Cass. Sez. III n. 4338 del 8 febbraio 2022 (PU 22 ott 2021)
Pres. Ramacci Est. Gentili  Ric. Mignano
Urbanistica.Sanatoria dopo parziale demolizione

E’ del tutto evidente che, così come la successiva, ancorché spontanea o comunque volontaria, demolizione di opere già abusivamente realizzate non vale ad elidere la rilevanza penale della condotta a suo tempo posta in essere, anche l’eventuale rilascio della sanatoria edilizia che abbia ad oggetto le sole opere residuate rispetto alla intervenuta demolizione di altre, non è idonea a determinare la estinzione dei reati urbanistici ai sensi dell’art. 36 del dPR n. 380 del 2001.


RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello de L’Aquila, con sentenza del 1 marzo 2021, ha  parzialmente riformato la precedente sentenza del 29 aprile 2020 con la quale il Tribunale di Vasto aveva dichiarato la penale responsabilità di Mignano Luigi e Baliko Valbona in ordine ai reati loro contestati sub C), previa riqualificazione del fatto loro contestato come realizzazione di un manufatto in parziale difformità del titolo autorizzatorio, D) ed E) del complessivo capo di imputazione, Granata Gianfranco e Lanza Nella in ordine al reato loro contestato  sub B) dello stato capo di imputazione, e li aveva tutti condannati alla pena ritenuta di giustizia.
In particolare, la Corte distrettuale, preso anche atto della assoluzione di tutti gli imputati già in primo grado dalla imputazione di lottizzazione abusiva loro originariamente contestata in concorso, ha rilevato l’intervenuta prescrizione della contravvenzione contestata al Mignano ed alla Baliko sub E) ed ha, pertanto, rideterminato al ribasso la pena loro inflitta, mentre per quanto concerne gli altri due imputati, ha confermato la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza emessa dal giudice del gravame, il cui oggetto è la commissione da parte dei predetti imputati di taluni reati in materia di edilizia ed urbanistica, hanno interposto ricorso per cassazione i predetti prevenuti, attraverso 4 distinti ricorsi, i cui motivi di impugnazione possono tuttavia essere raggruppati sia in funzione della concorsualità delle imputazioni contestate sia in funzione della loro parziale sovrapponibilità.
Mignano Luigi e Baliko Valbona hanno affidato la loro impugnazione a tre, articolati, motivi di impugnazione.
Il primo concerne il vizio di motivazione e di violazione di legge per non essere stata dichiarata la speciale causa di non punibilità del reato di cui all’art. 131-bis cod. pen., stante la particolare tenuità del fatto loro addebitato; nella specie i ricorrenti hanno segnalato la circostanza che gli interventi abusivi, di ridottissima entità, sono stati tempestivamente, puntualmente e totalmente rimossi.
Il secondo motivo attiene alla violazione di legge ed al vizio di motivazione in relazione alla esclusione della possibilità di riconoscere in loro favore la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6, cod. pen, avendo gli stessi, attraverso la rimozione degli immobili abusivi, limitato il danno cagionato con la loro edificazione.
Infine, il terzo motivo di ricorso attiene, sempre sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, alla mancata conversione della pena detentiva irrogata in pena pecuniaria ai sensi della legge n. 489 del 1981.
Venendo ai ricorsi di Granata e di Lanza, sviluppati attraverso due motivi di impugnazione, si rileva che il primo motivo di questi concerne il fatto che i giudici del merito abbiano ritenuto fattore non rilevante il fatto che fosse intervenuto un permesso a costruire rilasciato da Comune di Vasto, avente ad oggetto la parte degli immobili abusivi residuati rispetto alla eliminazione di essi operata dagli stessi imputati.
Con il secondo motivo è lamentata la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Mentre i ricorsi presentati dagli imputati Granata e Lanza sono totalmente inammissibili, quelli presentati da Mignano e Baliko sono, sia pure sol parzialmente, fondati, di tal che la sentenza impugnata deve essere annullata per quanto di ragione.
