Cass. Sez. III n. 9879 del 5 marzo 2018 (Ud 11 gen 2018)
Presidente: Ramacci Estensore: Cerroni Imputato: Risolo
Rifiuti. Gestione di discarica abusiva

Il concetto di gestione di una discarica abusiva deve essere inteso in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave stato del fatto-reato, strutturalmente permanente. Di conseguenza, devono ritenersi sanzionate non solo le condotte di iniziale trasformazione di un sito a luogo adibito a discarica, ma anche tutte quelle che contribuiscano a mantenere tali, nel corso del tempo, le condizioni del sito stesso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 31 ottobre 2016 la Corte di Appello di Lecce ha confermato, per quanto di interesse, la sentenza del 25 marzo 2014 del Tribunale di Brindisi, in forza della quale Francesco Risolo, nella qualità di legale rappresentante della s.r.l. Ismac, era stato condannato alla pena di mesi nove di arresto ed euro 12.000 di ammenda per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 256, comma 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.
2. Avverso la predetta decisione è stato proposito ricorso per cassazione con quattro motivi di impugnazione.
2.1. In particolare, col primo motivo il ricorrente ha lamentato violazione di legge quanto alla ritenuta sussistenza del concorso di persone a norma dell’art. 110 cod. pen..
In particolare, è stato osservato che l’immobile di proprietà di Gaetana Similimeo era stato utilizzato dallo stesso Risolo in tempi e modalità distinti rispetto agli altri coimputati, senza alcun uso concertato e senza occasioni di contatto tra i successivi conduttori.
2.2. Col secondo motivo, quanto alle definizioni di rifiuto e di discarica, rispettivamente in relazione alle previsioni di cui all’art. 6, comma 1, lett. a) d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, ed all’art. 22, comma 1, lett. g) d.lgs. 13 gennaio 2003, n. 36, i materiali rinvenuti nei locali nella disponibilità dell’imputato non potevano essere classificati come rifiuti, ossia come sostanze di cui il detentore intendeva disfarsi, laddove gli altri materiali ivi rinvenuti all’esterno dei fabbricati locati allo stesso Risolo giacevano in zone mai rimaste nella disponibilità del medesimo. Né, in ragione della ristrettezza dei margini temporali tra la risoluzione del contratto di locazione con la proprietà ed il rinvenimento dei materiali in sede di sopralluogo dell’autorità, essi consentivano di ritenere la definitività dell’abbandono.  
2.3. Col terzo motivo è stata così contestata la sussistenza del reato contravvenzionale, anziché dell’illecito amministrativo di cui all’art. 255 d.lgs. 152 del 2006, concernente il mero abbandono di rifiuti.
2.4. Col quarto motivo è stata censurata la sentenza laddove ha negato la sospensione condizionale della pena sul presupposto della contestata recidiva, laddove essa concerneva invece fatti non più previsti dalla legge come reati.
3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è inammissibile.
4.1. In relazione al primo motivo di ricorso, l’impugnazione non appare neppure confrontarsi col provvedimento impugnato.
Al riguardo, infatti, la Corte salentina ha osservato che la condanna andava confermata, “indipendentemente dall’esistenza della fattispecie del concorso di persone che, nel caso in esame, non condiziona la rilevanza penale delle condotte cd. monosoggettive poste in essere dagli imputati in diversi periodi di tempo dal momento che dette condotte già da sole integrano tutti gli elementi costitutivi della contestata contravvenzione”. Sul punto, al contrario, il ricorso nulla dice, sostenendo solamente che di concorso di persone non poteva trattarsi.
4.2. In ordine al secondo motivo di ricorso, che può essere esaminato congiuntamente al terzo motivo di censura stante la loro evidente connessione, la condotta di realizzazione di una discarica abusiva può consistere anche solo nell’allestimento ovvero nella mera destinazione di un determinato sito al progressivo accumulo dei rifiuti, senza che sia necessaria l’esecuzione di opere atte al funzionamento della discarica stessa (Sez. 3, n. 18399 del 16/03/2017, Cotto, Rv. 269915).
Ciò ricordato, e con riferimento al ricorrente, è stato correttamente osservato che nell’area in questione, ed in particolare all’interno del capannone ivi esistente, erano stati rinvenuti materiali riconducibili all’attività economica esercitata dal Risolo, già affittuario del cespite, e che ancor prima della detenzione qualificata da parte di costui l’area, sia interna che esterna, era stata destinata a ricettacolo di oggetti riferibili al precedente conduttore, società che si occupava di costruzioni meccaniche.
In tal modo il provvedimento impugnato, conformemente ai rilievi del Tribunale brindisino (le due decisioni divergono solamente nella diversa valutazione processuale della posizione di altro coimputato, infine prosciolto per essere già intervenuto il giudicato in relazione alla sua condotta), ha dato conto che l’area ad altro non era stata destinata che allo scarico di materiali comunque collegati ai lavori svolti dai successivi affittuari. Tutto ciò con una conseguente trasformazione del fondo complessivamente inteso, a suo tempo adibito invece ad opificio industriale, in contenitore di beni destinati ad un mero accumulo senza alcun ulteriore riutilizzo.        
