Tribunale Tivoli (Collegiale) sent. 251 del 4 luglio 2007
Pres. Gentili Est. Bucca IMp. Marini ed altri
Rifiuti. Attività di poligono di tiro

Fattispecie riguardante l’attività di un poligono di tiro non autorizzato ad uso anche del personale della Polizia di Stato in area sottoposta a vincolo ambientale, gestione di rifiuti provenienti da detta attività e falso in relazione di servizio redatta da personale di PG
FATTO E DIRITTO

Con decreto  emesso il 21 settembre 2005 il G.U.P. disponeva il rinvio a giudizio di Magrini Bruno, Coppola Annalisa e Marini Pietro, in  epigrafe generalizzati, in ordine ai reati riportati in rubrica.

All’udienza del 1° marzo 2006, dichiarata la contumacia di Marini Pietro e di Magrini Bruno, presenti i difensori del Comune di Campagnano e dell’Ente regionale Parco di Veio, parti civile costituite, era rigetta l’eccezione difensiva volta ad ottenere l’estromissione dal processo dell’Ente regionale. Aperto quindi il dibattimento, erano ammesse le prove documentali e testimoniali richieste dalle parti.

All’udienza del 7 giugno 2006 erano escussi i testi Biondi Domenico, Sinibaldi Roberto, Mastralia Pasquale e Pellegrino Mario. All’udienza del 5 luglio 2006 era escusso il teste Lazzarini Sergio. All’udienza del 6 dicembre 2006 erano escussi i testi Sassi Gioconda, Savi Sandra, Marco Zanetti, Rubbo Alfonso, Fabbrini Stefano e Maurizio Monti. All’udienza del 10 gennaio 2007, revocata la dichiarazione di contumacia di Magrini Bruno, il medesimo e Coppola Annalisa rilasciavano spontanee dichiarazioni, erano quindi escussi i testi De Paolisi Daniele, Iersanti Paola e Donato Giotta.

All’udienza del 16 maggio 2007, escusso il teste Vignati Aldo ed acquisiti i documenti prodotti dalla difesa, era dichiarata l’utilizzabilità degli atti confluiti nel fascicolo dibattimentale e le parti rassegnavano le conclusioni in epigrafe riportate.

Sottoposto alla verifica dibattimentale l’impianto accusatorio si è rivelato, anche se solo in parte, fondato.

Il procedimento prende origine dalle indagini svolte dal Corpo Forestale dello Stato nel campo di tiro ad uso sportivo gestito dall’Associazione polisportiva Laboma ricavato all’interno di una cava, di proprietà di Magrini Bruno, ubicata nel Comune di Campagnano, in loc. Castagnata,  al km. 5,900 della via Campagnanese e quindi all’interno del perimetro del Parco regionale di Veio,

Nell’ottobre 2003 l’isp.  del Corpo Forestale dello Stato Biondi Domenico ebbe notizia dai Vigili Urbani che dal sopralluogo effettuato l’8 ottobre 2003 dal vice comandante Marini Pietro era emerso che la polisportiva stava smantellando  i manufatti abusivi, già in passato oggetto di un procedimento penale, che erano stati realizzati nella cava per permettere l’attività di tiro. Il 29 ottobre 2003 personale del Corpo Forestale effettuò un sopralluogo nella cava le cui risultanze – esposte dal teste Biondi all’udienza del 7 giugno 2006-  possono così essere sintetizzate:  il poligono non era recintato e non vi era alcun segnale che avvertiva dell’attività pericolosa che in quel luogo era svolta; i tiratori sparavano contro sagome posizionate nei pressi di una parete della cava “alta circa 70 m” sottostante la via Campagnanese e alla base dei bersagli si trovavano collocati numeri pneumatici; la tettoia, lunga m 35 e larga 5,  costituita da pali di castagno infissi nel terreno e con copertura in lamiere ondulate, ospitante i tiratori, era integra; era in corso un’esercitazione di tiro organizzata dalla Polizia di Stato; nell’area vi era una “grossa percentuale di rifiuti piombosi”e di altri rifiuti in plastica; i responsabili del poligono non avevano alcun registro relativo alla smaltimento dei rifiuti prodotti; al di fuori della zona adibita a campo di tiro operavano i lavoratori impegnati nell’attività estrattiva del lapillo. L’esame della documentazione esibita agli operanti rivelò che i vertici della polisportiva il 4 febbraio 1999 avevano dato comunicazione al Comune di Campagnano che era stato aperto il campo di tiro ed il successivo 14 aprile avevano chiesto il nulla osta alla Regione Lazio. A prescindere da siffatte comunicazioni nessun titolo abilitante era stato mai rilasciato da enti o uffici pubblici.

Così, in estrema sintesi, illustrata l’attività di indagine originante il procedimento, è quindi possibile esaminare analiticamente gli elementi di valutazione consegnati dall’istruttoria dibattimentale in relazione ad ognuna delle ipotesi criminose contestate.

E’  opportuno iniziare tale disamina dalle emergenze istruttorie relative al capo b) dell’imputazione.

Il  teste Biondi ha dichiarato che al momento del sopralluogo effettuato il 29 ottobre 2003, nel terreno, in prossimità della linea di fuoco, c’erano numerosissimi bossoli mentre nella zona dove erano posizionati i bersagli, “ non essendovi nulla che potesse raccoglierli”, erano  visibili numerosissimi ogive, “di varie armi, anche da caccia” .

 Il teste Pellegrini Mario ha ricordato che nel corso del sopralluogo effettuato all’interno del poligono aveva notato “ogive di colpi …da 5,65, da 6,5 e calibro 9, calibro 9 parabellum, cartucce da caccia, a pallettoni”.

