Cass. Sez. III n. 15450 del 13 aprile 2023 (UP 16 mar 2023)
Pres. Ramacci Est. Liberati Ric. Curcio ed altro
Rifiuti.Deposito temporaneo ed onere della prova

L’onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate dall’art. 183, d.lgs. n. 152 del 2006, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina ordinaria

RITENUTO IN FATTO

1.    Con sentenza del 5 novembre 2021 il Tribunale di Lagonegro ha dichiarato Vincenzo Curcio e Anna Viglietta responsabili del reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 256, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006 (loro ascritto perché, in concorso e nella qualità di proprietari e titolari del permesso di costruire n. 1 del 2017, depositavano, in maniera incontrollata e in assenza di autorizzazione, rifiuti speciali non pericolosi, consistiti in 300 metri cubi di terre e rocce da scavo, provenienti dai lavori realizzati in forza del suddetto permesso di costruire sul terreno sito in Sanza alla località Fontana Vecchia – distinto in catasto al foglio n. 30 part. 1140 - di proprietà dei medesimi titolari del titolo edilizio; in Sanza, il 23 agosto 2018), e li ha condannati alla pena di 3.000,00 euro di ammenda ciascuno.

2.    Avverso tale sentenza gli imputati hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo hanno denunciato la violazione di disposizioni di legge penale con riferimento all’art. 183, comma 1, lett. bb), del d.lgs. n. 152 del 2006 - che reca la definizione generale di “deposito temporaneo prima della raccolta” - e degli artt. 21 e 23 del d.P.R. n. 120 del 2017 - contenenti la disciplina del deposito temporaneo con riferimento specifico alle terre e rocce da scavo qualificate come rifiuti -; hanno, inoltre, denunciato la erronea valutazione delle prove, la errata qualificazione dei fatti e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Il Tribunale di Lagonegro, fondando il proprio convincimento sulla scorta della documentazione acquisita nel corso delle indagini preliminari senza tenere in adeguata considerazione le testimonianze rese nel corso del dibattimento dal teste Francesco Curcio, ha ritenuto provata la realizzazione da parte degli imputati della condotta loro contestata, incorrendo in una grave violazione delle disposizioni di legge sopra richiamate, come pure in un vizio della motivazione in ordine alle ragioni poste alla base della pronuncia di condanna.
Il Tribunale, in particolare, avrebbe errato nel ritenere che il termine di un anno – richiamato dalla difesa quale periodo di tempo massimo prescritto dalla legge perché il deposito di rifiuti possa ritenersi temporaneo ed essere dunque effettuato lecitamente in assenza di autorizzazione alcuna – dovesse decorrere dalla data di comunicazione di inizio lavori (1° luglio 2017), poiché, in realtà, ai sensi dell’art. 21 del d.P.R. n. 120 del 2017, tale termine decorre dalla data di produzione delle terre e rocce da scavo, produzione che aveva avuto inizio, secondo quanto dichiarato in sede dibattimentale dal suddetto teste Curcio, direttore dei lavori, a partire da fine settembre 2017. Conseguentemente, alla data del 13 settembre 2018 – cui risale la comunicazione di fine lavori con riferimento alla procedura di smaltimento del materiale da scavo non riutilizzato - non poteva ritenersi compiutamente decorso il suddetto termine massimo di un anno. Pertanto, se il Tribunale avesse fatto propria tale più corretta ricostruzione cronologica dei fatti, non avrebbe potuto fare a meno di ritenere non integrati gli estremi del reato contestato agli imputati.
Il Tribunale avrebbe errato anche nel ritenere che gli imputati fossero consapevoli della qualità di “rifiuto” del materiale escavato sin dal momento della produzione dello stesso, facendo discendere tale valutazione dalla circostanza di fatto relativa alla rilevante quantità di terre e rocce da scavo residuata e non immediatamente utilizzata. L’errore risulterebbe evidente se si osserva, da un lato, che il materiale suddetto, al momento della sua produzione, aveva tutti i requisiti per essere qualificato quale “sottoprodotto” ai sensi dell’art. 4, comma 2, d.P.R. n. 120 del 2017, risultando in esubero solo al momento della sua riutilizzazione e, dall’altro, che la rilevante quantità era da ricondurre alla necessità di riempire uno spazio maggiore rispetto a quello interessato dallo scavo.
2.2. Con il secondo motivo hanno lamentato la erronea applicazione, l’inosservanza e la violazione dell’art. 533 cod. proc. pen., perché il Tribunale, ponendo a fondamento della propria decisione elementi di fatto del tutto errati, avrebbe pronunciato sentenza di condanna nei confronti degli imputati nonostante, alla luce di una valutazione corretta delle risultanze processuali, non potesse ritenersi provata al di là di ogni ragionevole dubbio la loro responsabilità penale.
2.3. Infine, con il terzo motivo, hanno denunciato la violazione di disposizioni di legge penale anche con riferimento agli artt. 132 e 133 cod. pen. e un vizio di motivazione anche in relazione alla misura della pena (pari a tremila euro di ammenda). Quest’ultima sarebbe ingiusta, immotivata, eccessiva e sproporzionata alla luce, in primo luogo, della circostanza che chiare risultanze processuali si ponevano in senso contrario alla affermazione di penale responsabilità dei coniugi Curcio e Viglietta e, in secondo luogo, della mancata indicazione dei criteri, di cui all’art. 133 cod. pen., che avevano indotto il Tribunale a discostarsi dal minimo edittale previsto dalla legge per la fattispecie di reato che viene in rilievo nel caso di specie.

3.    Il Procuratore Generale ha concluso nelle sue richieste scritte per l’inammissibilità del ricorso, evidenziando, quanto al giudizio di responsabilità, che non sarebbe stato assolto dagli imputati l’onere della prova in ordine alla liceità del deposito temporaneo da loro realizzato. Quanto al trattamento sanzionatorio, la manifesta infondatezza del motivo di ricorso discenderebbe dalla circostanza che non possono essere sindacate in sede di legittimità le determinazioni del giudice di merito sul punto.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1.    Il ricorso è, complessivamente, infondato.

2.    Si deve innanzitutto osservare che, denunciando la violazione di legge penale e il vizio di motivazione della sentenza impugnata, i ricorrenti hanno, in realtà, contestato la ricostruzione dei fatti compiuta dal Tribunale, proponendo una rilettura degli elementi probatori a disposizione del giudice e da quest’ultimo adeguatamente vagliati al fine di approdare a una decisione di condanna sorretta da motivazione non manifestamente illogica.
Il Tribunale di Lagonegro, dopo aver affermato che il materiale rinvenuto dovesse essere qualificato come rifiuto, ossia cose di cui i proprietari intendevano disfarsi, ha ritenuto integrati gli estremi del reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, avendo i coniugi Curcio e Viglietta - committenti dell’intervento edilizio da cui provenivano le terre e rocce da scavo oggetto del deposito - dato disposizione per la raccolta su terreno di loro proprietà del suddetto materiale, senza la prescritta autorizzazione, dalla data della produzione del materiale da scavo (luglio 2017) a quella del suo completo smaltimento (12 settembre 2018), nonostante potesse ragionevolmente presumersi, data la rilevante quantità di prodotto, che le terre e rocce da scavo oggetto di deposito non potessero essere interamente riutilizzate. A fronte di una ricostruzione dei fatti che si fonda su una approfondita disamina delle risultanze processuali, i ricorrenti – con il primo motivo di ricorso – propongono una rivisitazione dell’impianto argomentativo posto alla base della decisione del Tribunale e, richiamando le dichiarazioni rese in sede di deposizioni testimoniali, prospettano una ricostruzione cronologica dei fatti alternativa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, ricostruzione alternativa che trova chiara smentita negli atti acquisiti al fascicolo del dibattimento e richiamati dal Tribunale. La dichiarazione con cui il teste Curcio ha affermato che le operazioni di scavo erano iniziate a fine settembre 2017 si pone infatti in aperto contrasto con la circostanza, attestata documentalmente, che già alla data del 1° luglio 2017 le suddette operazioni avevano avuto inizio. Sul punto, il verbale di inizio lavori, datato 1° luglio 2017 e a firma dello stesso Curcio, fa riferimento all’avvenuto inizio dei lavori riguardanti proprio le “operazioni di scavo e livellamento del piano di posa”. Inoltre, alla data del 1° luglio 2017 risale anche la dichiarazione sostitutiva con cui l’impresa costruttrice ha riportato l’esatto ammontare di materiale da scavo non immediatamente utilizzabile e l’indicazione del sito di deposito del materiale medesimo. È evidente, pertanto, il contrasto tra quanto affermato dal Curcio - e riportato in sede di ricorso - e quanto specificamente descritto nei documenti che il Tribunale ha esaminato e su cui ha fondato la ricostruzione cronologica dei fatti. Peraltro, nel tentativo di ricondurre la durata del deposito delle terre e rocce da scavo entro il termine massimo di un anno, la difesa mostra di non confrontarsi con il condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui il deposito temporaneo, in tema di gestione illecita di rifiuti e nell’ipotesi in cui gli stessi superino – come nel caso di specie – il volume di 30 metri cubi, ricorre solo nel caso in cui il raggruppamento dei rifiuti e il loro deposito preliminare alla raccolta, ai fini dello smaltimento, non abbia avuto durata superiore a tre mesi (Sez. 3, n. 50129 del 28/06/2018, D., Rv. 273965; Sez. 3, n. 38046 del 27/06/2013, Speranza, Rv. 256434). Poiché il quantitativo di terre e rocce da scavo prodotto e depositato nel caso di specie è stato pari a 300 metri cubi, il superamento del suddetto termine di tre mesi non può che condurre a escludere con certezza che ricorra la figura del deposito temporaneo. Peraltro, in base a un consolidato orientamento di legittimità, il deposito, per poter essere considerato “temporaneo”, deve essere necessariamente realizzato presso il luogo di produzione dei rifiuti o in altro luogo, al primo funzionalmente collegato, nella disponibilità del produttore (Sez. 3, n. 50129 del 28/06/2018, D., Rv. 273965, cit.; Sez. 3, n. 20410 del 08/02/2018, Boccaccio, Rv. 273221; Sez. 3, n. 33866 del 08/06/2007, Balloi, Rv. 237217). Nel caso in esame, il deposito è avvenuto su terreno di proprietà degli imputati, il quale non appare funzionalmente collegato al luogo di produzione delle terre e rocce da scavo. Pertanto, poiché il deposito di 300 mc di terre e rocce da scavo si è protratto per un periodo superiore al trimestre, ed è avvenuto in luogo diverso da quello di produzione (ed a questo non funzionalmente collegato), non può trovare applicazione nel caso di specie la disciplina legislativa in tema di deposito temporaneo, con la conseguenza che deve considerarsi illecito il suddetto deposito perché avvenuto in assenza di autorizzazione.
Quanto alla qualità di rifiuto del materiale rinvenuto, il Tribunale motiva adeguatamente, richiamando l’art. 185, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 152 del 2006 e ritenendo non possa affermarsi che, con riferimento al caso di specie, vi fosse la certezza che il materiale escavato nel corso dei lavori di cui al permesso di costruire n. 1 del 2017 sarebbe stato riutilizzato a fini di costruzione, allo stato naturale e nello stesso sito in cui era stato prodotto. Tale valutazione risulta supportata dalla circostanza concreta che il materiale sarebbe stato poi effettivamente trasportato e smaltito come rifiuto speciale non pericoloso presso il sito di smaltimento di Ascea Marina. A fronte di tali argomentazioni coerenti e non illogiche, non risulta dirimente la censura difensiva avente a oggetto la mancanza di originaria consapevolezza da parte degli imputati circa la qualità di rifiuto del materiale. Tale affermazione, oltre che generica - in quanto non supportata da elementi positivamente apprezzabili al fine di escludere l’elemento soggettivo del reato –, non tiene conto della circostanza che, ai sensi dell’art. 4, comma 2, d.P.R. n. 120 del 2017, perché le terre e rocce da scavo possano essere qualificate come sottoprodotti è necessario che il loro utilizzo avvenga sulla base di un “piano di utilizzo” (di cui all’art. 9, d.P.R. n. 120 del 2017) o di una “dichiarazione di utilizzo per cantieri di piccole dimensioni” (di cui all’art. 21 d.P.R. n. 120 del 2017), documenti non rinvenibili nel caso in esame. Peraltro, dalla lettura di nessuno dei documenti acquisiti al fascicolo risulta che la previsione originaria (al momento della produzione del materiale) fosse quella dell’integrale riutilizzo delle terre e rocce da scavo.
Pertanto, poiché il materiale depositato e non riutilizzato non può che essere qualificato come rifiuto, e poiché il deposito preliminare allo smaltimento del suddetto materiale si è protratto per un periodo di tempo superiore a tre mesi, il Tribunale – motivando adeguatamente sul punto - ha correttamente ritenuto che il deposito delle terre e rocce da scavo non riutilizzate fosse avvenuto in contrasto con la normativa di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 in tema di gestione dei rifiuti, essendo stato effettuato in assenza della autorizzazione prescritta dalla legge in materia.
Il motivo di ricorso con cui la difesa da un lato prospetta una ricostruzione alternativa dei fatti che si basa su risultanze processuali adeguatamente vagliate dal Tribunale, e dall’altro richiama genericamente la mancata consapevolezza da parte degli imputati in ordine alla qualità di rifiuto del materiale depositato, deve dunque essere rigettato perché non fondato alla luce delle ragioni sopra esposte.

3.    Il secondo motivo di ricorso, con cui i ricorrenti lamentano la violazione della norma processuale che, in caso di pronuncia di condanna, impone al giudice il superamento del canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, è manifestamente infondato. A fronte di una motivazione che riporta compiutamente le ragioni di fatto e di diritto poste alla base della dichiarazione di penale responsabilità degli imputati in relazione al reato loro contestato, la difesa prospetta una ricostruzione dei fatti alternativa a quella fatta propria dal Tribunale, non consentita in questa sede, peraltro con motivo di ricorso generico. Quanto a quest’ultimo aspetto, se da un lato la difesa afferma non esser state valutate risultanze processuali che, ove analizzate, avrebbero fornito una versione dei fatti del tutto diversa rispetto a quella risultante dalla decisione di primo grado, dall’altro non riporta quali elementi avrebbero dovuto condurre il Giudice di merito ad assolvere gli imputati per insufficienza della prova circa la loro penale responsabilità. E ciò, peraltro, in una materia, come quella della gestione di rifiuti, relativamente alla quale la giurisprudenza di legittimità afferma che l’onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate dall’art. 183, d.lgs. n. 152 del 2006, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina ordinaria (Sez. 3, n. 35494 del 10/05/2016, Di Stefano, Rv. 267636). Il secondo motivo di ricorso deve pertanto ritenersi inammissibile, alla luce della sua genericità e del suo contenuto non consentito, oltre che della sua manifesta infondatezza.

4.    Il terzo motivo di ricorso, con cui i ricorrenti denunciano il vizio di motivazione in ordine alla misura della pena loro inflitta, è manifestamente infondato. Il motivo pone alla base della ritenuta eccessività della sanzione la circostanza, affermata dalla difesa, che la ricostruzione dei fatti posta alla base della decisione del Giudice di primo grado sia erronea e che il Tribunale non abbia effettuato un compiuto accertamento del reale svolgimento dei fatti. Tale doglianza non è apprezzabile in questa sede, avendo il Giudice di primo grado proceduto a una attenta analisi dei dati probatori a sua disposizione, ed essendo giunto a una valutazione delle risultanze processuali non manifestamente illogica. Peraltro, poiché il Tribunale ha inflitto una sanzione che si discosta appena dal minimo edittale previsto dalla legge, deve ritenersi adeguata la motivazione che, visti i criteri di cui agli artt. 133 e 133 bis cod. pen., ha implicitamente richiamato le ragioni poste alla base del trattamento sanzionatorio riservato ai ricorrenti.

5.    Il ricorso è, dunque, nel complesso, infondato, a cagione della infondatezza del primo motivo e del contenuto non consentito, oltre che della evidente infondatezza, del secondo e del terzo motivo, e deve quindi essere rigettato con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
 Così deciso il 16/3/2023