Cass. Sez. III n. 23794 del 29 maggio 2019 (UP 21 mar 2019)
Pres. Izzo Est. Ramacci Ric. Di Ferro
Rifiuti.Abbandono e nozione di enti di cui all’art. 256 comma 2 d.lgs. 152/06

Nella nozione di enti cui fa riferimento l’art. 256, comma 2 d.lgs. 152\06 rientrano anche le associazioni ed integra il reato sanzionato da tale disposizione l’abbandono, da parte del rappresentante di un’associazione sportiva dilettantistica di tiro al volo dei rifiuti derivanti da tale attività

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 4 dicembre 2017 ha affermato la responsabilità penale di Michele Giovanni DI FERRO, che condannava la pena dell'ammenda, in ordine ai reati di cui agli artt. 256, comma 2 e 256, comma 1, lett. b) d.lgs. 152/2006, perché, quale presidente di un'associazione di tiro a volo, abbandonava in modo incontrollato, nelle aree dove veniva svolta tale attività ed in quelle limitrofe, rifiuti derivanti dalla stessa, quali piattelli rotti, borre, bossoli di cartucce vuote e pallini in piombo ed, inoltre, per aver illecitamente smaltito, mediante combustione, rifiuti dello stesso tipo (fatti accertati in Terrasini, fino all’11 aprile 2013).
Avverso tale pronuncia il predetto proponeva appello, convertito in ricorso per cassazione.

2. Deduce, in via preliminare, la nullità dell'ordinanza di correzione di errore materiale del dispositivo depositata il 2 marzo 2018 contestualmente alle motivazioni della sentenza impugnata e con la quale il giudice riteneva erroneamente irrogata la pena detentiva che, pertanto, eliminava, aggiungendo, inoltre, le parole “oltre al pagamento delle spese legali”.
Osserva, a tale proposito, che il contenuto del dispositivo sarebbe intrinsecamente coerente e prevarrebbe, quindi, sulla motivazione.

3. Con un primo motivo di impugnazione deduce, poi, che il Tribunale avrebbe errato nel ritenerlo soggetto attivo della condotta contestata, considerando che egli non rientrerebbe, quale presidente di un'associazione dilettantistica senza scopo di lucro, la quale non esercita, neanche di fatto, un'attività economica, tra i soggetti indicati dall'art. 256, comma 2, d.lgs. 152/2006.
Aggiunge che i rifiuti prodotti dall'attività erano correttamente depositati in attesa di essere smaltiti e che sarebbe stato dimostrato come la zona del campo di tiro sia spesso soggetta a condizioni meteorologiche impreviste, che potrebbero aver provocato il danneggiamento dei teloni e la dispersione di alcuni prodotti dell'attività già precedentemente stoccati negli appositi contenitori, sicché non sarebbe riscontrabile alcun comportamento negligente.

4. Con un secondo motivo di impugnazione assume che le indagini eseguite sul posto avrebbero evidenziato l'idoneità del sito ai sensi delle vigenti disposizioni di legge, risultando così dimostrata una consapevole responsabilità nella gestione dei rifiuti, effettuata nel rispetto della normativa di settore.

5. Con un terzo motivo di impugnazione deduce che la sentenza impugnata non avrebbe tenuto adeguatamente conto della ricostruzione dei fatti ricavabile dalla documentazione attinente ai sequestri e successivi dissequestri dell'area nel corso delle indagini preliminari ed evidenzia la effettiva classificazione dell'area come soggetta ad attività industriale, dettaglio che il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto irrilevante.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento dell'impugnazione.