La descrizione fornita dai testi trova corrispondenza nei rilevamenti fotografici effettuati il 12 dicembre 2003 inseriti da pagina 178 a pag. 181 ( o da pagg. 168 a pagg. 170 a secondo della numerazione che si privilegi) del fascicolo dibattimentale. Le prime due foto, infatti, raffigurano l’elevatissimo numero di borre di plastica – ovvero, secondo la descrizione resa dal teste Lazzarini, “i contenitori che stanno dietro la palla e che si staccano dal fucile a circa sette, otto metri”- che giacevano sul terreno del campo di tiro. Gli ultimi due rilievi raffigurano le capsule metalliche, verosimilmente residui di un’esercitazione effettuata utilizzando gas lacrimogeni, che giacevano nell’area.

Alfonso Rubbo, tecnico della prevenzione dell’Arpalazio ha descritto le modalità attraverso cui sono stati raccolti i campioni poi analizzati nel laboratori della struttura regionale. Ha dichiarato il teste :” Io ho effettuato, unitamente al Corpo Forestale dello Stato, un sopralluogo presso il poligono e ho prelevato campioni di terreno misto a rifiuti su alcune piazzole. [La raccolta di questi rifiuti è avvenuta ] raschiando circa due metri quadrati di terreno, raschiando, ammucchiando e mettendo in una busta.[Il prelievo è avvenuto ] a caso”.

Gli esiti delle analisi effettuate sui campioni prelevati da Rubbo sono poi documentati nei “risultati analitici” inseriti da pag. 236 a pag. 245 del fascicolo dibattimentale. Le percentuali riportate in tale documento, richiamato all’udienza del 7 giugno 2006 dal teste Mastralia Pasquale, sono di seguito riportati, campione per campione: “Campione 3741 : involucri metallici 0; bossoli di ottone 3,9%; componenti di plastica 4,5%; componenti di piombo 39,3%; terra 52,3%. Campione 3742: involucri metallici 21%; bossoli di ottone 14,3%; componenti di plastica 2,4%; componenti di piombo 8,3%; terra 54%. Campione 3743: involucri metallici 0; bossoli di ottone 6%; componenti di plastica 4,8%; componenti di piombo 34,7%; terra 54,5%. Campione 3744 : involucri metallici 0; bossoli di ottone 41,5%; componenti di plastica 0; componenti di piombo 4,3%; terra 54,2%. Campione 3745 : involucri metallici 20%; bossoli di ottone 10,6%; componenti di plastica 2%; componenti di piombo 14,1%; terra 53,3%”.

Orbene, è opinione del collegio che la valenza significativa delle fonti di prova sopra richiamate non sia infirmata da alcuno degli argomenti proposti dalla difesa.

Muovendo dalle dichiarazioni rese dalla teste Savi Sandra la difesa ha rappresentato che la valenza significativa dei dati innanzi esposti era infirmata dalle modalità adottate per la raccolta dei campioni. La teste, rispondendo alla domanda del difensore che la invitava a descrivere come fosse avvenuto il prelievo dei campioni da parte del personale della Corpo Forestale dello Stato e dei tecnici dell’Arpalazio, ha dichiarato:- ”Camminando, c’ero io, prendevano un bossolo qua e un bossolo là e li hanno messi dentro una busta…”.

Le dichiarazioni rese dai testi Lazzarini Sergio e Vignati Aldo sono state poi richiamate in sede di discussione per dimostrare che la permanenza di parti delle munizioni sparate sul terreno era del tutto occasionale ed episodico in quanto gli appartenenti alle forze dell’ordine erano obbligati a raccogliere i bossoli e le ogive sparati mentre i soci della polisportiva raccoglievano avidamente i proiettili esplosi per poterli poi riutilizzare nella produzione di nuove cartucce. In particolare il teste Lazzarini Sergio, insegnante di tiro della Polizia di Stato, nonché socio dell’associazione Laboma, dopo aver premesso che è usuale in tutti i poligoni che i tiratori, una volta cessata l’attività, procedano alla bonifica della postazione occupata, ha dichiarato che: i soci, dopo che nel 2001 erano stati messi in commercio “fondi palle di piombo” economici che consentivano il riutilizzo dei proiettili esplosi, erano diventati così scrupolosi nel recupero dei frammenti di piombo da rendere superfluo l’intervento della ditta che, in precedenza, per due volte, aveva provveduto allo smaltimento dei residui del metallo; gli appartenenti alle forze dell’ordine erano destinatari di uno specifico obbligo, imposto dagli accordi intervenuti fra la polisportiva a il Ministero dell’Interno, avente ad oggetto la raccolta , alla fine dell’esercitazione, di “tutto quello che avevano messo a terra” quindi bossoli, ogive ecc.. Il teste Vignati Aldo ha, inoltre,  dichiarato che la disciplina vigente impone ad ogni appartenente alle forze di polizia che partecipi ad un’esercitazione di tiro di recuperare, alla fine delle operazioni, i bossoli esplosi.

Muovendo da tali dichiarazioni, pertanto, comprovanti, ad avviso dei difensori, che la quasi totalità del materiale derivato dall’attività di tiro era raccolto e smaltito dagli stessi tiratori, la difesa ha quindi adombrato che l’elevata percentuale di rifiuti rinvenuti nei campioni prelevati dai tecnici dell’Arpalazio potesse essere dipesa dall’adozione di modalità di raccolta non corrette.

L’ipotesi difensiva non è condivisibile.

