Cass. Sez. III n. 38512 del 18 ottobre 2007 (Ud. 9 ott. 2007)
Pres. Lupo Est. Marini Ric. Sacchet
Rifiuti. Cessazione dell’attività produttiva e obblighi di gestione

L'avvenuta cessazione dell'attività produttiva non fa venire meno gli obblighi che gravano sul titolare dell'attività con riferimento alla gestione e allo smaltimento dei rifiuti aziendali. Il fatto di avere ceduto a terzi i macchinari non ha alcun rilievo per quanto concerne la permanenza in capo al titolare dell'impresa o dell'attività produttiva degli adempimenti relativi alle cautele di legge ed alla necessaria destinazione dei prodotti chimici e dei fanghi residuati. Solo l'effettivo trasferimento d'azienda ad altro soggetto, che ne assume in toto la titolarità ed i relativi obblighi, può far cessare la responsabilità del precedente titolare

Rileva

Tratto a giudizio in concorso con la Sig.ra Tiezzi per rispondere del reato previsto dagli artt. 14 e 51, comma secondo del d.lgs. n. 22 del 1997 per avere abbandonato liquidi derivanti dall’attività aziendale, con versamento degli stessi in corso d’acqua (fatto accertato il 18 marzo 2002), il Sig. Sacchet è stato ritenuto dal Tribunale unico responsabile del reato ascrittogli, e condannato alla pena di euro 5.000,00 di ammenda.

L’indagine aveva preso avvio dalla segnalazione di un cittadino circa l’anomala colorazione di un rio che scorreva davanti alla propria abitazione, ed avevano consentito di verificare che la colorazione dipendeva da sostanze contenenti nichel e provenienti da un capannone ove fino a qualche tempo prima erano svolte attività galvaniche ad opera di una ditta di cui il Sig. Sacchet era responsabile. Il Tribunale ha ritenuto accertato che lo smaltimento dei liquidi galvanici rientrasse nelle competenze e nei doveri del Sig. Sacchet e non in quelle della Sig.ra Tiezzi, acquirente dei macchinari, così mandando assolta quest’ultima e condannando alla pena di euro 5.000,00 di ammenda il Sig. Sacchet per il reato a lui contestato.

Il Sig. Sacchet propone ricorso per cassazione articolato attorno a tre motivi.

Con primo e secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606, lett. e) e lettera b) c.p.p. per errata applicazione delle regole contenute nell’art. 192 c.p.p., nonché per contraddittorietà e illogicità della motivazione, avendo il Tribunale affermato la responsabilità del ricorrente sulla base di elementi indiziari incoerenti e di una valutazione circa l’interesse ad agire che non può certo essere ricondotta ad “indizio” in senso tecnico.

Con terzo motivo si lamenta violazione dell’art. 606, lett. b) c.p.p. per avere il Tribunale erroneamente applicato l’art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997, non sussistendo in capo al Sig. Sacchet la qualifica di titolare dell’azienda, ormai cessata.

 

Osserva

Il primo ed il secondo motivo di ricorso rendono necessaria una premessa.

1. A parere di questa Corte il giudizio avanti la Corte di cassazione risponde a logiche e finalità sue proprie, che non ripetono quelle del giudizio nei gradi di merito. Sul punto, con riferimento anche alla modifica apportata dalla legge n. 46 del 2006 all’art. 606 c.p.p., si rinvia all’ampia motivazione, che viene condivisa da questo Giudice, della sentenza della Seconda Sezione Penale della Corte, 5 maggio-7 giungo 2006, n.19584, Capri ed altra (rv 233773, rv 233774, rv 233775) e della sentenza della Sesta Sezione Penale, 24 marzo-20 aprile 2006, n. 14054, Strazzanti (rv 233454).

Una dimostrazione della sostanziale differenza esistente tra i due giudizi può essere ricavata, tra l’altro, dalla motivazione della sentenza n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, che (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica introdotta dalla legge n. 46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico ministero, afferma che la esclusione della possibilità di ricorso in sede di appello costituisce una limitazione effettiva degli spazi di controllo sulle decisioni giudiziali in quanto il giudizio avanti la Corte di cassazione è “rimedio (che) non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito (invece) dall’appello”.

Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha “la pienezza del riesame di merito” che è propria del controllo operato dalle corti di appello, ben si comprende come il nuovo testo dell’art. 606, lett. e) c.p.p. non autorizzi affatto il ricorso a fondare la richiesta di annullamento della sentenza di merito chiedendo al giudice di legittimità di ripercorrere l’intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.

