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Cass. Sez. III n. 13243 del 13 aprile 2006
Pres. Vitalone Est. Grassi Ric. Giulino ed altri
Rifiuti. Attività di distilleria
E' esclusa la natura di sottoprodotto e deve qualificarsi come rifiuto il materiale residuato dall'attività di distilleria.
Le esalazioni provenienti da tali attività sono idonee a configurare la violazione dell'articolo 674 c.p.


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Svolgimento del processo

Nel corso del procedimento penale a carico di Maria Giovanna Gulino ed Antonina Bertolino, indagate in ordine ai reati previsti dagli artt. 51 D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, 24, 25 co. 2 e 26 D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203 e 674 c.p., per avere, nell’ambito della distilleria Bertolino sita in Partinico e senza le necessarie autorizzazioni, effettuato operazioni di recupero e riutilizzo di rifiuti, attivato un impianto di gestione anaerobica qualificabile come industria insalubre di prima classe per i vapori nocivi e le polveri che emetteva, utilizzato le caldaie “Marchesi” e “Girola” sebbene prive di rilevatore di emissioni di continuo, provocato emissioni di gas, fumi ed odori idonee ad offendere e molestare le persone in luoghi di pubblico transito e costituito una discarica di rifiuti speciali non pericolosi, effettuando la messa in riserva della vinaccia esausta per quantitativi superiori a quello di me. 600, consentito ed accumulato fanghi esausti provenienti dal biogas e parte di quelli prodotti dall’impianto di depurazione delle acque reflue, in deposito temporaneo, per un quantitativo superiore a me. 20, come accertato il l5 novembre 2002, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo disponeva, con decreto del 18 marzo 2005, il sequestro preventivo dell’impianto di digestione anaerobica, di quelli ad esso connessi, delle vasche di accumulo e dei piazzali utilizzati per lo stoccaggio delle vinacce esauste e degli altri materiali prodotti dalla lavorazione nello stabilimento.

Con atti del 21 aprile 2005 e del 28 luglio 2005 le indagate chiedevano il dissequestro dei beni sopra indicati o, in subordine, del solo impianto di produzione ed utilizzazione del biogas, sostenendo la non riconducibilità alla nozione di rifiuto dei materiali residuati dalle lavorazioni della distilleria; il possesso delle autorizzazioni amministrative necessarie per l’esercizio dell’attività di recupero dei rifiuti, nonché per la costruzione e l’esercizio di impianti idonei a dar luogo ad emissioni in atmosfera e, dunque, l’inesistenza del “fumus” dei reati oggetto d’investigazione, compreso quello di cui all’art. 674 c.p., in ordine al quale deducevano l’assenza di colpa, per errore scusabile determinato dal rilascio del provvedimento autorizzativo.

Il G.I.P. sopra indicato rigettava le dette istanze con ordinanze del 23 maggio 2005 e 6 agosto 2005, ritenendo ancora sussistenti sia il “fumus” degli illeciti penali di che trattasi, sia i pericoli di aggravamento delle relative conseguenze e di commissione di altri reati.

Contro tali ordinanze la Gulino e la Bertolino proponevano appelli, rigettati dal Tribunale di Palermo con ordinanze in data 23 giugno 2005 e 9 novembre 2005, nelle quali si ribadisce l’esistenza del “fumus” dei reati oggetto d’indagine e delle esigenze cautelari poste a sostegno della misura cautelare reale della quale si discute.

Avverso le menzionate ordinanze del Giudice dell’appello la Gulino e la Bertolino hanno proposto ricorsi per Cassazione onde chiederne l’annullamento per violazione di legge.

 

Motivi della decisione

I ricorsi sono destituiti di fondamento e, come tali, debbono essere rigettati, con conseguente condanna delle ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.

Va anzitutto ribadito che, in tema di sequestro preventivo, la verifica sulle condizioni di legittimità della misura cautelare da parte del Tribunale del riesame, o dell’appello di questa Corte non può tradursi in una anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità dell’indagato o imputato in ordine al reato, o ai reati, oggetto di contestazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità fra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata, mediante una valutazione prioritaria ed attenta dell’antigiuridicità penale del fatto (v. conf. Cass. Sez. Un. Pen. 7 novembre 1992, Midolini; sez. III pen., 18 febbraio 1994, Pernici; l2 aprile 1999, Porru; 16 maggio 2000, Pirrotta e 2 maggio 2001, Berengo).

