TAR Lombardia (MI) Sez. III n. 1816 del 14 giugno 2024
Rifiuti.Inquinamento del suolo e test di cessione

Il D.M. del 1998 si occupa di stabilire le condizioni che permettano ad un certo materiale di non essere considerato rifiuto, e di sottrarsi, perciò, alla relativa disciplina. Altra questione è di verificare se l’impiego di tale materiale dia comunque adito ad inquinamento ambientale. In tale ultimo caso le MPS non possono godere di un trattamento di favore rispetto a qualsivoglia altra sostanza, non costituente rifiuto, che venga accumulata sul suolo e lo contamini. In base al principio “chi inquina paga” il superamento del test per sottrarsi alla disciplina dei rifiuti non può equivalere a licenza di inquinare, senza osservare le precauzioni, anche in termini di verifica dell’effettiva capacità contaminante delle MPS, che gravano sull’operatore.

Pubblicato il 14/06/2024

N. 01816/2024 REG.PROV.COLL.

N. 00288/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 288 del 2021, proposto da
-OMISSIS- S.p.A., rappresentata e difesa dagli avvocati Fabio Todarello, Delia Schiaroli e Alice Colleoni, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio del primo in Milano, piazza Velasca, 4;

contro

Provincia di Varese, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Daniele Albertini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

nei confronti

Comune di Varese, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesca Benzoni, Laura Luoni e Antonella Pomati, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Arpa Lombardia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fiorella Battaini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Agenzia Regionale Protezione Ambiente (Arpa) - Lombardia - Dipartimento di Varese, non costituita in giudizio.

per l'annullamento

- del provvedimento della Provincia di Varese, Area Tecnica, Settore Territorio, prot. 2020/50559 del 10/12/2020, trasmesso via PEC ad -OMISSIS- S.p.A. in pari data, recante “Programma Integrato di Intervento “AT21-Malerba” – Conclusione istruttoria art. 245 del D.Lgs. 152/06 per la ricerca del responsabile della potenziale contaminazione da CrVI rinvenuto nelle acque di falda”, con il quale la Provincia ha dichiarato conclusa l'istruttoria del procedimento ex art. 244 e 245 D.lgs. 152/2006, avviato per l'individuazione del responsabile della contaminazione rinvenuta sull'area c.d. Area Ex Malerba, nel Comune di Varese;

- della nota recante “Programma Integrato di Intervento “AT21-Malerba” – Conclusione istruttoria art. 245 del D.Lgs. 152/06 per la ricerca del responsabile della potenziale contaminazione da CrVI rinvenuto nelle acque di falda - Valutazione Tecnica -”, allegata al provvedimento della Provincia di Varese prot. 2020/50559 del 10/12/2020, nonché di tutti gli ulteriori atti presupposti, consequenziali e/o comunque connessi ai provvedimenti qui gravati, ancorché non noti.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Provincia di Varese, del Comune di Varese e di Arpa Lombardia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 maggio 2024 il dott. Mauro Gatti e uditi per le parti i difensori Avv. Arcadi in sostituzione dell'avv. Todarello. Avv. Albertini. Avv. Battaini. Avv. Benzoni.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

La società ricorrente è proprietaria dell’area denominata “Ex Malerba”, sita in Via Gasparotto nel Comune di Varese, in passato adibita ad uso industriale, e su cui ha realizzato un nuovo supermercato.

Con nota del 30.6.2015, la ricorrente ha comunicato agli Enti competenti l’avvio di una campagna di attività di recupero di rifiuti non pericolosi generati dalla demolizione degli edifici industriali ancora esistenti sul sito in questione, con la finalità di utilizzarli quali materie prime secondarie (nel proseguo “MPS”) nell’attività di nuova edificazione.

Con decreto n. 2003 del 21.3.2016, i lavori sono stati esclusi dalla procedura di VIA, la cui Relazione Istruttoria imponeva, tra le varie prescrizioni, la predisposizione di un “Progetto di Piano di Monitoraggio Ambientale della componente acque sotterranee”, per la verifica degli impatti ambientali significativi generati dall’opera nelle sue fasi di attuazione.

