Cons. Stato, Sez. IV n. 5253 del 9 ottobre 2012.
Urbanistica. Disposizione dell’art. 9 (Limiti di distanza tra i fabbricati) del D.M. 1444/1968 e legittimità del piano di recupero e del rilascio del permesso di costruire.

Laddove la giurisprudenza afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, impone l’applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello della salubrità dell’edificato, da non confondersi con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva. Tuttavia, dall’esame del dato letterale dell’art. 9 risulta che per le zone di tipo A, in cui ricade l’ambito del Piano di Recupero: “per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”, nel mentre soltanto per i “nuovi edifici ricadenti in altre zone …è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”. Dunque, la giurisprudenza ritiene applicabile in via analogica la norma della distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate anche nelle zone A nelle ipotesi di nuova edificazione. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 05253/2012REG.PROV.COLL.

N. 05152/2007 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5152 del 2007, proposto da:

Ferrario Paolo e Ferrario Giovanna, rappresentati e difesi dall’Avv. Annarosa Corselli e dall’Avv. Carlo Luigi Scrosati, con domicilio eletto in Roma presso lo Studio Grez & Associati, Lungotevere Flaminio, 46, Pal. IV, sc. B;

contro

Comune di Busto Arsizio (Va); Regione Lombardia; Immobiliare C.S.T. S.r.l., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avv. Liberto Losa e dall’Avv. Mario Sanino, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Parioli, 180; Colla Sergio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Lombardia, Milano, Sez. II, n. 473 dd. 21 marzo 2007, resa tra le parti e concernente piano di Recupero e rilascio del permesso di costruire.

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 29 maggio 2012 il Cons. Fulvio Rocco e uditi per gli appellanti Paolo Ferrario e Giovanna Ferrario l’Avv. Antonio Sasso in sostituzione dell’Avv. Carlo Luigi Scrosati e l’Avv. Mario Sanino per l’appellata Immobiliare C.S.T. S.r.l.

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

1.1.Gli attuali appellanti, Signori Paolo e Giovanna Ferrario, espongono di essere comproprietari di un’area ubicata nel Comune di Busto Arsizio (Va), all’angolo tra via Montebello e via Solferino, quasi interamente edificata e confinante, dal lato di via Solferino verso via Santa Croce, con una zona inedificata, dove l’Immobiliare C.S.T. S.r.l. sta realizzando un edificio residenziale.

La costruzione di tale edificio risulta prevista da un Piano di Recupero adottato dal Consiglio Comunale di Busto Arsizio con deliberazione n. 47 del 25 maggio 2001.

Giova sin d’ora precisare che l’edificio stesso ha dapprima formato oggetto del permesso di costruire n. 108/02, rilasciato l’11 marzo 2003 al fine della realizzazione degli interventi previsti dall’anzidetto Piano di Recupero, nonché dalla convenzione attuativa del 18 giugno 2002, e consistenti - per l’appunto - nella costruzione di una palazzina ad uso residenziale e nella sistemazione di uno spazio ad uso pubblico.

Successivamente lo stesso edificio ha formato oggetto di un permesso in variante del 27 ottobre 2004 e di una denuncia di inizio di attività presentata il 23 luglio 2003 e riscontrata senza rilievi dall’Amministrazione Comunale.

1.2. I Ferrario reputano che l’insieme di tali titoli edilizi sia lesiva dei loro interessi, in particolare perché le mura perimetrali dell’edificio di C.S.T. fronteggiano in parte le pareti della costruzione di loro proprietà.

Essi inoltre sostengono di essere titolari di diritti reali su di un immobile compreso nel Piano di Recupero, già corrispondente al mappale n. 551 ma attualmente distinto come mappale n. 32587.

I Ferrario hanno pertanto proposto a’ sensi e per gli effetti dell’art. 8 e ss. del D.P.R. 24 novembre 1971 ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, chiedendo l’annullamento del Piano di Recupero adottato dal Consiglio Comunale di Busto Arsizio con delibera n. 47 del 25 maggio 2001;

della conseguente convenzione del 18 giugno 2002, registrata in Busto Arsizio il 5 luglio 2002; del permesso di costruire rilasciato il 27 ottobre 2004 all’Immobiliare C.S.T. S.r.l., nonché della precedente concessione edilizia n. 108/02, rilasciata l’11 marzo 2003 e della relativa variante conseguente alla denuncia di inizio di attività presentata il 23 luglio 2003; e, ancora, di ogni altro atto presupposto, consequenziale o comunque connesso, ivi segnatamente comprese le N.T.A. del P.R.G.di Busto Arsizio nella parte in cui, in caso di edificazione ex novo, non dovessero prevedere distacchi minimi assoluti di 10 metri tra le costruzioni anche nelle zone omogenee A.

Con atto di opposizione dd. 6 settembre 2005 C.S.T. ha chiesto la trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale, a’ sensi dell’art. 10 dell’anzidetto D.P.R. 1199 del 1971.

1.3. I Ferrario hanno effettuato tale trasposizione sub R.G. 2763 del 2005 innanzi al T.A.R. per la Lombardia, Sede di Milano, costituendosi ivi in giudizio a’ sensi dell’art. 10 del medesimo D.P.R. 1199 del 1971 e reiterando la domanda di annullamento già formulata con il ricorso straordinario.

Essi hanno riproposto i medesimi motivi già dedotti nella precedente sede straordinaria.

Innanzitutto, avverso il Piano di Recupero e la conseguente convenzione attuativa essi hanno dedotto:

a) violazione degli artt. 3 e 12 del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, degli artt. 27 e 28 della L. 5 agosto 1978 n. 457 e dell’art. 7.4.14 delle N.T.A. del P.R.G., nonché erronea interpretazione od illegittimità delle relative disposizioni normative, travisamento dei fatti, illogicità manifesta, posto che a loro avviso l’area in questione non sarebbe contraddistinta da preesistenze edilizie e, quindi, non sarebbero sussistiti nella specie i presupposti per predisporre un Piano di Recupero (strumento che presuppone - per l’appunto - un tessuto edilizio degradato, ma comunque già esistente), mentre qualora si dovesse ritenere ammessa, in base alle N.T.A. del P.R.G., la realizzazione mediante Piano di Recupero di nuove costruzioni anche nelle zone A, in aree libere del centro storico, tale scelta sarebbe priva di motivazione, nonché sfornita di una disciplina cui rapportare l’intervento e - ancora - frutto di un’evidente illogicità;

b) violazione sotto ulteriore profilo degli artt. 3 e 12 del T.U. 380 del 2001, degli artt. 27 e 28 della L. 457 del 1978 e dell’art. 7.4.14 delle N.T.A. del P.R.G., nonché travisamento dei fatti, in quanto l’approvazione del Piano di Recupero è avvenuta oltre i tre anni dall’individuazione delle zone da recuperare effettuata con il P.R.G., a’ sensi dell’art. 27, terzo comma, della L. 457 del 1978;

c) violazione dell’art. 11 del T.U. 380 del 2001, travisamento dei fatti nonché errore nei presupposti, in quanto il Piano di Recupero impugnato drebbe per acquisita, in capo alla parte committente, la proprietà dei mappali nn. 8983 e 551, che invece apparterrebbero ai medesimi Ferrario.

