Ancora sulla nozione di rifiuto:l'ultimo intervento della cassazione

di Gianfranco AMENDOLA

Chiunque si sia occupato della normativa sui rifiuti sa bene che l'Italia si è sempre distinta in tutta Europa per la sua tenace volontà di limitare il più possibile l'ambito di applicazione della disciplina soprattutto negando, con vari artifici, che i rifiuti, specie quelli industriali, siano rifiuti. Si è così inventata strane categorie di presunti "non rifiuti", quali "residui" e "materiali quotati in borsa" , ha tentato di ampliare al massima la categoria dei "sottoprodotti" (v. le scandalose vicende delle terre da scavo) ecc. Riuscendo solo a meritarsi ampiamente il titolo di paese più condannato dalla Corte di giustizia europea per inosservanza delle direttive comunitarie in tema di rifiuti.

Valga per tutti il cocente monito indirizzato il 5 luglio 2005 dalla Commissione europea al nostro Ministro degli Esteri in cui, a proposito di uno dei tanti tentativi di cui sopra, si stigmatizzava, senza troppe perifrasi, che l’Italia <<avendo adottato e mantenendo in vigore l’articolo 1, commi da 25 a 27 e comma 29 della legge n° 308 del 15 dicembre 2004, per mezzo del quale alcune sostanze od oggetti, i quali ai sensi della direttiva 75/442/CEE modificata sono da considerarsi rifiuti, vengono invece sottratti all’ambito della legislazione italiana sui rifiuti, e, avendo come prassi consolidata e persistente quella di adottare disposizioni volte a restringere l’ambito di applicazione della direttiva 75/442/CEE in Italia, con riferimento alla definizione di rifiuto di cui all’articolo 1, lettera a) della direttiva>>, si sottrae ai suoi obblighi verso la UE, e pertanto veniva sottoposta alla ennesima procedura di infrazione.

E' per questo che ogni sentenza della Cassazione relativa alla nozione di rifiuto va letta ed analizzata con attenzione.

La base normativa, ovviamente, è l'art. 183, comma 1, lett. a) D. Lgs. 152/06, il quale, dopo le modifiche del 2010, ricalca fedelmente la definizione comunitaria, enunciando che è <<“rifiuto”: qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi>> . Definizione più volte chiarita , come si è detto, dalla Corte di giustizia europea, la quale, da un lato ha sempre escluso, in negativo, valore vincolante alla inclusione nel CER (catalogo europeo dei rifiuti), alla effettuazione di operazioni di recupero o smaltimento codificate dagli allegati alla Direttiva o alla possibilità di riutilizzazione economica; e dall'altro, in positivo, ha sempre ricordato che "la qualifica di rifiuto discende anzitutto dal comportamento del detentore e dal significato del termine «disfarsi»"; aggiungendo che "il termine «disfarsi» deve essere interpretato non solo alla luce della finalità essenziale della direttiva la quale, stando al suo terzo ‘considerando’, è la «protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti», bensì anche dell’art. 174, n. 2, CE. Quest’ultimo dispone che «[l]a politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva (…)». Ne consegue che il termine «disfarsi», e pertanto la nozione di «rifiuto» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, non possono essere interpretati in senso restrittivo"1. Il che porta al corrispondente obbligo di limitare al massimo le eccezioni a questo principio, fra le quali, come si è accennato, spicca quella di "sottoprodotto".

Proprio in ossequio a questo obbligo, la Corte europea, introducendo la nozione di sottoprodotto nell’ordinamento comunitario, poneva alcuni limiti precisi, richiedendo, per escludere la qualifica di rifiuto, che il <<riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima>> fosse << non solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione>> 2. Limiti poi trasfusi in norma espressa, oggi vigente.

E sempre la Corte europea, più di recente, riconfermando la sua giurisprudenza ha precisato che "dalle disposizioni della direttiva 2006/12 emerge che il termine «disfarsi» comprende al contempo lo «smaltimento» e il «recupero» di una sostanza o di un oggetto ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, lettere e) e f), di tale direttiva....", che "occorre prestare particolare attenzione alla circostanza che l’oggetto o la sostanza di cui trattasi non abbia o non abbia più alcuna utilità per il suo detentore, sicché tale oggetto o tale sostanza costituirebbe un ingombro di cui egli cerchi di disfarsi ......Infatti, ove ricorra tale caso, sussiste un rischio che il detentore si disfi dell’oggetto o della sostanza in suo possesso con modalità atte a cagionare un danno ambientale, in particolare mediante abbandono, scarico o smaltimento incontrollati " mentre, di converso, " non sarebbe in alcun modo giustificato assoggettare alle disposizioni della direttiva 2006/12, che mirano ad assicurare che le operazioni di recupero e di smaltimento dei rifiuti siano eseguite senza mettere in pericolo la salute umana e senza che vengano usati procedimenti o metodi che possano recare pregiudizio all’ambiente, beni, sostanze o prodotti che il detentore intende sfruttare o commercializzare in condizioni vantaggiose indipendentemente da una qualsiasi operazione di recupero. Tuttavia, alla luce dell’obbligo di procedere a un’interpretazione estensiva della nozione di «rifiuto», occorre circoscrivere tale argomentazione alle situazioni in cui il riutilizzo del bene o della sostanza in questione non sia soltanto eventuale ma certo"3 .

