Cass. Sez. III sent. 14557 dell’11 aprile 2007
Pres. Vitalone Est. Onorato Ric. Palladino

1. La nozione di sottoprodotto di cui al D.Lv. 152/06 confligge con quella individuata dalla giurisprudenza comunitaria  laddove sottrae alla disciplina sui rifiuti il sottoprodotto riutilizzato in un ciclo produttivo diverso da quello di origine poiché secondo tale giurisprudenza  il ciclo produttivo deve essere il medesimo poiché se il riutilizzo avvenisse in un diverso ciclo produttivo vorrebbe dire che il produttore ha inteso "disfarsi" del residuo per commercializzarlo o comunque cederlo ai terzi per la riutilizzazione.
2. Ai sensi del D. Lgs. 152/2006, il produttore non "si disfa" del residuo produttivo quando lo riutilizza direttamente "tal quale" oppure lo commercializza a condizioni per lui economicamente favorevoli perché venga riutilizzato in altri cicli produttivi. Per escludere la disciplina sui rifiuti, quindi, è necessario che a destinare il sottoprodotto al riutilizzo senza trattamenti di tipo recuperatorio sia lo stesso produttore e non un semplice detentore cui la sostanza sia stata conferita a qualche titolo.
3. Un elemento essenziale della MPS è dato dalla conformità alle caratteristiche tecniche fissate con decreto ministeriale. Infatti, in attesa della emanazione dell'apposito decreto ministeriale, continuano ad applicarsi per espressa disposizione transitoria (art. 181, comma 6) le norme di cui al decreto ministeriale 5.2.1998 (per i rifiuti non pericolosi) o al decreto ministeriale 12.6.2002 n. 161 (per i rifiuti pericolosi) i quali prevedono anche che i materiali debbano essere effettivamente e oggettivamente destinati all'utilizzo in cicli di produzione o di consumo: l’art. 3, comma 3, del D.M. 5.2.1998 e l'art. 3, comma 5, del D.M. 12.6.2002 n. 161 stabiliscono infatti che restano sottoposti al regime dei rifiuti i prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dalle attività di recupero che non vengono destinati in modo effettivo ed oggettivo all'utilizzo nei cicli di consumo o di produzione.

1 – Con sentenza del 17 novembre 2004, il tribunale monocratico di Alba, sezione distaccata di Bra, in seguito a opposizione a decreto penale, ha condannato Antonella Palladino alla pena di euro 1.800 di ammenda, avendola giudicata colpevole del reato di cui all’articolo 51, comma 2, D.Lgs 22/1997, perché – quale titolare della ditta individuale CTP, avente ad oggetto il commercio all’ingrosso di materie tessili e plastiche ed imballaggi – aveva depositato in modo incontrollato circa 20 mc di rifiuti non pericolosi di varia specie nel cortile esterno adiacente al capannone della ditta (in Sommariva Perno, il 12 luglio 2002).

Il giudice ha osservato e accertato in linea di fatto che:

- nel cortile adiacente al capannone della ditta predetta erano stati abbandonati da almeno sei sette mesi circa 20 mc di cascami di fibre tessili e ovatta, resti di imballaggi e imballaggi leggeri in plastica;

- il materiale era stato venduto alla CTP dalla Sas Filplast, il cui rappresentante, Antonio Giambona, convivente della Palladino, aveva dichiarato che esso era destinato a essere rivenduto “tal quale” ad allevatori di animali (che lo utilizzavano come lettiere), a produttori di filtri per l’olio e a produttori di compostaggio;

- la stessa Palladino, nel corso dei suo esame, aveva confermato che il materiale era destinato ad altre ditte per essere successivamente riutilizzato;

la Snc Ro.Re come testimoniato dal suo legale rappresentante Michele Comino sino al 2003 aveva acquistato dalla CTP sfilacci di cotone bianco e pallet usati, analoghi a parte del materiale depositato nel cortile suddetto.

