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Materiali da demolizione e nozione di rifiuto (Nota a Cass. Sez. III 2 ottobre 2003)
di Flavia GANGALE

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Cassazione penale, sez. III, 2 ottobre 2003 (ud. 25 giugno 2003), 1256 – Pres. Toriello – Est. Postiglione – Ric. P.P.

I materiali inerti derivanti dalla demolizione di un manufatto, integralmente reimpiegati nello stesso luogo di produzione, non sono da considerarsi rifiuti, stante l’interpretazione autentica della nozione di rifiuto contenuta nell’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002 n. 138, convertito con legge 8 agosto 2002 n. 178. La nuova norma esclude infatti il concetto di rifiuto, allorchè il soggetto economico interessato abbia deciso di non disfarsi di beni, sostanze e materiali di produzione e di consumo aventi ancora una valenza economica.

Con questa recente pronuncia la Corte di Cassazione prende nuovamente posizione sulla controversa nozione giuridica di rifiuto, la cui definizione, nonostante la sua interpretazione autentica ad opera dell’art 14 della legge 178/2002, è ancora oggetto di un acceso dibattito.

L’occasione per l’intervento della Corte è fornita dal ricorso proposto dall’indagato P.P. avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Macerata convalidava il sequestro preventivo di un’area appartenente al Consorzio Intercomunale per il Disinquinamento Ambientale della Provincia di Macerata.

In tale area si era provveduto ad allargare il piazzale del Consorzio utilizzando, come sottofondo per colmare il lieve dislivello esistente, i materiali risultanti dalla parziale demolizione di un muro. L’indagato aveva ritenuto infatti di poter reimpiegare sul posto tali materiali di demolizione, ravvisando la compatibilità ambientale dell’opera.

Secondo il Tribunale tuttavia, tale condotta poteva configurare il reato di cui all’art. 51 del d. lgs 22/97, in quanto i materiali utilizzati per il riempimento erano da considerarsi rifiuti. Ad avviso di tale giudice infatti, l’art. 14 della legge 178/2002 non avrebbe modificato la precedente disciplina giuridica relativamente al riutilizzo di inerti in loco, i quali dovevano dunque considerarsi rifiuti con conseguente applicazione delle pertinenti disposizioni di legge.

Contro tale pronuncia ricorreva l’indagato, deducendo violazione dell’art 14 citato, nonché carenza di motivazione sulle esigenze cautelari. La Suprema Corte ha accolto il ricorso ritenendo che la nuova disposizione abbia innovato l’impianto normativo preesistente consentendo di escludere la configurabilità di un rifiuto allorchè il soggetto economico interessato abbia deciso di non disfarsi di beni, sostanze e materiali di produzione e di consumo aventi ancora una valenza economica.

La nozione di rifiuto

La soluzione della controversia all’esame della Corte richiede dunque una ennesima verifica dell’estensione della nozione giuridica di rifiuto, la cui ricostruzione, nonostante l’intervento di interpretazione autentica del legislatore nazionale, è ancora oggetto di indagine e discussione.

L’individuazione degli attuali confini di tale nozione è di particolare importanza, in quanto dalla qualificazione di un materiale o sostanza come rifiuto discende l’operatività della relativa disciplina giuridica, intessuta di disposizioni anche penali. La questione più dibattuta, oggetto della pronuncia della Corte nella sentenza in esame, è rappresentata dalla qualificabilità come rifiuti dei residui di produzione e consumo aventi ancora una valenza economica.

La definizione contenuta nell’art. 6 del d. lgs. 22/97, che ricalca pedissequamente la definizione di cui alla direttiva 75/442/CE come modificata, è formulata in maniera molto ampia e non permette di distinguere in via immediata un prodotto da un rifiuto. L’art. 6 infatti qualifica come rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi. Nell’allegato A sono riportate sedici categorie di rifiuti, l’ultima delle quali, la Q16, costituisce però una categoria residuale all’interno della quale può essere classificata qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle altre categorie. Nessun aiuto deriva nemmeno dal Catalogo Europeo dei Rifiuti, il quale non solo non è esaustivo, ma diviene rilevante, a fini classificatori, solo qualora un elemento in esso ricompreso già soddisfi la definizione di rifiuto. Tale indeterminatezza ha dato adito a molte incertezze interpretative, tanto che la Corte di Giustizia è stata più volte adita per fare chiarezza.

