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Consiglio di Stato Sez.V sentenza 2754 del 20 maggio 2003
Sopraelevazione di edifici e distanza tra fabbricati
    

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REPUBBLICA ITALIANA                   

           IN NOME DEL POPOLO ITALIANO                      

Il  Consiglio  di  Stato  in  sede  giurisdizionale,  Sezione Quinta         

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 8301 del 2002 , proposto da Motta Andrea e Mellucci Anna , rappresentata  e difesa  dall’ avv. Celestino Biagini , elettivamente domiciliata  presso il medesimo in Roma, Via Belsiana 90

contro

il Comune di Santa Maria Capua Vetere, non costituito in giudizio e

Di Rienzo Domenico, Di Rienzo Francesco e Di Rienzo Andrea, rappresentati  e difesi  dall’avv.to Riccardo Satta Fores  ed elettivamente domiciliato  in Roma, Via Cicerone 28 presso lo studio dell’avv. Raffaele Izzo

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Napoli, Sez, IV, 18 luglio 2002 n. 4261 , resa tra le parti.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’ atto di costituzione in giudizio dei signori Di Rienzo come in epigrafe ;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza dell’11 marzo   2003  il consigliere Marzio Branca, e uditi gli avvocati Biagini e Satta Flores .

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

FATTO

Con la sentenza in epigrafe è stato accolto il ricorso proposto dai signori Domenico, Francesco e Andrea Di Rienzo per l’annullamento della concessione edilizia in sanatoria rilasciata dal Comune di Santa Maria Capua Vetere in favore dei signori Andrea Motta e Anna Mellucci.

Il TAR, sulla base della verificazione in precedenza disposta, ha ritenuto che la sopraelevazione del fabbricato assentita dal provvedimento impugnato non fosse conforme alle disposizioni del vigente strumento urbanistico, sia con riguardo alla distanza prescritta tra gli edifici, sia per eccesso di volumetria consentita rispetto alla superficie edificabile.

Dichiarava quindi assorbiti gli altri motivi dedotti e annullava la concessione ponendo a carico dell’Amministrazione le spese di lite e della verificazione.

Avverso la decisione hanno proposto appello i signori Motta e Mellucci chiedendone la riforma, denunciando l’erroneità delle conclusioni della consulenza tecnica cui i primi giudici si sarebbero acriticamente uniformati.

I controinteressati Di Rienzo si sono costituiti per resistere al gravame.

Alla pubblica udienza dell’11 marzo 2003  la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

La contestazione svolta dagli appellanti investe in primo luogo la conclusione cui sono pervenuti i primi giudici, affermando, sulla base dell’esito della disposta verificazione, che nella specie non è stata rispettata la distanza minima tra edifici “fronteggiantisi”, entrambi con pareti finestrate, che non può essere inferiore a metri 10 (art. 46 delle Norme di Attuazione del p.r.g.).

Il contrasto sul punto ha origine dalla circostanza che l’edificio, per il quale è stata rilasciata la concessione impugnata, nella parete prospiciente la costruzione degli appellati, presenta dei balconi sia al primo che al secondo ed ultimo piano.

In base ai calcoli effettuati dal perito d’ufficio, la distanza minima risulta rispettata se nella misurazione non si tiene conto del balcone, e cioè si parte dalla “tompagnatura” della parete, e, viceversa, è inferiore al minimo se si sottrae la profondità del balcone.

Sorge quindi il problema della corretta interpretazione della norma di attuazione (art. 16), che regola espressamente la materia e che recita: “Nella misura della distanza di cui al presente capitolo non si tiene conto delle gradinate e scale di accesso al piano rialzato, dei balconi, pensiline e simili, purché aperti e scoperti. Se la chiusura perimetrale del fabbricato è costituita da tutto o in parte da vetrate, verande, curtein walls, bowindows e simili, questi si considerano a tutti gli effetti pareti o facciate del fabbricato dalle quali vanno computate le distanze.”

La sentenza, facendo propria la tesi del perito d’ufficio, ha ritenuto che il piano di facciata, da cui misurare la distanza, fosse rappresentato dal filo esterno dei terrazzi a sbalzo, in quanto gli stessi, pur essendo “aperti” non erano anche “scoperti”.

Sebbene né la sentenza né la perizia rechino spiegazioni in proposito, tale conclusione sarebbe da ricondurre, secondo gli appellanti, alla circostanza che, essendo i balconi sovrapposti, quello inferiore è “coperto” da quello superiore, ma si fa osservare che la normativa di attuazione non intendeva riferirsi a tale ipotesi, come emergerebbe da una più meditata lettura delle NN.AA..

