Cass. Sez. III n. 27699 del 16 luglio 2010 (Ud 20 mag. 2010)
Pres. Onorato Est. Franco Ric. Coppola ed altro
Urbanistica. Responsabilità del progettista

Il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica utilità anche con riferimento alla relazione iniziale che accompagna la denuncia di inizio attività e quindi assumono rilevanza penale anche le false attestazioni contenute in questa relazione, qualora riguardino lo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistici vigenti e non già la mera intenzione del committente o la futura eventuale difformità con le opere in concreto realizzate.

 

UDIENZA del 20.05.2010

SENTENZA N. 1041

REG. GENERALE N. 45494/2009


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III Penale


Composta dagli Ill.mi Sigg.:


1. Dott. Pierluigi Onorato                                         Presidente
2. Dott. Agostino Cordova                                        Consigliere
3. Dott. Aldo Fiale                                                   Consigliere
4. Dott. Amedeo Franco                                          (est.) Consigliere
5. Dott. Luigi Marini                                                 Consigliere


ha pronunciato la seguente


SENTENZA


- sul ricorso proposto da Coppola Maria, nata a Napoli il 00.00.0000, e da Massaro Roberto, nato a Napoli l'00.00.0000;
- avverso la sentenza emessa il 24 settembre 2008 dalla corte d'appello di Napoli;
- udita nella pubblica udienza del 20 maggio 2010 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
- udito il Pubblico Ministero in persona Sostituto Procuratore Generale dott. Vincenzo Geraci, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
- udito il difensore avv. Vincenzo Dostuni;


Svolgimento del processo


1. Con sentenza 23.11.2006 il giudice del tribunale di Napoli assolse Coppola Maria e Massaro Roberto dal reato di abuso edilizio perché il fatto non sussiste e li dichiarò colpevoli del reato di cui agli artt. 29 d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380, e 359 e 481 cod. pen. per avere descritto nella DIA e nella integrazione alla DIA false rappresentazioni dello stato dei luoghi e li condannò, con le attenuanti generiche, alla pena di mesi tre di reclusione ciascuno, con la sospensione condizionale della pena e con l'onere, per la Coppola, della prestazione di attività non retribuita in favore della collettività e con il risarcimento del danno in favore del comune di Napoli costituitosi parte civile.


La corte d'appello di Napoli, con la sentenza in epigrafe, confermò la sentenza di primo grado.


In particolare i giudici del merito hanno accertato:

- che la Coppola aveva presentato una DIA per l'esecuzione di lavori di ristrutturazione, con allegata relazione tecnica del progettista Massaro, in cui si dichiarava che i lavori consistevano esclusivamente nella riorganizzazione degli spazi interni e che l'immobile (sito in zona centro storico), accatastato con destinazione abitativa, non avrebbe subito un mutamento di destinazione d'uso perché i locali erano adibiti ad uso improprio, e cioè commerciale e non abitativo;

- che a seguito di richiesta di chiarimenti, era stata presentata una integrazione alla DIA con relativa relazione tecnica nella quale si affermava che l'immobile non sarebbe stato soggetto a mutamento di destinazione d'uso;

- che invece era stato accertato che in realtà i locali erano stati destinati ad uso esclusivamente commerciale e non abitativo, sicché vi era stato un cambio di destinazione d'uso.