Nelle sue oramai numerose pronunce, questa ha sempre difeso una nozione ampia di rifiuto, nella quale devono essere fatte rientrare anche le sostanze suscettibili di riutilizzazione, pur nell’ipotesi in cui tali materiali mantengano un valore economico[1]. Secondo il giudice comunitario, l’ambito di applicazione della nozione di rifiuto è legato al significato del termine “disfarsi”, che include al contempo lo smaltimento ed il recupero. L’accertamento dell’effettiva esistenza di un rifiuto non può comunque essere condotta in via generale, ma deve essere accertata caso per caso, sulla scorta del complesso delle circostanze, alla luce della definizione di cui alla direttiva 75/442, tenendo conto delle finalità della direttiva ed in modo da non pregiudicarne l’efficacia[2]. Questa potrebbe essere pregiudicata qualora il legislatore nazionale adottasse delle presunzioni che aprioristicamente escludessero determinate sostanze dalla nozione di rifiuto.

E’ alla luce di tali principi che la norma nazionale di interpretazione autentica adottata con l’art. 14 della legge 8 agosto 2002 n.178 è stata contestata da più parti[3], che ne hanno ravvisato l’incompatibilità con il diritto comunitario e con la consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia[4].

La Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, si pone immediatamente il problema dell’applicabilità di tale norma[5] e, prima di affrontare il merito dell’impugnazione, ne vaglia dunque la sostanza e la compatibilità con l’ordinamento comunitario. In particolare, la Corte si sofferma sul secondo comma dell’art. 14, il quale esclude dalla nozione di rifiuto i residui che possano essere e siano effettivamente riutilizzati nel medesimo, o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, qualora si verifichino le seguenti alternative condizioni:

- lettera a): qualora non abbiano subito alcun intervento preventivo di trattamento ed il loro riutilizzo non rechi pregiudizio per l’ambiente;

- lettera b): qualora abbiano subito un trattamento preventivo, ma senza che si renda necessaria alcuna delle attività di recupero di cui all’allegato C del d. lgs. 22/97.

Secondo la Corte, l’art. 14, così formulato, non restringerebbe la nozione di rifiuto, ma si limiterebbe a fornirne una interpretazione autentica che elimini gli “elementi di incertezza derivanti da un eccesso di dilatazione della nozione medesima”. Al fine di favorire il riutilizzo, la nuova disposizione specificherebbe infatti il concetto di rifiuto, escludendone quelle sostanze, beni e materiali di produzione o di consumo, aventi ancora una valenza economica e di cui il soggetto economico interessato non abbia deciso di disfarsi.

La Corte, tuttavia, non si sofferma a chiarire la portata pratica della norma, né prende posizione sui punti più discussi della stessa[6], perdendo così una preziosa occasione per fare chiarezza su una questione tanto dibattuta che, data la sua rilevanza, avrebbe meritato forse un maggior approfondimento. Essa si limita invece a precisare che affinché tali sostanze siano escluse dalla nozione di rifiuto, il loro riutilizzo deve essere non solo possibile, ma soprattutto certo. Con questa specificazione, secondo la Suprema Corte, la norma di interpretazione autentica introdotta dal legislatore italiano, sarebbe compatibile con i principi comunitari ribaditi dalla più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, di seguito analizzata.

La recente giurisprudenza della Corte di Giustizia

Il riferimento della Suprema Corte è alla ormai celebre sentenza Palin Granit Oy[7], in cui la Corte di Giustizia, affrontando per la prima volta in termini positivi la questione della definizione di rifiuto, fa delle interessanti affermazioni. Dopo aver ribadito la propria precedente giurisprudenza, il giudice comunitario afferma infatti la possibilità di escludere dalla nozione di rifiuto quei sottoprodotti dei quali l'impresa non ha intenzione di disfarsi, ma che “intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari”. Secondo la Corte infatti, non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni della direttiva 75/442 come modificata, “beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti”.

Una tale affermazione, dalla portata senza dubbio innovativa, viene però subito temperata dalla Corte, la quale ricorda che la nozione di rifiuto deve essere interpretata in maniera estensiva, tenendo conto non solo delle finalità della direttiva 75/442 – quali la tutela della salute umana e dell’ambiente dagli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei rifiuti - ma anche alla luce dell'art. 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell'azione preventiva.

Per questo motivo, secondo il giudice comunitario, “occorre circoscrivere tale argomentazione alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione”.