I Ferrario hanno inoltre segnatamente dedotto avverso i titoli edilizi rilasciati a C.S.T. le seguenti censure:

a) violazione del T.U. 380 del 2001, nonchè del Regolamento edilizio del Comune di Busto Arsizio ed eccesso di potere per difetto di istruttoria, per omessa indicazione delle distanze dal confine o dalle costruzioni (asseritamente neppure indicate nel permesso di costruire e negli elaborati progettuali) e perché sarebbero stati in ogni caso violati gli artt. 8 e 12 del Regolamento edilizio comunale, che impongono di indicare, nello stato fatto, l’ubicazione degli edifici in rapporto agli edifici confinanti e di richiedere l’assegnazione dei punti fissi, mentre nel caso di specie vi sarebbe stata autoassegnazione;

b) violazione degli artt. 4, 12 e 20 del T.U. 380 del 2001, del Regolamento edilizio e dell’art. 7.3.29 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Busto Arsizio, nonché travisamento dei fatti, violazione degli artt. 8 e 9 del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, della L. 6 agosto 1967 n. 765, dell’art. 41-

quinquies della L. 17 agosto 1942 n. 1150, violazione dei minimi di altezza e di distanza tra edifici e di distanza dal confine, eccesso di potere per erroneità dei presupposti e, in subordine, illegittimità delle N.T.A medesime, in quanto, sotto il profilo delle distanze, vi sarebbe violazione dell’art. 7.3.29 delle N.T.A. del P.R.G. (che impone la distanza minima di 10 metri tra le pareti finestrate per tutte le zone omogenee, facendo eccezione, per la zona A, solo per gli interventi di risanamento, restauro e ristrutturazione e comunque avuto riguardo ai volumi edificati preesistenti); per il profilo delle altezze, vi sarebbe inoltre violazione dell’art. 8.3 delle N.T.A., risultando l’altezza del fabbricato in costruzione superiore al contesto di interesse storico ambientale, ed inoltre non sarebbe assicurata la tutela visiva della chiesa di S. Maria;

c) ulteriore violazione degli artt. 4, 12 e 20 del T.U. 380 del 2001, del Regolamento edilizio comunale e dell’art. 7.3.31 delle N.T.A. del P.R.G., in quanto il progetto non rispetterebbe il limite di 3 metri previsto per i confini dalle aree adibite a standard, sorgendo l’immobile in corso di costruzione in adiacenza delle aree vincolate a servizi.

1.4. Nel giudizio di primo grado si è costituito in giudizio il Comune di Busto Arsizio, eccependo in via preliminare il difetto di interesse dei ricorrenti alla proposizione del ricorso, nonché, quanto al Piano di Recupero, l’inammissibilità e l’irricevibilità della sua impugnazione e, quanto al permesso di costruire, la tardività dell’impugnazione della concessione edilizia n. 108/02 dell’11 marzo 2003. Nel merito, ha poi dedotto la complessiva infondatezza del ricorso.

1.5. Nel medesimo giudizio di primo grado si è pure costituita C.S.T., eccependo a sua volta in via preliminare il difetto di legittimazione e di interesse dei ricorrenti, nonché l’inammissibilità per più profili e l’irricevibilità dell’impugnazione del Piano di Recupero, l’inammissibilità, sotto molteplici aspetti, dell’impugnazione del permesso di costruire del 27 ottobre 2004, l’irricevibilità e l’inammissibilità dell’impugnazione della concessione edilizia n. 108/02 dell’11 marzo 2003, della denuncia di inizio di attività del 23 luglio 2003 e del permesso di costruire del 27 ottobre 2004, ed infine, l’irricevibilità dell’impugnazione delle N.T.A. del P.R.G.; nel merito C.S.T. ha comunque dedotto l’infondatezza delle censure dedotte.

1.6. Con sentenza n. 473 dd. 21 marzo 2007 la Sezione II dell’adito T.A.R. ha dichiarato inammissibili e in parte infondate le censure dedotte avverso il Piano di Recupero e la conseguente sua convenzione attuativa, inammissibili le censure dedotte avverso la denuncia di inizio di attività e in parte irricevibili e in parte infondate le censure dedotte contro gli altri titoli edilizi impugnati.

Più esattamente, il T.A.R.:

1) ha dichiarato inammissibile, per mancata tempestività dell’impugnazione del provvedimento presupposto - ossia,in parte qua, il P.R.G. - , il motivo di ricorso recante la censura dell’asserita impossibilità di assoggettare a Piano di Recupero l’area acquisita da C.S.T. a fini di edificazione; Recupero;

2) ha dichiarato inammissibile, per genericità, il motivo di ricorso relativo alle formalità di pubblicazione del Piano di Recupero;

3) ha dichiarato inammissibile la domanda di annullamento della denuncia di inizio di attività in quanto atto di iniziativa privata impugnabile dal terzo soltanto ai sensi dell’allora vigente art. 21 bis della L. 6 dicembre 1971 n. 1034;

4) ha dichiarato inammissibili le censure di violazione degli art. 12 e 20 del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 e degli artt. 8 e 12 del Regolamento edilizio comunale, nonché di eccesso di potere per difetto di istruttoria; tali censure erano state fondate sul rilievo della mancata indicazione nei titoli abilitativi delle distanze dai confini e dalle costruzioni, e la loro inammissibilità è stata affermata dal giudice di primo grado in quanto risultavano già definite dal P.R.G. (non impugnato sul punto) sia le linee di edificazione, sia l’involucro edilizio del fabbricato;

5) ha dichiarato irricevibile il motivo di ricorso attinente alla distanza dell’intervento oggetto del Piano di Recupero dalle costruzioni e dal confine, trattandosi di censura rilevabile sin dalla fase iniziale dei lavori, nonché la tardività, per le stesse ragioni, del motivi riguardanti la violazione dell'art. 7.3.29 delle N.T.A. sulla distanza fra le costruzioni e la violazione dell’art. 7.3.31 delle medesime N.T.A. sulla distanza dalle aree vincolate a servizio;

6) ha dichiarato inammissibile la domanda di annullamento delle N.T.A. del P.R.G. nella parte in cui non dovessero prevedere, in caso di edificazione ex novo, distacchi minimi assoluti di 10 metri tra le costruzioni anche in zona A, e ciò in quanto la relativa censura si fonda su di un vizio dell’atto presupposto non dedotto tempestivamente con riguardo all’atto applicativo;

