BREVI APPUNTI IN TEMA DI FRESATO DI ASFALTO. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI.
di E. Quadraccia e F. Preziosi
1. Premessa terminologica.

L’asfalto, anche chiamato conglomerato bituminoso, è probabilmente il materiale di maggior impiego nella pavimentazione stradale. Esso è una sostanza principalmente composta da bitume e aggregati (filler, sabbia e pietrisco).
Con il termine “bitume” si definisce un materiale solido, o parzialmente solido, derivato dalla raffinazione del petrolio, di colore marrone o nero, principalmente composto da idrocarburi. Una delle sue principali caratteristiche è rappresentata dal fatto che tende notevolmente ad ammorbidirsi con il riscaldamento.
Il catrame, da non confondere con il bitume, è per converso un materiale di colore bruno, denso e viscoso, che si ottiene raffreddando i vapori che si liberano durante la distillazione secca del litantrace (il più importante carbone fossile). Rappresenta quindi un sistema colloidale formato da una grande quantità di sostanze organiche e da acqua in percentuale variabile dal 2 al 5%.
Il c.d. fresato di asfalto, infine, per quanto qui maggiormente interessa, è un aggregato avente una curva granulometrica caratterizzata da un’elevata percentuale di fini e contenente bitume invecchiato. Esso si ottiene dalla frantumazione a blocchi o dalla fresatura della pavimentazione stradale. Può quindi essere correttamente definito alla stregua di un materiale inerte bitumato e non consolidato.

2. Il fresato di asfalto nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione.

La giurisprudenza più autorevole, ormai da più di un lustro, considera, salvo rare eccezioni (cfr., minoritaria, Cass. Pen., sentenza n. 9503/2005) il fresato bituminoso, non contaminato da catrame di carbone, un rifiuto cui attribuire il Codice CER 17 03 02 (miscele bituminose diverse da quelle di cui alla voce 17 03 01*). “I materiali provenienti dallo smantellamento di strade e consistenti in materiali disomogenei e compositi (conglomerato bituminoso, cordoli di travertino, materiale plastico e ferroso misto a terreno vegetale e terra rossa)” – dice la Cassazione – “sono rifiuti […] posto che non sono costituiti esclusivamente da terriccio e ghiaia, ma altresì da pezzi di asfalto e di calcestruzzo, costituenti rifiuti” (Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 39568 del 28 ottobre 2005). Come tale, quindi, il fresato di asfalto proveniente dal disfacimento del manto stradale, costituendo rifiuto, viene sottoposto alla disciplina del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (v. in giurisprudenza, con riferimento al previgente decreto Ronchi, Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 16695 del 8 aprile 2004).
Detto rifiuto è principalmente costituito da materiali inerti quali pezzi di conglomerato bituminoso, cordoli di travertino, materiale ferroso misto a terreno vegetale e terra rossa, ecc., riutilizzabile, previo trattamento, quale sottofondo per sedi stradali e/o per ritombamenti e rilevati di vario genere. Per “rifiuti inerti” si intendono a titolo esemplificativo, il calcestruzzo, le macerie (costituite da materiali di risulta quali laterizi e piastrelle), i ritagli di lavorazione di pietra e gli sfridi, ecc.. Per essere avviati proficuamente a recupero, detti rifiuti devono essere sottoposti ad onerosi e tecnologicamente avanzati procedimenti finalizzati alla cernita, alla separazione ed alla definitiva eliminazione di sostanze estranee e potenzialmente inquinanti quali ad esempio metalli, plastiche, carta, legno e tutti gli altri elementi “non inerti” che li compongono. Ricordiamo come, a livello normativo, secondo quanto stabilito dalla Direttiva 1999/31/CE, recepita nel nostro ordinamento dalla disposizione di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 36 del 13 gennaio 2003, in tema di discariche, per rifiuti inerti devono intendersi “i rifiuti che non subiscono alcuna trasformazione fisica, chimica o biologica significativa”. Essi, infatti, prosegue la norma, “non si dissolvono, non bruciano né sono soggetti ad altre reazioni fisiche o chimiche, non sono biodegradabili e, in caso di contatto con altre materie, non comportano effetti nocivi tali da provocare inquinamento ambientale o danno alla salute umana”. Precipua caratteristica di detti rifiuti è dunque la loro scarsa tendenza a dar luogo a percolati e residui tossici o nocivi di sorta. Di talché i rifiuti in oggetto si caratterizzano per la loro minima, se non nulla, pericolosità per l’ecosistema e l’ambiente in genere, in conseguenza ed a cagione della loro intrinseca carenza di pericolosità e della loro irrilevante capacità inquinante. E’ quindi tollerabile solo una trascurabile tendenza a dar luogo a percolati, tale comunque da non danneggiare la qualità delle acque, superficiali e sotterranee.
Qualora, pertanto, il materiale in questione si appalesi come asfalto e pietrisco con modestissima (se non nulla) presenza di “scaglie” di materia plastica, esso può, come spiegato, a ragion veduta essere ascritto alla categoria dei rifiuti inerti. La giurisprudenza della Suprema Corte ha, in ogni caso, escluso che esso possa rientrare nella nozione di “terre e rocce da scavo” (cfr., da ultime, Cass. Pen., sentenza n. 7466 del 19 febbraio 2008 e Cass. Pen., sentenza n. 18364 del 7 maggio 2008). Con le citate due recenti sentenze, la Suprema Corte ha infatti confermato come, anche dopo l’entrata in vigore della normativa che ha escluso dal regime dei rifiuti le terre e rocce di scavo, i materiali provenienti dall’escavazione di strade continuino a costituire rifiuti, posto che non sono formati esclusivamente da terriccio e ghiaia, ma anche da pezzi di asfalto e calcestruzzo, i quali, pacificamente, sono ritenuti rifiuti inerti.
Cosicché, al pari degli inerti provenienti dalla demolizione degli edifici, il fresato può essere sottratto alla disciplina sui rifiuti solo qualora ricorrano i presupposti di legge affinché esso possa essere ricondotto alla nozione di sottoprodotto di cui all’art. 183, lettera p) del D.Lgs. n. 152/2006, ossia solo ed esclusivamente a condizione che il residuo sia riutilizzato senza subire trattamenti preliminari e solo ove ne sia certo l’effettivo reimpiego, senza danni all’ambiente, nell’ambito dello stesso sito o nello stesso ciclo che lo ha generato. In tal caso, quindi, sussistendone le condizioni previste dalla norma, sarebbe auspicabile, anche per motivi economici, che il riutilizzo venga effettuato direttamente dalla stessa impresa che ha generato il fresato, nell’ambito del medesimo cantiere di manutenzione stradale, ma ciò, come accennato, non esclude minimamente la necessità di fornire la prova certa, anche in relazione ai progetti (approvati, se del caso, dalle autorità competenti) e/o ai sottostanti contratti di appalto dei lavori, della sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime, più favorevole, dei sottoprodotti (cfr., in tema di regime di favore ed oneri della prova, P. FICCO, Gestire i rifiuti, Milano, 2008, 41 ss.).
Si ritiene pertanto, più prudenzialmente, preferibile destinare il conglomerato bituminoso non contenente sostanza pericolose (Codice CER 17 03 02) al recupero in procedura semplificata, in conformità al punto 7.6, Allegato 1, sub allegato 1, D.M. 5 febbraio 1998 e con le modalità previste negli artt. 214-216 del T.U. ambientale.