Tanto premesso, il giudice, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea e della Corte di cassazione, ha ravvisato il contestato reato di deposito incontrollato di rifiuti, in particolare osservando che non era applicabile nel caso di specie la norma di cui all’articolo 14 del Dl 138/02, invocata dal difensore.

Infatti, detta norma ha ristretto la nozione di rifiuto solo per l’ipotesi in cui il produttore “abbia deciso” o “abbia l’obbligo” di disfarsi, e non per quella in cui il medesimo effettivamente “si disfi” della sostanza. Orbene, nel caso di specie, il produttore si era certamente disfatto delle sostanze, vendendole alla Filplast, che poi le cedette alla CTP, con la conseguenza che era innegabile la qualità di rifiuto: tanto vero che sia il Giambona (Filplast) che le acquistò dal produttore, sia il Comino (Ro.Re.) quando le acquistò dalla CTP, ne effettuarono il trasporto col corredo dei rituali formulari imposti dalla disciplina sui rifiuti.

2 Avverso la sentenza il difensore della Palladino ha proposto appello, convertito ex lege in ricorso per cassazione, deducendo due motivi a sostegno.

Col primo sostiene la inesistenza degli elementi oggettivi del reato contestato, posto che, alla luce della “norma interpretativa” di cui al citato articolo 14 (che non può essere riferita solo al produttore), i materiali depositati presso la ditta CTP, in quanto effettivamente destinati alla riutilizzazione, esulavano dalla categoria dei rifiuti.

Col secondo motivo il difensore sostiene che comunque mancava nella Palladino qualsiasi profilo di dolo o di colpa. In subordine contrariamente alla tesi della impugnata sentenza era applicabile nella fattispecie l’esimente della scusabile ignoranza della legge penale di cui all’articolo 5 Cp, sia per l’oggettiva ambiguità della legislazione in materia, sia perché la giurisprudenza della Corte di giustizia europea citata dal giudice di merito era posteriore alla commissione del fatto.

Motivi della decisione

3 In linea di fatto, risulta pacificamente dalla sentenza impugnata che i materiali depositati nell’area adiacente al capannone della ditta CTP, gestita dall’imputata Palladino, consistevano in residui di produzione vari (cascami di fibre tessili, ovatta, resti di imballaggi in plastica, etc.) che l’amministratore della Sas Filpast, Antonio Giambona, aveva personalmente ritirato da alcune industrie tessili e poi venduto alla Palladino, la quale a sua volta doveva rivenderli a imprese produttrici di filtri per l’olio, o a imprese produttrici di compostaggio, o infine ad allevatori di animali, che utilizzavano i pallet di plastica come lettiere per gli animali. In effetti, la società Ro.Re. come testimoniato dal suo amministratore Michele Comino in passato aveva acquistato dalla CTP sfilacci di cotone bianco come materie prime secondarie da utilizzare nel suo ciclo produttivo. Alla data del sopralluogo (12 luglio 2002), però, i materiali depositati alla rinfusa nel cortile esterno al capannone della CTP giacevano invenduti da circa sei mesi - un anno.

Sotto il profilo giuridico, non v’è dubbio che i materiali suddetti rivestivano la qualità di rifiuti ai sensi dell’articolo 6 lett. a) D.Lgs. 22/1997, posto che i relativi produttori se ne erano “disfatti” nel momento in cui li avevano smerciati alla società Filpast.

Alla stessa conclusione si deve pervenire anche alla luce della c.d. interpretazione autentica della definizione di rifiuto di cui all’articolo 14 del Dl 138/02, convertito nella legge 178/02.

E’ noto che detta norma è stata ritenuta in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto come definita dalle direttive della Comunità europea e interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, e pertanto è stata deferita alla Consulta per il vaglio di legittimità costituzionale in rapporto agli articoli 11 e 117 Costituzione, sia laddove ha identificato l’attività, la volontà o l’obbligo di “disfarsi” della sostanza con l’attività, la volontà o l’obbligo di avviare la sostanza allo smaltimento o al recupero (escludendo così l’attività di semplice abbandono), sia laddove ha escluso la volontà o l’obbligo di “disfarsi” di residui di produzione o di consumo quando questi sono o possono essere riutilizzati tal quali senza trattamenti recuperatori e senza pregiudizio per l’ambiente.