7) ha respinto nel merito il motivo attinente alla pretesa violazione del termine di approvazione del Piano di Recupero ex art. 27, comma 3, e 28, comma 3, della L. 5 agosto 1978 n. 457, risultando immodificato lo stato dei luoghi successivamente allo scadere del termine medesimo, il assume rilievo esclusivamente ai fini dell’applicazione del regime di salvaguardia previsto dallo stesso art. 27, comma 4, della L. 457;

8) ha respinto nel merito il motivo riguardante l’erroneità dei presupposti del Piano di Recupero in relazione all'asserita esistenza di un diritto di proprietà dei Ferrario sul mappale n. 551;

9) ha escluso la sussistenza di vizi di legittimità del Piano di Recupero in relazione all’esistenza sul mappale 551 di un diritto d’uso a favore di terzi, risultando la relativa circostanza espressamente ammessa negli atti del Piano e non avendo i Ferrario illustrato perchè tale peso osterebbe alla cessione della relativa area al Comune;

10) ha respinto nel merito sia la censura relativa alla violazione della disciplina contenuta nelle N.T.A. del P.R.G. in materia di limiti di altezza nella zona considerata, sia la censura relativa alle disposizioni delle medesime N.T.A. che impongono la tutela visiva del Santuario di S. Maria Maggiore per mancanza di sufficienti elementi probatori, esprimendo – altresì - per tale seconda censura “forti dubbi di legittimazione dei ricorrenti”.

Lo stesso giudice di primo grado ha inoltre condannato i Ferrario al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di primo grado, complessivamente liquidate nella misura di € 2.000,00.- (duemila/00), oltre ad I.V.A. e C.P.A.

2.1.1 Con l’appello in epigrafe i Ferrario chiedono ora la riforma di tale sentenza, sostanzialmente riproponendo gli argomenti già da loro illustrati nel giudizio di primo grado a sostegno delle proprie tesi.

2.1.2. Con un primo ordine di motivi gli appellanti deducono violazione di legge e insufficiente motivazione, e ciò con riguardo al primo motivo di ricorso dedotto in primo grado.

In tal senso gli appellanti ribadiscono che il Piano di Recupero in questione è stato approvato in assenza di qualsivoglia preesistenza edilizia, posto che non sussisteva nella specie alcun tessuto edilizio su cui poter operare la ristrutturazione urbanistica che portasse alla creazione di un diverso edificio.

Gli appellanti al riguardo rimarcano che la ristrutturazione urbanistica è definita dall’art.7.4.14 delle N.T.A. quale“intervento rivolto a sostituire l’esistente tessuto urbanistico edilizio con altro diverso mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale”; viceversa, il Piano di Recupero non ha sostituito l’esistente ma ha soltanto prefigurato la realizzazione di una nuova costruzione in un’area per l’innanzi mai edificata, con conseguente illegittimità del Piano medesimo in quanto non rispondente alla fattispecie astrattamente normata dagli artt. 27 e 28 della L. 457 del 1978.

Nondimeno, il giudice di primo grado ha dichiarato il motivo stesso inammissibile in quanto “la scelta del Comune resistente, di assoggettare l’area in esame a Piano di Recupero non nasce certo dalla deliberazione di adozione, né da quella di approvazione del Piano stesso, ma è contenuta nella variante generale al P.R.G. approvata con deliberazione della Giunta Regionale n. VI/29298 del 12 giugno 1997, il cui avviso è stato pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, SerieInserzioni n.29 del 16 luglio 1997” e che “il vizio in esame investe in realtà la previsione del P. R. G., a suo tempo, tuttavia, non impugnata, quale atto presupposto di quello applicativo rappresentato dal Piano di Recupero” (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).

Tale tesi è contestata dagli attuali appellanti, secondo i quali se il P.R.G. rimetteva al Piano di Recupero la funzione di ristrutturare in senso urbanistico l’area, tale astratta previsione non necessariamente doveva essere già lesiva di un loro interesse, posto che la lesione stessa si sarebbe determinata soltanto per effetto dell’intervenuta approvazione del Piano di Recupero, stante il fatto che essi al momento dell’approvazione del P.R.G. non avrebbero potuto per certo immaginare che il futuro Piano di Recupero avrebbe proposto, come ivi per l’appunto si legge, “la costruzione di un edificio di tre piani abitabili fuori terra più il piano pilotis e di un piano interrato destinato a parcheggio privato che si estende nel sottosuolo spazi pubblici pedonali per circa mq. 150, conaccesso da Via Santa Croce e la sistemazione degli spazi destinati a pubblica piazza pedonale”.

Gli appellanti contestano anche la susseguente affermazione del giudice di primo grado secondo la quale “del resto, anche la deliberazione di approvazione del Piano di Recupero gravato chiarisce che l’ambito dell’intervento coincide interamente con l’unità immobiliare, la sui classificazione prevede la ristrutturazione urbanistica” (cfr. ibidem), e ciò in quanto la stessa sarebbe contraria alla stessa documentazione in atti.

Gli appellanti affermano in tal senso che raffrontando l’area sottoposta dal P.R.G. a “ristrutturazione urbanistica” e ivi individuata come RI e quella interessata dal Piano di Recupero” (cfr. l’estratto del P.R.G. prodotto in primo grado dal Comune come doc. 7) con il rilievo delle proprietà interessate dal Piano di Recupero (cfr. ibidem, doc.ti .nn.8 e 10) si avrebbe la prova della non coincidenza tra le due aree: e ciò in quanto mentre nel P.R.G. l’area individuata come da ristrutturare in senso urbanistico è un rettangolo sormontato da un trapezio, l’area presa in considerazione dal Piano di Recupero è una figura geometrica del tutto irregolare.

Né la diversità tra il Piano di Recupero e la perimetrazione dell’area da sottoporre a ristrutturazione urbanistica, ricavata dagli elaborati del P.R.G. sarebbe di poco conto, posto che la circostanza sopradescritta smentirebbe innanzitutto la giustificazione addotta dal T.A.R. per dichiarare inammissibile il ricorso avverso al Piano di Recupero, ed evidenzierebbe che il Piano di Recupero - contrariamente alla previsione nel P.R.G. del perimetro individuato come ristrutturazione urbanistica - ricomprenderebbe anche il quadrato OPQR che corrisponderebbe ad una porzione della proprietà dei Ferrario, ricompresa nel loro cancello: dimodochè l’interesse di questi a ricorrere sarebbe per l’appunto sorto nel momento in cui il Piano di Recupero ha ricompreso addirittura parte della loro proprietà, posto che nel P.R.G. tale appezzamento non rientrava nel perimetro del Piano attuativo.

I Ferrario affermano di essersi resi conto di ciò soltanto con la procedura di accesso al Piano di Recupero.