2. Gli imputati propongono ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione dell'art. 29 d.p.R. 380/2001. Osservano che l'ultimo comma di questa disposizione prevede due fattispecie: una punita solo con sanzioni disciplinari e l'altra con sanzioni penali. Queste ultime sono applicabili solo quando le false attestazioni riguardano opere già realizzate e non operano quindi per gli eventuali falsi contenuti nella relazione che accompagna la richiesta di DIA, anteriormente alla esecuzione delle opere. La disciplina normativa nazionale e regionale esclude la necessità del permesso di costruire per il mutamento di destinazione d'uso in zone omogenee, tanto che non è stato contestato il reato di cui all'art. 44 d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380. Osserva anche che la relazione di cui all'art. 23, comma 1 (di cui parla l'art. 29) è appunto la DIA e non la certificazione di collaudo finale prevista dal comma 7 dello stesso articolo. Inoltre, non è ipotizzabile che un tecnico incaricato dal privato assuma un ruolo pubblicistico al momento del conferimento dell'incarico, potendo assumere tale ruolo solo al momento in cui certifica che le opere già «realizzate» sono conformi.
2) violazione dell'art. 165 cod. pen. perché si trattava di pena condonata sicché la prestazione della attività lavorativa non era compatibile con il condono. In ogni caso è stata applicata la norma del nuovo testo dell'art. 165 cod. pen., modificato dopo il fatto in esame, pur trattandosi di norma avente carattere sostanziale. La corte d'appello ha errato nel confermare la statuizione in mancanza di un espresso dissenso dell'imputato, dal momento che il dissenso era stato espresso con l'atto di appello.
3) violazione degli artt. 62 bis, 133 e 481 cod. pen. perché è stata data una pena non adeguata al fatto ed illogica rispetto alla concessione delle attenuanti generiche, senza alcuna motivazione.
4) escludersi la parte civile e la conseguente condanna al risarcimento del danno in favore del comune. La corte d'appello ha confermato la condanna perché vi sarebbe stata una lesione dell'immagine del comune. Ma non vi è stata mai una doglianza del comune in tal senso. E' poi manifestamente illogico ritenere che il comune abbia subito danni per avere eseguito indagini (in realtà eseguite dalla A.G.) e dall'aver ritenuto che per tali opere non occorreva il permesso di costruire. Ed invero, le norme statali e regionali escludevano che il cambio di categoria per zone omogenee richiedesse il permesso di costruire.


Motivi della decisione


3. Il primo motivo deve essere dichiarato infondato, senza che vi sia la necessità o l'opportunità di rimettere alle Sezioni Unite la risoluzione della questione, cosi come richiesto dalla difesa in udienza.


Preliminarmente va osservato che, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, nella specie occorreva il permesso di costruire per il mutamento di destinazione d'uso. Ed infatti, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, "In tema di reati edilizi, gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire sia nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico sia nel caso in cui, se eseguiti nei centri storici, comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea; diversamente, se eseguiti fuori dei centri storici, gli stessi sono eseguibili in base a denuncia di inizio attività (DIA) qualora comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea" (Sez. III, 20.1.2009, n. 9894, Tarallo, m. 243102). Nel caso in esame si trattava di intervento eseguito in una zona centro storico, per il quale quindi era necessario il permesso di costruire anche per il mutamento di destinazione d'uso all'interno di categorie omogenee.


3.1. Ciò posto, va rilevato - in ordine alla questione della configurabilità del reato di falso - che a ben vedere non esiste un radicale contrasto tra la sentenza di questa Sezione 21.10.2008, n. 1818/09 e le altre decisioni citate dal ricorrente, sia nel ricorso sia in udienza.


E difatti, la decisione di Sez. V, 11.11.2009, n. 7408, Frigè, m. 246094, riguarda il caso del redattore del progetto e della relazione allegati alla DIA, in cui si attestava che essa era preordinata alla realizzazione di una vasca interrata destinata alla raccolta di acqua mentre la reale finalità era quella della realizzazione di una piscina. La Corte affermò che la relazione allegata alla denuncia di inizio di attività ha natura di certificato solo in relazione alle attestazioni relative allo stato dei luoghi ed alla correlata dichiarazione di compatibilità delle opere realizzande con gli strumenti urbanistici vigenti, mentre la sola attestazione della volontà del committente non assume i connotati di una realtà oggettiva percepibile sensorialmente e verificabile alla stregua di un'errata indicazione progettuale di misure ed estensioni non conformi allo stato dei luoghi e non ha, pertanto, natura di certificato.