3. Brevi conclusioni.

I rifiuti costituiti da miscele bituminose sono spesso presenti nei cantieri di demolizione laddove si effettuano operazioni di smantellamento di reti viarie. Essi sono rimovibili tramite “raschiamento” del manto stradale con mezzi dedicati o con utilizzo di piccoli mezzi d’opera (mini-escavatori) (B. DE ROSA, S. CICERANI, N. G. GRILLO, “Rifiuti da costruzioni, demolizioni e scavi”, Roma, 2007, 75). Il conglomerato bituminoso (fresato) proveniente dalla suddetta scarifica della pavimentazione stradale eseguita mediante fresatura a freddo è quindi classificato come rifiuto e, come tale, può essere gestito nell\'ambito del recupero dei rifiuti (inerti) non pericolosi.
Nessuna assimilazione, è bene dunque ricordare, può essere operata con riguardo alle terre e rocce di scavo così come individuate al punto 7.31-bis, Allegato 1, sub allegato 1, D.M. 5 febbraio 1998 (recupero agevolato di rifiuti non pericolosi), laddove le stesse sono esclusivamente riconducibili alla ”attività di scavo”. Lo stesso D.M. 5 febbraio 1998, al citato punto 7.31-bis, n. 2, le classifica come “materiale inerte vario costituito da terra con presenza di ciottoli, sabbia, ghiaia, trovanti,anche di origine antropica”. Il riferimento ai c.d. “trovanti” non può certo essere ascritto all’asfalto, trattandosi per converso di ciò che si trova accidentalmente nella terra da scavo, essendovi stato interrato da qualcuno o qualcosa non conoscibili. La testé menzionata caratteristica non è punto rinvenibile nell’asfalto, ad esclusione di qualche piccolo frammento di materiale bituminoso che possa essere fortuitamente rinvenuto nella terra e roccia ma sempre all’esito di un’attività di scavo.
L’art. 186 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, poi, qualifica e si riferisce alle terre e rocce in quanto provenienti da attività, appunto, di scavo, anche di gallerie (v., di recente, L. MUSMECI, Terre e rocce da scavo: le novità del “secondo Correttivo” e i molti problemi non sopiti, in “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa”, n. 150, 2008, 8).
In conclusione, quindi, poiché l’asfalto non può certamente derivare da attività di scavo (bensì, semmai, di lamatura e smantellamento della pavimentazione stradale), non si ritiene che esso sia ascrivibile alla categoria delle terre e rocce da scavo.
Roma, 04.06.2009