4.2.1. Per quanto poi riguarda il connesso terzo profilo di censura, questa Corte ha già ribadito il principio secondo il quale, in tema di rifiuti, l’abbandono differisce dalla discarica abusiva per la mera occasionalità, desumibile dall’unicità ed estemporaneità della condotta - che si risolve nel semplice collocamento dei rifiuti in un determinato luogo, in assenza di attività prodromiche o successive - e dalla quantità dei rifiuti abbandonati, mentre nella discarica abusiva la condotta o è abituale - come nel caso di plurimi conferimenti - o, pur quando consiste in un’unica azione, è comunque strutturata, ancorché grossolanamente, al fine della definitiva collocazione dei rifiuti in loco (Sez. 3, n. 18399 del 16/03/2017, Cotto, Rv. 269914, ivi, per ulteriori riferimenti).
Alla stregua dei rilievi già formulati, non può certamente ritenersi concretizzato il requisito dell’occasionalità, proprio per le riferite modalità di rinvenimento dei materiali e per il loro definitivo abbandono, non apparendo ragionevoli, da un lato, un diverso utilizzo dell’area (già degradata allorché l’odierno ricorrente ne assunse la conduzione) e, dall’altro, la dedotta mancata volontà di disfarsi di quanto ivi ritrovato (è stato osservato dai giudici del merito, senza che in proposito il ricorso abbia preso posizione di sorta, come non fosse stata provata alcuna attività volta ad eventualmente recuperare quanto depositato nel capannone, a conferma dell’assenza di valore economico dei beni ivi collocati e soprattutto dell’oggettivo disinteresse al loro recupero).  
Né, date le condizioni del sito (appunto acquisito dall’odierno ricorrente già in situazione di degrado), è stato correttamente attribuito rilievo ad un’eventuale concorrente attività ascrivibile a terzi soggetti, proprio in ragione della tipologia degli oggetti a suo tempo ivi rintracciati, facenti capo al ciclo produttivo aziendale anche del ricorrente.
4.2.2. In conclusione, quindi, il concetto di gestione di una discarica abusiva deve essere inteso in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave stato del fatto-reato, strutturalmente permanente. Di conseguenza, devono ritenersi sanzionate non solo le condotte di iniziale trasformazione di un sito a luogo adibito a discarica, ma anche tutte quelle che contribuiscano a mantenere tali, nel corso del tempo, le condizioni del sito stesso (Sez. 3, n. 12159 del 15/12/2016, dep. 2017, Messina e altri, Rv. 270354).
Il provvedimento impugnato ha quindi correttamente fatto propri i richiamati insegnamenti, che vanno senz’altro ribaditi.
4.3. In ordine infine al diniego della sospensione condizionale della pena, in primo grado detto beneficio era stato concesso “al solo Zattini, incensurato”. Con l’atto di appello non risulta proposta alcuna censura in proposito, ed anche dall’epigrafe della sentenza impugnata nulla viene detto al riguardo, in quanto la difesa dell’appellante ebbe a richiamarsi all’accoglimento dei motivi di appello.
Tra l’altro, la decisione della Corte territoriale (31 ottobre 2016) è intervenuta successivamente all’entrata in vigore (6 febbraio 2016) delle norme di depenalizzazione, parziale, del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali (fattispecie per le quali l’odierno ricorrente risulta essere stato in precedenza condannato), ma in ogni caso alcuna pronuncia è stata sollecitata al Giudice distrettuale. Sì che, invocando la circostanza (sulla quale mai è stata sollecitata l’attenzione del giudice del merito) della pretesa intervenuta depenalizzazione senza tra l’altro produrre alcunché a sostegno della richiesta, il ricorrente intenderebbe in qualche modo formulare un’inammissibile istanza istruttoria in sede di legittimità.  
Ciò posto, ed in via del tutto assorbente, il giudice di appello non è tenuto a motivare in ordine al mancato esercizio del potere discrezionale di concedere d’ufficio la sospensione condizionale della pena, ai sensi dell'art. 597, comma terzo, cod. proc. pen., quando l’interessato non abbia formulato al riguardo alcuna richiesta; ne deriva che il mancato riconoscimento del beneficio non costituisce violazione di legge e non configura mancanza di motivazione (Sez. 2, n. 15930 del 19/02/2016, Moundi e altro, Rv. 266563; Sez. 4, n. 43113 del 18/09/2012, Siekierska, Rv. 253641).
5. La manifesta infondatezza dell’impugnazione non può che condurre quindi all’inammissibilità del ricorso.
Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 11/01/2018