 Cass. Sez. III n. 22765 del 15 giugno 2010 (Ud. 29 apr. 2010)
Cass. Sez. III n. 22765 del 15 giugno 2010 (Ud. 29 apr. 2010)
Pres. Onorato Est. Teresi Ric. Mancini
Rifiuti. Legale rappresentante di persona giuridica
Sussiste responsabilità penale, quanto meno, per colpa se il legale rappresentante di una persona giuridica non adotti le misure atte ad assicurare il corretto smaltimento dei rifiuti e se non assolva l’onere di provare che il servizio di prevenzione sia funzionante e che ad esso sia preposto un dirigente responsabile.
UDIENZA del 29.04.2010
SENTENZA N. 865
REG. GENERALE N. 01478/2010
 REPUBBLICA ITALIANA
 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 Sez. III Penale
Composta dagli ill.mi  Signori:
 dott. Pierluigi Onorato                                             Presidente
 1. dott. Alfredo Teresi                                             Consigliere rel.
 2. dott. Alfredo Maria Lombardi                                Consigliere
 3. dott. Luigi Marini                                                 Consigliere 
 4. dott. Santi Gazzara                                             Consigliere
 ha pronunciato la seguente
 SENTENZA
 - sul ricorso proposto da Mancini Claudio, nato a Rieti il 00.00.0000,  avverso  la sentenza della Corte d'Appello di Roma in data 19.06.2009 che ha  confermato  la condanna alla pena di mesi 4 d'arresto inflittagli nel giudizio di  primo  grado per i reati di cui agli art. 25, comma 1, d.P.R. n.203/1988; 51 d.  lgs. n.  22/1997; 51 comma 2 d. lgs. n. 22/1997;
 - Visti gli atti, la sentenza denunciata e il ricorso;
 - Sentita in pubblica udienza la relazione del Consigliere dott. Alfredo  Teresi;
 - Sentito il PM nella persona del PG, dott. Giuseppe Volpe, che ha  chiesto  l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e di quella di  primo grado  relativamente al reato di cui al capo a) con trasmissione degli atti al  PM  competente e dichiararsi inammissibile il ricorso nel resto;
 Osserva
 Con sentenza 19.06.2009 la Corte d'Appello di Roma confermava la  condanna alla  pena dell'arresto inflitta nel giudizio di primo grado a Mancini Claudio  Matteo:
- per avere, quale amministratore unico della s.r.l. Industria e commercio legnami Castagno, omesso di presentare domanda di autorizzazione alle emissioni in atmosfera per l'esercizio dell'impianto di falegnameria;
- per avere illegalmente smaltito rifiuti dell'impianto incenerendoli senza la prescritta autorizzazione;
- per avere abbandonato o depositato in modo incontrollato in aree aziendali rifiuti pericolosi e non [batterie esauste, contenitori di plastica, pneumatici].
 Proponeva ricorso per cassazione l'imputato denunciando violazione di  legge;  mancanza o manifesta illogicità della motivazione sulla configurabilità  del  reato perché, svolgendo la società attività di segheria [lavorazioni  meccaniche  su legno vergine per la produzione di travi, listelli e tavole] e non di   falegnameria, non occorreva presentare domanda per le emissioni in  atmosfera non  rientrando tale attività tra quelle a ridotto inquinamento atmosferico.
 Sussisteva, poi, mancanza di correlazione tra accusa e sentenza poiché,  essendogli stata contestata l'omessa domanda per l'autorizzazione di un  impianto  di falegnameria, era stato condannato per un fatto diverso perché  nell'imputazione non vi era traccia di emissioni in atmosfera, nella  specie.  neppure rilevanti in presenza di emissioni diffuse e non di emissioni  convogliabili, come richiesto dalla norma.
 Rilevava anche il ricorrente che, in alternativa alla domanda  d'autorizzazione,  egli avrebbe potuto presentare domanda di adesione all'autorizzazione  generale  prevista per le attività a ridotto inquinamento atmosferico, sicché  anche per  tale profilo l'imputazione era carente.
 Aggiungeva che la società, commerciando all'ingrosso legnami, svolgeva  occasionalmente lavori sui legnami commerciati, donde l'occasionalità  delle  emissioni.
 Per gli altri reati, assumeva che contraddittoriamente erano state  impiegate,  nell'imputazione, le nozioni di smaltimento e di abbandono rilevando che  non  sussisteva il contestato smaltimento di rifiuti, tramite l'incenerimento  perché,  nella specie, era stata bruciata un'irrilevante quantità di trucioli di  legno  vergine prodotti nell'azienda, fatto del quale egli non era a  conoscenza, donde  l'insussistenza dell'elemento psicologico dei reato.
 Escludeva, infine, la configurabilità del contestato abbandono di  rifiuti non  essendo tale il momentaneo e selezionato accumulo nel sito aziendale di  materiale di sgombero riutilizzabile, peraltro subito rimosso,  necessitato dalla  ristrutturazione di un capannone e non potendosi, comunque, attribuirgli  alcun  addebito essendo egli inconsapevole dell'illiceità del fatto.