Per questo le condizioni generali per l’applicabilità delle misure cautelari personali, indicate nell’art. 273 c.p.p., non sono estensibili, per la loro peculiarità, alle misure cautelari reali e da ciò deriva che, ai fini della doverosa verifica della legittimità del provvedimento con il quale sia stato ordinato o mantenuto il sequestro preventivo di un bene pertinente ad uno o più reati, è preclusa ogni valutazione sulla sussistenza degli indizi di colpevolezza, sulla gravità di essi e sulla colpevolezza dell’indagato o dell’imputato (v. conf. Cass. Sez. Un. Pen. 23 aprile 1993, Gifuni; sez. III pen., 14 ottobre 1994, Petriccione, 14 aprile 1998, Silverio e 9 novembre 2004, Sambuco).

Ciò perché, altrimenti, si finirebbe con l’utilizzare surrettiziamente la procedura incidentale di riesame o di appello, per una preventiva verifica del fondamento dell’accusa, con evidente usurpazione dei poteri riservati al Giudice del procedimento principale (v. conf. Cass. sez. VI pen., 4 febbraio 1993, Francesconi; sez. III pen., 16 gennaio 2005, Giacalone; 3 ottobre 2000, Caruso; 1 ottobre 1999, Borretti; 14 aprile 1998, Silverio e 16 gennaio 1996, Lopez).

Inoltre, a norma dell’art. 325 co. 1 c.p.p., il ricorso per Cassazione avverso ordinanze emesse in sede di riesame o di appello di misure cautelari reali può essere proposto solo per violazione di legge, vizio nel quale rientra la motivazione meramente apparente o graficamente carente del provvedimento impugnato, non anche quella inadeguata o asseritamente illogica.

A mente dell’art 321 c.p.p., quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa di questo aggravare o protrarre le conseguenze, o agevolare la commissione di altri reati, di essa può essere disposto e/o mantenuto il sequestro preventivo.

Ai fini, dunque, della legittimità della misura cautelare reale di che trattasi occorre solo verificare che nei fitti, così come rappresentati dal P.M., siano ravvisabili il reato o i reati oggetto di indagine, a nulla rilevando - in questa sede - che il soggetto o i soggetti indagati ne siano o possano esserne ritenuti responsabili penalmente.

Ciò premesso, la Corte rileva che la motivazione dell’ordinanza impugnata non è meramente apparente, in quanto essa si è fatta carico di evidenziare gli esiti delle indagini preliminari fino a quel momento esperite, di descrivere - in punto di fatto e sulla scorta della consulenza tecnica del P.M. - il processo produttivo della distilleria, di individuare la nozione, ritenuta giuridicamente corretta, di “rifiuto” e di analizzare le diverse fasi del riutilizzo di sostanze residuate dall’attività produttiva.

La definizione giuridica di “rifiuto”, fatta propria dal Tribunale, appare giuridicamente corretta.

A mente dell’art. 6 co. I lett. a) D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, infatti, costituisce rifiuto “ogni sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato “A” e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.

L’art. 14 D.L. 138/02, conv. con mod. in L. 8 agosto 2002, n. 178, dopo avere interpretato autenticamente - al co. I lett. a), b) e c) - i concetti di “disfarsi”, “avere deciso di disfarsi” ed “avere l’obbligo di disfarsi”, al co. 2 ha stabilito che non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma precedente per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo, ove sussista una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza arrecare pregiudizio all’ambiente; b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo avere subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero fra quelle individuate nell’allegato c) del D.Lgs. 22/97.

Alla luce di tale normativa, per escludere una sostanza, un bene o un materiale, dalla nozione giuridica di rifiuto, occorre che il loro riutilizzo sia non solo possibile, ma certo ed avvenga senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero, di quelle previste nell’allegato c) del D.Lgs. 22/97 (v. conf. Cass. sez. III pen., 25 giugno 2003, n. 37508 e 6 giugno 2003, n. 32235).

Deve, quindi, ritenersi che l’art. 14 sopra citato ha introdotto una deroga alla nozione generale di rifiuto nei casi in cui il detentore destini la sostanza alla riutilizzazione nello stesso o in altro ciclo produttivo, a meno che tale destinazione comporti un trattamento preventivo non compatibile con la tutela ambientale, ovvero un trattamento di recupero del tipo di quelli disciplinati dal D.Lgs. 22/97, perché in tali casi la sostanza costituisce rifiuto (v. conf. Cass. sez. III pen., 13 novembre 2002, Passerotti).