Innanzitutto i testi Vignati e Lazzarini hanno esposto quello che le forze di polizia che si esercitarono nel poligono avrebbero dovuto effettuare una volta concluse le operazioni di tiro ma non sono stati in grado di fornire alcun particolare in ordine a quanto effettivamente avveniva. I testi, infatti, hanno ammesso di non aver mai assistito ad alcuna delle bonifiche che sarebbero state effettuate per conto della Polizia di Stato. I provvedimenti amministrativi inseriti da pagg. 84 a pagg. 108 del fascicolo dibattimentale non fanno inoltre menzione alcuna alle procedure di smaltimento o di recupero dei rifiuti prodotti nel sito dalle esercitazione della Polizia di Stato.Non è stata poi prodotta alcuna delle convenzioni, intercorse fra la polisportiva e il Ministero dell’Interno, che avrebbe imposto alle forze di polizia la bonifica del campo di tiro. Sono poi rimasti ignoti i soggetti che, per conto della Polizia di Stato, avrebbero effettuato, alla fine di ogni esercitazione, secondo il teste Vignati, e “una volta al mese”, secondo le dichiarazioni de relato riferite dal teste Donato Giotta, la bonifica del campo di tiro. E’ poi quasi del tutto superfluo sottolineare che nessun documento comprovante la raccolta o il trasporto o il conferimento in discarica o il recupero  dei residui derivati dalle esercitazioni della Polizia di Stato è stato mai esibito dalla difesa. La teste Savi Sandra ha infine ammesso che la Polizia di Stato procedesse, usando la terminologia utilizzata dal difensore, allo “sgombro poligono”.

Le affermazioni difensive secondo le quali gli appartenenti alle forze di polizia avrebbero recuperato i rifiuti prodotti non può quindi ritenersi provata.

Il teste Lazzarini, inoltre, ha dichiarato che le borre di plastica e le poche ogive lasciati sul terreno dai tiratori venivano raccolte, periodicamente,   dalla socia Savi Sandra. Savi Sandra, però, ha sostenuto che la raccolta e lo smaltimento dei residui dell’attività di sparo era gestito direttamente dalla direzione, essendosi lei limitata a trasportare sino ai cassonetti del servizio comunale di raccolta dei rifiuti la carta e alcuni pneumatici divenuti ormai inutilizzabili.

Ma vi è di più. La difesa ha prodotto all’udienza del 1° marzo 2006 una fattura dell’importo di € 211,00 , rilasciata il 31 maggio 2003 dalla “ditta Duebbi progettazione montaggi impianti e consulenza” in favore dell’Ass. polisportiva Laboma, avente come causale “ritiro e trasporto a discarica del piombo, a forfait ( € 176,00); smaltimento €/kg. 0,18 x 200 kg. € 36,00”. Si ignorino, per il momento, i dubbi espressi dal PM circa la valenza significativa di tale documento, perplessità fondate sul fatto che nessuno dei documenti che, per legge, avrebbe dovuto accompagnare l’attività descritta nella fattura è stato prodotto in giudizio, è però innegabile che la raccolta, nell’anno 2003, e quindi dopo ben due anni dalla messa in commercio dei “fondi palla di piombo” indicati dal teste Lazzarini, da parte della ditta DUEBBI di kg. 200,00 di piombo nel campo di tiro fornisce la certezza che la prassi consolidata – descritta dal teste Lazzarini-, osservata in tutti i poligoni,  che imponeva ad ogni tiratori di recuperare i rifiuti prodotti, nel campo di tiro di Campagnano non era rispettata.

Le critiche formulate dalla difesa in ordine alle modalità di raccolta dei campioni possono pertanto essere respinte.

Non è inoltre condivisibile l’argomento, più volte proposto dalla difesa, incentrato sulla previsione del c. III dell’art. 1 della legge 18 aprile 1975 n. 110, prospettante una presunta impossibilità, per il personale ed i soci della polisportiva, di raccogliere e avviare allo smaltimento o al recupero i rifiuti derivati dall’attività di tiro degli appartenenti alle forze di polizia in quanto “parti di proiettili destinati al caricamento delle armi da guerra”.

Va subito detto che, a voler portare alle estreme conseguenze il ragionamento difensivo, dovrebbe concludersi che i vertici dell’associazione si sarebbero resi responsabili del reato di cui all’art. 10 l. 14 ottobre 1974 n. 497 per ogni proiettile esploso dalle armi in dotazione alle forze di polizia i cui resti non siano stati recuperati alla fine delle esercitazioni.

 In secondo luogo va osservato che il teste Lazzarini ha spiegato che “dal 2002 sono uscite delle palle che utilizza la Polizia di Stato per andare nei campi di tiro privati, dove il piombo è inesistente, quindi sono delle palle ceramiche”. E’ di tutta evidenza che tali proiettili, in quanto non destinati al caricamento delle armi per uso bellico, non possono essere qualificati nei termini proposti dalla difesa ( cfr. Cass. Sez. I, 11 luglio 1989, Ottanelli in Cass. Pen. 1990, p. 1787, n. 1443 relativa ai proiettili con ogiva in plastica utilizzati dall’esercito italiano unicamente nel corso degli addestramenti per il tiro al bersaglio).

Non può essere inoltre sottaciuto che le munizioni cal. 9, ovvero quelle utilizzate per il caricamento delle pistole in uso alla Polizia di Stato, possono essere sfruttate sia in armi comuni da sparo che in armi da guerra: va quindi escluso che le parti delle stesse possano essere qualificate come parti di munizioni da guerra ( Cass. Sez. I, 10 luglio 1992, della Corte).