Prendendo le mosse dai ricorsi sottoscritti, nell’interesse di Granata Gianfranco e di Lanza Nella, rispettivamente dagli avv.ti Di Penta e Cerella e dall’avv. Petrucci, si osserva che in ambedue gli atti ci si duole, in via prioritaria, del fatto che i giudici del merito non abbiano tenuto conto del fatto che il Comune di Vasto avesse rilasciato in favore dei prevenuti in data 29 maggio 2019 il permesso a costruire n. 146; circostanza questa che avrebbe dovuto indurre il Tribunale e poi la Corte di appello a ritenere effettuata da parte della Pa una valutazione di merito in ordine alla doppia conformità delle opere e, pertanto, in ordine alla loro legittimità sotto il profilo penale una volta intervenuta la sanatoria.
Avrebbero, pertanto, errato i giudici del merito nel ritenere non rilevante l’atto in questione in quanto lo stesso, secondo quanto si legge nella motivazione della sentenza impugnata, sarebbe stato solo parziale non riguardando tutte le opere realizzate.
La tesi sviluppata dai ricorrenti è viziata; sono, infatti, gli stessi ricorrenti a segnalare il fatto che il provvedimento amministrativo de quo è stato rilasciato non in ordine a tutti i manufatti elencati nel capo di imputazione ma solo con riferimento alle opere residuate rispetto alla intervenuta demolizione, eseguita a quanto pare a cura degli stessi imputati, di parte delle stesse.
E’ del tutto evidente che, così come la successiva, ancorchè spontanea o comunque volontaria, demolizione di opere già abusivamente realizzate non vale ad elidere la rilevanza penale della condotta a suo tempo posta in essere (cfr.: Corte di cassazione, Sezione III penale, 5 marzo 2013, n. 10245; idem Sezione III penale, 7 maggio 2010, n. 17535), anche l’eventuale rilascio della sanatoria edilizia che abbia ad oggetto le sole opere residuate rispetto alla intervenuta demolizione di altre, non è idonea a determinare la estinzione dei reati urbanistici ai sensi dell’art. 36 del dPR n. 380 del 2001.
L’esistenza di un provvedimento del genere di quello opposto dai ricorrenti potrà - se del caso e previa verifica incidentale ad opere del giudice ordinario della sua legittimità amministrativa - costituire la base per la affermazione in sede esecutiva della non eseguibilità dell’ordine di demolizione delle opere originariamente abusive impartito con la condanna penale, consistendo esso in un provvedimento logicamente incompatibile con la perdurante efficacia dell’ordine di demolizione, avendo quest’ultimo lo scopo di rimuovere un manufatto che sia privo dei requisiti che ne avrebbero legittimato la edificabilità, ma non è tale da ricondurre a legittimità una condotta che originariamente non sia tale ed i cui risultati, in ogni caso, per effetto della loro avvenuta rimozione in natura, non sono stati oggetto della intervenuta sanatoria.
Passando al secondo motivo di ricorso dedotto dalle difese di Granata e Lanza - oltre che da quelle di Mignano e Baliko, e potendo, pertanto, esso essere congiutamente esaminato relativamente alla posizione di tutti i ricorrenti - rileva la Corte che il contenuto delle doglianze in tale modo prospettate concerne la mancata qualificazione dei fatti attribuiti ai singoli imputati nell’ambito della non punibilità, per effetto della loro particolare tenuità, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.
Le argomentazioni sviluppate dai ricorrenti sono prive di pregio.       
Invero, investita in grado di appello della relativa questione, la Corte territoriale abruzzese ha, con riferimento alla posizione di tutti i ricorrenti, osservato che, data la tipologia, le dimensioni e le caratteristiche costruttive, la realizzazione dei manufatti abusivi di cui al capo di imputazione non poteva dirsi essere caratterizzata dalla minima offensività che avrebbe giustificato l’applicazione della citata causa di non punibilità; né, ha aggiunto la Corte aquilana, ha un qualche rilievo la circostanza che le opere siano state successivamente demolite.