Analogamente, anche la sentenza Sez. V, 3.5.2005, n. 24562, Mazzoni, m. 231505, affermò che non rientra fra i certificati, attestanti fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, la relazione tecnica allegata alla DIA laddove si limita a rendere nota alla PA. l'intenzione di realizzare le opere in essa descritta, al momento ancora inesistenti. Nella specie si trattava non di dichiarazioni non conformi alla realtà già esistente ma di una descrizione di dette opere non conforme a quanto successivamente realizzato. La sentenza affermò appunto che la norma incriminatrice deve avere ad oggetto fatti o situazioni materiali, suscettibili, come tali, di essere verificati nella loro oggettiva esistenza, presente o passata, mentre si deve escludere che possano essere oggetto di certificazione fatti o situazioni futuri, come nel caso in cui la relazione si esaurisca con il rendere nota alla pubblica amministrazione l'intenzione di realizzare solo le opere in essa descritte, al momento ancora inesistenti, nulla rilevando che, "ex post", possa, più o meno fondatamente, ritenersi che l'intenzione era invece, fin dall'inizio, quella di realizzare opere diverse.


Allo stesso modo, anche la sentenza Sez. V, 26.4.2005, n. 23668, Giordano, m. 231906, riguarda un caso di difformità tra opere eseguite ed opere preventivamente descritte nella relazione. La sentenza affermò che la relazione allegata alla DIA non ha natura di certificato nella parte in cui essa manifesta una intenzione e non registra una realtà oggettiva.


La sentenza Sez. III, 24.1.2008, n. 9118, Masucci, m. 238999, è inconferente perché riguarda la relazione tecnica allegata ad una richiesta di concessione edilizia, finalizzata soltanto ad illustrare e chiarire i termini tecnici fattuali della richiesta.


3.2. Orbene, nel caso in esame la falsità è stata accertata non già in riferimento alla dichiarazione della mera intenzione del committente o alla differenza tra le opere progettate e le opere che successivamente sono state effettivamente realizzate, bensì proprio in riferimento alla attestazione dello stato dei luoghi come si presentava al momento del progetto e come tale attestato dalla relazione. Questa infatti è stata ritenuta falsa dal giudice del merito nella parte in cui aveva attestato che la destinazione dell'immobile era già ad uso commerciale e non ad uso abitativo, sicché il progetto, così come presentato, non comportava mutamento di destinazione d'uso. In altre parole, il falso non riguarda opere future contrastanti con quanto previsto nel progetto e nella relazione, bensì proprio il contenuto di progetto e relazione laddove si afferma contrariamente al vero che gli immobili avevano una data destinazione d'uso e che il progetto, così come presentato, non comportava mutamento di destinazione d'uso.


Va anche rilevato - sebbene non vi sia stata alcuna contestazione sul punto - che il fatto che nella relazione sia stato attestato che i locali erano in precedenza «adibiti ad uso improprio, cioè commerciale e non abitativo», è irrilevante perché, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, «l'individuazione della precedente destinazione d'uso non si identifica con l'uso fattone in concreto dal soggetto utilizzatore, ma con quella impressa dal titolo abilitativo assentito» (Sez. III, 20.1.2009, n. 9894, Tarallo, m. 243100).


Il caso verificatosi nella specie, quindi, rientra proprio tra quelli in ordine ai quali anche la citata (dalla difesa) sentenza Sez. V, 11.11.2009, n. 7408, Frigi, m. 246094, ha riconosciuto alla relazione allegata alla DIA natura di certificato, con conseguente configurabilità del reato di falso, in quanto si tratta di attestazione «relativa allo stato dei luoghi ed alla correlata dichiarazione di compatibilità delle opere realizzande con gli strumenti urbanistici vigenti».


3.3. Il ricorrente peraltro sostiene che il reato non sarebbe configurabile perché l'art. 29, comma 3, d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380, attribuirebbe al progettista la qualità di persona esercente un servizio di pubblica utilità ai sensi degli arti. 359 e 481 cod. pen. esclusivamente con riferimento alle attestazioni relative alle opere già realizzate e non anche con riferimento alla relazione iniziale che deve accompagnare la richiesta di DIA. Per quest'ultima, invece, le affermazioni non veritiere comporterebbero in ogni caso ed a prescindere del loro contenuto soltanto l'eventuale irrogazione di una sanzione disciplinare.


