Riflessioni a margine delle recenti pronunce della Corte di Cassazione in tema di bonifica dei siti inquinati

Mi permetto di svolgere alcune considerazioni in ordine al reato di cui all'art. 257 T.U Ambiente, già art. 51bis Decreto Ronchi (c.d. "omessa bonifica"), traendo spunto dalle riflessioni del dott. Vincenzo Paone, della Procura della Repubblica di Asti, recentemente pubblicate su lexambiente.it (“Con la sentenza 13 giugno 2006, n. 29855 la Cassazione torna sull’omessa bonifica”), a proposito della sentenza Cass. pen., sez. I, n. 29855 del 13.6.2006, est. Corradini.
Il commento – pur nella sua indiscussa autorevolezza – a parere di chi scrive non coglie un aspetto assolutamente fondamentale della citata sentenza, che pare davvero smantellare il castello esegetico costruito sulle fondamenta dell’ormai celebre sentenza Cass. Pen. sez. III, 18.4.2000 n. 1783 "Pizzuti", e che induce a parlare di “rivoluzione copernicana” (termine piuttosto in voga nell’ultimo periodo): la definizione del reato come reato di evento, o causale puro, il cui fatto tipico si individua nella causazione dell’inquinamento.
Si procederà pertanto ad una breve disamina della questione, allo scopo di favorire un dibattito, più che docendi causa.
È fatto ormai arcinoto che l’orientamento giurisprudenziale “storico”, riconducibile alla sopraccitata sentenza “Pizzuti” aveva concepito la fattispecie de qua come reato omissivo, il cui fatto tipico era individuato nella mancata attivazione/attuazione della procedura di bonifica, rispetto alla quale la causazione dell’inquinamento operava come “mero presupposto di fatto”, di per sé estraneo al fatto tipico. Tale orientamento, rimasto invariato per anni dall’introduzione della fattispecie ad opera del D.lgs. 8 novembre 1997 n. 389, aveva suscitato da subito dure critiche in dottrina: per evitare il rischio di una “sanatoria generalizzata” delle situazioni di inquinamento pregresse, infatti, la Suprema Corte finiva per aggirare, di fatto, il principio di irretroattività della legge penale, garantendo così la possibilità di condanna anche per fatti di inquinamento di molto anteriori all’entrata in vigore del Decreto Ronchi.
Questo problema, a giudizio di chi scrive, non è che il riflesso di una formulazione a dir poco infelice, peraltro tipica del Legislatore contemporaneo, confuso, incerto e mosso dalla smania di tutto definire. La legislazione ambientale è un esempio paradigmatico in tal senso: si pensi, solo per citarne uno, alle degenerazioni cui ha condotto la formulazione dell’art. 53bis Decreto Ronchi, che, pur avendo le caratteristiche tipiche del reato abituale, viene dalle Procure sistematicamente contestato insieme al reato associativo di cui all’art. 416 c.p..
Tuttavia, con la sentenza “Corradini” sembra avvenire l’incredibile: secondo la Prima Sezione (non la Terza, “specialista” in materia ambientale), il fatto tipico consiste nell’aver cagionato l’inquinamento di un sito determinato, e il completamento di una procedura di bonifica opera, a tutto concedere, come causa – sopravvenuta ed eventuale – di non punibilità. Si legge, infatti, nella motivazione: “La struttura del reato di cui d'art. 257 è del tutto corrispondente a quella del precedente reato di cui d'art. 51 bis…poiché continua a prevedere la punibilità del fatto di inquinamento se l'autore "non provvede alla bonifica in conformità" al progetto di cui all'art. 242 (in precedenza era previsto che la bonifica dovesse avvenire secondo il procedimento del corrispondente art. 17). Il che significava e significa che la bonifica, se integralmente eseguita escludeva ed esclude la punibilità del fatto anche secondo la precedente normativa”. Ed ancora: “In sostanza il Legislatore…ha strutturato il reato di cui si tratta come reato la cui permanenza persiste fino alla bonifica ovvero fino alla sentenza di condanna, ma la cui punibilità può essere fatta venire meno…attraverso la condotta riparatoria, in tal modo creando un particolare interesse per l’autore dell’inquinamento – che non può invocare la prescrizione se non ha provveduto alla bonifica – ad attuare le condotte riparatorie, onde eliminare la punibilità del reato”.