E' alla luce di queste premesse comunitarie che va letta la recentissima sentenza della suprema Corte del 2 dicembre 20144, la quale, dopo aver riassunto la citata giurisprudenza della Corte europea, trae alcune conclusioni, chiare e semplici, sulla nozione di "rifiuto", con una motivazione che vale la pena di leggere per esteso dal punto 5.8 al 5.13:

"5.8.0ccorre dunque porsi nell'ottica esclusiva del detentore/produttore del rifiuto, non in quella di chi ha interesse all'utilizzo del rifiuto stesso.

5.9.E' la condotta del detentore/produttore che qualifica l'oggetto come rifiuto e che con la sua azione del «disfarsi» pone un "problema", quello della gestione del rifiuto, la cui risoluzione costituisce attività di pubblico interesse (art. 177,comma 2, d.lgs. 152/2006).

5.10.La nozione di sottoprodotto concorre a meglio circoscrivere l'ambito della condotta del «disfarsi».

5.11.Sottoprodotti sono sempre state quelle sostanze o quegli oggetti dei quali sin dall'inizio fosse certa, e non eventuale, la destinazione al riutilizzo nel medesimo ciclo produttivo o alla loro utilizzazione da parte di terzi (art. 183, comma 1, lett. n), d.lgs. 152/2006, nella sua versione originaria; art. 183,comma 1, lett. p), d.lgs. 152/2006 come modificato dal d.lgs. 16 gennaio 2008,n. 4; art. 184-bis, d.lgs. 152/2006, introdotto dall'art. 12, d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205).

5.12. E' questa certezza oggettiva del riutilizzo che esclude a monte l'intenzione di disfarsi dell'oggetto o della sostanza (così espressamente art. 183,comma 1, lett. p), d.lgs. 152/2006 come modificato dal d.lgs. 16 gennaio 2008,n. 4) e che concorre, insieme con le ulteriori condizioni previste dalle norme definitorie che si sono succedute nel tempo, a escluderlo dall'ambito di applicabilità della normativa sui rifiuti.

5.13.La mancanza di certezze iniziali sull'intenzione del produttore/detentore del rifiuto di «disfarsene» e l'eventualità di un suo riutilizzo legata a pure contingenze, impedisce in radice che esso possa essere qualificato come «sottoprodotto» sol perché il detentore se ne disfi mediante un negozio giuridico."

In sostanza, quindi, la Cassazione, in questa sentenza, mette l'accento su due punti fondamentali e connessi: da un lato, la questione se si tratta di un "rifiuto" va posta con esclusivo riferimento alla figura del produttore-detentore e dall'altro, la qualifica di "rifiuto" può essere esclusa solo se, - con riferimento, appunto, alla figura del produttore-detentore-, vi è la prova della certezza oggettiva del riutilizzo. E pertanto, proprio in base a questi principi, la suprema Corte considera rifiuti da recuperare "pallets" rotti acquistati da altra ditta per ripararli e reimmetterli sul mercato. Essi, infatti, dal punto di vista del produttore, "costituivano oggetti dei quali non era certa sin dall'inizio la loro destinazione" e dei quali il produttore si sarebbe disfatto se non fossero stati acquistati da questa altra ditta, la quale, comunque, doveva sottoporli a trattamento di recupero onde consentirne la futura commerciabilità.

Conclusione ineccepibile in quanto, in armonia con il principio base che si ricava dalla giurisprudenza comunitaria, è l'unica atta a darci la oggettiva e matematica certezza che una cosa non più utile a chi la detiene non venga considerata un ingombro di cui disfarsi, con conseguente pericolo per l'ambiente.

1 Corte di giustizia europea (terza sezione), 18 dicembre 2007, causa c-263/05, che richiama anche la sua pregressa giurisprudenza.

2 sentenza Palin Granit Oy del 18 aprile 2002

3 Corte di giustizia europea (Prima Sezione) 12 dicembre 2013, cause riunite C‑241/12 e C‑242/12

4 Cass. pen, sez. 3, 15 ottobre-2 dicembre 2014, n. 50309, Rizzi