Come fondatamente osservato dalla citata sentenza Capri ed altra, il rapporto tra il disposto degli artt. 544 e 546 c.p.p., e cioè tra completezza e concisione della motivazione, comporta che la motivazione del giudice di merito non deve dare conto di tutti gli elementi di prova esaminati, ma concentrarsi su quelli che assumono valore decisivo ai fini della decisione, posto che la finalità della motivazione resta quello di rendere edotte le parti delle ragioni essenziali della decisione stessa e del percorso logico seguito. E’ all’interno dì questa prospettiva di ordine generale che deve essere inteso il riferimento agli specifici atti del processo, con la conseguenza che il giudice di legittimità è chiamato a valutare l’incidenza di eventuali violazioni commesse dalla decisione impugnata sul risultato finale. Restano pertanto escluse dal controllo della Corte “non soltanto le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza degli elementi di prova, ma anche le incongruenze logiche che non siano assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate in altri passaggi argomentativi adottati dai giudici; cosicché non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti adottata dai ricorrenti né su altre spiegazioni fornite dalla difesa per quanto plausibili, ma comunque inidonee ad inficiare la decisione di merito. Al di là di questi limiti finirebbe per accreditarsi la Corte di cassazione di poteri rivalutativi che, come tali, appartengono alla sola cognizione del giudice di merito.”.

In altri e conclusivi termini, questa Corte ritiene che il giudizio sulla completezza e correttezza della motivazione della sentenza impugnata non possa confondersi “con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporsi a quella fornita dal giudice di merito”, con la conseguenza che una motivazione esauriente nell’affrontare i temi essenziali e coerente nella valutazione degli elementi probatori si sottrae al sindacato di legittimità. Conservano, dunque, piena validità anche dopo la novella del 2006 i principi essenziali fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n. 2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (rv 203767).

2. Alla luce di tali principi, ritiene la Corte che la motivazione della sentenza impugnata non presenti i vizi logici e giuridici lamentati dal ricorrente. Il Tribunale, infatti, considerate smentite dai fatti alcune delle (centrali) affermazioni difensive del ricorrente, ha correttamente valutato i contenuti dell’accordo commerciale stipulato fra costui e la Sig.ra Tiezzi, considerando che quest’ultima aveva acquistato e quindi preso in carico i soli macchinari destinati ad essere trasferiti altrove, mentre non aveva manifestato alcun interesse né assunto alcun obbligo in ordine ai prodotti chimici ed ai fanghi di lavorazione esistenti. In modo logico e coerente, dunque, il Tribunale ha concluso per l’esistenza in capo al solo ricorrente di un interesse a smaltire i prodotti residuati dalla lavorazione.

La pur condivisibile impostazione teorica del ricorso nella parte in cui affronta il concetto di indizio non risulta in concreto conferente rispetto alla motivazione della sentenza e finisce per chiedere a questa Corte di sostituire la ricostruzione e valutazione del materiale probatorio operata dal Tribunale con una diversa richiesta che, come si è detto in precedenza, esula dalle competenze del giudice di legittimità.

I primi due motivi di ricorso sono, dunque, manifestamente infondati.

3. Ad analoga conclusione deve giungersi quanto al terzo motivo di ricorso. L’avvenuta cessazione dell’attività produttiva non fa venire meno gli obblighi che gravano sul titolare dell’attività con riferimento alla gestione e allo smaltimento dei rifiuti aziendali. Il fatto di avere ceduto a terzi i macchinari non ha alcun rilievo per quanto concerne la permanenza in capo al titolare dell’impresa o dell’attività produttiva degli adempimenti relativi alle cautele di legge ed alla necessaria destinazione dei prodotti chimici e dei fanghi residuati. Solo l’effettivo trasferimento d’azienda ad altro soggetto, che ne assume in toto la titolarità ed i relativi obblighi, può far cessare la responsabilità del precedente titolare (sotto diverso profilo, in tema di cesura per le autorizzazioni agli scarichi da insediamento produttivo, si veda il principio affermato con sentenza di questa Sezione, n. 2877 del 21 dicembre 2006-25 gennaio 2007, Camurati, rv 235880). E’ pacifico che nel caso dì specie neppure il ricorrente prospetta una simile realtà.

4. La manifesta infondatezza dei motivi di ricorso comporta la dichiarazione di inammissibilità originaria dell’impugnazione, così che, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, nessun effetto estintivo può collegarsi alla circostanza che il termine di prescrizione sia maturato in data 18 settembre 2006 (cfr. Sezioni Unite Penali n. 23428 del 22 marzo-22 giugno 2005, Bracale, rv 23 1164).

Alla dichiarazione di inammissibilità consegue l’onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 61 6 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.