Né, sempre a loro avviso, potrebbe sostenersi che essi avrebbero dovuto impugnare il Piano di Recupero al momento della sua pubblicazione, posto che il Piano stesso avrebbe dovuto essere approvato e pubblicato, a’ sensi degli artt. 27 e 28 della L. 457 del 1978, entro il giugno 2000: ossia tre anni dalla delibera della Giunta Regionale dd. 12 giugno 1997 recante l’approvazione del P.R.G.

In tal senso, pertanto, i Ferrario sostengono che l’approvazione fuori termine non motivata del Piano di Recupero sarebbe comunque illegittima, e che essi comunque non avrebbero potuto immaginare che il Piano stesso sarebbe stato successivamente approvato, oltretutto in modo più esteso rispetto alla perimetrazione del P.R.G.: ossia, secondo la loro prospettazione, essi non avrebbero avuto alcun interesse a controllare un Piano attuativo che non li coinvolgeva, né a controllare eventuali pubblicazioni, una volta che il termine triennale era scaduto; ma dopo aver appreso l’avvenuta approvazione del Piano di Recupero e l’estensione dello stesso alla loro proprietà, essi l’hanno giustamente e tempestivamente impugnato, anche perché a loro mai sarebbe stato notificato alcunché al riguardo.

2.1.3. Con il secondo motivo d’appello i Ferrario deducono violazione di legge e insufficiente motivazione, soffermandosi sulla questione – già da loro dedotta in primo grado – della proprietà del mappale n. 551.

Essi reputano tale mappale di loro proprietà, con conseguente illegittimità del Piano di Recupero che, in via del tutto illegittima e illecita, avrebbe invece incluso nel proprio ambito tale appezzamento di terreno.

Da ciò discenderebbe, pertanto, anche l’impossibilità per C.S.T. di cedere la proprietà del mappale predetto al Comune.

I Ferrario rimarcano al riguardo che sono stati da loro prodotti in primo grado quale doc. 18 un atto Rep. 41142/5618 dd. 12 maggio 1964 a rogito del Dott. Isnardo Visentini, notaio in Busto Arsizio, e quale doc.19 altro atto Rep. 52017 dd. 28 aprile 1956 a rogito del Dott. Ezechiele Zanzi, notaio in Milano, nonché quale doc. 20 la dichiarazione di successione dalla Signora Luigina Pierina Tosi di cui i medesimi Ferrario sono nipoti chiamati all’eredità.

Ad avviso degli attuali appellanti da tali documenti, relativi al trasferimento del mappale n. 557, si ricavava che del mappale n. 551 essi sarebbero comproprietari: e, in particolare, dell’atto di vendita da Tosi Lorenzo e Tosi Domenico a Tosi Piera relativo ad una quota indivisa di 7/18, si afferma testualmente “si allega altresì alle note di voltura dipendenti dal presente atto certificato censuario rilasciato dall’Ufficio Imposte di Busto Arsizio in data 7 marzo 1956 n. 3243 da cui risulta che l’immobile distinto con il mappale n.557 pro-quota venduto con il presente atto si estende anche sul finitimo mappale 551”.

Gli stessi appellanti rimarcano che anche dai documenti prodotti da C.S.T. in primo grado, e in particolare dallo stesso atto Rep. n. 9857 dd. 26 giugno 1923 a rogito del notaio Dott. Edgardo Porro (peraltro prodotto anche dagli stessi Ferrario innanzi al T.A.R. quale loro doc. 2) si ricaverebbe che la corte di cui al mappale 551 sarebbe stata ceduta solo in parte all’acquirente, rimanendo quindi in parte ancora in comproprietà della parte venditrice.

I Ferrario evidenziano quindi che in occasione della vendita del mapp.557 nel 1956 la medesima corte comune sarebbe stata a sua volta ceduta in parte nel 1956 alla Sig.ra Piera Tosi, successivamente loro dante causa.

A conforto della propria tesi gli attuali appellanti evidenziano in particolare i punti 2, 3 e 4 dei patti speciali contenuti nell’atto rogato dal Dott. Porro.

In particolare, al punto n. 2 si legge che “il godimento della Corte al n.551 da parte del compratore, viene limitato alla porzione delimitata a ponente dall’esistente murello di cinta e dal suo prolungamento rettilineo preso sul paramento esterno, cioè verso il cortile stesso”, nel mentre al n. 3 si legge che “questo muretto di cinta ed il muro di fabbrica a sud del medesimo rimangono di ragione del venditore. Il murello di cinta non potrà in ogni futuro tempo essere sopra alzato dall’attuale altezza”; e – ancora – al n. 4 si legge che “alli venditori è in facoltà di porre in opera il cancello in ferro apribile verso la sua proprietà, lungo la tratta del muretto di cinta sopra accennato con lamiera alta mt.1,50 da terra”.

I Ferrario precisano che tale cancello è quello che di fatto richiude ancora proprio il mappale 551: con il che si comproverebbe che l’attuale stato dei luoghi coinciderebbe con la regolamentazione a suo tempo presa tra le parti.

I Ferrario, a comprova della loro comproprietà del mappale 551, producono quindi nel presente grado di giudizio quale loro doc. 3 copia integrale autentica rilasciata dall’Archivio notarile distrettuale di Milano dell’atto Rep. n. 52017 dd. 28 aprile 1956 a rogito del Dott. Ezechiele Zanzi, notaio in Milano, quale doc.n.4 copia autentica per intero dell’atto Rep. n.82893 dd. 4 marzo 1925 a rogito del Dott. Luigi Visentini (prodotto nel primo grado di giudizio anche da C.S.T., ma solo per estratto, e quindi senza le pagine relative ai patti e convenzioni speciali, nelle quali – per l’appunto - si rimanda ai patti speciali dell’atto precedentemente rogato dal Dott. Porro), quale doc. n. 5 l’atto Rep. n. 2949/12453 dd. 12 febbraio 1955 a rogito del Dott. Isnardo Visentini, notaio in Busto Arsizio, e quale doc. n. 6 copia della tavola censuaria rilasciata dall’Archivio di stato di Varese nella quale nell’anno 1955 il numero di mappa 551 veniva testualmente definito: “corte comune ai n.552 .... 557 ......”.

I Ferrario rimarcano che il medesimo mappale n. 557 di loro proprietà è stato a sua volta individuato come fabbricato urbano con diritto all’andito n.8983 sub.1) e alla corte n.551, e producono pertanto a conforto di ciò nel presente grado di giudizio, quale doc. 7, copia del registro partite pag.6451 del Regio Catasto Italiano per l’anno 1941, rilasciato sempre dall’Archivio di Stato di Varese, nel quale il mappale 551 viene sempre definito corte comune a vari mappali tra cui il 557, per l’appunto di loro proprietà.