CONSIDERATO IN DIRITTO



1. Il ricorso, così come qualificato l’atto di impugnazione, è inammissibile.

2. Occorre preliminarmente osservare come la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che il Collegio condivide, abbia chiaramente precisato che qualora un provvedimento giurisdizionale sia impugnato con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente stabilito, il giudice che riceve l’atto di gravame deve limitarsi, secondo quanto stabilito dall'art. 568, comma quinto cod. proc. pen., alla verifica dell'oggettiva impugnabilità del provvedimento e dell'esistenza della volontà di impugnare, intesa come proposito di sottoporre l'atto impugnato a sindacato giurisdizionale e, conseguentemente, trasmettere gli atti al giudice competente astenendosi dall'esame dei motivi al fine di verificare, in concreto, la possibilità della conversione (Sez. 6, n. 38253 del 5/6/2018, Borile e altro, Rv. 273738; Sez. 5, n. 7403 del 26/09/2013, (dep. 2014), P.M. in proc. Bergantini, Rv. 259532; Sez. 1, n. 33782 del 8/4/2013, Arena, Rv. 257117;Sez. 5, n. 21581 del 28/4/2009, P.M. in proc. Mare, Rv. 243888; Sez. 3, n. 2469 del 30/11/2007 (dep. 2008), Catrini, Rv. 239247; Sez. 4, n. 5291 del 22/12/2003 (dep. 2004), Stanzani, Rv. 227092 ed altre prec. conf., tra cui Sez. U, n. 45371 del 31/10/2001, Bonaventura, Rv. 220221).
Si è peraltro affermato che l'istituto della conversione della impugnazione, previsto dall'art. 568, comma 5, cod. proc. pen., ispirato al principio di conservazione degli atti, determina unicamente l'automatico trasferimento del procedimento dinanzi al giudice competente in ordine alla impugnazione secondo le norme processuali e non comporta una deroga alle regole proprie del giudizio di impugnazione correttamente qualificato. Pertanto, l'atto convertito deve avere i requisiti di sostanza e forma stabiliti ai fini della impugnazione che avrebbe dovuto essere proposta (Sez. 1, n. 2846 del 8/4/1999, Annibaldi R, Rv. 213835. V. anche ex pl. Sez. 3, n. 26905 del 22/04/2004, Pellegrino, Rv. 228729; Sez. 4, n. 5291 del 22/12/2003 (dep. 2004), Stanzani, Rv. 227092).
L’impugnazione presentata nell’interesse dell’imputato è stata dunque trasmessa dalla Corte di appello cui era diretta a questa Corte in conformità con i richiamati principi.
Le censure prospettate, tuttavia, rispettano solo in parte i requisiti del ricorso, come si dirà a breve e, nella parte in cui ciò avviene, risultano manifestamente infondati.

3. Ciò posto, occorre rilevare, in primo luogo, l’inammissibilità delle censure afferenti alla ordinanza di correzione di errore materiale.
Invero, non è dato comprendere quale sia l’interesse concreto dell’imputato a dedurne l’illegittimità, atteso che la correzione si è risolta in un suo indubbio vantaggio, avendo il giudice del merito eliminato la pena detentiva di otto mesi di arresto, presente nell’originaria stesura del dispositivo unitamente alla pena dell’ammenda, pari ad euro cinquemila. che è rimasta, dopo la correzione, l’unica irrogata, mentre il pagamento delle spese processuali era comunque dovuto.
Va peraltro rilevato che, a fronte di una contestazione che riguardava, originariamente, rifiuti pericolosi e non pericolosi, genericamente indicati senza distinzione tra loro, la motivazione della sentenza si diffonde nella verifica delle caratteristiche dei singoli rifiuti attraverso la considerazione del “flusso di origine” e li identifica anche con il relativo codice, indicando, in maniera inequivocabile, all’esito di accertamento in fatto non sindacabile in questa sede, la loro natura di rifiuti speciali non pericolosi, per i quali la legge stabilisce la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, con la conseguenza che la irrogazione di entrambe in dispositivo era palesemente errata, perché prevista per i soli rifiuti pericolosi.
Vero è che il Tribunale, con una certa superficialità, a fronte della rilevata individuazione di tutti i rifiuti come non pericolosi, si è limitato ad operare una sostanziale riqualificazione del fatto non formalmente dichiarata, ma chiaramente desumibile e verosimilmente dipendente anche dalle modalità con le quali era formulata l’imputazione - non soltanto erroneamente riferita, nei tre capi, a “delitto”, trattandosi invece, pacificamente, di reati contravvenzionali, ma anche nella indicazione dei rifiuti come “rifiuti speciali e pericolosi, tra i quali piattelli rotti, borre, bossoli di cartucce vuote e pallini di piombo” senza alcuna chiara distinzione - ma anche in questo caso la diversa qualificazione si è comunque risolta in un concreto vantaggio per l’imputato.