Ma vi è un argomento che, a parere del collegio, è assorbente e consente di respingere senza esitazioni la tesi difensiva. Ha infatti spiegato il teste Lazzarini : “I bossoli, quando sono sparati, non sono più considerati armi da guerra. La cartuccia, per essere tale, deve essere assemblata, quindi con polvere all’interno. Se la polvere all’interno non c’è,  anche i civili possono prendere i bossoli”. Tale interpretazione del dettato normativo trova conforto, per quanto riguarda le parti di munizioni da guerra assolutamente inerti o che abbiano già adempiuto alla funzione per cui sono state create, nella giurisprudenza della Suprema Corte ( Cass. Sez. I, 29 settembre 1983, Valenti in Cass. Pen. 1984, p. 171, n. 110; Cass. Sez. I, 1° giugno 1981, Di Gioia, ivi, 1982, p. 1225, n. 1117).

Va infine ribadito che, come rivelato dai testi Pellegrini e Biondi, solo parte dei rifiuti rinvenuti nell’area poteva essere collegato all’utilizzo di armi in dotazione alle forze di polizia.

Seguendo gli itinerari interpretativi segnati dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea –si segnala in particolare Sez. II, 11 novembre 2004, causa 457/02-, e dalla Corte di Cassazione , non è poi dubbio che i materiali rinvenuti nel terreno, in quanto non destinati  ad essere riutilizzati dal detentore nel corso del medesimo processo di produzione o di utilizzazione, costituiscano rifiuti speciali.

Un primo dato può quindi ritenersi acclarato. La polisportiva era un “produttore di rifiuti”. Non è superfluo ricordare al riguardo che, nella nozione di produttore, rientra non soltanto il soggetto dalla cui attività materiale sia derivata la produzione dei rifiuti, ma anche il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione ed a carico del quale sia quindi configurabile, quale titolare di una posizione definibile di garanzia, l’obbligo, sancito dall’art. 10 c. I, D.L.vo n. 22 del 1997, di provvedere allo smaltimento dei detti rifiuti nei modi prescritti ( Cass. Sez. III n. 4957, 21 gennaio 2000, Rigotti; Cass. N. 1303, 12 ottobre 2005, Ribecchi). Tale è il caso di specie, posto che i rifiuti derivavano dall’attività gestita dall’associazione.

Sull’associazione gravavano pertanto gli oneri contemplati dall’art. 10 del d. L.vo da ultimo citato ed oggi dall’art. 188 del d. L.vo 3 aprile 2006 n. 152.

Circa le modalità attraverso cui l’associazione faceva fronte agli oneri di legge in tema di smaltimento dei rifiuti, può ritenersi acclarato che “ i responsabili del servizio non avevano un registro di carico  e scarico [ dei rifiuti]” ( teste Biondi).

Anche a voler valorizzare, nonostante le perplessità sopra esposte, la fattura prodotta dalla difesa all’udienza del 1° marzo 2006, l’istruttoria ha inoltre provato che : gli oggetti non di piombo derivati dall’attività di tiro non venivano periodicamente raccolti e avviati allo smaltimento; quanto residuava dall’attività di tiro giaceva nel terreno senza che alcuna operazione venisse effettuata per accumulare i materiali in ammassi omogenei.

Tali risultanze consentono, ad avviso del collegio, di ricondurre la vicenda dedotta alla previsione normativa di cui al c. II dell’art. 51 D.lgs. 22/97 ora art. 256 D.l.vo 3 aprile 2006 n. 152.

E’ bene precisare che “ in tema di smaltimento di rifiuti, per potersi configurare il deposito temporaneo, sempre che il raggruppamento dei rifiuti avvenga nel luogo nel quale gli stessi vengono prodotti, devono sussistere tutte le condizioni previste dall'art. 6, lett. m) del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22– oggi lett. m art. 183 D.L.vo 152/06-, sia quelle quantitative che temporali, integranti delle condizioni "sine qua non" per la configurazione del deposito temporaneo. In difetto si configura il reato di deposito incontrollato sanzionato dall'art. 51, comma 2, del citato decreto n. 22” (Cass. Sez. 3^, sent. 09057 del 26/02/2003, Costa, rv. 224172).

Non è superfluo ricordare che la giurisprudenza di legittimità, in due inedite decisioni, ha precisato che l’onere della prova in ordine al verificarsi delle condizioni fissate per la liceità del deposito temporaneo grava sul produttore dei rifiuti in considerazione della natura eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti (Cass. Sez. III n. 21587 del 17 marzo 2004, marucci e Cass. Sez. III n. 30647 del 15 giugno 2004, Dell’Angelo, riportate in “La nuova disciplina dei rifiuti”, CEDAM, 2006).

Rapportando tali premesse al caso di specie, può senz’altro escludersi che nella vicenda possa essere configurata un’ipotesi di deposito temporaneo non risultando rispettata le condizioni prescritte dalla lettera m) dell'art. 6 del D.leg. 22/1997 con riferimento alla omogeneità i tipi di rifiuti accumulati e al periodo di permanenza degli stessi nel sito.  Si è gia detto che i rifiuti giacevano nel terreno mescolati al terreno senza che alcun raggruppamento per categorie omogenee venisse effettuato. Non vi è poi prova alcuna che i rifiuti, quanto meno quelli non costituiti da piombo, a voler assegnare valenza significativa alla fattura della ditta Duebbi, rinvenuti dal Corpo Forestale dello Stato nel corso del sopralluogo effettuato il 29 ottobre 2003 giacessero sul terreno da meno di un anno.