I Ferrario producono anche nel presente grado di giudizio quale doc.n.8 copia del registro partite pag.6580 del catasto italiano per l’anno 1949, rilasciato sempre dall’Archivio di Stato di Varese, nella quale il mappale 557 viene definito fabbricato urbano con diritto alla corte n.551, quale doc.n.9 copia del registro partite pag.6580 del Catasto per l’anno 1949, sempre rilasciato dall’Archivio di Stato di Varese, nel quale ancora una volta si indica che il mappale 557 è un fabbricato urbano con diritto alla corte n.551, e quale doc. n. 10 una perizia del Geom. Romualdo De Cherubini dalla quale parimenti si evince che il mappale 551 è corte è in comproprietà, tra l’altro, al mappale 557 di proprietà degli esponenti.

I Ferrario evidenziano che nella sentenza resa dal giudice di primo grado si nega – per contro – l’insistenza di un loro diritto di proprietà sull’anzidetto mappale n. 551 e che, anzi, il fatto che il Piano di Recupero abbia tenuto presente il mappale 551 come gravato da un diritto di uso a favore di terzi sarebbe circostanza che esclude la fondatezza delle loro censure sul punto.

I medesimi Ferrario affermano pure che, ove pure si seguisse il ragionamento – ancorchè smentito da tale nuova documentazione prodotta agli atti di causa – che il mappale 551 non sarebbe di loro comproprietà ma soltanto gravato da servitù a favore del mappale 557 di loro indiscussa proprietà e ceduto al Comune perché diventasse parte di una futura piazza pubblica, tale circostanza comunque non potrebbe essere per loro indifferente, posto che una parte del medesimo mappale 551 altro non sarebbe che la corte interna dei fabbricati di loro proprietà, chiusa da muro e da un cancello; e – soggiungono – se in tale contesto il mappale 551 viene ceduto al Comune per la formazione di una piazza pubblica, ciò comunque inciderebbe sulla presenza del cancello e delle mura, posto che il cancello dovrebbe quanto meno restare aperto.

In ogni caso, quindi, la circostanza che il Piano di Recupero preveda la cessione del mappale 551 al Comune lede comunque i loro interessi, legittimandoli all’impugnativa del Piano medesimo, anche poiché la servitù uti singuli è ben diversa dalla servitù uti cives (cfr. sul punto, ad es., Cons.Stato, Sez.I, 18 dicembre 2006 n.760).

2.1.4. Con il terzo motivo d’appello i Ferrario deducono ulteriore violazione di legge e insufficiente motivazione, evidenziando che nel primo motivo di ricorso da loro proposto in primo grado avverso i titoli edilizi rilasciati a C.S.T. era stata dedotta l’avvenuta violazione del T.U. 380 del 2001 e del Regolamento edilizio del Comune di Busto Arsizio, nonché eccesso di potere per difetto di istruttoria, posto che mai sarebbero state indicate nelle relative domanda le distanze dal confine o dalle costruzioni (del resto, neppure indicate a loro volta nel permesso di costruire e negli elaborati progettuali) e posto che risultavano comunque nella specie violati gli artt.8 e 12 del Regolamento edilizio comunale laddove impongono di indicare nello stato di fatto l’ubicazione degli edifici in rapporto agli edifici confinanti e di chiedere l’assegnazione dei punti fissi.

I Ferrario rimarcano che nel caso di specie vi sarebbe stata soltanto autoassegnazione dei punti fissi e che, nondimeno, il giudice di primo grado ha dichiarato la relativa censura inammissibile, affermando che “in proposito, va, anzitutto, condivisa l’eccezione secondo cui il P.R.G. del Comune di Busto Arsizio del 1997 già definiva le linee di edificazione del fabbricato e l’involucro edilizio, con l’effetto che l’indicazione ditali dati negli elaborati progettuali avrebbe avuto al più una mera valenza riproduttiva” (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).

Gli attuali appellanti contestano tale assunto del T.A.R., reputando del tutto assodata la circostanza che prima dell’intervento di cui trattasi – e, quindi, prima del 2004 - l’area era nuda, e che nondimeno si vorrebbe sostenere che il P.R.G. del 1997 “già definiva le linee di edificazione del fabbricato”, posto che il P.R.G., a’ sensi dell’art. 7 della L. 17 agosto 1942 n. 1150 e successive modifiche è deputato a ripartire in zone omogenee il territorio comunale e non già a prefigurare l’estensione delle piante degli edifici che in tali zone saranno realizzati.

Sempre secondo gli appellanti, se il P.R.G. in effetti già individuava la sagoma dell’edificio da realizzare, non aveva alcun senso provvedere alla susseguente ristrutturazione urbanistica e al Piano di Recupero: senza sottacere che, come detto innanzi, la pretesa sagoma così come individuata nel P.R.G. e il fabbricato realizzato non sono coincidenti.

Gli appellanti contestano inoltre con forza l’assunto del giudice di primo grado secondo cui “si deve ritenere che ogni doglianza attinente alla distanza dalle costruzioni e/o dal confine fosse rilevabile sin dalla fase iniziale dei lavori e che, perciò, avrebbe dovuto essere formulata a decorrere da tale fase, senza attendere l’ultimazione dei lavori. Invero, la giurisprudenza ha chiarito, con riferimento alla censura di mancato rispetto della distanza tra i fabbricati, che si tratta di censura rilevabile sin dalla fase iniziale dei lavori, per la quale, quindi, la decorrenza del termine di impugnazione della concessione edilizia da parte del terzo non inizia a decorrere, com’è di regola, dal completamento dei lavori, inteso come momento in cui si realizza l’effettiva conoscenza dell’atto. …In altre parole, il fatto che le lacune formali di cui si dolgono i ricorrenti si traducano, poi, in sostanza, tramite il sospetto che il Comune non abbia verificato la puntuale osservanza delle distanze, nel vizio di mancato rispetto delle distanze stesse, ha reso individuabile la lesività connessa alle suddette lacune - si ripete, il mancato rispetto delle distanze come effetto della asserita incompletezza formale, sul punto, degli elaborati progettuali _ sin dalla fase iniziale dei lavori. Si deve, pertanto, concludere che, nel caso di specie, sin da tale fase, con l’esposizione dei cartelli di cantiere indicanti gli estremi della concessione edilizia, abbia iniziato a decorrere, il termine di impugnazione della concessione stessa sotto il profilo ora visto (arg. ex Cons. Stato, Sez. V, 6 marzo 2002, n. 1345; Cons. Stato, Sez. VI, 15 maggio 2002 n.2668). Ne discende la tardività del motivo di ricorso in esame” (cfr. pag. 6 e ss. della sentenza impugnata).

