Cass. Sez. III n. 21512 del 21 giugno 2006 (c.c. 25 maggio 2006)
Pres. Postiglione Est. Ianniello Ric. Giannecchini
Rifiuti. Sottoprodotti costituiti da fanghi provenienti dalla lavorazione di materiali lapidei (esclusione)
Va esclusa la natura di “sottoprodotto” di fanghi provenienti dalla lavorazione di materiali lapidei allorquando manchi la certezza del requisito del riutilizzo del materiale che non può essere dimostrata dalle sole dichiarazioni testimoniali di dipendenti della società se non suffragate da riscontri oggettivi, quali l’annotazione nei registri di carico e scarico, la documentazione del trasporto presso i cantieri ove sarebbe avvenuto il riutilizzo ed in presenza di rilevi diretti della PG che documentino, in relazione all’altezza ed al grado di essiccazione dei cumuli una prolungata giacenza degli stessi sul luogo di deposito.

Svolgimento del processo

Enrico Giannecchini, rappresentante legale della impresa di costruzioni ICES s.p.a. è indagato in ordine al reato di cui agli artt. 81 e 110 cpv. c.p., 51, commi 1 e 3 D.Lgs. n. 22/97, per avere effettuato, in assenza della prescritta iscrizione, una gestione di rifiuti speciali non pericolosi, costituiti dai fanghi provenienti dall’attività di frantumazione e lavaggio degli inerti esercitata.

In relazione a tale ipotesi investigativa, in data 15 novembre 2005 la P.G. aveva sequestrato un’area di circa 6000 mq, sita in Massarosa, via del Pioppogatto, sulla quale insisterebbe un rilievo realizzato con accumuli di fanghi da lavaggio inerti di circa 35.000 mc., provenienti dall’impianto della società in Pietrasanta. La polizia giudiziaria, nella relativa relazione al P.M. aveva rilevato che l’accumulo doveva ritenersi vero stoccaggio di rifiuti, dei quali dai registri non era ricavabile la presa in carico e quindi la provenienza. Inoltre, dai medesimi registri non risultavano effettuati, secondo la P.G., trasporti altrove per l’avvio dei fanghi a smaltimento o recupero autorizzati.

Su richiesta del P.M., il G.I.P. presso il Tribunale di Lucca aveva con decreto del 17 novembre 2005 convalidato il sequestro preventivo ritenendo sussistente il fumus in base alle notizie ricevute dalla P.G. e motivando, quanto al periculum derivante dalla disponibilità dell’area, con la valutazione che la stessa avrebbe sicuramente comportato la prosecuzione dell’utilizzo del luogo come discarica di rifiuti speciali non pericolosi.

Con successivo decreto del 16 gennaio 2006, il medesimo G.I.P. di Lucca aveva esteso il sequestro ad un’ulteriore area di mq. 15.540 contigua alla precedente, avendo avuto la segnalazione dalla P.G. del fatto che anche in tale luogo era stato effettuato altro deposito di fanghi derivanti dalla lavorazione di materiali lapidei da parte della ICES s.p.a.

Su successiva istanza di revoca del provvedimento di sequestro, avanzata dai difensori dell’indagato, il G.I.P., col parere contrario del P.M., aveva in data 25 gennaio 2006 rigettato l’istanza.

Con successivo appello presentato il 13 febbraio 2006 l’indagato aveva richiesto l’annullamento del provvedimento del G.I.P., ma il Tribunale di Lucca ha rigettato la richiesta con ordinanza del 27 febbraio 2006, qualificando i fanghi provenienti da impianto di lavaggio di materiali inerti come rifiuti speciali, ai sensi dell’art. 7 del D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22.

Il Tribunale ha infine aggiunto che anche a voler seguire la tesi della difesa che nega tale qualificazione alla stregua della lettura da questa proposta della legge interpretativa n. 178 del 2002, mancherebbe nel caso di specie il presupposto richiesto dal 2° comma dell’art. 14 di tale legge, essendo dagli atti contrastata l’affermazione secondo la quale i fanghi in parola vengono utilizzati dalla società in altri cicli produttivi.

Avverso tale ordinanza propone ora ricorso per cassazione l’indagato, a mezzo del proprio difensore, ribadendo la propria interpretazione delle norme di legge in materia di rifiuti e di quelle contenute nella legge interpretativa del 2002, anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia n. 457 dell’11 novembre 2004 e lamentando in tale quadro di riferimento normativo la carenza assoluta di motivazione della ordinanza in ordine al primo motivo di appello avanti al Tribunale, ove l’appellante avrebbe documentato che gli accumuli di fanghi provenienti da un impianto di lavaggio di materiali inerti non erano depositati in loco da moltissimo tempo ma venivano depositati con un ritmo ed una quantità tale che quelli presenti non datavano da più di un anno - un anno e mezzo mentre l’area era nella disponibilità della società da nove anni. Da ciò deriverebbe la conclusione che i materiali in questione, depositati a partire da nove anni prima, venivano periodicamente riutilizzati in altri cicli produttivi della società.