Nell’ambito dei monitoraggi svolti nei mesi di luglio e ottobre 2017, la ricorrente ha rilevato la presenza di superamenti delle concentrazioni delle soglie di contaminazione (nel proseguo “CSC”) previste per le acque sotterranee dalla Tabella 2, Allegato 5 al Titolo V, Parte Quarta, del D.Lgs. n. 152/06, per i parametri Cromo VI e idrocarburi, sicché in data 17.11.2017 notificava agli enti, in qualità di proprietaria incolpevole, la potenziale contaminazione rinvenuta nella falda ai sensi dell’art. 245, comma 2, D.lgs. n. 152 cit.

In data 12.12.2017, la Provincia di Varese avviava il procedimento per l’individuazione del responsabile della potenziale contaminazione, che si concludeva con i provvedimenti impugnati nel presente giudizio, che l’hanno attribuita alla società ricorrente.

Il Comune di Varese, la Provincia di Varese a Arpa, si sono costituiti in giudizio, insistendo per il rigetto del ricorso, in rito e nel merito.

Nelle more del giudizio, il procedimento di bonifica si è concluso, così come i lavori per la realizzazione del supermercato, che è stato aperto al pubblico in data 24.3.21.

All’udienza pubblica del 30.5.24 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

In via preliminare, va scrutinata la richiesta di estromissione dal giudizio presentata dal Comune, a cui la ricorrente non ha replicato, e che va accolta, avendo ad oggetto provvedimenti emessi da soggetti diversi, ed a seguito di un procedimento a cui rimasto estraneo, non essendo inoltre formulata alcuna censura in merito all’operato del Comune medesimo.

Ancora in via preliminare, il Collegio dà atto che, malgrado i controlli per la determinazione dei parametri cromo VI effettuati nelle more del giudizio, come detto, abbiano dato esito negativo a seguito della esecuzione della bonifica, permane un interesse alla sua definizione, in relazione all’accertamento della qualifica di responsabile della contaminazione, contestata dalla ricorrente.

Quanto al contenuto dei provvedimenti impugnati, il Collegio dà atto che la presenza di Cromo nelle acque, posta a loro fondamento, è imputata a due cumuli di MPS, depositati in prossimità dei piezometri PZ2 e PZ3, conforme alla normativa per quanta riguarda il Cromo Totale, e quindi al DM 5/2/1998, ma non conformi, per il parametro Cromo VI, ai valori di cui alla Tab. 2 All. V del D.Lgs. n. 152/06.

I.1) Con il secondo motivo, che per ragioni logiche il Collegio ritiene di scrutinare per primo, la ricorrente lamenta il difetto di istruttoria in cui sarebbe incorsa la Provincia nel fondare la correlazione tra i superamenti delle CSC per il parametro Cromo VI nella falda e le MPS riutilizzate, ritenendo che non sia stata sufficientemente “rigorosa e approfondita”, e che in sostanza non abbia dimostrato l’esistenza di un concreto nesso di causalità tra MPS e contaminazione della falda.

I.2) In primo luogo, il Collegio dà atto della infondatezza del motivo, tenuto conto del consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui, in materia ambientale, l’accertamento del nesso fra una determinata presunta causa di inquinamento ed i relativi effetti, si basa sul criterio del “più probabile che non”, e cioè richiede che il nesso eziologico ipotizzato dall’autorità competente sia più probabile della sua negazione (C.S Sez. IV, 21.2.2023, n. 1776).

Nella fattispecie per cui è causa, il nesso eziologico è stato peraltro adeguatamente dimostrato, dalla presenza dei due cumuli di MPS, che erano depositati in prossimità dei piezometri PZ2 e PZ3, che hanno rilevato la presenza di cromo, come a contrario confermato dal fatto che, tutti quelli esterni al sito, non l’hanno invece rilevato, potendo dedursi l’esistenza di un chiaro nesso eziologico tra l’utilizzo, ed il lungo deposito e dilavamento delle MPS all’interno del cantiere, e la contaminazione da Cromo VI nella falda sottostante.

Nella propria memoria, la ricorrente riconosce “che il Cromo VI è altamente solubile”, sostenendo tuttavia “che nel momento in cui tale contaminante viene lisciviato in falda una traccia di esso necessariamente rimane nei terreni, che in altri termini, non potrebbero non essere intaccati dal passaggio del Cromo VI verso la falda”, laddove nel caso di specie, non erano presenti detti residui, a comprova dell’inattendibilità degli accertamenti effettuati, trattandosi tuttavia di un’affermazione generica, non supportata da evidenze tecniche, e pertanto inidonea a scalfire le risultanze del provvedimento impugnato.