A tale riguardo gli attuali appellanti, dopo aver ancora una volta rimarcato che nei progetti le distanze non erano state indicate mai, né nelle tavole del Piano di Recupero, né in quelle relative al rilascio dei titoli edilizi, evidenziano che nondimeno tale vizio - all’evidenza riscontrabile soltanto dopo l’accesso alla pratica del Piano attuativo e alle pratiche edilizie - avrebbe dovuto essere rilevato – secondo la tesi seguita dal T.A.R. - al momento dell’esposizione dei cartelli dei titoli edilizi, in ordine alla quale C.S.T. neppure avrebbe fornito alcuna indicazione né tanto meno prova: pertanto, a loro avviso era impossibile capire dal solo riscontro del cartello enunciante il rilascio del titolo edilizio (e sempreché il cartello fosse stato veramente apposto) quali erano le distanze di progetto, comunque mai indicate.

In conseguenza di ciò, gli appellanti medesimi insistono nell’affermare che soltanto l’accesso agli atti ha consentito loro di verificare il mancato rispetto, nella specie, dell’art.8 del regolamento edilizio.

Gli appellanti rimarcano anche che la mancata indicazione delle distanze dagli altri fabbricati (comunque alquanto anomala, trattandosi di un fabbricato di quattro piani in pieno centro storico) non sarebbe cosa di poco conto, posto che il riscontro della violazione delle distanze contemplate dalla vigente strumentazione urbanistica costituisce vizio invalidante del titolo edilizio.

Sempre per quanto attiene alla tempestività della deduzione di tale vizio gli appellanti rimarcano che il procedimento di accesso si è concluso il 26 aprile 2005, nel mentre il conseguente ricorso in primo grado è stato depositato il 26 luglio 2005; senza sottacere che nel fascicolo di primo grado sussisterebbe la prova che dopo l’apertura del cantiere i lavori non avevano avuto un significativo impulso, tale quindi da far conoscere de visu le caratteristiche dell’edificio.

In tal senso consterebbe dal doc.n.17 prodotto in primo grado dagli stessi Ferrario che l’architetto della C.S.T. per conto della stessa ha risposto in data 10 settembre 2004 alle loro lamentele circa un intralcio all’accesso alla proprietà affermando, tra l’altro, “che i lavori del cantiere in oggetto hanno dovuto subire rilevante sospensione, tutt’ora in atto, a seguito dell’impossibilità di accesso alla Via Solferino a automezzi di cantiere per via dei lavori comunali in corso sulla Via Montebello con circolazione, peraltro difficoltosa, limitata alle sole autovetture; - che, non appena sarà dato modo di riprendere i lavori, sarà premura di provvedere soddisfacendo le Vostre richieste ...”.

I Ferrario affermano anche che essi avrebbero con ciò fornito la prova della tempestività della loro impugnazione, nel mentre le controparti non hanno fornito la prova di una conoscenza anteriore degli atti impugnati da parte di coloro che si pretendono lesi.

2.1.5. Per quanto attiene alla dedotta violazione delle N.T.A. e del D.M. 1444 del 1968 gli appellanti rinviano integralmente a quanto da loro già dedotto in primo grado e, segnatamente, alla pag. 12 e ss. della loro memoria conclusiva depositata innanzi al T.A.R. in data 5 gennaio 2007.

Gli appellanti in tal senso insistono, con un quarto motivo d’appello, nell’affermare che la nuova costruzione presenta pareti finestrate antistanti la loro proprietà a distanza di m.5,65 e che – per contro - l’art.7.3.29 delle N.T.A. del P.R.G., intitolato “Distacchi o distanze fra le costruzioni appartenenti a proprietà diverse” dispone nel senso che “in tutte le aree omogenee devono osservarsi in sede di edificazione in soprassuolo: - distacchi minimi assoluti di 10 m. tra pareti finestrate di progetto e pareti finestrate di edifici esistenti antistanti anche parzialmente alle stesse, purché regolarmente autorizzati. Non creano l’obbligo del distacco gli abusi edilizi ancorché sanati. La norma si applica soltanto nei casi di pareti dove le finestre corrispondono a spazi di soggiorno e di lavoro continuativi (stanze) e limitatamente alle aperture conteggiate ai fini della verifica delle vigenti prescrizioni di aero-illuminazione degli spazi stessi; - distacchi minimi assoluti dai confini di proprietà pari alla metà dell’altezza delle costruzioni e comunque non inferiore a 5 m, fatta eccezione per: canne fumarie e di esalazione; scalette; riempimenti di terreno non più alti di a 1,00; servizi fuoriuscenti dal piano medio di campagna per non più di m. 1, purché questi ultimi interamente coperti da uno strato, questo compreso, di almeno 30 cm. di terra coltivabile a prato ed arbusti; elementi accessori tutti questi per i quali potrà tenersi la distanza minima di m.1,5 da confine. Tali prescrizioni non si applicano nel caso di costruzioni a servizi che sono consentiti a confine, ai sensi del successivo art. 27. Sono fatte salve le prescrizioni seguenti: a) per la zona A, nel caso di operazioni di risanamento conservativo, di restauro o di ristrutturazione di edifici, le distanze tra gli edifici in soprassuolo non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive recenti prive di qualsiasi valore storico, artistico o mbientale”.

Ciò posto, gli attuali appellanti affermano che, essendo – come detto innanzi - la nuova costruzione posta a circa 5,65 da quella di loro proprietà, a loro avviso sarebbe innanzitutto violata la surriportata disciplina di piano laddove stabilisce il rispetto di m. 10 (comunque già fissato dal D.M. n.1444 del 1968) in tutte le aree omogenee e per le zone A, posto che l’unica eccezione prevista a tale disposizione normativa riguarderebbe i tipi di intervento contemplati espressamente e che, pacificamente, non riguardano l’ipotesi di nuove costruzioni; e - sempre secondo i medesimi appellanti - ove si volesse affermare che la medesima disposizione normativa non potrebbe rilevare per il caso di specie in quanto fa riferimento a pareti finestrate di progetto e a pareti finestrate di edifici esistenti antistanti anche parzialmente alle stesse, dovrebbe replicarsi a loro avviso nel senso le regole di costruzione dettate dall’art.9 del D.M. n.1444 del 1968 per tutte le zone diverse dalle zone A sono state ritenute comunque obbligatorie anche per le zone A in caso di nuova edificazione (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez.VI, 27 gennaio 2003 n.419 e Cons. Stato, Sez.V, 19 marzo 1999 n.280).

Gli appellanti sostengono che la giurisprudenza non pone in dubbio il loro interesse al rispetto della disposizione normativa testè enunciata proprio in quanto contenuta nel D.M. 1444 del 1968 (cfr. sul punto Cass. Civ., Sez. II, 23 novembre 1999 n. 12975), cui lo strumento urbanistico deve inderogabilmente conformarsi.