Se poi si considera che la gestione del campo da tiro faceva capo a ad un ente, sia pure di tipo associativo, che erogava anche prestazioni verso pagamenti di corrispettivi specifici nei confronti di soggetti diversi dagli associati, è evidente che il reato di deposito incontrollato o abbandono di rifiuti punito dal c. II dell’art. 51 D.L.vo n. 22 del 1997 può ritenersi senz’altro integrato. Ha infatti precisato la Suprema Corte che “le imprese o gli enti di cui tratta il secondo comma dell'art. 51 non sono soltanto quelli che effettuano una delle attività indicate nel primo comma (raccolta trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti), bensì qualsiasi impresa, avente le caratteristiche di cui all'art. 2082 c.c., o ente, sia con personalità giuridica che operante di fatto”. Espone la pronunzia a sostegno della conclusione del principio appena riportato: “ Tale assunto è spiegato, aldilà di interpretazioni formali delle singole disposizioni, dalla ratio del decreto Ronchi (simile a quella del D.P.R. n. 915/1982), tendente all'obiettivo di massima protezione ambientale (art. 2), e dunque ad impedire ogni rischio di inquinamento derivante da attività idonee a produrre rifiuti con una certa continuità, escluse perciò solo quelle del privato, che si limiti a smaltire i propri rifiuti al di fuori di qualsiasi intento economico” ( Cass. Sez. III, 2 marzo 2004, n. 9544  Rainaldi).

 Va invece escluso che il fatto accertato possa integrare il reato di discarica contestato in imputazione.

E’ noto che l’art. 51 comma terzo del testo vigente  del decreto legislativo 22/97 punisce “chiunque realizza o gestisce una discarica non autorizzata…”.Le condotte tipiche individuate dalle norma sono state poi analiticamente precisate,sia pure sotto la previgente disciplina,ma comunque in termini ancora attuali, dalle Sezioni unite della Cassazione ( Cass. Sez. Unite Penali, 28 dicembre 1994 n. 12753, Zaccarelli).Si legge nella pronunzia:” la realizzazione consiste nella destinazione e allestimento a  discarica  di una data area, con la effettuazione, di norma, delle opere  a  tal  fine  occorrenti:  spiana mento del terreno impiegato, apertura    dei    relativi  accessi,  sistemazione,  perimetrazione, recinzione,  ecc.  Tale  ipotesi,  per  la  sua struttura, ricorda da vicino  il  reato  di  costruzione  abusiva,  che  e' permanente fino all'ultimazione    dell'opera.    Dopodiche'    diventa   ad  effetti permanenti. La  seconda  ipotesi,  di gestione di discarica senza autorizzazione,presuppone  l'apprestamento  di  un'area per raccogliervi i rifiuti e consiste,   nell'attivazione  di  una  organizzazione,  articolata  o rudimentale  non  importa,  di  persone,  cose e/o macchine (come, ad esempio,   quelle  per  il  compattamento  dei  rifiuti)  diretta  al funzionamento  della  discarica.  Il reato e' permanente per tutto il tempo  in  cui  l'organizzazione  e'  presente e attiva”.

E’ ora opinione del collegio che gli elementi raccolti non consentano di configurare alcuna delle condotte tipiche contemplate dalla norma incriminatrice. E difatti non risulta che alcun intervento sia stato attuato sull’area al fine di consentire la ricezione di rifiuti né è emerso che sussistesse alcun tipo di organizzazione volta a consentire il funzionamento della discarica. Va anche aggiunto che la limitata estensione dell’area coperta dai rifiuti e l’insussistenza di modifiche all’assetto morfologico del territorio destinate a consentire la ricezione del materiale derivato dall’attività di tiro rappresentano ulteriori elementi confliggenti con la qualificazione prospettata dalla pubblica accusa.

Va anche aggiunto che pur non essendovi la prova che i rifiuti giacessero nell’area da più di un anno, non vi è però neppure la prova dell’opposta opzione ricostruttiva. Non è quindi applicabile alla vicenda la previsione di cui all’art. 2  D.L.vo 36/03 che qualifica in termini di discarica “qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo pr più di un anno.

Deve quindi ritenersi che la condotta accertata debba essere ricondotta ala nozione del deposito incontrollato. Non essendo quindi intervenuta alcuna autorizzazione amministrativa per l’esercizio di una tale attività, risulta configurabile nella vicenda il reato di cui al c. II dell’art. 51 D.lgs. 22/97.

Non è poi dubbio che il reato di deposito incontrollato accertato possa essere riferito all’odierna imputata.  Lo statuto sociale dell’associazione, al punto 17, prevede che “il presidente ha la rappresentanza legale dell’associazione nei confronti dei terzi…Le funzioni del Presidente, in caso di sua assenza, sono svolte dal Vice Presidente”. Il Presidente è poi componente di diritto del Consiglio Direttivo dell’Associazione ovvero dell’organo che “è responsabile verso l’assemblea dei soci della gestione sportiva dell’associazione”. E’ infine pacifico che, nell’autunno 2003, Coppola Annalisa fosse la vicepresidentessa dell’associazione e che la carica di presidente fosse vacante. Non vi è quindi dubbio che l’imputata fosse fra i soggetti che, nell’abito della struttura associativa, fosse giuridicamente tenuta all’osservanza della disciplina in tema di rifiuti violata.

Non ad eguale conclusione deve pervenirsi con riferimento agli altri imputati.

Il contratto di locazione datato 19 gennaio 1999 prodotto all’udienza del 1° marzo 1999 prova che il terreno su cui insisteva il campo di tiro era stato concesso in locazione dal proprietario, Magrini Bruno, all’associazione sportiva Laboma. Non risulta inoltre che il Magrini facesse parte della predetta associazione.