Ora, se le parole hanno un senso, quando la Suprema Corte dice – e lo fa più volte – che la bonifica vale ad escludere la punibilità del fatto inquinamento, allora ci si trova inequivocabilmente di fronte a una causa di non punibilità sopravvenuta, rispetto al fatto-reato “causazione di inquinamento”. Vero è che la stessa Corte sembra smarrirsi allorché incomprensibilmente aggiunge che tale assunto “è stato sempre noto in giurisprudenza”, ciò in evidente contrasto con l’unico precedente disponibile in subiecta materia, che, come più volte riportato, individua chiaramente il fatto tipico nell’omissione della procedura di bonifica. Delle due l’una: o i Giudici di Cassazione hanno usato più volte una terminologia completamente errata dal punto di vista giuridico – ipotesi francamente inconcepibile, trattandosi di coloro che vigilano sulla corretta applicazione ed interpretazione delle norme – oppure la Prima Sezione ha inteso rovesciare l’impostazione storica. La circostanza è senz’altro curiosa ma, comunque, non pare sufficiente per contestare le affermazioni di principio contenute in motivazione: siamo davvero alla fine della “dittatura Pizzuti”.
La definitiva conferma della validità della seconda ipotesi si trae dalla recentissima Cass. Pen. sez. III, n. 9794 del 29.11.2006 (dep. 8.3.2007) Montigiani, che così si pronuncia sulla natura del reato de quo: “si deve osservare che la struttura del reato contravvenzionale di cui all’articlo 51bis D.lgs. 22/1997 è stata ora riprodotta nella fattispecie prevista dall’articolo 257 D.Lgs. 152/06, giacché entrambe le norme puniscono chiunque cagiona l’inquinamento del sito se non provvede alla bonifica secondo la relativa procedura prevista. Trattasi, secondo l’interpretazione preferibile sotto il profilo letterale e sistematico, di reato di evento a condotta libera o reato causale puro, sottoposto a condizione obiettiva di punibilità negativa”.
Questa svolta apre delle prospettive importantissime sotto un diverso ed ulteriore profilo, che tanto scalpore aveva suscitato in dottrina (cfr. M. GEBBIA, “Inquinamento e omessa bonifica: un presupposto di fatto ed una condotta omissiva a patto che siano riferibili alla stessa persona fisica”, pubblicato su www.csao.it), ovvero l’applicabilità della fattispecie in parola alle situazioni di inquinamento pregresse se non addirittura “storiche”, o quantomeno anteriori all’entrata in vigore del D.M. 471/99. Si ricorderà il celebre passaggio della sentenza “Pizzuti”, che, con interpretazione forzata e piuttosto discutibile, passava sopra a qualsiasi obiezione di costituzionalità (“L’art. 17 e l’art. 51 bis del Dl.gvo 22/1997 si applicano conseguentemente anche agli inquinamenti avvenuti prima dell’entrata in vigore del D.M. n. 471/1999, vale a dire prima del 16/12/1999”).
Se, tuttavia, si presta fede all’interpretazione data alla fattispecie dalle sentenze “Corradini” e “Montigiani”, il risultato cambia completamente: poiché il reato di cui all’art. 51bis è rimasto norma penale in bianco fino al 16/12/1999 (entrata in vigore del D.M. 471/99), allorché trovò compiuta definizione il concetto di “inquinamento o il pericolo concreto e attuale di inquinamento”, di cui all’art. 17 co. 2° D.lgs. 22/1997, per le condotte causative di inquinamento poste in essere prima di tale data non vi potrà essere alcuna sanzione penale.
In questa prospettiva poca rilevanza ha il problema della permanenza del reato, che non influisce evidentemente sull’irretroattività della fattispecie penale; questo, ovviamente, a condizione che la condotta causale (es: sversamento di terreno inquinato) si sia interamente esaurita prima dell’entrata in vigore del D.M. 471/99, giacché altrimenti troverebbe applicazione il principio di cui all’art. 2 c.p.. Se, invece, nemmeno una frazione della condotta causativa di inquinamento è stata posta in essere dopo il 16/12/1999, sarà giocoforza pronunciare sentenza assolutoria sarà “perché il fatto non è (era) previsto dalla legge come reato”.
In tema di reati ambientali e, in particolare, di bonifica dei siti inquinati, dunque, ci troviamo davvero di fronte ad una rivoluzione sotto il profilo interpretativo, che si somma all’altra rivoluzione, di carattere legislativo, costituita dall’introduzione delle “Concentrazioni Soglia di Rischio”, in sostituzione dei vecchi limiti tabellari. E non si esita a parlare di rivoluzione “copernicana”, posto che finalmente ci si trova di fronte all’unica interpretazione costituzionalmente orientata e informata ai principi fondanti della responsabilità penale: solo un sistema che colpisca chi, con dolo o colpa (non anche solo “accidentalmente”), cagiona il superamento di determinati parametri (dopo la loro introduzione), e colpisca solo lui (non indiscriminatamente l’inquinatore, il proprietario del sito inquinato o terzi incolpevoli), qualora egli non provveda a bonifica in conformità ad un progetto studiato, valutato e adattato al caso concreto, potrà dirsi realmente rispettoso dei principi di legalità, di personalità della responsabilità penale e di individualizzazione della responsabilità stessa.


dott. Pietro Speranzoni
Foro di Venezia.