II.1) Verificata in fatto la correttezza degli accertamenti esperiti dalle Amministrazioni, può passarsi a scrutinare il primo motivo, in cui la ricorrente censura il fondamento giuridico dei provvedimenti impugnati, che a suo dire, non avrebbero dovuto applicare il D.Lgs. n. 152/06, quanto invece, il solo DM 5.2.1998.

La ricorrente, nella sostanza, reputa che una volta verificata la conformità delle MPS ai criteri di cui al DM 5/2/98, esse possano essere utilizzate liberamente, senza che ne possa derivare alcuna responsabilità per l’ipotesi che si generi inquinamento.

Fin d’ora si può premettere che l’assunto è infondato.

In fatto, va premesso che l’applicazione dei parametri recati dal d.lgs. n. 152 del 2006 è avvenuta per determinare lo stato inquinato del terreno, che è fuori discussione in causa. È vero che ai medesimi parametri l’amministrazione si è richiamata con riferimento alle MPS, ma ciò è avvenuto non già per negare loro tale qualità, in contrasto con quanto già accertato, ma al solo fine di verificare se il cromo esavalente potesse provenire dagli accumuli imputabili alla ricorrente, ipotesi che ha trovato piena conferma.

Ciò detto, è proprio l’assunto da cui muove la ricorrente, vale a dire la netta distinzione tra disciplina dei rifiuti e disciplina delle bonifiche, a chiarire che il superamento del test concernente le MPS a nulla vale sul piano della normativa di ripristino ambientale.

Il D.M. del 1998 si occupa, infatti, di stabilire le condizioni che permettano ad un certo materiale di non essere considerato rifiuto, e di sottrarsi, perciò, alla relativa disciplina. Altra questione è poi di verificare se l’impiego di tale materiale dia comunque adito ad inquinamento ambientale.

In tale ultimo caso le MPS non possono godere di un trattamento di favore rispetto a qualsivoglia altra sostanza, non costituente rifiuto, che venga accumulata sul suolo e lo contamini.

Del resto, ne è dimostrazione proprio il caso di specie, verificatosi perché il DM del 1998 si limita a monitorare i valori del cromo totale, mentre gli sfuggono quelli del cromo esavalente, sicché è ben possibile che ad un cromo totale nei limiti corrisponda un cromo esavalente tale da generare inquinamento.

In base al principio “chi inquina paga” il superamento del test per sottrarsi alla disciplina dei rifiuti non può equivalere a licenza di inquinare, senza osservare le precauzioni, anche in termini di verifica dell’effettiva capacità contaminante delle MPS, che gravano sull’operatore.

Ciò premesso, possono esaminarsi più nel dettaglio i motivi di ricorso.

L’art. 9, c. 2 del D.M., nel dettare le norme tecniche per il recupero dei rifiuti non pericolosi, prevede che “il test di cessione sui campioni ai fini della caratterizzazione dell'eluato, è effettuato secondo i criteri e le modalità di cui all'Allegato 3 al presente regolamento”, che a sua volta, riporta in una tabella i valori limite con cui devono essere confrontati i risultati dei suddetti test di cessione, il cui rispetto sarebbe di per sé sufficiente, non essendo infatti nel DM cit. richiamati i valori delle CSC di cui alla Tabella 2 del D.Lgs. n. 152/06, il cui superamento, come detto, è stato invece posto a fondamento dei provvedimenti impugnati.

I.2) Sotto un ulteriore profilo, la ricorrente sostiene che il rispetto delle predette CSC, non possa avere ad oggetto le MPS, perché queste ultime non costituiscono matrici ambientali, ex art. 240, comma 1, lett. a), D.lgs. 152/06. Ulteriormente, la ricorrente deduce che i test di cessione, effettuati nel rispetto dei criteri di cui al DM 5 febbraio 1998, sono per definizione espressamente volti ad escludere un possibile rilascio in falda del campione iniziale, derivandone che, nel caso di specie, l’appurata conformità ai test di cessione sarebbe già di per sé valida ad escludere che dalle MPS si possano verificare fenomeni contaminanti.

