Cons. Stato Sez. IV sent. 5811 del 25 novembre 2008
Urbanistica. Denuncia di inzio attività

In materia di Dia, il titolo abilitativo formatosi può essere contestato entro sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della denuncia o dall'avvenuta conoscenza del consenso all'intervento. Compete all'amministrazione la verifica in ordine alla sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge

R E P U B B L I C A I T A L I A N A
N.5811/2008
Reg. Dec.
N. 122 Reg. Ric.
Anno 2008
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 122 del 2008, proposto da
CONDOMINIO CASA SMERALDA A,
in persona dell’Amministratore p.t.,
rappresentato e difeso dagli avv.ti Stefano Bruttomesso, Franco Zambelli e Mario Ettore Verino ed elettivamente domiciliato presso lo studio del terzo, in Roma, via Lima 15,
c o n t r o
il COMUNE di SAN MICHELE AL TAGLIAMENTO,
in persona del Sindaco p.t.,
costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dagli avv.ti Alberto Borella e Fabio Lorenzoni ed elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo, in Roma, via del Viminale 43
e nei confronti di
LA MAISON S.A.S. di Mengo Daniele & C. (già La Maison Sas di Mengo Silvia & C.),
in persona del legale rappresentante p.t.,
costituitasi in giudizio, rappresentata e difesa dagli avv.ti Antonio Munari e Michele Costa ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, via Bassano del Grappa, 24,
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, sez. II, n. 3187/07.
Visto il ricorso, con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della controinteressata;
Visto l’atto di costituzione in giudizio, nonché appello incidentale, del Comune appellato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive domande e difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, alla pubblica udienza dell’11 novembre 2008, la relazione del Consigliere Salvatore Cacace;
Uditi, alla stessa udienza, l’avv. Ludovico Villani, in sostituzione dell’avv. Mario Ettore Verino, per l’appellante principale e l’avv. Fabio Lorenzoni per l’appellante incidentale, e l’avv. Michele Costa;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
F A T T O e D I R I T T O
1. – Con deliberazione n. 92 in data 28 settembre 2004 il Consiglio Comunale di San Michele al Tagliamento provvedeva a ridelimitare, all’interno del Piano Particolareggiato della Zona di Ricomposizione di Bibione, il comparto costituito dai terreni identificati nei mappali al foglio 49 nn. 431, 147, 430 e 506 (di cui il primo di proprietà della società odierna controinteressata e gli altri di proprietà dei Condomìnii “Smeralda A” e “Smeralda B”), dividendolo in due porzioni, di cui la prima costituita dal solo mappale 431 di proprietà della società controinteressata, la seconda dai restanti mappali, con ciò individuando due distinti ambiti ed attribuendo solo al primo la potenzialità edificatoria spettante in precedenza al comparto ai sensi della variante parziale al piano medesimo approvata con deliberazione dello stesso Consiglio n. 274 in data 22 dicembre 1993.
Con la sentenza indicata in epigrafe, il primo Giudice ha in parte dichiarato inammissibile ed in parte respinto il ricorso (R.G. n. 3400/2004) proposto, tra gli altri, dall’odierno appellante principale, per l’annullamento sia della citata deliberazione che della successiva comunicazione fattane dal Comune all’Amministratore dei condomìnii, nonché per il conseguente risarcimento dei danni da detti atti derivanti.
Il Collegio di prime cure, in particolare:
- dichiarava l’inammissibilità delle censùre volte all’affermazione dell’illegittimità degli atti impugnati per sottrazione ai Condominii di capacità edificatoria (come pure delle doglianze attinenti la mancata partecipazione al procedimento), sul rilievo che “i ricorrenti avrebbero dovuto impugnare la delibera n. 274/93, con cui sono stati scolpiti i prodromi della successiva azione comunale oggi impugnata” (“è con tale delibera infatti”, prosegue il T.A.R., “che non viene disposto lo scorporo attuando un trasferimento all’intero comparto, come sostengono gli istanti, ma solo, come detto, avuto riguardo ai lotti di pertinenza, sicchè era evidente fin da allora che avendo i Condomini già sfruttato, anche in eccesso, la loro capacità edificatoria, non avrebbero potuto godere di quote aggiuntive di volumetria, che invece veniva garantita alla sola proprietaria del lotto inedificato e al solo ed esclusivo fine di salvarne la edificabilità”: pag. 15 sent.);
- respingeva, in quanto infondati, i residui motivi, rilevando, quanto alla dedotta illegittimità della contestata ridefinizione per intervenuta scadenza del Piano attuativo nel quale è inserito il comparto de quo, che “lo stesso è stato recepito nel PRG approvato nel 1985” (ibidem) e, quanto alla dedotta esistenza di una servitù parziale di inedificabilità sul mappale n. 431 in favore degli altri citati mappali del foglio n. 49 (che, pure, secondo l’assunto dei ricorrenti, valeva a viziare gli atti impugnati), che “relativamente all’esistenza della servitù la sentenza allegata dalla controinteressata ha respinto la domanda confessoria, escludendone dunque la sussistenza” (pagg. 15 – 16 sent.).
2. – Con la stessa sentenza è stato altresì deciso, previa riunione con il primo, accogliendolo, il ricorso (R.G. n. 863/2005) proposto dall’odierna controinteressata per l’annullamento del titolo edilizio rilasciato all’odierno appellante principale dal Comune di S. Michele al Tagliamento a seguito di denuncia inizio lavori n. 45.146 del 3.11.2004.
