma dell’art. 521 c.p.p., è solo quella che modifica radicalmente la struttura della contestazione, in quanto modifica o il fatto tipico o il nesso di causalità o l’elemento psicologico del reato, e, per conseguenza di tale modificazione, l’azione realizzata risulta completamente diversa da quella contestata, al punto da essere incompatibile con le difese apprestate dall’imputato per discolparsene. Mentre, non si ha mutamento della contestazione allorché il “fatto tipico” sia rimasto identico a quello contestato nei suoi elementi essenziali (cfr. Cass. 3603 del 2004: 12175 del 2004: 46203 del 2004).

Nella fattispecie al prevenuto si era contestato di avere smaltito rifiuti speciali costituiti da carcasse di autoveicoli e materiale ferroso depositandoli permanentemente in un’area attigua alla masseria “la Cattiva” ed è stato condannato per abbandono o deposito incontrollato degli anzidetti rifiuti depositandoli, ecc. Orbene appare evidente che il nucleo essenziale del fatto costituito dal “depositato delle carcasse di veicoli ed altro materiale ferroso su un’area attigua alla masseria “La Cattiva” è rimasto identico mentre è solo cambiata la qualificazione del reato.

E’ ben vero che il reato ritenuto in sentenza può essere commesso solo da titolari d’impresa o da responsabili di enti e che la qualificazione soggettiva del reo non è irrilevante ai fini della modificazione della contestazione o del rispetto del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, ma il reato originariamente rubricato era stato attribuito al prevenuto non quale soggetto estraneo alla società proprietaria del fondo sul quale quei rifiuti erano stati raggruppati, ma perché, a seguito d’indagini preliminari, si era accertato che il vero gestore dell’azienda era proprio lui. In definitiva il reato di gestione dei rifiuti senza autorizzazione gli era stato addebitato non quale comune cittadino ma perché era il gestore dell’azienda nella quale quei rifiuti erano stati raggruppati, tanto è vero che erano state svolte indagini proprio per individuare il soggetto titolare dell’azienda. Quindi la qualificazione soggettiva di titolare d’impresa, ancorché non espressamente esplicitata nella contestazione originaria, era tuttavia da essa presupposta, altrimenti non avrebbe avuto senso acquisire i documenti sulla compagine sociale dell’azienda e svolgere indagini sull’individuazione dell’effettivo titolare dell’impresa. In definitiva il reato originariamente contestato era stato attribuito all’attuale ricorrente quale titolare dell’azienda proprietaria dell’area sulla quale i rifiuti erano stati raggruppati.

Ciò premesso, si deve sottolineare che per la configurabilità del reato di cui al comma secondo dell’articolo 51 decreto Ronchi, per individuare il titolare d’impresa o il responsabile dell’ente, non occorre avere riguardo alla formale investitura (che nella fattispecie peraltro sussisteva perché il prevenuto quale vice presidente della società sostituiva a tutti gli effetti il presidente), ma alla funzione in concreto svolta in quanto la sanzione amministrativa si applica solo al privato, a colui cioè che si limita a smaltire i propri rifiuti al di fuori di una qualsiasi attività imprenditoriale. Colui il quale invece abbandona i rifiuti nell’esercizio, ancorché di fatto, di un’impresa ovvero quale responsabile di un ente, ancorché non riconosciuto, risponde del reato di cui al comma secondo dell’articolo 51 anche se privo della formale investitura.

Nella fattispecie, con motivazione adeguata esente da vizi logici, il tribunale ha accertato che colui il quale gestiva di fatto l’impresa era l’imputato. D’altra parte, come già accennato, il prevenuto aveva anche la formale investitura perché non era estraneo alla compagine del consiglio di amministrazione in quanto come vice presidente sostituiva a tutti gli effetti il presidente in caso di impedimento o assenza dello stesso in concreto, come vice presidente, sostituiva la madre che formalmente rivestiva la carica di presidente della società.

Palesemente inammissibile è pure il secondo motivo perché sotto l’apparente deduzione del vizio di illogicità della motivazione in realtà si censura l’apprezzamento delle prove in ordine all’individuazione del soggetto che gestiva la società. Sul punto la motivazione del tribunale non presenta alcuna incoerenza poiché l’individuazione del prevenuto quale soggetto che in concreto svolgeva la funzione di gestore dell’azienda si fonda sulla testimonianza del maresciallo Cito, il quale aveva frequentemente notato nella contrada proprio l’imputato, e su quella della teste Galeando, la quale aveva dichiarato di avere lavorato come bracciante alle dipendenze dell’imputato e di avere preso proprio da lui in affitto un gregge.

L’inammissibilità del ricorso per la manifesta infondatezza dei motivi impedisce, in base all’orientamento espresso dalla Sezioni unite di questa corte con la sentenza n. 32 del 2000, de Luca, di dichiarare la prescrizione maturata dopo la decisione impugnata.

Dall’inammissibilità del ricorso discende l’obbligo di pagare le spese processuali e di versare una somma, che stimasi equo determinare in € 1.000,00, in favore della cassa delle ammende, non sussistendo alcuna ipotesi di carenza di colpa del ricorrente nella determinazione della causa d’inammissibilità secondo l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 186 del 2000.