Va quindi escluso che il predetto imputato fosse tenuto ad assicurare che le operazioni di smaltimento o recupero dei rifiuti prodotti dall’attività di tiro avvenissero nel rispetto della normativa vigente.Del pari non è rimasto provato che l’imputato fosse consapevole delle irregolarità accertate in tema di rifiuti a carico dell’associazione conduttrice del terreno. Tanto basta per escludere che l’imputato possa essere chiamato a rispondere, a titolo di concorso, nella contravvenzione accertata.

L’imputato va quindi mandato assolto dal reato ravvisato in relazione al fatto descritto al capo b) con la formula di cui al dispositivo.

Ancora più evidente risulta l’estraneità ai fatti di causa di Marini Pietro. L’imputato, infatti, non ha avuto alcun ruolo nella gestione del poligono né il tipo di accertamenti lui affidato era relativo al rispetto della disciplina in tema di rifiuti.

Non può essere inoltre configurato il reato paesaggistico contestato al capo c) dell’imputazione.

L’estensione ridotta della superficie interessata dal deposito irregolare dei rifiuti, la minima incidenza sulla visuale panoramica e d’insieme derivata dalla violazione sopra accertata e l‘assenza di modificazione apportate al sito in relazione militano contro la tesi accusatoria secondo la quale la permanenza dei rifiuti sul terreno sarebbe stato in grado di produrre un vulnus apprezzabile al paesaggio circostante. Aderendo quindi all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi in materia (Cass. : Sez. 3^, 3 marzo 2000, Faiola, m. 216.975; Sez. 3^, 26 novembre 1999, Gargiulo, m. 215.891; Sez. 3^, 2 ottobre 2001, Farà, m. 220.356; Sez. 3^, 17 marzo 1999, Zotti, m. 213.243) che esclude, per  il principio di necessaria lesività sotteso ad ogni tipo di illecito, l’integrazione del reato in presenza di interventi che “si prospettano, anche in astratto, inidonei a compromettere a  alterare il paesaggio”,  è quindi quanto meno dubbio che possano configurarsi nella vicenda gli estremi del reato paesaggistico contestato.

Venendo quindi all’ ipotesi contravvenzionale contestata al capo d) lo stesso consulente del PM, Pellegrino Mario, ha ammesso che “la legge prescrive esclusivamente delle norme per i poligono istituzionali” mentre nessuna disciplina regola l’attività dei poligoni non istituzionali.  Non risulta poi che sia mai intervenuto alcun provvedimento amministrativo che imponesse all’associazione di collocare cartelli ovvero ripari in prossimità del campo di tiro. 

Tanto basta per escludere la sussistenza della contravvenzione in esame.

Ad analoga conclusione deve pervenirsi con riferimento al reato contestato al capo e). 

E’ bene premettere che soggetto attivo del reato in esame –così come di quelli contestati al capo a- è chiunque realizzi le condotte previste e non già colui che permette che altri realizzino. Non vi è quindi dubbio che l’organo dell’accusa, pur omettendo di richiamare in rubrica l’art. 110 cp, abbia inteso contestare agli imputati l’agevolazione prestata in favore degli agenti rimasti ignoti.

Dalla consulenza redatta dal consulente del Pm, Pellegrino Mario, si evince che la “quota della depressione artificiale rispetto all’originale piano di campagna è attualmente pari a circa 40-50 m”. Il teste Donato Giotta ha poi ricordato che per raggiungere il campo di tiro “bisognava scendere parecchi metri”. Il teste Biondi ha valutato la parete di cava contro la quale erano indirizzati i tiri alta “70 metri”.  Le foto versate in atti dimostrano poi che:  le pareti della cava hanno un andamento quasi verticale; i manufatti ospitanti i tiratori erano muniti di protezioni frontali che limitavano verso l’alto l’angolo di tiro così impedendo che le ogive espulse potessero seguire parabole che le proiettassero oltre il perimetro della cava. Non risulta, inoltre, che anche uno solo dei proiettile sparati nel campo di tiro abbia superato le pareti della cava ricadendo nell’area sovrastante. Non è quindi esatto che i frequentatori del poligono mirassero in direzione della pubblica via.

 I rilevamenti fotografici inseriti alle pagg. 230 e 231 del fascicolo dibattimentale rilevano, inoltre, che le poche abitazioni situate nell’are sono ad una certa distanza dal perimetro della cava. Ed anche il teste Biondi ha ricordato che le prime abitazioni sono situate oltre la strada Campagnanese, “a circa  un chilometro”. Il teste Monti Maurizio ha infine ricordato che la valutazione di impatto acustico redatta su richiesta dei responsabili dell’associazione Laboma nel 1998 l’aveva portato a concludere che lo svolgimento dell’attività di tiro, per le caratteristiche del sito, non violava la soglia di tolleranza fissate dalla disciplina all’epoca vigente. Alla luce di tali elementi l’integrazione del reato in parola può essere esclusa anche con riferimento alla vicinanza del poligono ad “un luogo abitato”.

Gli imputati vanno anche mandati assolti dalle contravvenzioni contestate al capo a).

Le considerazioni sopra svolte in relazione al reato contestato al capo  b) consentono già di escludere l’integrazione del reato contestato con riferimento alla prescrizione di cui all’art. 11 c. III lett. b).

Le dichiarazioni rese dai testi Lazzarini e Savi, secondo cui nella cava non era frequentata dagli animali selvatici, non risultano smentite da alcun elemento di segno contrario. Anche il reato incentrato sul disturbo degli animali può quindi ritenersi essere rimasto privo di adeguato supporto probatorio.

E’ poi noto che l’art. 11 c.III l. f) vieta nei parchi l’introduzione, da parte dei privati, di armi da fuoco. E’ evidente che la violazione della norma è da addebitare a colui che materialmente introduce l’arma nel perimetro del parco. A ciò consegue che gli imputati possono, al più, rispondere a titolo di concorso morale nella contravvenzioni contestata. Sennonché Coppola Annalisa divenne legale rappresentante dell’associazione anni dopo l’inizio dell’attività di tiro. E’ quindi, quanto meno, dubbio che la stessa abbia potuto ingenerare ovvero istigare o quanto meno rafforzare nei soci la volontà di violare la disposizione in parola. Non avendo, poi,  Magrini e Marini alcun compito di vigilanza in ordine alla prescrizione che si assume violata è da escludere che gli stessi possano rispondere della contravvenzione contestata sia pure a titolo di colpa.

E’ quindi possibile esaminare gli elmenti di valutazione consegnati dall’istruttoria dibattimentale in relazione ai delitti contestati a Marini Pietro.

Alle pagg. 68 e 69 (numerazione in rosso) del fascicolo dibattimentale sono inserite le relazioni di servizio datate 8 e 9 ottobre 2003 da Marini Pietro, all’epoca dei fatti vice comandante della Polizia Municipale del Comune di Campagnano.

Si legge nella relazione datata 8 ottobre 2003: “Come da disposizioni d’ufficio mi sono recato in via delle Castagneta presso il poligono di tiro per constatare la sospensione dei lavori disposti con ordinanza sindacale n. 58 del 15 giugno 2001. Dall’emissione dell’ordinanza i lavori non sono continuati e al momento i manufatti in pali di legno e lamiere ondulate sono in fase di smantellamento in quanto il poligono verrà trasferito altrove”. Si legge nella nota datata 9 ottobre 2003: “…In riferimento all’ordinanza di cui in oggetto si comunica che in data 8 ottobre 2003 si è riscontrato che la stessa non è stata eseguita.Al momento dell’emissione dell’ordinanza i lavori sono terminati.Ora sono in fase di demolizione…”.

Orbene, le deposizioni rese dai testi Biondi e Lazzarini e i rilievi fotografici datati 29 ottobre 2003 provano che al momento del sopralluogo effettuato dal personale del Corpo Forestale dello Stato il campo di tiro era funzionante e i manufatti che lo componevano erano completi in ogni loro parte.Va anche aggiunto che il teste Biondi ha riferito che solo in occasione del sequestro effettuato il 7 gennaio 2004 notò che “erano state tolte alcune lamiere”.

La difesa ha però tentato di superare il dato inconfutabile appena esposto rappresentando che:  l’8 ottobre 2003, allorquando Marini si era recato nella cava, i manufatti del campo erano effettivamente in fase di demolizione; nei giorni successivi, però, avendo i soci appreso che il procedimento per abuso edilizio avviato dalla Procura di Roma era stato archiviato, le strutture asportate erano state rimontate.

Tale ricostruzione è però smentita dalle emergenze istruttorie.

Il teste Biondi Domenico ha, infatti, sostenuto che dall’esame degli ordini di servizio degli istruttori di tiro e dei relativi fogli di viaggio era emerso che l’8 ottobre 2003 nel poligono si era svolta un’esercitazione della Polizia di Stato. Deve pertanto ritenersi, a voler assumere la veridicità della tesi difensiva, che l’8 ottobre,  da una parte il personale incaricato dall’associazione provvedeva alla rimozione dei pali e all’asportazione delle lamiere di copertura, dall’altra gli agenti utilizzavano le medesime strutture in corso di demolizione per la loro esercitazione.

Il teste Lazzarini ha poi ricordato che “lo smontaggio dei manufatti “ è “cominciato ….il giorno del sequestro del poligono” ( avvenuto il 30 dicembre 2003) ed ha negato che, in precedenza, componenti dei manufatti fossero stati asportati per essere poi rimontati successivamente.

Ma elementi contrari alla tesi difensiva si ricavano persino dalla deposizione, del tutto inattendibile, resa da Iersanti Paola. La teste ha infatti esordito sostenendo di ricordare nitidamente che l’8 ottobre 2003 le strutture del campo erano in fase di smantellamento: a riprova di tale affermazione ha aggiunto che venti giorni dopo, in occasione del sopralluogo effettuato dall’isp. Biondi,  c’erano solo “scheletri di strutture” in quanto “erano state tolte le coperture, gran parte dei laterali che costituivano i gabbiotti”. Esaminando, inoltre, i rilievi fotografici raccolti il 29 ottobre 2003, raffiguranti, giova ribadirlo, i manufatti completi in ogni loro parte, la teste ha dichiarato, senza esitazione, che “quelle erano le strutture che c’erano prima dello smantellamento” iniziato “alla fine di settembre”. Nonostante le suggestive domande lei rivolte, inoltre, la teste ha negato che, una volta iniziato lo “smantellamento”, parte delle strutture asportate fossero state temporaneamente rimesse al posto che originariamente occupavano.

Può quindi ritenersi provato che le due note sopra riportate a firma di Marini Paolo siano ideologicamente false.

Venendo quindi alla qualificazione giuridica del falso accertato, va osservato che con le relazioni incriminate l’imputato, nell’esercizio delle sue funzioni di pubblico ufficiale,  ha attestato che le circostanze rievocate nel documento erano cadute sotto la sua diretta percezione. E’ quindi evidente che non vi sono motivi per discostarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale che qualifica le dichiarazioni di scienza in esame quali atti pubblici fidefacenti e,  conseguentemente, riconduce il falso ideologico in esse consacrato alla figura delittuosa prevista dagli artt. 479 e 476 c. II cp. (Cass. 4.11.1993, Braccini; Cass., 11.10.2002, Marino Rv. 226983).