La norma di cui all’art. 14 D.L. 138/02, conv. con mod. in L. 8 agosto 2002, n. 178, benché modificativa della nozione di rifiuto dettata dall’art. I della direttiva comunitaria 91/156, è da ritenersi vincolante e deve essere applicata dal Giudice italiano, sia perché detta direttiva non è auto-applicativa [self-executing], sia perché essa è stata recepita con atto avente dignità ed efficacia legislativa pari a quelle della norma precedente (v. conf Cass. sez. III pen, 13 novembre 2002, Passerotti).

Nella fattispecie in esame, il Giudice dell’appello ha accertato e ritenuto, con motivazione adeguata e logica, che le sostanze immesse nel digestore, frutto della lavorazione delle vinacce, delle fecce e del vino, costituendo rifiuti speciali non pericolosi, essenziali al processo di digestione anaerobica attraverso il quale si produceva il biogas utilizzato nella caldaia, erano chiaramente destinate, ma solo in parte, al recupero nello stesso ciclo produttivo e subivano - all’uopo - una trasformazione preliminare; più specificamente, che il ciclo di digestione produceva un quantitativo di combustibile solo in parte destinato alla caldaia Marchesi, mentre il resto veniva passato “in torcia”, dal che doveva dedursi che non veniva integralmente reimpiegato e che della parte non destinata alla caldaia la distilleria doveva disfarsi.

Nell’ordinanza impugnata si evidenzia, altresì, come il solo fatto che le borlande, i fanghi e le altre sostanze inviate al ciclo di digestione subissero il processo di digestione anaerobica per dar vita al biogas, dimostrava, in maniera evidente, che le sostanze originarie, integranti residui di produzione, pur oggettivamente riutilizzate, in parte, nel medesimo ciclo di produzione, non potevano essere comprese nella esclusione di cui al co. 2 lett. a) D.Lgs. 22/97, essendo a monte sottoposte a trattamento preliminare nell’impianto di digestione il quale rendeva possibile la realizzazione sia del biogas, che di altri reflui, a loro volta frutto del processo anaerobico, quali fanghi attivi a doppio stadio “SBR”, con ulteriore processo fisico-chimico di flocculazione e rimozione del fango tramite flottazione ad aria pressurizzata per rimuovere i solidi sospesi e le sostanze colloidali.

Si afferma, ancora, che i liquami o i fanghi residui, esausti dalla lavorazione, sottoposti a processo di digestione anaerobica per produrre gas combustibile da utilizzare come fonte energetica nel processo produttivo che li aveva originati, debbono essere qualificati come rifiuti, in quanto conseguenza ineluttabile del processo produttivo e perché venivano assoggettati ad operazioni di trasformazione preliminare attraverso il processo di digestione anaerobica, modalità concreta di trattamento del rifiuto.

Il Tribunale ha legittimamente escluso che - allo stato - le sostanze ed i prodotti utilizzati dalla distilleria nel ciclo di produzione, con particolare riferimento alle vinacce esauste ed al biogas, possano essere qualificati come “sottoprodotti”, nel senso specificato nelle sentenze della Corte di Giustizia Europea [cause C-457/02, Niselli, dell’ 11 novembre 2004; C-422/92, Zanetti, del 10 maggio 1995; C304/94, Tombesi, del 25 maggio 1997 e C-9/00, Palin Granit Oy, del 18 aprile 2002] perché, per distinguerli dai rifiuti, è necessario che il loro riutilizzo sia certo ed avvenga nel medesimo processo produttivo, senza trasformazioni preliminari, cioè senza modificazioni del loro carattere chimico o merceologico, condizioni escluse o non ancora compiutamente accertate in sede di indagini preliminari.

Al riguardo è significativo - e non va tralasciato - che, a mente del punto 15 del D.M. 5 febbraio 1998, che individua i rifiuti non pericolosi sottoponibili a procedure semplificate di recupero, il biogas è espressamente qualificato come la risultante di un processo di digestione anaerobica di rifiuti speciali non pericolosi, quelli indicati con i codici CER 020702 e 020705 “previo trattamento di separazione dei materiali indesiderabili; le fasi di ricevimento, stoccaggio, selezione della frazione organica e produzione del biogas debbono avvenire in ambiente chiuso; i punti di emissione in atmosfera devono essere dotati di sistemi per minimizzare gli odori, che utilizzino le migliori tecnologie disponibili e di idonei impianti per l’abbattimento degli altri inquinanti fino ai limiti di emissione del D.P.R. 203 del 1998; il biogas derivato deve essere trattato per l’abbattimento del contenuto di particolato, HCI, H2S, NH3... ed il suo utilizzo è comunque soggetto alle procedure di cui agli artt. 31 e 33 D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (sui rifiuti) e successive modifiche ed integrazioni”.