Il Collegio di primo grado ha infatti ritenuto fondata la doglianza di mancato accertamento della sussistenza del titolo ad edificare, formulata dalla ricorrente con riguardo al fatto che il Comune non aveva prestato “la benché minima attenzione alle misure dei confini indicati nella D.I.A.”, per effetto delle quali “il Condominio Smeralda A si è trovato … a fruire di un’area di proprietà dei terzi, nella fattispecie la ricorrente” (pag. 16 ric. orig.).
3. – Con il ricorso in epigrafe specificato il Condominio “Casa Smeralda A” (d’ora innanzi indicato come “Condominio”) ha impugnato la sentenza in parola, in relazione ad entrambi i capi di decisione.
Con apposito ricorso incidentale il Comune di S. Michele al Tagliamento ha parimenti aggredito la sentenza già gravata dal Condominio, nella parte in cui ha annullato il titolo edilizio rilasciato al Condominio stesso a séguito della denuncia inizio lavori in data 3 novembre 2004, relativa alla installazione di nuove strutture per la copertura di posti auto, sistemazione dell’area esterna, realizzazione di un tratto di recinzione e rifacimento della fognatura.
Quanto, invece alla reiezione, operata con la stessa sentenza, dell’impugnazione proposta dal Condominio avverso la deliberazione consiliare n. 92 in data 28 settembre 2004, il Comune ne chiede la conferma.
4. - Si è costituita in giudizio, per resistere ad entrambi i ricorsi, la privata controinteressata, in primo grado resistente nel ricorso n. 3400/2004 ed attrice nel ricorso n. 863/2005.
Le parti hanno poi affidato al deposito di memorie l’illustrazione delle rispettive tesi.
La causa è stata chiamata e trattenuta in decisione alla udienza pubblica dell’11 novembre 2008.
5. – Devesi preliminarmente rilevare l’irricevibilità del ricorso incidentale proposto dal Comune avverso la statuizione della sentenza di primo grado di accoglimento del ricorso n. 863/2005 (avente ad oggetto, come s’è visto, il titolo edilizio rilasciato al Condominio odierno appellante principale a séguito della denuncia inizio lavori in data 3 novembre 2004, relativa alla installazione di nuove strutture per la copertura di posti auto, sistemazione dell’area esterna, realizzazione di un tratto di recinzione e rifacimento della fognatura), alla stregua del condivisibile orientamento pretorio, che sottopone il ricorso incidentale agli stessi términi dell’appello principale (términi nella specie spirati alla data di notifica dello stesso), ove l’impugnativa, qualificabile come appello incidentale improprio, sia rivolta avverso la sentenza da soggetto soccombente (al pari di quello proponente l’appello principale) nel giudizio di primo grado, che dunque fa valere un autonomo (se pure coincidente con quello dell’appellante principale) interesse a proporre gravame avverso la sentenza stessa e propone una domanda, riferita allo stesso capo della sentenza medesima impugnato principaliter, che la parte avrebbe potuto utilmente proporre anche mediante appello principale (C. Stato, IV: 15 maggio 2002, n. 2597; 6 maggio 2003, n. 2364; 15 novembre 2004, n. 7449; 10 giugno 2005, n. 3068; 26 maggio 2006, n. 3193; da ultimo, 31 maggio 2007, n. 2806 e 19 maggio 2008, n. 2299).
Nella specie detto appello è, come s’è detto, irricevibile, in quanto proposto oltre il términe di sessanta giorni dalla data di notifica della sentenza di primo grado (31 ottobre 2007), che, com'è noto, è idonea a far decorrere il términe breve di impugnazione nei confronti sia del notificando che del notificante.
Per il resto, laddove invece l’appello incidentale proposto dal Comune resiste all’impugnazione principale chiedendo la conferma della sentenza gravata quanto alla statuizione di inammissibilità e reiezione del ricorso di primo grado n. 3400/2004, non può ritenersi preclusa la qualificazione dello stesso come memoria prodotta dal Comune a sostegno delle proprie difese.
6. – Nel mérito, l’appello principale del Condominio è fondato, nei términi che séguono, laddove impugna la sentenza di primo grado, nella parte in cui ha in parte dichiarato inammissibile ed in parte respinto il ricorso (R.G. n. 3400/04) rivolto avverso la deliberazione del Consiglio Comunale di San Michele al Tagliamento n. 92 in data 28 settembre 2004.
6.1 - Difformi da quelle raggiunte dal T.A.R. sono invero anzitutto le convinzioni maturate dal Collegio in ordine al rapporto esistente tra la deliberazione dello stesso Consiglio n. 274/93 (rimasta inoppugnata) e la delibera, oggetto del giudizio, n. 92/2004, rapporto, che, come già accennato, ha determinato la declaratoria di inammissibilità pronunciata dal T.A.R. in ordine a buona parte delle censùre avanzate con il ricorso originario.
E’ sicuramente vero che, come affermato dal Giudice di primo grado, con la prima “sono stati scolpiti i prodromi della successiva azione comunale” (pag. 15 sent.).
Con essa, invero, rileva il Collegio, il Comune ha provveduto alla ridefinizione dell’“Area Progetto n. 4” prevista dal “Piano Particolareggiato di Ricomposizione di Bibione”, per “ricomprendervi”, come espressamente sottolineano le considerazioni generali premesse alle controdeduzioni alle osservazioni alla relativa variante approvata con detta deliberazione del 1993, “per altro senza aumento di volumetria tutte le aree occorrenti alla realizzazione dell’impianto termale talasso-terapico” (la cui realizzazione rappresenta la finalità precipua della variante medesima) ed escluderne le aree già “prevalentemente edificate” (così le considerazioni medesime).