Ritiene il Collegio che i rilievi degli appellanti siano fondati.

La norma posta dall’art. 16, comma 4, trascritto più sopra, si compone di due distinti periodi: il primo, che indica, in negativo, cosa non rientra nel piano di facciata, e il secondo, che riguarda positivamente quale tipo di corpo aggettante ne fa necessariamente parte.

Può allora notarsi che la norma considera “facciata” tutti quei corpi sporgenti accomunati dal fatto di essere chiusi (le vetrate, le verande, le bowindows), secondo una esemplificazione che ripete alla lettera quella contenuta dall’art. 6, comma 1, riguardante l’individuazione dei “corpi aggettanti dalle facciate” che costituiscono “volume”.

Ma ciò che preme maggiormente rilevare è che tali strutture vengono prese in considerazione quali elementi di “chiusura perimetrale del fabbricato”, ossia in relazione alla funzione che assolvono di separare l’interno dell’immobile dall’ambiente esterno.

Al contrario il primo periodo dell’art. 16 comma 4, non considera “piano di facciata” le sporgenze tipicamente aperte e come tali non idonei a “chiudere” il fabbricato: gradinate, scale esterne, pensiline e finalmente balconi, che siano aperti e scoperti.

Orbene, se è chiaro che un balcone chiuso, non è più un balcone secondo il comune significato del termine, e quindi diventa elemento componente del piano di facciata, non è altrettanto chiaro cosa debba intendersi per balcone aperto, ma coperto, poiché la copertura può consistere in un fatto accidentale dovuto, ad esempio, alla sovrapposizione di identico balcone al piano superiore.

Ritiene il Collegio che, a tal fine, debba farsi ricorso all’interpretazione logico sistematica della disposizione, emergente dal confronto tra le due proposizioni sopra ricordate, ed affermare che il tipo di “copertura” che può trasformare un balcone, elemento di per sé estraneo al piano di facciata, in elemento di “chiusura perimetrale del fabbricato” deve essere tale da renderlo assimilabile strutturalmente, agli altri corpi aggettanti (vetrate, verande, bowindows, ecc.) che la norma ricomprende nel piano di facciata, in ragione della loro attitudine a creare ambienti interni alla costruzione. E’ quindi necessario che la copertura sia concepita come componente autonoma del balcone e che ad essa si aggiungano elementi ulteriori, quali ad esempio le pareti laterali, che realizzano un corpo funzionalmente omogeneo con la parete.

Tali caratteristiche non possono attribuirsi ai balconi di cui alla controversia in esame, nei quali la “copertura” costituisce elemento accidentale, mentre non si rinvengono altri dati strutturali idonei a qualificarli funzionalmente, nel senso sopra delineato. Essi andavano quindi esclusi dal piano di facciata ai fini della verifica del rispetto della distanza.

Il secondo motivo di appello denuncia l’erroneità della consulenza tecnica d’ufficio nella parte in cui ha rilevato che la nuova costruzione pur rispettando l’indice di densità fondiaria residenziale, aveva superato l’indice di densità fondiaria totale.

Gli appellanti hanno osservato che, nella verifica del rispetto del detto indice, il perito non ha scorporato i volumi che invece è possibile detrarre a norma dell’art. 6 delle NN.AA., e ciò perché ha ritenuto, erroneamente, che tale scorporo fosse ammesso soltanto per il calcolo della densità fondiaria residenziale, anche quando, come nella subzona interessata, l’indice di densità residenziale e indice di densità totale coincidono.

Il rilievo è fondato.

Va tenuto presente che l’art. 13 delle NN.AA. stabilisce che la densità fondiaria residenziale e la densità fondiaria totale sono indicate “distintamente” nel grafico n. 8 di p.r.g.. Come è intuitivo, e come emerge dalla lettura del grafico, se l’indice di densità totale è superiore a quello della densità residenziale, vuol dire che in ogni fondo della subzona, è possibile realizzare volumi residenziali e volumi non residenziali.

Se, invece, come nel caso che interessa (subzona B1.2), l’indice di densità residenziale coincide con l’indice di densità totale, vuol dire che è ammessa l’edificazione a destinazione residenziale per un indice corrispondente alla densità fondiaria totale.

Ne consegue che nel caso di  immobile  di civile abitazione nella sub zona considerata non è possibile verificare il rispetto degli indici di densità con criteri distinti per la densità residenziale e per quella totale, in quanto tutti i volumi della costruzione hanno la stessa destinazione residenziale, come si ricava dall’art. 6 delle NN.AA..