(Giova ricordare a questo proposito che secondo la definizione comunitaria contenuta nell’articolo 1 della direttiva 75/442/CEE, come sostituito dall’articolo 1 della direttiva 91/156/CEE, è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi. Secondo la definizione contenuta nella recente direttiva 2006/12/CE, entrata in vigore il 17 maggio 2006, e quindi successivamente al citato Dl 138/02 nonché al D.Lgs 152/06 di cui in appresso è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi. Ma la marginale differenza terminologica, tra “aver deciso” e “avere l’intenzione”, non ha alcun rilievo per lo sviluppo della presente argomentazione).

Peraltro, nel caso di specie non è necessario né possibile sollevare questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, giacché l’applicazione di questa norma non incide (non è rilevante) sulla decisione della regiudicanda. E’ infatti evidente che i produttori non hanno “abbandonato” i residui di produzione, ma al contrario, nel momento in cui li hanno ceduti alla Filpast, hanno inteso avviarli direttamente o indirettamente ad una di quelle attività di smaltimento o di recupero definite negli allegati B e C del D.Lgs. 22/1997.

Insomma, non solo ai sensi del succitato articolo 6 lett. a), ma anche a mente dell’articolo 14 i produttori si sono “disfatti” dei residui produttivi, i quali, per conseguenza, non possono che qualificarsi come rifiuti.

Tutto ciò è tanto vero che quei materiali furono trasportati dal luogo di produzione sino al luogo di deposito presso la società CTP con i formulari di accompagnamento imposti per i rifiuti dallo stesso D.Lgs. 22/1997.

La circostanza che la società CTP avesse intenzione di rivendere i materiali a terzi produttori per un eventuale riutilizzo non basta per far perdere agli stessi la qualità di rifiuto. Ciò non soltanto perché anche l’articolo 14, secondo comma, per escludere la qualità di rifiuto, richiede che il riutilizzo produttivo della sostanza sia oggettivamente certo ed effettivo, e tale non può dirsi nel caso di specie, in cui le sostanze peraltro non tutte riutilizzabili “tal quali” giacevano in deposito incontrollato da circa sei mesi/un anno di tempo. Quanto piuttosto perché, anche ai sensi dell’articolo 14, un residuo di produzione che il produttore ha già avviato allo smaltimento o al recupero non può perdere la sua qualità di rifiuto solo perché un operatore che intervenga nella articolata fase della gestione del rifiuto (nel caso, la società CTP, amministrata dall’imputata) intenda commercializzarlo per il riutilizzo “tal quale” in altro ciclo produttivo.

In altri termini, secondo l’interpretazione logicamente e teleologicamente corretta del secondo comma dell’articolo 14, questa norma esclude dalla categoria dei rifiuti solo quei residui di produzione che lo stesso produttore destina al riutilizzo produttivo senza trattamenti recuperatori; non esclude invece quei materiali che sono destinati al riutilizzo produttivo da un altro soggetto che intervenga nella gestione del rifiuto come semplice detentore, che cioè venga in possesso della sostanza senza effettuare operazioni di pretrattamento, di miscelazione e simili, tali da mutare l’identità chimica o merceologica della sostanza (arg. ex lett. b) dell’articolo 6 D.Lgs. 22/1997). Ciò perché, secondo la ratio dell’articolo 14, non può ravvisarsi una volontà di disfarsi delle sostanze nel produttore (e solo nel produttore) che le riutilizza nel ciclo produttivo della sua azienda, o che, con proprio vantaggio economico, le smercia a terzi per il riutilizzo in altro ciclo produttivo.

4 A conclusione non dissimile si deve pervenire dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 152/06, il quale ha abrogato sia il D.Lgs. 22/1997, sia il più volte menzionato articolo 14 del Dl 138/02 (articolo 264, lett. i) ed l), introducendo, nella parte quarta, una nuova disciplina, che sul punto non è sostanzialmente molto dissimile dalla precedente.