Tra le aree così escluse rientrano appunto i lotti, di cui qui si tratta (foglio 49 – mappali nn. 431, 147, 430 e 506, di cui il primo di proprietà della società odierna controinteressata e gli altri di proprietà dei Condomìnii “Smeralda A” e “Smeralda B”), i quali, con detta deliberazione, risultano dunque classificati, pur sempre all’interno del Piano Particolareggiato, come “unica U.M.I.” e sottratti “all’area Progetto n. 4 nella quale erano precedentemente inseriti” (così le premesse della deliberazione n. 18/2004 in primo grado impugnata).
La possibilità edificatoria attribuita all’unità minima di intervento così individuata dalla deliberazione del Consiglio Comunale n. 274/93 (all’uopo scomputata da quella attribuita alla nuova “area Progetto 4” alla luce del criterio fondamentale, posto a base della variante con la stessa approvata, di “conservazione dei disposti della precedente normativa di P.P. riguardo alla volumetria massima insediabile …”) veniva quantificata in mc. 7.000= e qualificata come “eccedenza volumetrica”; ciò perché, come risulta dalla necessaria ricostruzione dell’intera vicenda condotta alla stregua degli atti tutti di causa, gli edificii “Smeraldo” avevano sviluppato “una volumetria edificata … maggiore a quella massima ammessa per la superficie fondiaria di pertinenza” per mc. 3.200= (ch’erano appunto quelli, il cui scomputo dall’area Progetto n. 4 era previsto dalla deliberazione di Giunta Municipale di adozione della variante, poi approvata con la deliberazione consiliare n. 274/93, al fine di garantire comunque il rispetto della complessiva volumetria prevista dal Piano Particolareggiato anteriormente alla variante) e che vengono poi incrementati, in sede di approvazione, di mc. 3.800=, pur mantenendone l’ormai del tutto inesatta qualificazione di “eccedenza”, al fine espresso di “restituire” (o, meglio, conservare) al lotto inedificato ricompreso nella nuova U.M.I (il mappale n. 431, cioè quello di proprietà dell’odierna controinteressata) “la propria capacità edificatoria”, o, come testualmente si legge nella proposta (poi accolta dal Consiglio Comunale con la ridetta deliberazione n. 274/93) di parziale accoglimento dell’osservazione in tal senso presentata dalla società allora proprietaria di detta area, di “lasciare all’area di proprietà della ditta Mc Bells S.r.l., sotto il profilo urbanistico, la volumetria originaria”.
Orbene, se è vero che con la veduta deliberazione n. 274/93 veniva assegnata al nuovo comparto di cui si tratta (identificato nella Tav. 6 alla stessa allegata come Unità Minima di Intervento), costituito da tutti i lotti sopra individuati, una capacità edificatoria di mc. 3.800= (e non certo di mc. 7.000, come sembrano equivocare tanto le parti quanto il T.A.R. - a ciò peraltro indotti dalla infelice formulazione della deliberazione stessa – allorché non tengono conto del fatto che la volumetria detratta dalla nuova area di Progetto n. 4 corrispondeva, per mc. 3.200=, ad edificazioni già realizzate, che, se pure attuate anteriormente all’approvazione del Piano Particolareggiato, rientrano certamente nella volumetria complessiva dallo stesso prevista) e se è altrettanto vero che detta capacità veniva dall’Amministrazione così quantificata per lasciare, come s’è visto, “all’area di proprietà della ditta … la volumetria originaria”, ciò non significa, ad avviso del collegio, che la sua mancata impugnazione ad opera del Condominio proprietario di alcune delle aree inserite in detta U.M.I. (mancata impugnazione, che vale certamente a considerare come non più suscettibili di esame, riconsiderazione od opposizione in sede giudiziale le relative statuizioni), nella misura in cui rende definitiva la lesione indubbiamente con la stessa prodottasi in capo al Condominio odierno appellante, renda, così come ritenuto dal T.A.R. qualificandola di fatto come meramente esecutiva della prima, non suscettibile di impugnazione la deliberazione n. 92/2004 oggetto del presente giudizio.
Ciò perché, semplicemente, la prima delle citate deliberazioni non esaurisce l’arco delle lesioni apportate nella sfera giuridica del Condominio dal complessivo, combinato, disposto delle due deliberazioni in considerazione.
Ferme, invero, le conclusioni di cui sopra in ordine al contenuto (come s’è detto non certo limpido nella sua formulazione letterale) della deliberazione consiliare del 1993, occorre considerare che mentre tale deliberazione attribuisce la residua capacità edificatoria delle aree di cui si tratta (pur con la significativa specificazione che il computo della stessa deriva dalla ravvisata necessità di conservazione della capacità stessa in precedenza riferibile al solo lotto inedificato e cioè al mappale n. 431) pur sempre alla Unità Minima di Intervento (ch’è appunto “unica”) composta da tutti i mappali confluenti nella stessa a séguito della effettuata esclusione dei medesimi dalla nuova area di Progetto n. 4, è con la seconda deliberazione (quella del 2004, contro la quale l’odierna appellante principale ha diretto il ricorso in parte dichiarato inammissibile ed in parte respinto dal T.A.R.) che si realizza la modifica del comparto, di cui si tratta, ridelimitandolo in due distinti ambiti di intervento ed attribuendo la volumetria prima riferibile all’intera unità di intervento al solo mappale n. 431 (di proprietà della odierna controinteressata), che svilupperà appunto “la volumetria prevista ed ottenuta dalla sommatoria dei terreni di proprietà, con l’applicazione dell’indice fondiario previsto dal P.P. pari a 3 mc/mq.” (punto 2) del dispositivo della deliberazione n. 92/2004) e cioè proprio all’incirca i 3.800 mc., di cui sopra s’è detto.