L’orientamento della Corte di Giustizia così precisato, sembra suffragare per certi aspetti la validità dell’interpretazione autentica della nozione di rifiuto contenuta nell’art. 14 della L. 178/2002. In particolare pare trovare sostegno quanto previsto dalla lettera a) dello stesso articolo, mentre diverse perplessità permangono per quel che riguarda la lettera b). Quest’ultima infatti, contrariamente a quanto stabilito dal giudice comunitario, prevede la possibilità che il riutilizzo avvenga anche a seguito di trattamento preventivo ed anche al di fuori dello stesso ciclo produttivo o di consumo[8].

Come più sopra rilevato, la Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, non pare invece distinguere le due ipotesi, e, ritenuta la conformità della norma con il diritto comunitario e con l’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia, passa finalmente ad affrontare il merito dell’impugnazione.

La posizione della Suprema Corte

La Corte si preoccupa dunque di verificare la natura dei materiali in questione alla luce dei criteri individuati dalla norma nazionale di interpretazione autentica e di quelli enucleati dalla giurisprudenza comunitaria nella citata sentenza Palin Granit Oy.

Nel caso di specie, come già rilevato, i materiali riutilizzati per l’allargamento del piazzale, provenivano dalla parziale demolizione, per diverse finalità, di un muro appartenente allo stesso Consorzio. Tali materiali, comprendenti, tra l’altro, blocchi di cemento misti a ferro e blocchi di asfalto, erano stati immediatamente reimpiegati sul posto come sottofondo per colmare il dislivello esistente. Il loro effettivo riutilizzo poteva dunque considerarsi avvenuto nel corso del processo di produzione – comprendente, secondo la Corte, la demolizione del muro ed il reimpiego integrale sul posto – e senza che questi subissero alcun tipo di trasformazione.

D’altra parte, a parere della Corte, non sussisteva l’esigenza di preventivo trattamento del materiale presente nel muro demolito, dato che questo non presentava carattere di disomogeneità, né era mescolato a sostanze estranee a quelle già presenti nell’opera demolita. Alla luce di queste considerazioni, la Corte di Cassazione ha dunque ritenuto sussistenti i requisiti necessari per escludere la natura di rifiuto dei materiali in questione.

Tale decisione stimola la riflessione sulla necessità di individuare dei criteri cui far riferimento per distinguere i casi in cui sia o meno necessario un intervento preventivo di trattamento.

Ricordiamo infatti, che secondo il giudice comunitario possono essere esonerati dall’applicazione della disciplina dei rifiuti, solo quei beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico “hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione”. D’altra parte anche l’art. 14 consente di escludere dalla categoria dei rifiuti solo quelle residui che possano essere e siano effettivamente ed oggettivamente riutilizzati senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero[9]. Ovviamente la valutazione circa la necessarietà del preventivo trattamento non può essere rimessa alla discrezionalità del singolo, ma deve essere ancorata a criteri oggettivi, quali il possesso delle proprietà e delle caratteristiche di qualità dei prodotti che tali residui vanno a sostituire[10].

Nel caso concreto, l’affermazione della Corte circa la sostanziale omogeneità degli inerti in questione, lascia spazio a qualche perplessità. La presenza di sostanze estranee, tra le quali parti in ferro, normalmente rimosse nelle attività di recupero degli inerti[11], lascia infatti più di un dubbio sulle caratteristiche di qualità di tali materiali.

La Corte, prima di concludere, motiva ulteriormente l’esclusione della natura di rifiuto dei residui in questione, attraverso il riferimento alla L. 443/2001. Questa, com’è noto, esclude dalla nozione di rifiuto e dall’ambito di applicazione della relativa normativa, le terre e rocce da scavo anche se di gallerie, perfino nell’ipotesi di contaminazione, purché non oltre determinate concentrazioni.

Il richiamo non sembra tuttavia chiaro, in quanto la Corte non pare voler modificare l’orientamento, già espresso in precedenti pronunce[12], secondo cui l’esclusione delle terre e rocce da scavo dal d. lgs. 22/97 non si estende anche ai materiali derivanti da demolizione, data la specificità di tale ultima categoria di rifiuti. Tale orientamento rimane, a mio parere, condivisibile, in quanto, viste le finalità di tutela della normativa sui rifiuti, le eccezioni alla sua applicabilità devono essere interpretate in maniera restrittiva.


[1] Vedi Sentenza del 28 marzo 1990, cause riunite C-206/88 e 207/88, Procedimento penale c. G. Vessoso e G. Zanetti, in Raccolta 1990, pag I-1461; sentenza del 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94, e C-224/95, Tombesi e al. in Raccolta 1997, pag. I- 3561; sentenza del 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie c. Région Wallonne, in Raccolta 1997, pag. I-7411.