La mancanza di valide autorizzazioni amministrative alla distilleria Bertolino per la gestione, il recupero ed il riutilizzo dei rifiuti, l’esercizio dell’impianto di digestione anaerobica e la costituzione e gestione della discarica di rifiuti costituiti dai fanghi esausti provenienti dal biogas, dalla depurazione delle acque reflue e dalla vinaccia, è stata ritenuta, dai Giudici di merito, con motivazione adeguata, fondata sui risultati delle indagini allo stato esperite.

Essa non può essere valutata da questa Corte, trattandosi di accertamento che presuppone l’esame e la valutazione di atti e documenti inesistenti, agli atti trasmessi.

L’impossibilità di adire procedure semplificate per l’ottenimento delle necessarie autorizzazioni appare ritenuta correttamente perché, a norma dell’art. 33 co. 7 D.Lgs. 22/97, esse possono sostituire l’autorizzazione prevista dall’art. 15 lett. a) D.P.R. 203/88 “limitatamente alle variazioni qualitative e quantitative delle emissioni determinate dai rifiuti individuati dalle norme tecniche di cui al comma 1, che già fissano i limiti di emissione in relazione alle attività di recupero degli stessi”; l’impianto di digestione anaerobica, volto a realizzare l’operazione di recupero “R3”, di cui all’allagato “C” del D.Lgs. 22/97 (riciclo recupero sostanze organiche non utilizzate come solventi, comprese le operazioni di compostaggio e le altre trasformazioni biologiche), abbisognava di specifica autorizzazione regionale preventiva, dal momento che comportava il trattamento di sostanze qualificabili come rifiuti e la produzione di una sostanza, il biogas, che avrebbe dovuto essere sottoposta a particolari verifiche in punto di emissioni in atmosfera; per la combustione delle buccette derivanti dalla vinaccia nessuna autorizzazione in forma semplificata poteva essere rilasciata, essendo questa applicabile solo alle operazioni di recupero specificate nel D.M. 5 febbraio 1988 ed ai rifiuti individuati dai rispettivi codici, descritti negli allegati, i quali non prevedono alcuna forma di recupero mediante combustione, ma solo quella realizzata attraverso la produzione del “tartrato”; infine, le operazioni di produzione del biogas, per essere sottoposte al regime semplificato, avrebbero dovuto rispettare le prescrizioni di cui al D.P.R. 203/88.

Anche il reato di cui all’art. 674 c.p. appare ipotizzato legittimamente.

Infatti, nel concetto di “gettare” o “versare”, che punisce il getto pericoloso di cose, deve ritenersi rientrare l’azione di diffusione di polveri nell’atmosfera (v. conf. Cass. sez. III pen., 28 settembre 2005, Riva, 23 ottobre 2002, Lo Russo; sez. I pen., 9 gennaio 1995, Tinarelli e 22 settembre 1993, Pasini).

La fattispecie tipica del reato in questione configura un’ipotesi di reato di pericolo, rappresentato dall’idoneità potenziale della cosa versata a molestare o imbrattare le persone in modo, anche se minimo, percettibile ed ai fini della configurabilità di essa non è richiesto alcun effettivo nocumento alle persone, in dipendenza della condotta contestata, essendo appunto sufficiente l’attitudine di questa a cagionare effetti dannosi, attitudine che non deve essere necessariamente accertata mediante perizia, ben potendo il Giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di natura diversa, quali le dichiarazioni testimoniali di coloro che si siano dimostrati in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti, oggettivamente percepiti, delle immissioni (v. conf: Cass. sez. III pen., 26 gennaio 1998, Terrile e 30 novembre 1998, Labita; sez. I pen., 4 dicembre 1997, Tilli).

Or poiché, come detto, la contravvenzione in parola concretizza una situazione di pericolo per l’incolumità delle persone, offesa dalla condotta descritta nella relativa disposizione di legge, per la sussistenza dell’elemento materiale del reato è sufficiente che tale condotta sia idonea a mettere in pericolo l’interesse protetto (v. conf: Cass. sez. I pen., 4 giugno 1996, Fragni e sez. III pen. 28 settembre 2005, Riva e 19 aprile 1995, Catarci).