 Non può invece pervenirsi ad un giudizio di condanna in relazione al reato contestato al capo  g). La condotta favoreggiatrice posta in essere dall’imputato, infatti, si è esaurita  nella relazione delle due relazioni ideologicamente false. Deve quindi ritenersi che la condotta accertata integra solo la condotta di  falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.) e non anche quella di abuso d'ufficio (art. 323 cod. pen.). In proposito il Collegio ritiene che la clausola di riserva contenuta nell’art. 323 costituisca un ostacolo insormontabile alla possibilità di configurare il concorso formale ipotizzato dall’organo dell’accusa. Tale convincimento trova peraltro autorevole avallo nel prevalente orientamento giurisprudenziale. Si legge al riguardo in una recente pronunzia della Suprema Corte: “il carattere sussidiario e residuale del reato di abuso d'ufficio - desumibile dalla esplicita riserva "salvo che il fatto non costituisca più grave reato", contenuta anche nella nuova formulazione dell'art. 323 cod. pen., dovuta alla legge n. 234 del 1997 - implica che, qualora la condotta addebitata si esaurisca nella commissione di un fatto qualificabile come falso ideologico in atto pubblico, solo di tale reato l'agente deve rispondere e non anche dell'abuso d'ufficio, da considerare assorbito nell'altro, a nulla rilevando, in contrario, la diversità dei beni giuridici protetti dalle due norme incriminatici” (Cass. Sez. 5, 19 maggio 2004, Piccirillo, rv 228681; Sez. 5^, 21 ottobre 1998, D'Asta, rv. 211928; Cass. V, 09/11/2005 n. 45225, Bernardi  Rv. 232724).

Venendo quindi al tema della pena, lo stato di incensurati di Coppola Annalisa e di Marini Pietro consentono di concedere le attenuanti generiche, da ritenere per Marini prevalenti sull’aggravante di cui al c. II dell’art. 476 cp.

Avuto riguardo per i criteri indicati dall’art. 133 cp, appare congrua la pena di € 1800,00 di ammenda ( pb. € 2700,00)per Coppola Annalisa  e di mesi otto di reclusione per Marini Pietro ( pb. anni uno). Segue per legge la condanna dei predetti imputati al pagamento in solido delle spese processuali.

Lo stato di incensurati consente di concedere ad entrambi i condannati i benefici della sospensione condizionale della pena e quello della non menzione della condanna.

Avuto riguardo per le conseguenze pregiudizievoli arrecate agli enti costituiti parti civili dalla permanenza, all’interno della cava, dei rifiuti prodotti dall’attività di tiro Coppola Annalisa deve essere condannata a risarcire i danni morali e materiali cagionati agli enti costituiti parti civili. Sarà compito pertanto del giudice civile procedere alla determinazione del ristoro economico dovuto da Coppola Annalisa agli enti costituti parti civili.

Considerato che la condotta infedele tenuta dal Marini ha potuto, al più, ritardare di qualche giorno l’avvio del procedimento penale ma non ha influito in maniera significativa sulle operazioni di bonifica del sito, la pretesa risarcitoria avanzata dal Parco di Veio nei confronti del predetto imputato deve essere rigettata.Nessuna statuizione deve invece essere adottata a carico di Marini e in favore del Comune  di Campagnano avendo l’ente territoriale dichiarato, in sede di discussione, di “non formulare alcuna richiesta di risarcimento danni nei confronti di Marini Pietro”.

Coppola Annalisa, inoltre, va altresì condannata, in solido, a rifondere alle costituite parti civili le spese di costituzione e difesa che vengono liquidate, per ciascun ente, in € 2000,00, oltre IVA e CPA. Motivazione in giorni sessanta.

P.Q.M.

Letti gli artt. 533 e 535 cpp

DICHIARA

Coppola Annalisa colpevole del reato di cui all’art. 51 c. II d.lgs. 22/97 e successive modifiche, così riqualificato il capo b), e Marini Pietro colpevole del reato di cui al capo f), assorbita in tale imputazione quella di cui al capo g) e, con la concessione ad entrambi delle circostanze attenuanti generiche, prevalenti sull’aggravante per Marini, condanna Coppola Annalisa alla pena di € 1800,00 (milleottocento) di ammenda e Marini Pietro alla pena di mesi otto di reclusione, oltre che al pagamento, in solido, delle spese processuali. Pena sospesa e non menzione per entrambi. Condanna la Coppola al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili da liquidarsi in separata sede, oltre al rimborso delle spese di costituzione e difesa che liquida, quanto all’ente Parco di Veio in € 2000,00 e quanto al Comune di Campagnano in € 2000,00;

letto l’art. 530 cpp

ASSOLVE

Magrini Bruno da tutte le imputazioni ascrittigli e, Coppola Annalisa e Marini Pietro da tutti gli ulteriori reati loro rispettivamente ascritti perché il fatto non sussiste eccezion fatta per il reato di cui al capo b), così diversamente qualificato, dal quale il Marini e il Magrini vanno assolti per non aver commesso il fatto.Motivazione in giorni sessanta.

Tivoli, 16 maggio 2007

IL GIUDICE
dott. Lorenzo Antonio Bucca
                               

                                                                                                        Il Presidente

                                                                                                    Dott. Fabrizio Gentili