Essi inoltre in tal senso rimarcano che se la regola posta dall’art.9 del D.M. n.1444 del 1968 deve valere nel caso di nuove edificazioni nella zona A, di conseguenza risulterebbe illegittimo l’art.7.3.29 delle N.T.A. del P.R.G. Comune di Busto Arsizio laddove contempla l’obbligo del rispetto dello stesso art.9 in parola soltanto nel caso di due pareti contrapposte ed entrambe finestrate (cfr. al riguardo, ad es., Cass.Civ., Sez.II, 5 novembre 1992 n.12001; Cons. Stato, Sez. IV, 12 luglio 2002 n. 3929 e 21 maggio 1982 n. 420; Cons. Stato, Sez.V, 18 febbraio 2003 n.871).

I Ferrario evidenziano anche che il D.M. 1444 del 1968 trae dall’art.41-quinques della L. 17 agosto 1942 n. 1150 come introdotto dall’art.17 della L. 6 agosto 1967 n.765 la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, dimodochè la distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti e di edifici antistanti, predeterminata con carattere cogente in via generale ed astratta in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima (cfr. al riguardo Cass.Civ., SS.UU., 21 febbraio 1994 n.1645), essendo consentita ai Comuni medesimi soltanto la fissazione di distanze superiori (cfr. sul punto, ad es., Cass. Civ., Sez. II, 4 febbraio 1998 n. 1132, 29 ottobre 1994 n. 1645 e 21 febbraio 1994 n. 1645, nonché Cons. Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2005 n.6909 e 12 luglio 2002 n.3929).

Gli appellanti affermano anche che il giudice di primo grado neppure avrebbe disaminato la violazione dell’art.7.3.31 delle N.T.A. del P.R.G., ancorchè da essi dedotta, laddove dispone che “dai confini (o limiti) delle aree vincolate a servizi concorrenti alla formazionedegli standards o di interesse generale vanno osservate le stesse distanze che per i confini di proprietà private, anche nel caso in cui siano relativi ad una stessa proprietà, fatta eccezione per le aree a parcheggio pubblico allineate lungo i tracciati stradali”.

Gli stessi appellanti rilevano a tale riguardo che l’edificio realizzato da C.S.T. sorge in immediata adiacenza alle aree vincolate a percorrenze pedonali.

2.1.6. I Ferrario, con un quinto motivo d’appello, deducono pure violazione di legge e insufficiente motivazione sotto altro profilo, reputando la sussistenza di una violazione della disciplina di fonte comunale sui limiti di altezza dei fabbricati nella zona considerata (subarea Al) ed in ispecie degli artt.8.2.1 e 8.3 delle N.T.A. del P.R.G., da cui si ricava che devono essere rispettati i limiti di altezza “esistenti nel vecchio contesto di interesse storico ambientale”, nonché la sussistenza di una violazione dell’art.8 del D.M. n.1444 del 1968, laddove dispone che l’altezza delle costruzioni in zona A non sia superiore a quella degli edifici circostanti di carattere storico-artistico.

Il giudice di primo grado ha respinto la relativa censura innanzi a lui proposta reputandola non suffragata da sufficienti elementi probatori.

In tal senso il T.A.R. ha ritenuto che le fotografie prodotte nel primo grado di giudizio quale doc. 16 di parte ivi ricorrente e l’analisi del doc. 6 proposto dalla parte medesima consentivano di ricavare informazioni sulla sagoma degli edifici di cui si discute, ma non sulla loro altezza, né tantomeno sul loro asserito interesse storico-artistico.

Secondo gli attuali appellanti non si potrebbe dubitare sull’interesse storico artistico degli edifici riprodotti nell’anzidetto doc.n.6, posto che il documento medesimo altro non sarebbe che un estratto della tavola del vigente P.R.G., sulla quale essi evidenziato l’area sottoposta a RI, ossia a ristrutturazione urbanistica, e avevano evidenziato vari edifici di contorno, secondo lo stesso Comune meritevoli di tutela, tantè che erano stati campiti ovvero bordati in nero dall’Amministrazione Comunale, come ben si ricava dalla “legenda” al P.R.G. ivi parimenti prodotta quale doc.1 e che reca la spiegazione della campitura e della bordatura.

Per quanto attiene invece alla prova dell’altezza, gli attuali appellanti affermano di aver imndicato nel giudizio di primo grado alcuni di questi edifici come di altezza inferiore a quella dell’edificio realizzato da C.S.T., chiedendo in caso di contesta zio l’effettuazione di una consulenza tecnica: richiesta peraltro ignorata dal T.A.R.

Gli appellanti producono ora nel presente grado di giudizio, quale doc.11, una planimetria nella quale da un lato vengono indicate le altimetrie degli edifici circostanti, e dall’altro si evidenziano gli edifici campiti o bordati in nero, affermando che dal raffronto emergerebbe inconfutabilmente che proprio il fabbricato adiacente a quello in costruzione e bordato in nero ha l’altezza di metri.10, ossia inferiore all’altezza dell’edificio realizzato da C.S.T., a sua volta avente a loro dire un’altezza “certamente superiore a metri 11” (cfr. pag. 25 dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio).

2.1.7. Con un sesto ed ultimo motivo gli attuali appellanti contestano la loro condanna al pagamento delle spese relative al primo grado di giudizio, “vista la scarsità ovvero contraddittorietà dei dati. Si rileva che l’errata indicazione della proprietà esclusiva del mapp.551, o comunque la mancata indicazione delle distanze dovevano indurre il T.A.R. a sollevare parte ricorrente dalle spese” (cfr. ibidem).

2.2. Anche nel presente grado di giudizio si è costituita l’appellata C.S.T., eccependo in via preliminare la parziale inammissibilità dell’appello per quanto attiene a talune censure asseritamente nuove che sarebbero state formulate dagli appellanti.

C.S.T. ha inoltre eccepito l’inammissibilità delle nuove produzioni documentali provenienti dagli appellanti.

Per il resto, C.S.T. ha replicato puntualmente alle censure avversarie e ha concluso per la reiezione dell’appello, dopo aver anche riproposto in via tuzioristica i propri argomenti difensivi già illustrati in primo grado e rimasti assorbiti all’esito del relativo giudizio.

2.3. Non si è costituito in giudizio il Comune di Busto Arsizio.

2.4. Entrambi le parti costituite hanno prodotto ulteriori memorie in replica, insistendo per l’accoglimento delle rispettive tesi.