Viene anzitutto in rilievo la nuova categoria legislativa di “sottoprodotto”, già definita nella giurisprudenza comunitaria. Essa comprende i prodotti dell’attività dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo produttivo e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo (articolo 183, lett. n).

Secondo lo ius superveníens non sono soggetti alla specifica disciplina sui rifiuti “i sottoprodotti di cui l’impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi o non abbia deciso di disfarsi, e in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall’impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa direttamente per il consumo o per l’impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari, in un successivo processo produttivo”. E’ necessario però che l’utilizzazione del sottoprodotto sia certa e non eventuale, e avvenga senza trasformazioni preliminari, cioè senza quei trattamenti che mutano la identità merceologica della sostanza.

Anche la nuova disciplina, peraltro, appare in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto, come interpretata dalla Corte di Giustizia europea, laddove sottrae alla disciplina sui rifiuti il sottoprodotto riutilizzato in un ciclo produttivo diverso da quello di origine.

Infatti - secondo la sentenza resa dalla Sezione seconda in data 11 novembre 2004, Causa C457/02, Niselli, che riprende sul punto la precedente sentenza Palin Granit Oy del 18.4.2002, C900 - può esulare dalla nozione comunitaria di rifiuto solo un materiale derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo, quando lo stesso produttore lo riutilizza, senza trasformazione preliminare, nel corso dello stesso processo produttivo: in tal caso non si tratta di un residuo, bensì di un “sottoprodotto”, che non ha la qualifica di rifiuto proprio perché il produttore non intende “disfarsene”, ma vuole invece riutilizzarlo nel medesimo ciclo produttivo (parr. 44 52 sent. Niselli).

Per distinguere il “sottoprodotto” dal rifiuto è comunque necessario che il riutilizzo sia certo, che avvenga nel medesimo processo produttivo e senza trasformazioni preliminari, cioè senza modificazioni del carattere chimico o merceologico della sostanza (par. 47).

Che il ciclo produttivo debba essere il medesimo risulta chiaramente dal par. 52 della sentenza. Del resto secondo l’approccio ermeneutico della giurisprudenza comunitaria, che confligge sul punto con la filosofia del legislatore italiano se il riutilizzo avvenisse in un diverso ciclo produttivo vorrebbe dire che il produttore ha inteso “disfarsi” del residuo per commercializzarlo o comunque cederlo ai terzi per la riutilizzazione.

Tale è dunque la interpretazione della nozione comunitaria di rifiuto che doveva vincolare il legislatore delegato del 2006 (e prima ancora il legislatore delegante del 2004), e che invece risulta disattesa laddove il D.Lgs. 152/06 definisce come sottoprodotto sottratto alla disciplina dei rifiuti anche il residuo produttivo commercializzato a favore di terzi per essere riutilizzato “tal quale” in un ciclo produttivo diverso da quello di origine.

Comunque come per il summenzionato articolo 14 si deve prescindere in questa sede dalla illegittimità costituzionale della nuova disciplina, in quanto essa non è applicabile alla fattispecie concreta, sia perché non è certa la riutilizzazione dei residui produttivi, sia perché manca un altro presupposto essenziale della norma, e cioè che sia lo stesso produttore del sottoprodotto o a reimpiegarlo nello stesso ciclo produttivo o a commercializzarlo direttamente per il consumo o per un reimpiego in altri processi produttivi. In altri termini, anche ai sensi del D.Lgs. 152/06, il produttore non “si disfa” del residuo produttivo quando o riutilizza direttamente “tal quale” oppure lo commercializza a condizioni per lui economicamente favorevoli perché venga riutilizzato in altri cicli produttivi. Per escludere la disciplina sui rifiuti, quindi, è necessario che a destinare il sottoprodotto al riutilizzo senza trattamenti di tipo recuperatorio sia lo stesso produttore e non un semplice detentore cui la sostanza sia stata conferita a qualche titolo.