Ordunque, tanto certamente comporta, per il Condominio appellante principale, una lesione del tutto autonoma e distinta da quella pur derivantegli dalla ormai consolidata deliberazione del 1993, giacché è la deliberazione del 2004, come veniva dedotto con il ricorso originario, che viene ad “alterare il principio della unitarietà dei beni (e dei soggetti) che fanno parte … del comparto”: pag. 6) ed è con essa, come ulteriormente precisato in appello, “che è stata portata a compimento l’operazione di scissione e ridelimitazione del comparto, con successiva creazione di due distinte unità di intervento”, laddove “in epoca anteriore all’adozione e approvazione della delibera n. 92/’04, i mappali nn. 147, 430, 506 e 431, tutti ricompresi nel medesimo fg. N. 49, costituivano un aggregato di aree che dava vita ad un complesso edilizio di carattere unitario”, al quale soltanto “ci si poteva e doveva riferire, pena la violazione della funzione e della disciplina che la legge prevede per i comparti” (pag. 9).
Ed invero, rileva il Collegio, prima delle scelte effettuate dall’Amministrazione con la contestata deliberazione consiliare del 2004, i fondi del ricorrente erano ricompresi, insieme con quelli di proprietà della controinteressata, in un unico comparto, nella cui logica, se è vero che le costruzioni, sulla base della disciplina del 1993 di individuazione del comparto stesso, dovevano necessariamente trovare collocazione entro una zona di concentrazione volumetrica dislocata su fondi di proprietà di soggetti diversi dal ricorrente, ciò non escludeva peraltro una possibile redistribuzione concordata dei diritti edificatòrii (attribuiti dal piano sempre e comunque al comparto in quanto tale, nella misura in cui pure la deliberazione del 1993 ne aveva comunque stabilito l’unità) e, comunque, ai fini della realizzazione di ogni iniziativa edificatoria nell’àmbito del comparto stesso, la necessità di collaborazione fra i privati e fra questi e l’Amministrazione, in un contesto, reso inevitabile dalla stessa logica del comparto, di necessaria consensualità.
Con la scissione del comparto, operata con la deliberazione del 2004, viene invece chiaramente meno il dinamismo, incentrato su una scelta volontaria e concordata di tutti i proprietarii delle aree in esso incluse, in cui si sostanzia la vicenda di attuazione del comparto, che comporta, come s’è detto, sulla base di scelte volontarie (e potestative) di ciascun proprietario, il consenso di tutti i soggetti coinvolti.
Quanto detto rende meglio percepibile la lesione determinata dalla deliberazione oggetto del giudizio in capo all’odierno appellante principale, che vede con essa sfumare il maggior vantaggio derivantegli dalla necessità della sua adesione alla vicenda di attuazione dell’unitario comparto, rispetto a quello, cui può aspirare rimanendo estraneo, in forza appunto dell’effettuata scissione del comparto, all’iniziativa riguardante un ambito, sulle scelte riguardanti il quale non è più in grado di influire.
In definitiva sul punto, nessun ostacolo sembra frapporsi, a differenza di quanto ritenuto dal T.A.R., alla ammissibilità del ricorso di primo grado, le cui doglianze sono poi state dal ricorrente riprodotte in appello.
6.2 - Fondati ed assorbenti si rivelano i motivi attinenti alle violazioni procedimentali denunciate con il terzo motivo del gravame introduttivo.
Occorre in proposito ricordare che, come esattamente rilevato dal Giudice di primo grado, il Piano Particolareggiato in questione “è stato recepito nel PRG approvato nel 1985” (pag. 15 sent.).
Come risulta infatti dagli atti di causa, le norme di attuazione dello strumento urbanistico attuativo di cui si tratta sono state assunte “come parti integranti il presente P.R.G.” (art. 1.3 delle Norme di Attuazione delle Varianti Generali al P.R.G. entrate in vigore il 15 aprile 1985).
Orbene, poiché l’inquadramento dei lotti in questione (esclusi dal perimetro della nuova area Progetto n. 4) come Unità Minima di Intervento, operato con la non più contestabile deliberazione del consiglio comunale n. 274/1993, è stato effettuato mediante “integrazione e/o sostituzione delle norme tecniche di attuazione del Piano Particolareggiato” (v. punto 1. delle “Norme Tecniche di Attuazione” – All. 7 alla deliberazione medesima) e poiché dette norme sono sussunte, come s’è visto, quali NN.TT.A. del P.R.G. (in forza del rinvio dinamico contenuto nel veduto art. 1.3 delle NN.TT.A. del P.R.G. del 1985), non v’è dubbio, a parere del collegio, che la ridelimitazione compiuta con la controversa deliberazione consiliare n. 92/2004 venga ad incidere sulle previsioni delle NN.TT.A. del P.R.G. e dunque costituisca variante al P.R.G. medesimo.