 

Motivi della decisione

La difesa del ricorrente sostiene che i fanghi provenienti da un impianto di lavaggio di inerti della società e accumulati nell’area sequestrata non sarebbero qualificabili come rifiuti alla stregua della legislazione vigente, in particolare, l’art. 6, comma 1° lett. a) del D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, come interpretato dall’14 del D.L. 8 luglio 2002 n. 138, convertito con modificazioni nella legge 8 agosto 2002 n. 178, in quanto destinati ad essere riutilizzati dall’impresa medesima in diversi lavori edili oggetto dell’attività della stessa.

La norma interpretativa da ultimo indicata esclude infatti che ricorra l’ipotesi di “sostanza ... di cui il detentore … abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”, secondo la nozione mutuata dalla disciplina comunitaria della materia, per “i beni o sostanze materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente; b) omissis ...“

Quest’ultima esclusione, ripresa dall’art. 183, lett. n) del recente D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152, sia pure in termini parzialmente diversi, di individuazione della nozione di “sottoprodotto” non soggetto alle disposizioni di cui alla parte quarta del medesimo decreto, era stata sospettata di contrastare con la disciplina comunitaria di cui alla direttiva del Consiglio del 15 luglio 1975 n. 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 18 marzo 1991 n. 91/156/CEE nonché dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996 n. 96/350/CE, dal Tribunale di Terni, che ne aveva fatto uno degli oggetti di una domanda pregiudiziale alla Corte di Giustizia CE.

Con sentenza n. 457 dell’11 novembre 2004, la Corte di giustizia ha al riguardo precisato che “è ammesso, alla luce degli obiettivi della direttiva 75/442, qualificare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione” (ma non i residui di consumo, come poi specificato dalla medesima decisione) “che non è principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi ai sensi dell’art. I, lett. a) primo comma di tale direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione “.

Ciò precisato sul piano del quadro normativo di riferimento, la censura di carenza assoluta di motivazione o di motivazione meramente apparente dell’ordinanza impugnata, come tale concretante, secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr., per tutte, Cass. S.U. 13 febbraio 2004 n. 5876) un vizio di violazione di legge, denunciabile, ex art. 325, 1° comma c.p.p. e a differenza del vizio di illogicità della motivazione, col ricorso per cassazione avverso le ordinanze di riesame e di appello in materia di provvedimenti cautelari reali, appare infondata.

Contrariamente a quanto denunciato dalla difesa del ricorrente, il Tribunale ha infatti specificatamente preso in esame il primo motivo di appello, laddove l’appellante rilevava che alcune testimonianze anche di persone ascoltate dalla polizia giudiziaria avevano riferito che la società effettuava 7-8 viaggi trasporti giornalieri di fanghi nell’area in sequestro. Considerata la documentata capienza dei camion della ICES, un semplice calcolo matematico avrebbe dimostrato che l’accumulo nelle quantità rilevate si era realizzato in non più di un anno - un anno e mezzo. Poiché l’area in questione sarebbe nella disponibilità della società da 7-9 anni, la datazione massima dell’accumulo proverebbe l’assunto dell’indagato relativo alla riutilizzazione dei fanghi.

A tale rilievo, il Tribunale ha risposto, con motivazione che in nessun caso può ritenersi apparente (come tale, secondo Cass. S.U. 28 maggio 2003 n. 12, del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza e di completezza, al punto da risultare inidonea a rendere comprensibile l’iter logico seguito dal giudice di merito, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate da rendere oscure le ragioni che lo hanno giustificato), che mancherebbe viceversa il requisito della certezza del riutilizzo del materiale accumulato nell’area, in quanto le affermazioni dei testimoni dipendenti della società non sarebbero suffragate da alcun riscontro oggettivo, posto che dei fanghi non vi è traccia alcuna nei registri di carico e scarico della società né vi è alcuna documentazione attestante il trasporto di essi presso i cantieri indicati dai testimoni medesimi. Infine tali affermazioni dei testimoni sono state ritenute efficacemente contrastate dai rilievi diretti della polizia provinciale relativamente all’altezza e al grado di essiccazione dei cumuli di fanghi, ritenuti indicativi di una prolungata giacenza  di tale materiale nell’indicato luogo di deposito.

Alla luce delle considerazioni esposte, il ricorso va respinto, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.