Sottoprodotti: cosa sono e cosa cambia col D.M. 264/16?

di Stefano MAGLIA

I sottoprodotti sono quegli scarti di produzione che possono essere gestiti come beni e non come rifiuti, se soddisfano tutte le condizioni previste dalla legge (art. 184-bis del D.L.vo 152/2006), con grandi vantaggi economici e gestionali.
Infatti le attività economiche che impiegano sottoprodotti in luogo di materie prime convenzionali non hanno la necessità di acquisire le autorizzazioni, indispensabili, invece, per gestire i rifiuti. Ovviamente tutto ciò può comportare notevole risparmio di costi, ma solo se si osservano scrupolosamente tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto.
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi.
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale.
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
Se manca anche una sola delle condizioni sopra elencate, lo scarto di produzione deve essere assoggettato alla disciplina dei rifiuti, pena il rischio di pesanti sanzioni.

In questi anni questa importante opportunità, che viene ampiamente utilizzata in tanti Paesi europei e che costituisce uno dei pilastri dell’Economia Circolare, ha avuto una vita piuttosto tribolata nel nostro Paese, come dimostrano anche i tanti articoli pubblicati su tuttoambiente.it e le numerosissime sentenze della Corte di cassazione (anche recentissime, in parte contradditorie e tendenzialmente assai restrittive) in materia.
Pertanto è da segnalare con grande interesse l’entrata in vigore (2 marzo 2017) del Decreto Ministeriale n. 264/2016, previsto dal comma 2 dell’art. 184-bis del D.l.vo 152/2006.
Come ho già avuto modo di scrivere più volte su Tuttoambiente.it si tratta di uno strumento non indispensabile, ma certamente utile agli operatori per comprendere come dimostrare il rispetto delle suddette condizioni, assicurando così una maggiore uniformità delle possibili interpretazioni, dal momento che, nella pratica, hanno suscitato diversi problemi applicativi (si veda, ad esempio, la D.G.R. Emilia Romagna del 21 dicembre 2016 n. 2260, che ha istituito addirittura un inutile e dannoso elenco regionale dei sottoprodotti).