Nell’esercizio, dunque, del potere/dovere del Giudice di qualificare giuridicamente l’azione ed i provvedimenti oggetto della stessa e di attribuire, anche in difformità rispetto alla qualificazione della fattispecie operata dalle parti, il corretto nomen iuris al rapporto dedotto in giudizio ed ai suoi elementi costitutivi, la variazione dell’àmbito territoriale del comparto di cui si tratta, sebbene ricondotta dal Comune nell’atto deliberativo in esame alla previsione dell’art. 18 della Legge regionale n. 61/1985 (il che rende irrilevante la pur fondata questione, dedotta dal ricorrente, della comunque indubbia intervenuta scadenza, alla data di approvazione della variazione stessa, del Programma Particolareggiato, nel quale l’àmbito medesimo si inserisce, atteso che, sulla base di detta previsione, la delimitazione dell’àmbito territoriale del comparto può essere deliberata o variata “anche separatamente” dal piano urbanistico attuativo o dal Programma pluriennale di attuazione), va piuttosto annoverata fra le “varianti parziali”, di cui all’art. 50 della stessa legge regionale, ch’è proprio la norma, di cui l’appellante, se pure senza qualificare esattamente la concreta natura dell’impugnato atto di variazione dell’àmbito, denuncia la violazione, per l’indubbia omissione, nel concreto procedimento nella fattispecie posto in essere dal Comune, delle garanzie procedurali dalla stessa stabilite; omissione in ogni caso sussistente, che rientri la variante de qua tra quelle di cui al comma 2, o tra quelle di cui ai commi 4 e 9 dello stesso articolo.
7. – L’appello principale, in definitiva, è, quanto all’impugnazione del capo di sentenza che ha in parte dichiarato inammissibile ed in parte respinto l’originario ricorso n. 3400/04, da accogliere, con conseguente accoglimento del ricorso stesso, in riforma della sentenza impugnata.
Ciò, si badi, in relazione al solo petitum di annullamento fatto valere con detto ricorso, dovendosi invece respingere la domanda di risarcimento danni, con lo stesso avanzata e riproposta in appello, non avendo il ricorrente offerto prova alcuna né dell’intervenuta attuazione dell’intervento avverso, né dei danni subiti in conseguenza della sola deliberazione di ridelimitazione qui annullata e devolvendo peraltro al Giudice, e per esso al C.T.U., anche qui del tutto inammissibilmente, oneri probatorii incombenti esclusivamente sul ricorrente stesso.
8. – Quanto ritenuto dal primo Giudice va invece confermato e l’appello principale va pertanto per tal verso respinto, in relazione all’accoglimento del ricorso di primo grado n. 863/2005, proposto dall’odierna controinteressata per l’annullamento del titolo edilizio rilasciato all’odierno appellante principale dal Comune di S. Michele al Tagliamento a seguito di denuncia inizio lavori n. 45.146 del 3.11.2004.
8.1 – Sotto il profilo, invero, della ammissibilità del sindacato giurisdizionale sulla legittimità della D.I.A., ad avviso del Collegio questa si traduce, in virtù di una preventiva valutazione legale tipica, nell'autorizzazione implicita all'effettuazione dell'attività edilizia, con la conseguenza che i terzi possono agire innanzi al Giudice amministrativo, per chiederne l’annullamento, avverso il titolo abilitativo formatosi per il decorso del termine, entro cui l'Amministrazione può impedire gli effetti della d.i.a." per chiederne l'annullamento (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. VI, 5.4.2007, n. 1550 e sez. V, 20.1.2003, n. 172).
Un orientamento diverso non è, ritiene la Sezione, praticabile.
Occorre preliminarmente, in proposito, rilevare che, in relazione all’istituto in parola, previsto in via generale dall’art. 19 della legge n. 241/1990 (che ad ogni modo fa salve le discipline di settore: cfr. il comma 4), il moltiplicarsi della normativa in materia ha portato ad una vera e propria frantumazione dell'istituto in parola in una pluralità di istituti diversi, ciascuno dei quali assoggettato ad un regime più o meno peculiare (v., sul punto, Cons. St., sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3916).
Sulla base dell'interpretazione tradizionale, che della denuncia d'inizio attività hanno dato sia ampi settori della giurisprudenza (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4453), sia parte della dottrina, va escluso che dalla D.I.A. possa nascere un atto amministrativo, perché si tratterebbe di atto soggettivamente e oggettivamente privato, che ha soltanto il valore di una comunicazione fatta dal privato alla Pubblica Amministrazione circa la propria intenzione di realizzare un'attività direttamente conformata dalla legge e non necessita di titoli provvedimentali (sulla natura di mera informativa della D.I.A. v. anche Cass. civ., Sez. I, 24 luglio 2003, n. 11478); sì che, si conclude sulla base di tali premesse, la domanda di annullamento della D.I.A. è inammissibile, in quanto la D.I.A. è e rimane un mero atto di iniziativa privata, per ciò solo non impugnabile davanti al Giudice Amministrativo.
Da una tale ricostruzione dell'istituto sorgono tuttavia rilevanti problemi sostanziali e processuali.