La tesi è chiaramente infondata e del resto è stata già disattesa dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. III, 21.10.2008, n. 1818/09, Baldessari, m. 242478; Sez. V, 11.11.2009, n. 7408, Frigè, m. 246094).


Innanzitutto, è palesemente irrilevante la circostanza che l'art. 29, comma 3, cit., usa il participio passato («per le opere realizzate»). Ciò non significa affatto che la disposizione intenda riferirsi soltanto alle relazioni relative ai lavori che sono stati già eseguiti. La ratio della norma e una sua interpretazione sistematica rendono invero palese che la disposizione intende solo specificare che, mentre il primo ed il secondo comma dell'art. 29 riguardano le opere eseguite con permesso di costruire, il terzo comma riguarda il caso di lavori eseguibili mediante semplice DIA, siano essi già stati realizzati o siano ancora da realizzare. Tanto è vero che la seconda parte dell'art. 29, comma 3, si riferisce proprio alla relazione che deve accompagnare la DIA.


D'altra parte, come già rilevato da Sez. III, 21.10.2008, n. 1818/09, Baldessari, cit., l'art. 29 in esame deve essere letto in correlazione con il precedente art. 23, il quale dispone che la DIA deve essere accompagnata da una relazione del progettista «che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti» (comma 1); che il dirigente o responsabile dell'ufficio «in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza» (comma 6); e che, ultimato l'intervento, «il progettista o un tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale ... con il quale si attesta la conformità dell'opera al progetto presentato con la denuncia di inizio attività» (comma 7). Il progettista dunque ha un duplice obbligo: a) redigere una relazione preventiva in cui si assume l'onere di "asseverare" tra l'altro la conformità delle opere agli strumenti urbanistici approvati e la mancanza di contrasto con quelli adottati e con i regolamenti edilizi; b) rilasciare al termine dei lavori (ove non lo faccia altro tecnico) un certificato di collaudo circa la conformità di quanto realizzato al progetto iniziale. E' stato esattamente osservato che il termine "asseverare" ha il significato di "affermare con solennità", e cioè di porre in essere una dichiarazione di particolare rilevanza formale e di particolare valore nei confronti dei terzi quanto a verità - affidabilità del contenuto. L'art. 29, comma 3, dispone poi che "Per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli artt. 359 e 481 c.p.. In caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui all'art. 23, comma 1, l'amministrazione ne da comunicazione al competente ordine professionale per l'irrogazione delle sanzioni disoplinari".
Ora, la disciplina prevista dall'art. 29, comma 3, non può non essere letta in coerenza con l'art. 23, dandosi particolare rilievo alla circostanza che al progettista abilitato viene attribuita la qualità di "persona esercente un servizio di pubblica necessità", ai sensi degli artt. 359 e 481. In particolare va tenuto presente che la decisione del committente e del suo professionista di non sollecitare mediante richiesta di permesso di costruire il preventivo controllo dell'ente pubblico, e di procedere piuttosto con DIA porta con sé una particolare assunzione di responsabilità, in relazione al particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento. Proprio in considerazione di questo affidamento la condotta del professionista abilitato assume una specifica rilevanza pubblicistica (art. 29, comma 3) che incide sulle previsioni dell'art. 23, commi 1 e 6. Quest'ultimo, in particolare, dispone che in caso di "falsa attestazione" del professionista l'ente territoriale ha l'obbligo di inoltrare segnalazione di reato all'autorità giudiziaria. E' evidente che la "falsa attestazione" in parola, riferita dal comma sesto alle "condizioni stabilite", è quella prevista dal primo comma del medesimo art. 23. La responsabilità del direttore dei lavori per la difformità delle opere edificate rispetto a quelle contenute nel progetto iniziale allegato alla DIA rafforza il valore della relazione del progettista, che integra la dichiarazione stessa di inizio attività, come atto dotato di piena autonomia e di valore pubblicistico: solo un atto definitivo e in sé compiuto può originare la responsabilità penale. Ne consegue che la costruzione della DIA come atto a controllo successivo rafforza il concetto di delega di potestà pubblica al soggetto qualificato, con dichiarazione del progettista che assume valore sostitutivo e quindi "certificativo".