4. Va a questo punto richiamata, perché utilizzabile anche nel caso in esame, quella giurisprudenza,  cui il Collegio intende aderire, secondo la quale, in caso di contrasto tra dispositivo e motivazione non contestuali, il carattere unitario della sentenza, in conformità al quale l'uno e l'altra, quali sue parti, si integrano naturalmente a vicenda, non sempre determina l'applicazione del principio generale della prevalenza del primo in funzione della sua natura di immediata espressione della volontà decisoria del giudice; invero, laddove nel dispositivo ricorra un errore materiale obiettivamente riconoscibile, il contrasto con la motivazione è meramente apparente, con la conseguenza che è consentito fare riferimento a quest'ultima per determinare l'effettiva portata del dispositivo, individuare l'errore che lo affligge ed eliminarne gli effetti, giacché essa, permettendo di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente la volontà del giudice, conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni fondanti la decisione (Sez. 6, n. 24157 del 1/3/2018, Cipriano e altri, Rv. 273269; Sez. 4, n. 43419 del 29/9/2015, Forte, Rv. 264909; Sez. F, n. 47576 del 9/9/2014, Savini, Rv. 261402. V. anche Sez. 2, n. 23343 del 1/3/2016, Ariano e altri, Rv. 267082; Sez. 4, n. 43419 del 29/9/2015, Forte, Rv. 264909).
Inoltre, il contrasto tra dispositivo e motivazione non determina nullità della sentenza e può essere risolto anche con la valutazione dell'eventuale pregnanza degli elementi, tratti dalla motivazione, significativi della volontà decisoria del giudice (Sez. 5, n. 44867 del 14/9/2015 Magri e, Rv. 265873, ove, in motivazione si rileva la mancanza di interesse ad impugnare una parte della decisione comunque favorevole all'imputato).