5 In secondo luogo, potrebbe venire in rilievo la categoria di materia prima secondaria, che è stata introdotta dal D.Lgs. 152/06 al fine di escludere dalla disciplina sui rifiuti quelle sostanze che sin dall’origine o dopo adeguate operazioni di recupero, posseggono specifiche caratteristiche tecniche fissate con Dm e sono idonee a essere usate come materie prime in un processo produttivo industriale o commerciale (v. articolo 183 lett. q) in relazione all’articolo 181, commi 6, 12 e 13; nonché articolo 183, lett. u) per MPS da attività siderurgiche e metallurgiche).

Ma nella fattispecie concreta non ricorre quell’elemento essenziale della MPS che è dato dalla conformità alle caratteristiche tecniche fissate con Dm. Infatti, in attesa della emanazione dell’apposito decreto ministeriale, continuano ad applicarsi per espressa disposizione transitoria (articolo 181, comma 6) le norme di cui al Dm 5 febbraio 1998 (per i rifiuti non pericolosi) o al Dm 161/02 (per i rifiuti pericolosi). Orbene, da una parte non v’è prova che le sostanze depositate presso il capannone della CTP rispettassero le caratteristiche tecniche specifiche richieste da questi decreti ministeriali; dall’altra manca la prova, che questi materiali siano stati effettivamente e oggettivamente destinati all’utilizzo in cicli di produzione o di consumo, come espressamente richiesto dagli stessi decreti ministeriali (l’articolo 3, comma 3, del Dm 5 febbraio 1998 e l’articolo 3, comma 5, del Dm 161/02 stabiliscono infatti che restano sottoposti al regime dei rifiuti i prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dalle attività di recupero che non vengono destinati in modo effettivo ed oggettivo all’utilizzo nei cicli di consumo o di produzione).

6 Sotto ogni profilo, quindi, i materiali depositati nell’area a disposizione della CTP costituivano rifiuti ed erano soggetti alla relativa disciplina.

In particolare, essi non configuravano un deposito temporaneo, perché non erano raggruppati per categorie omogenee nel luogo di produzione (anche se rispettavano i requisiti quantitativi e temporanei richiesti alternativamente dalla specifica disciplina: v. Cassazione, Sezione terza, ud. 11 ottobre 2006, Tesolat).

Per conseguenza, essi configuravano propriamente uno stoccaggio, cioè una fase di gestione dei rifiuti, sotto forma di deposito preliminare prima di una specifica operazione di smaltimento (ai sensi della lettera D 15 dell’allegato B) ovvero di messa in riserva prima di un’operazione specifica di recupero (ai sensi della lettera R 13 dell’allegato C del D.Lgs. primo comma).

Nè può dirsi come sostiene il difensore ricorrente che difettava nel caso di specie l’elemento psicologico del reato contravvenzionale, atteso che esso invece sussisteva almeno sotto il profilo della colpa; o che ricorreva la causa di esclusione della colpevolezza per ignoranza inevitabile della legge penale ai sensi dell’articolo 5 Cp, come integrato dalla sentenza 364/88 della Corte costituzionale. Sotto quest’ultimo profilo, infatti, va semplicemente notato che la sedicente norma interpretativa di cui all’articolo 14 del Dl 138/02, è effettivamente entrata in vigore lo stesso 8 luglio 2002, cioè quattro giorni prima del fatto contestato, ma essa non era e non è applicabile nel caso concreto per le ragioni già sviluppate nel precedente paragrafo n. 3, sicché non può essere invocata come causa inevitabile di esclusione della colpevolezza, tanto più se si considera che l’imputata, in quanto imprenditrice dei settore, doveva essere dotata di specifica competenza professionale nella soggetta materia. In conclusione, il ricorso va respinto. Ai sensi dell’articolo 616 Cpp consegue la condanna della imputata ricorrente al pagamento delle spese processuali. Considerato il contenuto del ricorso, non si ritiene di irrogare anche la sanzione pecuniaria che detta norma consente.

PQM

la corte suprema di cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle