Cass. Sez. III n. 35139 del 10 settembre 2009 (Ud. 18 giu 2009)
Pres. Onorato Est. Lombardi Ric. Toriello
Rifiuti. Deposito temporaneo

Perché possa configurarsi l’ipotesi del deposito temporaneo, lecito, di rifiuti devono essere rispettate tutte le condizioni richieste dall’art. 183, comma primo lett. m), del D. Lgs n. 152/06, che riproducono le analoghe disposizioni dell’art. 6, primo comma lett. m), del D. Lgs n. 22/97. In particolare, il deposito deve essere effettuato nel luogo di produzione dei rifiuti, nonché per categorie omogenee di materiali e nel rispetto delle relative norme tecniche (punto 4). In mancanza, la condotta posta in essere integra le fattispecie di reato previste dall’art.256, commi 1 e 2, del D. Lgs n. 152/06.
Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata il Tribunale di Avellino ha affermato la colpevolezza di Toriello Aniello in ordine al reato di cui all’art. 256, comma secondo, in relazione al comma primo lett. a), del D.Lgs. n. 152/06, a lui ascritto perché, quale legale rappresentante della ditta Toriello Aniello S.p.A., esercente attività di produzione di calcestruzzi, abbandonava ovvero depositava in modo incontrollato sul suolo rifiuti speciali non pericolosi, derivanti da attività di scavo e demolizioni (blocchi di cemento, mattoni, mattonelle, materiale bituminoso da manto stradale), nell’area di pertinenza dell’ azienda.
Avverso la sentenza ha proposto appello l’imputato e l’impugnazione è stata trasmessa ai sensi dell’art. 568, ultimo comma, c.p.p., a questa Suprema Corte.

Motivi della decisione
Con un unico mezzo di annullamento il ricorrente deduce che i materiali accumulati all’interno del cantiere della ditta Toriello Aniello costituivano un deposito temporaneo di rifiuti, realizzato ai sensi dell’art. 6 lett. m) del D.Lgs. n. 22/97, poi sostituito dall’analoga disposizione del D.Lgs. n. 152/06, e, pertanto, lecito a tutti gli effetti.
In particolare si osserva sul punto che si trattava di rifiuti non pericolosi; che il cumulo non superava i 20 mc. e poteva, quindi, essere smaltito entro il termine dì un anno.
Si aggiunge che i testi esaminati non hanno saputo indicare nemmeno approssimativamente la quantità dei materiali depositati, né la data del deposito; che il giudice di merito non ha dato ingresso, ritenendole ininfluenti, alle prove richieste dalla difesa dell’imputato sui predetti punti e sulla circostanza che i rifiuti in questione derivavano dalle diverse lavorazioni dell’azienda.
Il ricorso non è fondato.
Perché possa configurarsi l’ipotesi del deposito temporaneo, lecito, di rifiuti devono essere rispettate tutte le condizioni richieste dall’art. 183, comma primo lett. m), del D.Lgs. n. 152/06, che riproducono le analoghe disposizioni dell’art. 6, primo comma lett. m), del D.Lgs. n. 22/97.
In particolare, il deposito deve essere effettuato nel luogo di produzione dei rifiuti, nonché per categorie omogenee di materiali e nel rispetto delle relative norme tecniche (punto 4).
In mancanza, la condotta posta in essere integra le fattispecie di reato previste dall’art. 51, comma 1 o comma 2, del D.Lgs. n. 22/97, attualmente sostituito dall’art. 256, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 152/06.
E’ stato, infatti, precisato da questa Suprema Corte che “In tema di gestione dei rifiuti, allorché il deposito degli stessi manchi dei requisiti fissati dall’art. 6 lett. m), D.Lgs. n. 22 del 1997 (ora art. 183, D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152) per essere qualificato quale temporaneo, si realizza secondo i casi: a) un abbandono ovvero un deposito incontrollato sanzionato, secondo i casi, dagli artt. 50 e 51, comma secondo, del citato D.Lgs. n. 22 (ora sostituiti dagli artt. 255 e 256, comma secondo, D.Lgs. 152 del 2006); b) un deposito preliminare, necessitante della prescritta autorizzazione in quanto configura una forma di gestione dei rifiuti; c) una messa in riserva in attesa di recupero, anch’essa soggetta ad autorizzazione quale forma digestione dei rifiuti. Per le ultime due ipotesi la mancanza di autorizzazione è sanzionata ex art. 51, comma primo, D.Lgs. n. 22 (ora art. 256, comma primo, D.Lgs. n. 152 del 2006.” (sez. III, 30.11.2006 n. 39544, Tresolat ed altro RV 235703; conf. sez. III, 200421024, Eoli, RV 229225 e 229226; sez. F, 2 1.8.2007 n. 33791, Cosenza ed altri, RV 237585).
Orbene, il giudice di merito ha puntualmente applicato gli enunciati principi di diritto, avendo osservato che i materiali di cui alla contestazione, considerata la loro natura, certamente non costituiscono gli scarti dell’attività di produzione del calcestruzzo, trattandosi di blocchi di cemento, anche armato, e di materiale bituminoso proveniente dalla scarificazione di strade; che, pertanto, seppure utilizzabili nell’attività di produzione del calcestruzzo, tali materiali dovevano qualificarsi rifiuti, trattandosi di cose delle quali il produttore si era disfatto.
Sulla base dei citati rilievi la sentenza impugnata ha correttamente qualificato l’attività posta in essere dall’imputato quale stoccaggio di rifiuti, in attesa del successivo recupero o smaltimento, e, pertanto, quale attività soggetta ad autorizzazione, eventualmente con le forme della comunicazione prevista per la procedura semplificata.
E’ appena il caso di rilevare sul punto che lo stoccaggio, ovvero deposito preliminare dei rifiuti, ai sensi dell’art. 183, comma primo lett. l) del D.Lgs. n. 152/06 (ed in precedenza dell’art. 6, primo
comma lett. l, del D.Lgs. n. 22/97), rientra espressamente tra le operazioni di smaltimento descritte nell’allegato 8 alla parte quarta del citato decreto, che lo definisce, ai sensi della lett. D l5, “Deposito preliminare prima delle operazioni di cui ai punti da D1 a D14 (escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta nel luogo in cui sono prodotti).”
Le deduzioni del ricorrente in ordine alla natura e carattere lecito delle operazioni di deposito di rifiuti di cui alla contestazione sono, pertanto, infondate ovvero fondate, in parte, su rilievi di natura fattuale in contrasto con quanto evidenziato in sentenza circa la natura dei materiali oggetto di stoccaggio.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.