Si è posto in particolare l’articolato problema dell'esatta natura giuridica del silenzio eventualmente mantenuto dall'amministrazione nei venti giorni successivi alla presentazione di una denuncia di inizio attività (nello specifico modulo delineato in materia edilizia dalla legge n. 662/1996), dei rimedii giurisdizionali di cui il terzo dispone per opporsi all'esecuzione dei lavori intrapresi in base alla semplice denuncia del loro inizio da parte dell'interessato (in particolare nel caso che l'Amministrazione non adotti un formale provvedimento inibitorio nel termine dei venti giorni prescritti dalla norma, prima che l'attività denunciata possa essere intrapresa dall'interessato) e, dunque, se il comportamento silente in questione sia giuridicamente qualificabile come "inadempimento" e come tale sia quindi giustiziabile (solo) secondo il rito speciale di cui all'art. 21-bis della legge n. 1034 del 1971 (tesi appunto sostenuta qui dall’appellante principale).
Alla risoluzione del problema concorrono, sottolinea il Collegio, una serie di elementi logico-normativi.
Occorre premettere che l'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 e successive modificazioni (sostituendo il testo dell'art. 4 del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito nella legge 4 dicembre 1993, n. 493) ha introdotto nel nostro ordinamento la facoltà di eseguire taluni specifici interventi edilizi previa mera Denuncia di Inizio di Attività, ai sensi e per gli effetti dell'art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (nel testo sostituito dall'art. 2 della legge 24 dicembre 1993, n. 537), per cui in tali casi l'atto di consenso dell’Amministrazione si intende sostituito dalla D.I.A. (c.d. "deregulation").
Il comma undicesimo dell'art. 4 della citata legge 4 dicembre 1993 n. 493 e ss. mm. statuiva, in particolare, che: "Nei casi di cui al comma 7°, venti giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, l'interessato deve presentare la denuncia di inizio dell'attività, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato, nonché dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici adottati o approvati ed ai regolamenti edilizi vigenti ...".
Disponeva, poi, il comma quindicesimo del medesimo art. 4 che: "Nei casi di cui al comma 7°, il Sindaco, ove entro il termine indicato al comma 11°, sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica agli interessati l'ordine motivato di non effettuare le previste trasformazioni e, nei casi di false attestazioni dei professionisti abilitati, ne dà contestuale notizia all'autorità giudiziaria ed al consiglio dell'ordine di appartenenza".
Insomma, alla stregua di dette norme, spettava all'Autorità Comunale, nel termine di venti giorni dalla presentazione della denuncia (periodo che doveva essere lasciato libero prima di iniziare i lavori), verificare d'ufficio la sussistenza dei presupposti della procedura ed il rispetto delle prescrizioni di legge; qualora venisse riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, spettava al dirigente del competente ufficio comunale (in virtù dello spostamento di competenze gestorie operato dall'art. 45 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80) ordinare agli interessati, con provvedimento motivato da notificarsi entro il termine anzidetto, di non effettuare le previste trasformazioni.
A disciplinare siffatta D.I.A. è poi sopravvenuto il T.U. in materia edilizia 6 giugno 2001, n. 380.
Esso, nell’abrogare il ridetto art. 4 del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito nella legge 4 dicembre 1993, n. 493 (art. 136, comma 1, lett. g)), ha modificato il veduto assetto normativo.
In particolare, l'art 23 (R) [ la cui rubrica reca: - (L comma 3 e 4 - R comma 1, 2, 5, 6 e 7) (Disciplina della denuncia di inizio attività) - (legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 2, comma 10, che sostituisce l'art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241; decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, art. 4, commi 8-bis, 9, 10, 11, 14, e 15, come modificato dall'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 10 del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669) ] prescrive che:
- comma 1: "il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia ...";
- comma 5: “la sussistenza del titolo è provata con la copia della denuncia di inizio attività da cui risulti la data di ricevimento della denuncia, l'elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l'attestazione del professionista abilitato, nonché gli atti di assenso eventualmente necessari”;
- comma 6: "il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento ... ".
Il T.U. per l'edilizia ha, quindi, espressamente collocato allo scadere del trentesimo giorno dalla notificazione della D.I.A. il termine dopo il quale l'interessato può iniziare i lavori ed il termine ultimo entro il quale la P.A. può inibire l'inizio delle opere; in altre parole, ha unificato i due termini in questione, ampliando quello relativo all'inizio dei lavori e dimezzando quello relativo all'adozione di eventuali misure inibitorie preventive (Cons. St., V, 29 gennaio 2004, n. 308).
Ciò premesso, va poi ricordato che la D.I.A. edilizia costituisce species (la cui disciplina prevale sui quella generale) di un particolare tipo di procedimento semplificato ed accelerato, introdotto, come s’è già detto, in via generale dall'art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, riguardante, appunto, la c.d. denuncia di inizio di attività, il cui aspetto contenutistico e sostanziale va oggi valutato alla luce delle modificazioni apportate all’istituto dalla legge 14 maggio 2005, n. 80.
Si tratta invero di un istituto del tutto peculiare (che consente oggi al privato l’esercizio di una certa attività comunque rilevante per l’ordinamento, già subordinato a qualsivoglia forma di autorizzazione - il cui rilascio dipendesse esclusivamente dall'accertamento dei presupposti e dei requisiti fissati dalla legge o da atto amministrativo generale - a prescindere dalla emanazione di un espresso provvedimento amministrativo), comunque assimilabile ad una istanza autorizzatòria, che, con il decorso del términe di legge, provoca la formazione di un “titolo”, che rende lecito l’esercizio dell’attività e cioè di un provvedimento tacito di accoglimento di una siffatta istanza.
Si prevede a tal fine una doppia comunicazione da parte del privato.