Ma quali sono i punti essenziali e le criticità del Decreto ministeriale 264?
Il primo dubbio importante riguarda l’effettivo ambito di applicazione, nonché la relativa portata, del D.M. 264/2016. Infatti stando a quanto dispone il comma 2 dell’art. 184 bis, il Decreto Ministeriale non potrebbe stabilire criteri generici applicabili a tutti i sottoprodotti, ma limitarsi a fornirli solo per alcune “specifiche tipologie di sostanze o oggetti”: il D.M. in commento, invece, ha un titolo generico (Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti) e il testo del dispositivo non fa alcun riferimento a particolari categorie, limitandosi a identificare come (condivisibile) finalità principale (art. 1) quella di “favorire ed agevolare l’utilizzo come sottoprodotti”: in realtà poi gli allegati (v. All 1) concernono solo le biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di biogas in impianti energetici o per la produzione di energia mediante combustione.
Quindi, la domanda che ci si deve porre è: il D.M. 264/2016 è applicabile a tutti i sottoprodotti o solo alle biomasse?
Innanzitutto si ribadisce quanto sopra anticipato, ovvero che si tratta di un provvedimento utile, ma non indispensabile (e ciò lo dimostra la lettera dell’art. 184-bis, c. 2: “… possono essere adottate …”).
Ad avviso di chi scrive, si ritiene che il Decreto sia stato appositamente redatto affinché se dal 2 marzo 2017 un produttore genera delle biomasse residuali e le destina all’impiego per la produzione di biogas in impianti energetici o per la produzione di energia mediante combustione, allora da tale data deve – sostanzialmente - ottemperare alle previsioni del D.M.
Viceversa, per tutte le altre sostanze od oggetti (tranne terre e rocce, per le quali occorre fare riferimento al D.M. n. 161/2012 o all’art. 41-bis, D.L. 21 giugno 2013, n. 69, nonché – in futuro – ad un nuovo D.P.R. in corso di emanazione) è certamente opportuno, anche se non indispensabile, rispettare i parametri del Decreto 264, perché dal 2 marzo 2017 gli organi di controllo faranno senz’altro riferimento a questo provvedimento nella loro attività di verifica, pur mantenendo ovviamente “in vita” la possibilità di dimostrare le quattro condizioni che fanno di uno scarto di produzione un sottoprodotto anche in altro modo.
Proseguendo nella disamina del provvedimento, si segnala l’art. 2, c. 1, lett. b), il quale definisce residuo di produzione “ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che può essere o non essere un rifiuto”, con ciò confermando che il sottoprodotto deve scaturire da un processo produttivo (con conseguente esclusione, per esempio, del fresato d’asfalto).
Il successivo art. 3 (ambito di applicazione) ribadisce due aspetti fondamentali: il Decreto non si applica “ai residui derivanti da attività di consumo” (c. 1, lett. c) e “restano ferme le disposizioni speciali adottate per la gestione di specifiche tipologie e categorie di residui, tra cui le norme in materia di gestione delle terre e rocce da scavo” (c. 2), confermando la riserva di legge in materia di terre e rocce da scavo.
L’art. 4 sottolinea, poi, l’importanza di dare dimostrazione del soddisfacimento dei requisiti di legge ed al c. 2 propone alcune modalità con le quali provare la sussistenza delle circostanze, “fatta salva la possibilità di dimostrare, con ogni mezzo ed anche con modalità e con riferimento a sostanze ed oggetti diversi da quelli precisati nel presente decreto, o che soddisfano criteri differenti, che una sostanza o un oggetto derivante da un ciclo di produzione non è un rifiuto, ma un sottoprodotto”. È, quindi, evidente che c’è ancora la libertà di fornire altre prove e dimostrazioni.
Si segnala quanto previsto al c. 3, ovvero che il produttore e l’utilizzatore del sottoprodotto si iscrivono (obbligo?) in un apposito elenco pubblico istituito presso le Camere di commercio territorialmente competenti. Si ritiene che questa previsione costituisca una criticità che merita di essere segnalata, in parte perché non si ravvisa la necessità di un tale elenco ed in parte perché le Camere di commercio non sono ovviamente affatto preparate a questa gestione.
Si concorda, da ultimo, sulla previsione del c. 4, ovvero sull’obbligo di conservazione della documentazione per tre anni, nonché sulla loro messa a disposizione all’autorità di controllo.
L’art. 5 è interamente dedicato alla certezza dell’utilizzo: come si dimostra? La norma sottolinea come “il requisito della certezza dell’utilizzo è dimostrato dal momento della produzione del residuo fino al momento dell'impiego dello stesso”. In questa sede il testo fa riferimento al “produttore” ed al “detentore”: chi sarebbe il detentore? Forse l’utilizzatore? La sua figura non è precisata nell’art. 2 (definizioni).
Non solo: proseguendo nella lettura del c. 1 dell’art. 5 si parla di “sistema di gestione”. Che cosa sarebbe? Che funzione riveste? Forse quella di garantire il flusso di tracciabilità del sottoprodotto?
Anche in questo caso la norma è poco chiara.
Il c. 4 dell’art. 5 afferma che “costituisce elemento di prova l'esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra il produttore del residuo, eventuali intermediari e gli utilizzatori” e in questo caso non si può non citare la Comunicazione della Commissione al Consiglio ed al Parlamento Europeo relativa alla Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti del 21 febbraio 2007: già allora, infatti, l’anzidetta Comunicazione dava atto di come “l’esistenza di contratti a lungo termine tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi può indicare che il materiale oggetto del contratto sarà utilizzato e che quindi vi è certezza del riutilizzo”.
Si segnala un ulteriore elemento di criticità: chi è l’intermediario del sottoprodotto? Premesso che non va confuso con l’intermediario di rifiuti, si potrebbe supporre che sia una figura che agevola l’incontro tra produttore ed utilizzatore dei residui di produzione (anche se l’art. 2 inerente le definizioni non ne fa cenno).
Al c. 5 dell’art. 5 si dà la possibilità che, in mancanza dei contratti sopraccitati, il requisito della certezza dell’utilizzo e l’intenzione di non disfarsi dei residuo possano essere dimostrati mediante la predisposizione di una “scheda tecnica” contenente le informazioni di cui all’All. 2 (estremamente generica). Il problema è che questa scheda tecnica deve essere numerata, vidimata e gestita con la modalità dei registri IVA dalle Camere di Commercio territorialmente competenti: ma come? Questa previsione rappresenta un evidente passo indietro rispetto alla dichiarata libertà di gestione dei sottoprodotti.
Importante segnalare quanto disposto dall’art. 6 in materia di normale pratica industriale. La norma, infatti, elenca che cosa è normale pratica industriale e che cosa non lo è, insistendo sulle caratteristiche ambientali connesse all’ultimo requisito di cui all’art. 184-bis. La formulazione letterale è poco chiara e ridondante, tanto che ripete per ben tre volte “ambientali”, “ambiente” e ancora “ambiente” nello stesso periodo.
Mentre l’art. 7 ritorna ancora sulla scheda tecnica, l’art. 8 disciplina in materia di deposito e movimentazione del sottoprodotto. Fermo restando che rifiuti e sottoprodotti devono essere tenuti separati tra loro, si concorda sul fatto che fino all’effettivo utilizzo, il sottoprodotto deve essere depositato e movimentato nel rispetto di specifiche norme tecniche (se disponibili), evitando spandimenti accidentali, contaminazione delle matrici ambientali e prevenendo o minimizzando la formazione di emissioni diffuse e la diffusione di odori.
Corre l’obbligo di segnalare quanto previsto dal c. 4, ovvero che “la responsabilità del produttore o del cessionario in relazione alla gestione del sottoprodotto è limitata alle fasi precedenti alla consegna dello stesso all'utilizzatore o a un intermediario”. Ma come può considerarsi terminata la responsabilità del produttore con la consegna del sottoprodotto all’intermediario? Significa che quest’ultimo ne ha la detenzione? Come si concilia questa previsione con l’utilizzo diretto (“utilizzato direttamente”), previsto dal requisito normativo?
L’art. 9 si sofferma brevemente sui controlli e le ispezioni, mentre l’art. 10 ribadisce l’onere a carico delle Camere di Commercio di istituire una piattaforma di scambio tra domanda e offerta.
Da ultimo, premesso che l’art. 1, c. 4 non esiste nel provvedimento (!), l’art. 11 rammenta che il Decreto è comunicato alla Commissione europea secondo la procedura di informazione comunitaria prevista dalla Dir. 2015/1535.
In conclusione, pertanto, si ritiene che il D.M. 264 sia senz’altro uno strumento utile per muovere una situazione ferma da anni, ma che sia un provvedimento a rischio di bocciatura a livello europeo troppo “di dettaglio” nei confronti di un istituto che potrebbe essere sì un minimo regolamentato per favorirne l’utilizzo, ma non ulteriormente imbrigliato!
Ciò non toglie che se dal 2 marzo 2017 questo decreto servirà a sbloccare la situazione di semi paralisi e difficoltà applicativa di questo istituto ampiamente utilizzato già da anni in mezza Europa, avrà comunque raggiunto il suo scopo.