I.3) Da ultimo, evidenzia la ricorrente che, se è pur vero che il Cromo VI non rientra tra i parametri per i quali l’Allegato 3 del DM individua i valori limite con cui devono essere confrontati i risultati dei test di cessione, ciò non potrebbe certo giustificare l’applicazione dei ben diversi limiti previsti dalla Tabella 2 dell’Allegato 5 al Titolo V, Parte Quarta, D.lgs. 152/2006, stabiliti per una verifica analitica del tutto differente.

II) Le censure vanno respinte, non potendo in sostanza accogliersi la ricostruzione offerta dalla ricorrente circa il rapporto tra il D.Lgs. n. 152/2006 e il DM 5.2.1998.

Tale ultima disposizione, costituisce infatti una disciplina speciale, in quanto volta a regolamentare una particolare fattispecie, finalizzata a verificare la possibilità di recupero dei rifiuti inerti, al fine di consentirne il riutilizzo, senza tuttavia in alcun modo derogare alla disciplina generale di cui al D.Lgs. n. 152/06.

Quanto precede trova conforto nello stesso testo del DM 5.2.1998, il cui art. 1 c. 3 prevede espressamente che “le attività, i procedimenti e i metodi di recupero di ogni tipologia di rifiuto, disciplinati dal presente decreto, devono rispettare le norme vigenti in materia di tutela della salute dell'uomo e dell'ambiente”, non essendo quindi configurabile l’interpretazione integratrice e derogatoria della norma primaria propugnata nel ricorso.

Conseguentemente, malgrado la ricorrente, nella propria memoria, invochi l’art. 5, c. 2, lett. d-bis) del D.M. per escludere l’applicabilità del D.Lgs. n. 152/06, imponendo tale disposizione che l'utilizzo dei rifiuti nelle attività di recupero debba essere conforme a quanto previsto dalla legislazione vigente, a suo dire, per la sola materia del “ripristino ambientale”, come detto, il D.M. cit, richiama in realtà, nell’art. 1, anche il necessario rispetto della normativa generale, e non solo di quella specifica citata nell’art. 5, c. 2, lett. d-bis) cit.

Se è pur vero che un materiale recuperato è considerato ambientalmente compatibile, e quindi idoneo al posizionamento sul suolo o nel suolo per colmare depressioni o per necessità di reinterri, qualora soddisfi i requisiti del test di cessione di cui all’Allegato 3 al DM, questi ultimi non esauriscono gli obblighi che la legge prevede per il riutilizzo delle MPS, ed al fine della verifica della loro compatibilità ambientale. Come correttamente evidenziato dalla ricorrente nella propria memoria, i test di cessione sono “espressamente funzionali ad escludere una possibile lisciviazione o il rilascio in falda del campione iniziale”, non potendo darsi corso agli interventi a fronte di un superamento dei valori, ma nel caso in cui ciò si verifichi concretamente, come ha avuto luogo nel caso di specie, non può che trovare applicazione la disciplina di cui al D.Lgs. n. 152/06.

Né può sostenersi, per escluderne l’applicazione, che le MPS non costituiscono matrici ambientali, atteso che l’Allegato 5, dettato in materia di “Concentrazione soglia di contaminazione”, si riferisce espressamente a quella presente nelle acque sotterranee, indipendentemente dalla causa della contaminazione stessa.

Del resto, si tratta di profilo irrilevante in causa: ciò che conta è che l’uso delle MPS, a causa del loro contenuto di cromo esavalente, abbia determinato l’inquinamento del terreno.

In conclusione, le disposizioni del D.M. invocate dalla ricorrente, compreso il mancato riferimento al Cromo VI, non possono essere lette come derogatorie alla disciplina generale, che continua a trovare applicazione anche qualora, in virtù delle stesse, i rifiuti non pericolosi hanno trovato impiego nell’attività costruttiva.

Il ricorso va pertanto respinto.

Quanto alle spese, sussistono giusti motivi per compensare le stesse tra le parti, in ragione delle peculiarità della vicenda.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, previa estromissione dal giudizio del Comune di Varese, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità della società ricorrente.

Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 30 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati:

Marco Bignami, Presidente

Fabrizio Fornataro, Consigliere

Mauro Gatti, Consigliere, Estensore