La prima consiste in una dichiarazione dell’interessato, “corredata, anche per mezzo di autocertificazioni, delle certificazioni e delle attestazioni normativamente richieste”.
Con la seconda, il soggetto comunica che ad una certa data (non anteriore ai trenta giorni dalla presentazione della anzidetta dichiarazione) inizierà una certa attività (di solito produttiva) e, se entro un termine stabilito decorrente da tale comunicazione (trenta giorni, il cui computo inizia dal momento in cui la stessa sia stata ricevuta al protocollo generale dell’ente) l'Amministrazione non ne inibisce la prosecuzione (con un atto che ha natura di accertamento dei motivi giuridico-fattuali ostativi allo svolgimento dell’attività e dunque del tutto analogo ad un provvedimento di diniego di un atto autorizzatòrio dell’attività medesima, sì che deve ritenersi in tal caso applicabile il disposto dell’art. 10-bis della legge n. 241/90 e che invece, verificandosi in tale ipotesi una sorta di inversione procedimentale, non necessita di previa comunicazione dell’avvio del procedimento: Consiglio Stato, sez. VI, 23 dicembre 2005, n. 7359), il titolo si consolida, salvo, naturalmente, l'intervento successivo di interdizione dell'attività, che può intervenire in tutti i casi di accertamento della mancanza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti, al cui possesso l’ordinamento di settore subordini l’espletamento dell’attività medesima (Cons. St., IV, 26 luglio 2004, n. 5323).
L’atto di comunicazione dell’avvio dell'attività, a differenza di quanto accade nel caso del c.d. silenzio - assenso, disciplinato dall'articolo 20 della stessa legge n. 241-1990, non è una domanda, ma una informativa, cui è subordinato l'esercizio del diritto.
E il provvedimento, rispetto al quale l'amministrazione potrà esercitare poteri di autotutela (non solo vincolati a carattere repressivo, ma anche discrezionali di secondo grado, come oggi espressamente previsto dal secondo periodo del comma 3 del nuovo art. 19), si forma con l’esperimento di un ben delineato mòdulo procedimentale, all’interno del quale la D.I.A. costituisce pur sempre una autocertificazione della sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge per la realizzazione dell’intervento, sulla quale la pubblica amministrazione svolge una attività eventuale di controllo, al tempo stesso prodromica e funzionale al formarsi, a séguito del mero decorso di detto periodo di tempo (e non, dunque, dell’effettivo svolgimento della attività medesima), del titolo necessario per il lecito dispiegarsi della attività del privato.
Quanto al decorso del termine di trenta giorni, sembra ormai chiaro:
- che il consolidamento del titolo non possa comportare la possibilità che l'attività del privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma normativo, possa considerarsi lecitamente effettuata e dunque possa andare esente dalle sanzioni previste dall’ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi;
- che il titolo stesso, in tal caso, possa esser fatto oggetto, alle condizioni previste in via generale dall’ordinamento, di interventi di annullamento d’ufficio o révoca da parte dell’Amministrazione.
In proposito, sembra decisivo:
- il fatto che l'art. 21 della legge n. 241 del 1990 stabilisce che le sanzioni già previste per le attività svolte senza la prescritta autorizzazione siano applicate quando una attività, pur dopo la comunicazione all'amministrazione, venga iniziata in mancanza dei requisiti richiesti o comunque in contrasto con le disposizioni di legge (comma 2) e che lo stesso art. 21, al comma 2-bis, configura l’inizio della attività “ai sensi degli articoli 19 e 20” non preclusivo dell’esercizio delle “attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti”;
- che la veduta odierna previsione espressa del potere dell’Amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela (v. il comma 3 del nuovo art. 19) presuppone un provvedimento, o comunque un titolo, su cui intervenire;
- che, con specifico riferimento alla D.I.A. edilizia, il comma 2-bis dell’art. 38 del D.P.R. n. 380/01 prevede la possibilità di “accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo”, detta ipotesi equiparando ai casi di “permesso annullato”;
- che l’esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una delle imprescindibili modalità di cura dell’interesse pubblico affidato all’una od all’altra branca dell’Amministrazione ed è espressione del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.;
- che, nella specifica materia dell’attività urbanistico-edilizia, un potere specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa natura, anche mediante provvedimenti innominati), vòlto ad “assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi”, è affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001).
Pertanto, anche dopo il decorso del termine di trenta giorni previsto per la verifica dei presupposti e requisiti di legge, l'Amministrazione non perde i proprii poteri di autotutela, né nel senso di poteri di vigilanza e sanzionatorii, né nel senso di poteri espressione dell’esercizio di una attività di secondo grado (estrinsecantisi nell’annullamento d’ufficio e nella révoca, a proposito dei quali va peraltro rilevato che, nell'ipotesi in cui la legittimità dell'opera edilizia dipenda da valutazioni discrezionali e di merito tecnico che possono mutare nel tempo, il potere di autotutela, esercitabile con riferimento ad una d.i.a. anche quando sia ormai decorso il termine di decadenza per l'esercizio dei poteri inibitori ex art. 23, comma 6, del D.P.R. n. 380/01, deve essere opportunamente coordinato con il principio di certezza dei rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del privato nei confronti dell'attività amministrativa); mentre i terzi, che si assumano lesi dal silenzio prestato dall’Amministrazione a fronte della presentazione della d.i.a., si graveranno legittimamente non avverso il silenzio stesso, ma, nelle forme dell’ordinario giudizio di impugnazione, avverso il titolo, che, formatosi e consolidatosi nei modi di cui sopra, si configura in definitiva come fattispecie provvedimentale a formazione implicita.