A fronte di tali rilevi le difese di Mignano e di Baliko hanno insistito nell’affermare che avrebbe erroneamente applicato la normativa penale la Corte territoriale nel non ritenere rilevante l’avvenuta eliminazione delle opere abusive e che comunque la motivazione resa sul punto sarebbe manifestamente illogica; la difesa di Lanza e di Granata ha, invece, valorizzata la pretesa mancanza di motivazione.
Si tratta, come già detto, di censure prive di consistenza.
Invero l’avvenuta rimozione delle opere abusive - così come in generale la riparazione del danno già in precedenza fatto o, in ogni caso, un successivo comportamento virtuoso che modifichi lo stato delle cose (viene in mente li verso del Petrarca: “piaga per allentar d’arco non sana”) - non è elemento che possa consentire di per sé, a fronte di un fatto non caratterizzato dalla minima offensività (sulla minima offensività quale elemento necessario ai fini della applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen., si veda per tutte: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 20 luglio 2020, n. 21514), la applicazione della particolare causa di non punibilità (in questo senso, infatti: Corte di cassazione, Sezione III penale, 30 luglio 2020, n. 23184; idem Sezione III penale, 21 gennaio 2020, n. 2216).
Fondati sono, invece, i restanti motivi di impugnazione dedotti dalla comune difesa dei ricorrenti Mignano e Baliko; costoro, infatti, lamentano, quanto alla entità del trattamento sanzionatorio loro inflitto, il fatto che sia stata loro negata la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6, cod. pen.
Sul punto, infatti, la motivazione della sentenza della Corte aquilana è manifestamente illogica; infatti essa argomenta l’affermazione del fatto che la attenuante non sia applicabile nel caso ora in esame in quanto non sarebbero state eleminate integralmente, attraverso la demolizione delle opere abusive, le conseguenze dannose del reato commesso; onde dare consistenza alla propria affermazione la Corte rileva che la condotta posta in essere non avrebbe ristorato “i costi sopportati per l’accertamento e per la repressione delle diverse violazioni”.
Come è manifesto, l’affermazione sopra riportata pretenderebbe di ricondurre alla nozione di danno, la cui integrale riparazione condiziona il riconoscimento della circostanza attenuante in questione, non solo quello che deriva direttamente dalla commissione del reato - nella specie la compromissione dell’assetto territoriale derivante dalla abusiva realizzazione dei manufatti edilizi - ma anche i costi che sono stati necessari per l’accertamento e la repressione dei reati commessi; il vizio che affetta una tale impostazione è reso evidente dalla considerazione che, se fosse attendibile quanto riportato dalla Corte abruzzese, la attenuante di cui in parola non sarebbe di fatto sostanzialmente mai applicabile, non foss’altro per la problematica quantificazione dei costi (in realtà ricadenti sulla fiscalità generale) cui la Corte si è disinvoltamente riferita e per la sostanziale impraticabilità di una forma di materiale ristoro di essi, non essendo assolutamente chiaro in quale modo il reo, anche se lo volesse e se questi fossero stati determinati, sarebbe in grado di procedere ad un risarcimento del valore dei medesimi, non essendo previsto che l’Erario possa riscuotere somme da parte dei privati se non per una specifica causale normativamente prevista.
Tanto rilevato - e considerato che, in linea di principio, la circostanza attenuante dell’avvenuta riparazione del danno è applicabile ai reati edilizi, allorquando l’abbattimento volontario dell’opera abusiva sia avvenuto in epoca anteriore al giudizio ed in assenza di ordinanza sindacale di demolizione (Corte di cassazione, Sezione III penale 15 aprile 2016, n. 15731; idem Sezione III penale, 27 luglio 2011, n. 29991), indagini queste cui i giudici del merito si sono sottratti prima di escludere la ricorrenza degli elementi idonei al riconoscimento della attenuante in questione, negata, come detto, sulla base di fattori privi di giustificazione logica e normativa - la sentenza impugnata deve essere sul punto annullata, nei termini meglio infra precisati.
Fondato è, altresì, l’ulteriore motivo di impugnazione presentato dai ricorrenti Mignano e Baliko, afferente al rigetto della richiesta di conversione della pena detentiva loro irrogata in pena pecuniaria.