 Chiedeva l'annullamento della sentenza.
 Il ricorso é manifestamente infondato e deve essere rigettato con le  conseguenze  di legge.
Vanno, anzitutto, esaminate le questioni che interessano tutti i motivi proposti.
 Il ricorrente non ha contestato la qualità di legale rappresentante  della  società, che, in materia di smaltimento di rifiuti, è l'amministratore  della  società che gestisce un impianto produttivo ed é destinatario degli  obblighi  previsti dalle norme di settore.
 E', infatti, configurabile una posizione di garanzia nei confronti del  produttore dei rifiuti il quale é tenuto a vigilare che propri  dipendenti o  altri sottoposti o delegati osservino le norme ambientalistiche,  dovendosi  intendere produttore di rifiuti, ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett.  b), del  d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152, non soltanto il soggetto dalla cui  attività  materiale sia derivata la produzione dei rifiuti, ma anche il soggetto  al quale  sia giuridicamente riferibile detta produzione.
 L'osservanza delle norme in questione consegue, quindi, ope legis e chi è  destinatario di esse, legale rappresentante di una società, é tenuto a  osservarle.
 Peraltro, in tema di rifiuti, la responsabilità per l'attività di  gestione non  autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e   volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che  violino i  doveri di diligenza, per la mancata adozione di tutte le misure  necessarie per  evitare illeciti nella predetta gestione, e che legittimamente si  richiedono ai  soggetti preposti alla direzione dell'azienda [cfr. Cassazione Sezione  III n.  47432/2003 RV. 2268681.
 Pertanto, in applicazione di tali principi correttamente è stata  ritenuta la  responsabilità del legale rappresentante dell'impresa produttrice di  rifiuti,  tenuto a vigilare che propri dipendenti o altri sottoposti o delegati  osservassero le norme ambientalistiche in tema di formazione di un  deposito  incontrollato in assenza delle prescritte autorizzazioni.
 Hanno affermato le SU di questa Corte che, "Con riferimento al principio  di  correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento  del  fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali.  della  fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista  dalla  legge, si da pervenire a un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da  cui  scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue  che  l'indagine volta ad accertare le violazioni del principio suddetto non  va  esaurita nel pedissequo e mero confronto letterale tra contestazione e  sentenza  perché, valendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è  del tutto  insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter dei processo, sia  pervenuto a  trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto  dell'imputazione" [Cassazione S.U. n. 16/1996, Di Francesco, RV 205619].
 Il suddetto principio può ritenersi violato solo in caso d'assoluta  incompatibilità di dati, quando cioè la sentenza riguardi un fatto del  tutto  nuovo rispetto all'ipotesi d'accusa, mentre non ricorre violazione se i  fatti  siano omogenei e in rapporto di specificazione.
 Nella specie, nella contestazione, considerata nella sua interezza, sono   contenuti gli elementi del fatto costitutivo [l'omessa presentazione  alla  Provincia di Rieti della domanda di autorizzazione per l'esercizio  dell'impianto  di falegnameria con riferimento all'art. 25, comma 1, del d.P.R. n.  203/1988 che  attiene all'inquinamento atmosferico] del reato ritenuto in sentenza,  che ha  legittimamente utilizzato i dati, acquisiti in contraddittorio nel  dibattimento,  di specificazione del fatto.
 Avendo il fatto mantenuto la sua originaria fisionomia, va, quindi,  escluso che  abbia subito modifica negli elementi essenziali e fondamentali e che sia  stato  leso il diritto di difesa.
 Va poi osservato che sussiste continuità normativa tra le disposizioni  di cui  all'art. 24 e segg. del d.P.R. n.203/1988 e quelle di cui all'art. 279  d. lgs.  n. 152/2006, atteso che in entrambe le disposizioni è previsto il  rispetto dei  limiti di emissione, l'obbligo di comunicare la messa in esercizio  dell'impianto, l'obbligo di comunicare all'autorità competente i dati  relativi  alle emissioni.
 Pertanto "in tema di gestione dei rifiuti, gli impianti per il  trattamento degli  stessi che comportano emissioni nell'atmosfera sono soggetti sia alla  disposizioni di cui al d. Igs. 5 febbraio 1997 n. 22 in materia di  rifiuti, sia  a quelle di cui al d.P.R. 24 maggio 1988 n. 203, entrambi sostituiti dal  d. Igs  3 aprile 2006 n. 152" [Cassazione 08051/2007 RV. 236079].
 Tanto premesso, va osservato che il ricorso censura con argomentazioni  giuridiche palesemente erronee e in punto di fatto la decisione fondata,  invece,  su congrue argomentazioni esenti da vizi logico-giuridici, essendo stati   esaminati gli elementi probatori emersi a carico dell'imputato e  confutata ogni  obiezione difensiva.