Inoltre, la condotta costitutiva dell’illecito di che trattasi deve ritenersi integrata a prescindere dal superamento di valori limite delle immissioni, stabiliti dalla legge, essendo sufficiente che essa abbia cagionato disturbo, offesa o molestia alle persone (v. conf: Cass., sez. III pen., 28 settembre 2005, Riva e sez. I pen., 31 gennaio 2002, Fantasia).

Ciò perché il reato, mirando a tutelare la salute e l’incolumità fisica dei soggetti colpiti, prescinde dall’osservanza, o meno, di “standards” fissati per la prevenzione dell’inquinamento, affidata a norme che non legittimano emissioni o immissioni inferiori ai limiti tabellari, sicché anche un’attività produttiva di carattere industriale, autorizzata, può dar luogo al reato in questione qualora da essa siano derivate molestie alle persone per la mancata attuazione di accorgimenti tecnici possibili o per inosservanza di prescrizioni dell’Autorità amministrativa (v. conf. Cass. sez. III pen., 7 aprile 1994, Gastaldi).

Il limite della “normale tollerabilità”, valicato il quale le immissioni e/o emissioni diventano moleste, con conseguente pericolo per la salute pubblica la cui tutela costituisce la “ratio” della norma incriminatrice, è quello indicato nell’art. 844 c.c. (v. conf: Cass. sez. I pen. 4 dicembre 1997, Tilli).

Il reato di che trattasi, pur essendo di natura commissiva, può rientrare nella categoria di quelli commissivi mediante omissione ed alle indagate è stato contestato come posto in essere con condotta commissiva, “avere provocato” emissioni di gas, fumi ed odori, anche omettendo di approntare sistemi di convogliamento delle emissioni diffuse prodotte dai bacini asserviti allo impianto digestore e dai depositi, a cielo aperto, di vinacce.

Il Tribunale ha ritenuto che - allo stato - vi fossero elementi sufficienti per considerare esistente il “fumus” del reato in questione, in considerazione del fatto che la vinaccia stuccata abusivamente all’interno della distilleria sprigionava esalazioni maleodoranti le quali, all’analisi gas-cromatografica-spettrometrica, avevano denunziato la presenza di alcol etilico, etilacetato, aldeidi, chetoni ed acidi a catena corta, avvertiti dalla popolazione, la quale aveva presentato numerosi esposti ed accusato spesso senso di vomito, mal di testa, irritazione agli occhi ed alla gola e problemi di respirazione.

L’indagine sull’esistenza, o meno, nelle indagate, dell’elemento psicologico del reato in questione è preclusa - come detto - in questa fase incidentale.

Allo stato delle indagini preliminari legittimamente si è escluso che il D.Lgs. 11 maggio 2005, n. 133, emesso in attuazione della Direttiva 2000/761C.E. in materia dì incenerimento dei rifiuti e che non ha abrogato le norme sull’inquinamento atmosferico, né quelle in materia di rifiuti, sia applicabile alla fattispecie in esame, in quanto – anzitutto – esso fa riferimento agli impianti di coincenerimento, fissi o mobili, esistenti alla data del 28 dicembre 2004, la cui funzione principale consistesse nella produzione di energia e di materiali, che utilizzavano rifiuti come combustibile normale o accessorio e che avessero presentato la richiesta di autorizzazione all’esercizio dell’attività entro il 28 dicembre 2002, cosa che la distilleria - secondo quanto accertato dai Giudici di merito - non risultava avesse fatto ed, inoltre, la detta applicabilità è subordinata al definitivo accertamento dei fatti, ancora “in itinere”, con particolare riferimento alla circostanza se a provocare immissioni in atmosfera fosse un impianto destinato a trattare solo rifiuti vegetali derivanti da industria alimentare e se tutta l’energia termica generata venisse recuperata.

L’esigenza cautelare, mirante a prevenire il pericolo di reiterazione di fatti della stessa specie di quelli per i quali si procede, è stata legittimamente ravvisata avendo, i Giudici di merito, ritenuto logicamente che i beni in sequestro, segnatamente l’impianto di digestione anaerobica del quale si discute, se lasciati nella libera disponibilità delle indagate, avrebbero determinato la ripresa dell’attività produttiva, con conseguente aggravamento delle conseguenze dei reati e commissione di altri, analoghi illeciti penali.