3.4. In conclusione, sulla base dell'insieme delle disposizioni qui ricordate, deve riaffermarsi il principio che il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica utilità anche con riferimento alla relazione iniziale che accompagna la denuncia di inizio attività e che quindi assumono rilevanza penale anche le false attestazioni contenute in questa relazione, qualora riguardino lo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistici vigenti e non già la mera intenzione del committente o la futura eventuale difformità con le opere in concreto realizzate.

4. E' invece fondato il secondo motivo di ricorso. Infatti, la previsione della possibilità di subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla prestazione di una attività non retribuita a favore della collettività, è stata introdotta solo dall'art. 2 della legge 11 giugno 2004, n. 145. Trattandosi di norma di natura sostanziale (Sez. I, 30.11.2005, n. 47291, De Filippo, m. 234093) essa non può essere applicata retroattivamente al caso in esame, verificatosi in una data anteriore, a meno che l'applicazione retroattiva comporti una situazione più favorevole per l'imputato. Inoltre, non può ritenersi che nella specie l'imputata Coppola non si sia opposta, sia perché in primo grado non era stata interpellata dal giudice sia comunque perché ha espressamente dichiarato il suo dissenso con l'atto di appello.


Ne consegue che deve ritenersi illegittima la subordinazione della sospensione condizionale della pena per la Coppola alla prestazione di una attività non retribuita a favore della collettività. Peraltro, poiché da entrambe le sentenze di merito non è dato desumere se il giudice avrebbe ugualmente concesso la sospensione condizionale anche senza la sua subordinazione alla prestazione, questa Corte non può eliminare direttamente soltanto detta condizione ma deve annullare la sentenza impugnata relativamente alla statuizione sulla concessione della sospensione condizionale della pena, rinviando al giudice del merito per nuovo esame sul punto.


5. E' anche fondato il terzo motivo perché effettivamente è manifestamente illogica la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla determinazione della pena. Il giudice di primo grado aveva infatti fissato la pena per ciascuno degli imputati in mesi tre di reclusione (pena base mesi 4, ridotta per le attenuanti generiche). La corte d'appello, rispondendo allo specifico motivo di appello con il quale si lamenta l'eccessività di questa pena, ha affermato che la stessa era congrua perché prossima ai minimi edittali. Sennonché per il reato in questione l'art. 481 cod. pen. prevede la pena della reclusione fino ad un anno o alternativamente della multa da € 51 ad € 516. E' quindi palese la manifesta illogicità della motivazione che ha ritenuto una pena base di 4 mesi di reclusione prossima al minimo edittale che era invece costituito dalla multa di 51,00 o comunque dalla reclusione di 15 giorni. La manifesta illogicità sussisterebbe ugualmente anche qualora potesse ritenersi che il giudice abbia applicato il terzo comma dell'art. 481, secondo cui le dette pene si applicano congiuntamente se il fatto è commesso a scopo di lucro. Tale ipotesi peraltro deve escludersi sia perché né nella contestazione né nella motivazione vi è un qualche accenno al fine di lucro, sia comunque perché è stata applicata la sola pena detentiva e non anche quella pecuniaria. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio per nuovo giudizio anche in ordine alla determinazione della pena.


6. E' invece infondato il quarto motivo perché i giudici del merito hanno adeguatamente e congruamente motivato sulla idoneità del reato di falso a provocare alla parte civile comune di Napoli un danno patrimoniale, la cui concreta entità dovrà peraltro essere fissata in sede civile.


7. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla misura della pena ed al beneficio della sospensione condizionale subordinata alla prestazione di attività non retribuita con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Napoli. Nel resto il ricorso va rigettato.


Per questi motivi


La Corte Suprema di Cassazione


- annulla la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena ed al beneficio della sospensione condizionale subordinata alla prestazione di attività non retribuita con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Napoli.

Rigetta il ricorso nel resto.


Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 20 maggio 2010.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA il  16 lug. 2010