5. Venendo all’esame del primo motivo di impugnazione, si osserva che lo stesso è inammissibile nella parte in cui richiama dati fattuali ed emergenze processuali non autonomamente valutabili in questa sede, mentre risulta manifestamente infondato laddove assume che l’imputato, per la sua posizione, non rientrerebbe tra i soggetti punibili con la sanzione penale per l’abbandono di rifiuti.
La questione è stata recentemente affrontata da questa Corte (Sez. 3, n. 20237 del 16/3/2017, Sorge, Rv. 269928) con argomenti che pare opportuno riproporre.
Si era in quell’occasione ricordato che, come si è avuto già modo di precisare (Sez. 3, n. 38364 del 27/6/2013, Beltipo, Rv. 256387, cui si rinvia anche per i richiami ai precedenti) il reato di cui all'art. 256, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006 è configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell'ambito di una attività economica esercitata anche di fatto, indipendentemente da una qualificazione formale sua o dell'attività medesima, così dovendosi intendere il «titolare di impresa o responsabile di ente» menzionato dalla norma.
Nella richiamata pronuncia si osservava come l'art. 256, comma 2 d.lgs. 152\06 stabilisca che le pene individuate dal primo comma per le ipotesi di illecita gestione sono applicabili anche ai titolari di imprese ed ai responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti, ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee in violazione del divieto di cui all'articolo 192, commi 1 e 2. Se, dunque, l'abbandono viene effettuato da tali soggetti, si configura una violazione penale, mentre se l'autore dell'abbandono non possiede tale qualità, la sanzione è quella amministrativa.
Si ricordava che la ratio del diverso trattamento riservato alla medesima condotta, distinguendo l'autore della violazione, è evidentemente fondata su una presunzione di minore incidenza sull'ambiente dell'abbandono posto in essere da soggetti che non svolgono attività imprenditoriale o di gestione di enti e che di tale assunto aveva già dato atto questa Corte, con riferimento alla previgente disciplina, osservando che la norma è finalizzata ad «impedire ogni rischio di inquinamento derivante da attività idonee a produrre rifiuti con una certa continuità, escluse perciò solo quelle del privato, che si limiti a smaltire i propri rifiuti al di fuori di qualsiasi intento economico».
Quanto alla individuazione dei soggetti qualificati indicati dalla norma in esame, la sentenza richiamava le precedenti pronunce, nelle quali si era chiarito che essi non sono esclusivamente coloro che effettuano attività tipiche di gestione di rifiuti (raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti), essendo la norma rivolta ad ogni impresa, avente le caratteristiche di cui all'art. 2082 cod. civ. o ente, con personalità giuridica o operante di fatto. Tale affermazione traeva origine dal confronto tra il testo originario dell'art. 51 d.lgs. 22\97, allora vigente e quello antecedente alla modifica introdotta dalla legge 426\1998, osservando che laddove erano originariamente indicate imprese ed enti «che effettuano attività di gestione dei rifiuti», dopo l'intervento del legislatore tale espressione era stata soppressa, così ampliando l'ambito di operatività della norma.
Si ricordava pure che tale caratteristica della fattispecie aveva indotto anche a ritenere che il reato in esame possa essere commesso dai titolari di impresa o responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato non solo i rifiuti di propria produzione, ma anche quelli di diversa provenienza e ciò in quanto il collegamento tra le fattispecie previste dal primo e dal secondo comma dell'articolo 256 riguarda il solo trattamento sanzionatorio e non anche la parte precettiva, escludendosi, altresì, che, nella individuazione del titolare d'impresa o del responsabile dell'ente, debba farsi riferimento alla formale investitura, assumendo rilievo, invece, la funzione in concreto svolta.
A tale ultimo proposito venivano richiamate alcune pronunce riguardanti l’attività di tiro a piattello, nelle quali la responsabilità dell’abbandono era stata riconosciuta in capo al rappresentante dell’associazione di tiro a volo (Sez. 3, n. 4733 del 19/12/2007 (dep.2008), Falco, Rv. 23879801; Sez. 3 n. 12448 del 11/2/2010, Onofri, non massimata. V. anche Sez. 3 n. 19472 del 7/3/2013, Lucani, non massimata).
Fatte tali premesse, la sentenza Sorge riteneva tali conclusioni, anche alla luce della generale disciplina in precedenza richiamata, pienamente condivisibili, atteso che  il riferimento, operato dall’art. 256, comma 2 d.lgs. 152\06 oltre che ai “titolari di impresa”, come in precedenza individuati, anche ai “responsabili di enti”, comprende necessariamente, in considerazione della genericità dell’indicazione, chiaramente finalizzata, come nel caso delle imprese, alla massima estensione dell’ambito di operatività della norma, ogni ente giuridico, ivi compresi anche quelli associativi con finalità non lucrative, quali, appunto, le associazioni, la cui caratteristica di organizzazione stabile di più persone per lo svolgimento di un’attività comune consente di superare quella presunzione di minore incidenza sull'ambiente dell'abbandono di rifiuti di cui si è detto e sulla quale si fonda il diverso trattamento riservato dalla legge al singolo soggetto privato.
Si perveniva pertanto all’affermazione del principio, che va qui ribadito, secondo il quale nella nozione di enti cui fa riferimento l’art. 256, comma 2 d.lgs. 152\06 rientrano anche le associazioni ed integra il reato sanzionato da tale disposizione l’abbandono, da parte del rappresentante di un’associazione sportiva dilettantistica di tiro al volo dei rifiuti derivanti da tale attività.
Le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale relativamente al contestato abbandono risultano, pertanto, giuridicamente corrette.

6. Resta da osservare che tali considerazioni valgono esclusivamente per la condotta di abbandono, mentre per ciò che attiene all’illecita gestione, pure contestata per lo smaltimento mediante combustione, ciò che rileva è la mera mancanza di titolo abilitativo, atteso che, riguardo al reato di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 152\06, si è chiarito come la condotta in esso sanzionata sia riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa, che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità (Sez. 3, n. 29992 del 24/6/2014, P.M. in proc. Lazzaro, Rv. 260266).  

7. Anche il secondo e terzo motivo di impugnazione sono inammissibili perché articolati in fatto e con  richiami ad atti del processo l’accesso ai quali è precluso al giudice di legittimità.
Va soltanto specificato che la considerazione, svolta del Tribunale circa l’irrilevanza della effettiva destinazione del terreno, oggetto di censura, appare immune da censure, essendo indifferenti le specifiche caratteristiche del luogo ove vengono poste in essere l’abbandono o l’illecita gestione ai fini della configurabilità dei reati sanzionati rispettivamente, dal primo e dal secondo comma dell’art. 256 d.lgs. 152/06.

8. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità  consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in data 21/3/2019