Né alla opposta tesi, di cui si fa in questa sede portatore l’appellante principale, può aderirsi nemmeno in relazione al periodo, che viene appunto qui in considerazione in relazione alla data di formazione del titolo oggetto del giudizio, anteriore alle modifiche apportate all’istituto dalla legge n. 80/2005, atteso che la veduta introduzione, ad opera di detta legge, di poteri di autotutela in capo all’amministrazione, pur certamente significativa ai fini della ricostruzione dell’istituto come sopra operata, non sembra tuttavia decisiva, ed autonomamente rilevante, ai fini della stessa e della risultante qualificazione dell’istituto stesso; la quale, legata, come s’è visto a ben più ampi e diversificati presupposti e riscontri di carattere logico e normativo, non può che essere riferita anche ai provvedimenti formatisi anteriormente alla novellazione della legge n. 241/1990 operata dal legislatore del 2005, rilevando in particolare, per quanto specificamente attiene alla D.I.A. edilizia, l'art. 38, comma 2 bis e dall'art. 39, comma 5 bis, del D.P.R. n. 380/2001, in forza dei quali risultano estese agli interventi realizzati con D.I.A. sia la disciplina degli interventi eseguiti in base a permesso annullato (il che presuppone evidentemente che la D.I.A. costituisca un titolo suscettibile di annullamento), sia la possibilità di annullamento straordinario da parte della Regione.
8.2 - Superato lo scoglio della questione di ammissibilità dell’impugnazione della D.I.A., quanto al mérito della questione, che si pone a proposito della D.I.A. oggetto del presente giudizio, il T.A.R. ha concluso per la sua illegittimità, ritenendo che il Comune abbia omesso di verificare la sussistenza, nel caso concreto, dei presupposti necessarii per assentire (tacitamente) l’intervento richiesto ed in particolare del titolo di proprietà di una fascia di terreno, secondo la ricorrente originaria di sua proprietà.
La statuizione del giudice di primo grado resiste al proposto appello e dev’essere, come già detto, confermata.
L'art. 4 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, attualmente riprodotto dall'art. 11 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (t.u. edilizia), prevede che la concessione edilizia, oggi permesso di costruire, sia rilasciata "al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo": in proposito, costante giurisprudenza (v., per tutte, Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2001 n. 1507) afferma allora che, in sede di rilascio, il Comune è tenuto a verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con il solo limite di non poter procedere d'ufficio ad indagini su profili della stessa che non appaiano controversi.
E se è vero, come qui sostiene l’appellante principale, che il potere/dovere così delineato in capo all’Amministrazione può limitarsi alla verifica dell’esistenza del possesso dell’area (e cioè del concreto esercizio, da parte del richiedente il titolo, del potere sulla cosa, che si concreta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale), tale accertamento attiene pur sempre ad un livello minimo di istruttoria, che va superato ed approfondito allorché, come appunto avviene nel caso di specie e come ampiamente documentato in atti dall’originaria ricorrente, problematiche di asserita, indebita, appropriazione del fondo altrui insorsero già all’atto dell’edificazione dei condomìnii, cui ineriscono le opere, di cui alla D.I.A. in argomento.
Una tale verifica, imposta dai più volte citati artt. 4 della legge n. 10/1977 ed 11 del d.P.R. n. 380/2001 (che, nel richiedere la sussistenza di un titolo legittimante, non possono che riferirsi alla concreta estensione del diritto vantato e fatto valere avanti all’Amministrazione, senza che per questo debba ritenersi devoluto alla stessa il definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla sede naturale della risoluzione di tali conflitti ch’è la giurisdizione ordinaria), è nell’istruttoria all’esame del tutto mancata, sì che della stessa deve farsi càrico l’Amministrazione stessa nella riedizione dell’attività amministrativa imposta dall’effetto conformativo scaturente dalla presente decisione.
8.3 – L’appello principale va dunque in tale parte respinto, con conseguente conferma dell’impugnata decisione quanto alla statuizione di accoglimento del ricorso di primo grado n. 863/2005.
9. – In definitiva, l’appello principale va accolto in parte, nei termini di cui sopra, con conseguente accoglimento, in riforma della sentenza impugnata, dell’originario ricorso n. 3400/04 quanto al solo petitum di annullamento e conferma dell’impugnata decisione quanto alla statuizione di accoglimento del ricorso di primo grado n. 863/2005.
L’appello incidentale del comune va invece dichiarato irricevibile.
Le spese del doppio grado, in ragione della reciproca parziale soccombenza, possono essere integralmente compensate fra le parti.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe:
- accoglie in parte l’appello principale, nei sensi e limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata quanto alla statuizione di accoglimento del ricorso di primo grado n. 863/2005, mentre, in riforma della sentenza stessa, accoglie l’originario ricorso n. 3400/04 quanto al solo petitum di annullamento;
- dichiara irricevibile l’appello incidentale.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 11 novembre 2008, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta – riunito in Camera di consiglio con l’intervento dei seguenti Magistrati:
Luigi Cossu - Presidente
Luigi Maruotti - Consigliere
Pier Luigi Lodi - Consigliere
Goffredo Zaccardi - Consigliere
Salvatore Cacace - Consigliere,rel.est.
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Salvatore Cacace Luigi Cossu
IL SEGRETARIO
Giacomo Manzo