Anche in questo caso, infatti, la motivazione sulla base della quale la Corte territoriale ha rigettato la relativa istanza, legata da una parte al rilievo che la conversione comporterebbe un esborso economico assai elevato per i condannati - i quali non hanno dimostrato di godere di “una situazione economica particolarmente agiata” – e, per altro verso, che la richiesta non è stata avanzata personalmente dai prevenuti, non è condivisibile.
Quanto al primo profilo segnalato si rileva che - anche a non voler considerare il fatto che apparentemente la Corte esclude l’applicazione del beneficio ritenendo che lo stesso avrebbe una conseguenza  “particolarmente gravosa” in danno dei ricorrenti, in tal modo inspiegabilmente sostituendosi ad essi in una valutazione, dai medesimi pur fatta in senso difforme, di originaria personale “convenienza” – in base alla costante giurisprudenza di questa Corte, anche recentissima, la sostituzione delle pene detentive brevi è rimessa alla valutazione discrezionale (in relazione alla quale, onde non trasmodare nell’arbitrio, la scelta del giudicante non può, tuttavia, fondarsi su fattori non conformi ad elementi normativi – cfr., infatti, l’art. 58 della legge n. 689 del 1981, che indica, quale ambito della discrezionalità i “limiti fissati dalla legge” -  o, comunque, palesemente illogici) del giudice ed essa è consentita anche in relazione a condanna inflitta a persona in condizioni economiche disagiate, poiché la prognosi di inadempimento, ostativa alla sostituzione in forza dell'art. 58, secondo comma, legge n. 689 del 1981, si riferisce soltanto alle pene sostitutive di quella detentiva accompagnate da prescrizioni, ossia alla semidetenzione e alla libertà controllata (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 15 ottobre 2021, n. 37533; idem  Sezione III 27 aprile 2016 n. 17103).
Quanto al secondo profilo segnalato dalla Corte territoriale, si rileva che l’art. 99, comma 1, cod. proc. pen. prevede che al difensore competano le facoltà ed i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo; si rileva, altresì, che una tale riserva non risulta essere stata prevista dal legislatore in materia di richiesta di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, potendo essa essere disposta, peraltro, anche officiosamente dal giudice della sentenza.
Anche la seconda ragione del decidere della Corte territoriale sul punto è, pertanto, inaccettabile, sicchè anche sotto il profilo ora esaminato la sentenza impugnata deve essere annullata.
Poiché le cause di nullità della sentenza emessa dalla Corte di appello de L’Aquila non sono in contrasto con l’affermazione della penale responsabilità dei prevenuti Mignano e Baliko in ordine ai reati per i quali gli stessi erano stati ritenuti responsabili con la sentenza impugnata, essa, visto l’art. 624 cod. proc. pen. deve ritenersi a questo punto definitiva in relazione alla affermazione della responsabilità penale dei predetti in ordine ai reati per i quali era intervenuta la loro condanna in grado di appello
In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuovo giudizio sui punti rimasti impregiudicati, alla Corte di appello di Perugia, limitatamente alla possibilità di riconoscere in favore di Mignano Luigi e Baliko Valbona la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6, cod. pen.  ed alla possibilità di convertire la pena detentiva loro inflitta, in esito alla verifica sopra indicata, in pena pecuniaria.
Nel resto i ricorsi dei predetti devono essere rigettati.
Quanto ai ricorsi di Granata Gianfranco e Lanza Nella, gli stessi sono inammissibili ed i ricorrenti vanno condannati, visto l’art, 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.                                                            

PQM
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Mignano Luigi e Baliko Valbona, limitatamente alla applicabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6, cod. pen, nonché in ordine alla convertibilità della pena detentiva in pena pecuniaria, con rinvio alla Corte di appello di Perugia.
Rigetta i ricorsi nel resto.
Visto l’art. 624 cod. proc. pen., dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine alla affermazione della penale responsabilità dei suddetti imputati.
Dichiara inammissibili i ricorsi di Granata Gianfranco e Lanza Nella che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
      Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2021