 I giudici di merito hanno, infatti, accertato che nell'impianto  produttivo de  quo venivano eseguiti il taglio e la lavorazione del legno con  emissioni in  atmosfera sicché, rientrando tale attività in quelle a ridotto  inquinamento  atmosferico indicate nell'allegato 2 del d.P.R. 25.07.1991, occorreva  presentare  la prescritta domanda di autorizzazione o la domanda di adesione  all'autorizzazione generale, adempimenti non osservati dall'imputato.
 Sullo smaltimento dei trucioli mediante incenerimento, è pacifico, alla  stregua  delle costatazioni degli accertatori, che dipendenti dell'imputato, in  assenza  di alcuna autorizzazione allo smaltimento, hanno bruciato fuori dallo  stabilimento rifiuti, costituiti da segatura (30/35 pacchi), provenienti   dall'impianto produttivo e, inoltre, che nel sito aziendale erano  depositati una  batteria esausta, quindici bidoni, residui di legno combusto, onduline  di  vetrocemento, pneumatici, il tutto ricoperto da vegetazione.
 Da ciò consegue che i trucioli non erano riutilizzati con corrette  modalità di  recupero, e che, quali rifiuti, venivano smaltiti violando la normativa  ambientale.
 La sentenza, quindi, ha correttamente ritenuto ricorrenti le condizioni  che  integrano il concetto normativo di smaltimento di rifiuti, nella specie  costituiti da eterogenei materiali, accumulati alla rinfusa sull'area  aziendale.
 L'area dell'accumulo era stata adibita, di fatto, a deposito, mediante  una  condotta consistente nell'abbandono - per un tempo apprezzabile anche se  non  determinato - di una apprezzabile quantità di rifiuti.
 Il reato di deposito incontrollato di rifiuto si configura, infatti,  quando si  accerti attività di stoccaggio e smaltimento di rifiuti, dovendosi  considerare  tali i materiali ammassati, senza autorizzazione alcuna, sull'area di  cui  l'imputato aveva la disponibilità.
 Il deposito incontrollato degli altri rifiuti, dianzi specificati,  correttamente  è stato ravvisato alla stregua delle dichiarazioni testimoniali del  funzionario  dell'ARPA che ha precisato che gli stessi erano in stato di abbandono,  sparsi  sul terreno alla rinfusa, coperti di ruggine, sommersi dalla  vegetazione,  mischiati a bottiglie di vetro e [i fusti di latta e i contenitori di  plastica]  lasciati all'esterno dello stabilimento.
 Alla stregua di quanto sopra è manifestamente infondato l'assunto che i  materiali costituissero sottoprodotto trattandosi, invece, di rifiuti  sparsi  alla rinfusa e insuscettibili di riutilizzazione.
 La tesi difensiva dell'occasionalità e imprevedibilità del versamento,  attribuito all'ingiustificata e autonoma scelta dei dipendenti, è stata  ritenuta  inidonea a scagionare l'imputato essendo il fatto indicativo della  mancanza di  adeguata informazione e formazione del personale e dell'assenza di  vigilanza e  controllo da parte del legale rappresentante tenuto a rendere nota agli  operai  la normativa sullo smaltimento dei rifiuti e a farla rispettare.
 Sussiste, quindi, responsabilità penale, quanto meno, per colpa se il  legale  rappresentante non adotti le misure atte ad assicurare il corretto  smaltimento  dei rifiuti e se non assolva l'onere di provare che il servizio di  prevenzione  sia funzionante e che ad esso sia preposto un dirigente responsabile.
 Non è quindi riscontrabile alcuna violazione del diritto di difesa  essendo stato  il ricorrente condannato per un fatto ritualmente contestatogli [donde  la  riscontrata piena corrispondenza tra accusa e sentenza] ed essendo stata   correttamente esclusa la buona fede perché nemmeno in virtù del criterio  della  ignoranza inevitabile teorizzato nella sentenza Corte Costituzionale  marzo 1988  n. 364 è possibile scusare il destinatario di norme in materia di  smaltimento di  rifiuti senza informarsi delle leggi penali che disciplinano la materia.
 Nella specie, infatti, non può ritenersi che l'ignoranza della legge  penale sia  stata incolpevole a cagione della sua inevitabilità, poiché non è emerso  un  comportamento positivo degli organi amministrativi o un complessivo  pacifico  orientamento giurisprudenziale da cui l'agente abbia tratto il  convincimento  della liceità del comportamento tenuto.
 La manifesta infondatezza del ricorso preclude l'applicazione di  eventuali  sopravvenute cause di estinzione del reato [Cassazione SU n. 32/2000, De  Luca],  sicché grava sul ricorrente l'onere delle spese del procedimento e del  versamento alla cassa delle ammende di una somma che va equitativamente  fissata  in €. 1.000.
 PQM
 La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al  pagamento  delle spese del procedimento e al versamento della somma di €. 1.000 in  favore  della cassa delle ammende.
 Cosi deciso in Roma nella pubblica udienza del 29.04.2010.
 DEPOSITATA IN CANCELLERIA il  15 Giu. 2010
 
                    