Questa disposizione infatti testualmente recita che “Nei volumi edilizi delle zone residenziali e direzionali non vanno computati ….le autorimesse o parcheggi … nonché i volumi adibiti a servizi sociali e condominiali, quali …stenditoio …”.

La norma non risulterebbe osservata se, ai fini della verifica del rispetto dell’indice di edificabilità totale, si dovesse procedere, come ha ritenuto il perito d’ufficio e con lui la sentenza, computando i volumi sopra ricordati, perché lo scopo della norma è appunto quello di escluderli dal novero dei “volumi edilizi” nelle zone residenziali, senza distinguere tra densità residenziale e densità totale. I volumi in questione, infatti, non sono computabili ai fini della densità residenziale, perché non si risolvono in ambienti abitabili, ma non lo sono neppure ai fini della densità totale perché partecipano comunque della destinazione residenziale e quindi ricadono sotto la disciplina della detraibilità di cui all’art. 6 delle NN.AA..

Se, al contrario, fosse corretto il ragionamento della sentenza, l’indice di densità totale sarebbe sempre superiore  a quello della densità residenziale, dovendo necessariamente prevedere un quid pluris per quella parte dell’immobile che non è adibita ad abitazione. Ma la circostanza è testualmente smentita dalla previsione delle NN.AA. per le subzone B1.2, in cui i due indici coincidono.

In conclusione, se, come attesta la perizia d’ufficio, l’indice di densità residenziale non è stato superato, neppure può esserlo stato l’indice di densità totale, sicché il motivo di appello va accolto.

Le parti appellate hanno inteso riproporre le censure avanzate in primo grado e dichiarate assorbite dai primi giudici.

Esse vanno esaminate, sebbene a tal fine non sia stato proposto ricorso incidentale, in conformità all’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza amministrativa.

Con il primo motivo si è denunciata la violazione dell’art. 11 e dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, nonché eccesso di potere sotto vari profili, rilevandosi che la concessione 4 novembre 1999 n. 85 è stata rilasciata “in sanatoria”, sebbene la precedente concessione assentita agli appellanti fosse stata annullata per contrasto le NN.AA..

Il motivo non è fondato, dovendosi considerare che l’errore sulla norma da applicare non può prevalere sul principio di conservazione dei valori giuridici.

Nella specie, il provvedimento, salva la  sussistenza di  vizi di altra natura, è stato emesso in base a regolare istanza dei soggetti interessati e risulta idoneo a conseguire il fine per il quale è stato adottato, sicché può essere considerato a tutti gli effetti una nuova concessione. Né tale circostanza viene negata dagli odierni appellanti.

Il motivo proposto come quarto in prime cure concerneva la violazione della normativa edilizia in materia di parcheggi, sostenendosi che il progetto allegato alla concessione prevedeva soltanto mq. 63,53 destinati a parcheggio, contro i 200 che sarebbero stati prescritti secondo l’art. 6 delle NN.AA..

La doglianza non trova conferma nella verificazione compiuta dal perito d’ufficio che ha constatato l’esistenza di spazi destinati ad autorimessa e parcheggio superiori a quelli minimi richiesti.

Avverso tale accertamento  non è stato mosso alcun rilievo critico, pertanto, non vi è ragione per disattendere l’esito della perizia.

Il quinto motivo denuncia la statuizione relativa all’importo dovuto per oblazione, che la concessione ha fissato in misura inferiore al dovuto.

La censura è inammissibile, posto che l’eventuale accoglimento condurrebbe ad una rettifica dell’importo da corrispondere, ma non arrecherebbe alcuna riparazione alla lesione dell’interesse degli originari ricorrenti ad impedire la costruzione assentita con la concessione impugnata.

In conclusione l’appello merita accoglimento con conseguente riforma della sentenza impugnata anche con riguardo alle spese come precisato in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta,  accoglie l’appello in epigrafe, e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, rigetta il ricorso di primo grado;

compensa integralmente tra le parti private le spese di entrambi i gradi di giudizio, ma pone a carico degli appellati Di Rienzo il compenso liquidato in primo grado in favore dell’architetto Umberto Marchese per l’incarico peritale espletato;

ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell’11 marzo   2003 con l'intervento dei magistrati:

Emidio Frascione                       Presidente

Corrado Allegretta                                           Consigliere

Goffredo Zaccardi                         Consigliere

Marco Lipari                             Consigliere

Marzio Branca                            Consigliere est.