[2] Sentenza del 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, Arco Chemie Nederland Ltd c. Minister van Volkshuisvesting, Ruimtelijke Ordening en Milieubeheer in Raccolta 2000, pag. I-4475.

[3] Da segnalare a questo proposito che la Commissione ha aperto una procedura di infrazione ai sensi dell’art. 226 del Trattato nei confronti del Governo italiano, con la Comunicazione n. 200/2213 C (2002) 3868, indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri. Recentemente poi il Tribunale penale di Terni ha emanato una ordinanza dibattimentale di rinvio alla Corte europea di Giustizia con cui il giudicante ha chiesto alla Corte “una sentenza interpretativa affinché stabilisca se la nozione di rifiuto introdotta con la direttiva 75/442 debba continuare ad essere intesa ed interpretata a tutt’oggi inItalia alla luce delle pregresse sentenze in materia della Corte stessa ovvero alla luce dell’art. 14 del D.L. 8 luglio 2002, n. 138, conv. in L. 8 agosto 2002, n. 178”.

[4] Sull’argomento vedi, tra gli altri, i contributi di: P. Giampietro, Nuove contestazioni comunitarie sulla nozione autentica di rifiuto, in questa Rivista, 2004, n.1, pag. 20; L.Prati, “L’interpretazione autentica” della nozione di rifiuto al vaglio del giudice di merito, ivi, 2003, n. 1 pag. 5; G. Amendola, Interpretazione autentica di rifiuto: le prime sentenze della Cassazione, in Foro it., 2003, II, 119; V. Paone, Anche dopo la conversione del D.L. n. 138/2002 restano le perplessità sulla definizione di “rifiuto”, in Ambiente & Sicurezza 2002, n. 17 p. 89; S. Bigatti, Definizione di rifiuto: nuovi orientamenti della giurisprudenza comunitaria e della giurisprudenza italiana, in www.lexambiente.it.

[5] La Corte di Cassazione ha già avuto modo di pr onunciarsi sul tema, senza adottare tuttavia un atteggiamento univoco: vedi in particolare Cass., sez III, 13 novembre 2002, ric Passerotti, in Foro it. II, c. 116, in cui la Corte ha precisato che la nuova norma di cui all’art. 14, seppur modificativa della definizione comunitaria di rifiuto, è vincolante per il giudice italiano, il quale non può sottarsi dall’applicazione della stessa. In senso parzialmente difforme a tale tesi, vedi Cass., sez III, 27 novembre 2002, ric Ferretti, in Foro it., II, c. 116, in cui, seppur con rilievo incidentale, la Corte ha affermato che sarebbe possibile disapplicare l’art. 14 in quanto in contrasto con il diritto e la giurisprudenza comunitari e dare diretta applicazione alle pronunce della Corte di Giustizia, le quali hanno efficacia erga omnes e sono immediatamente e direttamente applicabili da parte del giudice italiano.

[6] La Corte non prende ad esempio posizione sulla limitazione alle operazioni di recupero di cui all’allegato C, né chiarisce il significato di espressioni quali “riutilizzo”, “trattamento preventivo” o “pregiudizio all’ambiente”.

[7] Sentenza del 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit Oy c. Lounais-Suomen ympäristökeskus, in Raccolta 2002, pag I-3533, le cui conclusioni sono state successivamente confermate dal giudice comunitario nella successiva sentenza dell’11 settembre 2003, causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy.

[8] Se si ritiene che il “trattamento preventivo” ammesso dall’Italia coincida con le “trasformazioni preliminari” di cui alla sentenza Palin Granit Oy, non può non constatarsi il contrasto della norma di interpretazione autentica con la giurisprudenza della Corte di Giustizia.

[9] Come abbiamo già sottolineato i criteri elaborati dal giudice comunitario e quelli formulati dall’art. 14 sembrano non coincidere.

[10] Circa la necessità di specifiche tecnico-merceologiche certe e comuni che garantiscano la non necessità di ulteriori operazioni di trattamento recuperatorio vedi P. Giampietro, Nuove contestazioni comunitarie sulla nozione autentica di rifiuto, in questa Rivista, 2004, n. 1, pag. 34.

[11] Vedi D.M. 5 febbraio 1998, "Individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli articoli 31 e 33 del D.L.vo n. 22/97, il quale contempla espressamente, al punto 7, i rifiuti del tipo di quelli in esame.

[12] Vedi Cass. pen., sez. III, sentenza del 31 maggio 2002, Rossetto.