3. Alla pubblica udienza del 29 maggio 2012 la causa è stata trattenuta per la decisione.

4.1. Il Collegio, per parte propria, preliminarmente precisa che agli effetti della presente decisione deve prescindere dalle ulteriori produzioni documentali, diverse da quelle già acquisite al fascicolo del primo grado di giudizio, qui effettuate dagli appellanti e già descritte al § 2.1.3. di questa stessa sentenza, nonché effettuate dall’appellata C.S.T. e in particolare consistenti, a loro volta, in una relazione a firma del dott. Adalberto Ferrari, notaio in Busto Arsizio, circa le vicende proprietarie dell’anzidetto mappale n. 551: e ciò in quanto, come è ben noto, a’ sensi dell’attualmente vigente art. 104 cod. proc. amm. e, al momento della proposizione dell’appello in epigrafe, a’ sensi dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., assodatamente applicabile anche a quel tempo al processo amministrativo, il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello riguarda anche le prove c.d. “precostituite”, quali i documenti, la cui produzione è quindi subordinata, al pari di quelle c.d. “costituende”, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile che abbia impedito alla parte di esibirli in primo grado, oppure alla valutazione della loro indispensabilità (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 18 novembre 2011 n. 6067).

Il Collegio infatti, anche in disparte della già di per sé significativa circostanza per cui nessuna delle parti anzidette ha invocato - per quanto attiene al proprio interesse - la sussistenza di pregressi impedimenti alla produzione di tali nuovi documenti, reputa che la causa può comunque essere decisa nel presente grado di giudizio sulla base della documentazione già acquisita nel fascicolo formato presso il T.A.R., senza necessità di ulteriori supporti documentali.

4.2. Sempre in dipendenza dell’art. 104 cod. proc .amm. e dell’art. 345 cod. proc. civ. vanno dichiarati inammissibili i motivi d’appello proposti dai Ferrario laddove si prospettano diversità tra P.R.G. e Piano di Recupero, per quanto segnatamente attiene all’asseritamente diversa perimetrazione dell’area da sottoporre a ristrutturazione urbanistica: diversità non dedotta innanzi al T.A.R. e che gli appellanti dichiaratamente ricavano dalla lettura di elaborati del P.R.G. dei quali essi avevano peraltro la disponibilità già in sede di giudizio di primo grado.

Per lo stesso motivo va pure dichiarata l’inammissibilità del motivo d’appello con il quale i Ferrario hanno dedotto l’ “incompetenza” del P.R.G. nella fissazione del perimetro e dell’involucro dell’intervento edilizio oggetto del Piano di Recupero, sostenendo che solo in tale strumento di pianificazione attuativa potrebbe contemplare tali previsioni: anche tale specifica censura, infatti, non è stata dedotta dagli attuali appellanti nel precedente giudizio di primo grado.

5.1.Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto avuto riguardo alle considerazioni qui appresso esposte, le quali, affrontando prevalentemente il merito delle censure complessivamente dedotte in primo grado dai Ferrario, superano pertanto per ampia parte le varie statuizioni di irricevibilità e di inammissibilità contenute nella sentenza impugnata.

5.2.1. Per quanto attiene alle censure dedotte dai Ferrario in primo grado avverso il Piano di Recupero, va evidenziato che esse possono essere così riassunte:

1) l’edificazione dell’area assoggettata a Piano di Recupero non poteva avvenire mediante tale strumento di pianificazione attuativa, stante l’asserita mancanza di preesistenze edilizie sull’area medesima;

2) il Piano di Recupero sarebbe stato nella specie approvato oltre il termine previsto dall’art. 28 della L. 457 del 1978;

3) il medesimo Piano di Recupero risulterebbe viziato da travisamento dei fatti e da errore nei presupposti in quanto il mappale n. 551 in esso incluso sarebbe di proprietà (perlomeno parziale) degli stessi Ferrario.

5.2.2. Per quanto attiene alla prima di tali censure, ossia che l’edificazione dell’area acquisita da C.S.T. non poteva avvenire mediante Piano di Recupero non sussistendo sulla relativa area preesistenze edilizie, va evidenziato che - anche a prescindere dalla circostanza che la censura stessa andava semmai riferita non al Piano di Recupero ma al presupposto art. 8 delle N.T.A. del P.R.G., il quale per l’appunto prevedeva per l’area in questione tale specifica modalità di edificazione - i piani di Recupero si configurano quali strumenti di pianificazione secondaria deputati a normare non solo interventi di ristrutturazione edilizia, ma anche interventi di ristrutturazione urbanistica, e possono pertanto riguardare anche aree inedificate (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 28 febbraio 1992 n. 223, segnatamente relativa alla L.R. 7 luglio 1986 n. 23, vigente all’epoca dell’approvazione del Piano di Recupero in questione, nonchè , più in generale e con espresso riguardo alla sola disciplina contenuta negli artt. 27 e 28 della L. 457 del 1978, Cons. Stato, Sez. IV, 28 maggio 1988 n. 468).

Comunque sia, sull’area medesima erano già presenti costruzioni demolite nel corso del 1969 (cfr. doc. ti 19 e 20 di C.S.T. prodotti in primo grado) e il Piano di Recupero si è per l’appunto fatto carico di riutilizzare il relativo sedime, rimasto libero, mediante la realizzazione di un edificio tale da consentire la complessiva riqualificazione dell’area stessa.

5.2.3. Per quanto attiene al secondo ordine di censure, relativa alla circostanza che il Piano di Recupero sarebbe stato nella specie approvato oltre il termine previsto dall’art. 28 della L. 457 del 1978, gli appellanti si sono limitati ad affermare che nella specie “il Piano di Recupero avrebbe dovuto essere approvato e pubblicato entro il giugno 2000 (tre anni dalla delibera di Giunta Regionale dd. 12 giugno 1997 di approvazione del P.R.G.), ex artt. 27 e 28 della L. 457 del 1978” (cfr. pagg. 9 e 10 dell’atto introduttivo del presente giudizio d’appello), senza quindi esporre alcuna ulteriore considerazione rispetto al mero e quanto mai generico richiamo al disposto letterale della disciplina legislativa in argomento (cfr. art. 28, terzo comma, della L. 457 del 1978: “Ove la deliberazione del Consiglio Comunale di cui al comma precedente non sia assunta, per ciascun piano di Recupero, entro tre anni dalla individuazione di cui al terzo comma del precedente articolo 27, ovvero non sia divenuta esecutiva entro il termine di un anno dalla predetta scadenza, l'individuazione stessa decade ad ogni effetto”).

A tale riguardo risulta del tutto esaustiva la notazione - fatta anche dal giudice di primo grado -secondo la quale l’approvazione del Piano di Recupero può intervenire anche dopo la scadenza del surriferito termine triennale, a condizione che perduri l’eseguibilità degli interventi previsti nello strumento urbanistico attuativo, ovvero soltanto nell’ipotesi dell’assenza di modifiche dei luoghi – comunque diverse da quelle assentibili anche durante il regime di salvaguardia – verificatesi successivamente al decorso del termine anzidetto (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 1 luglio 2005 n. 3766), fermo – altresì – restando che la comminatoria della decadenza per l’inosservanza del termine medesimo può ragionevolmente assumere rilievo esclusivamente ai fini del regime di salvaguardia previsto dall’art. 27, quarto comma, della stessa L. 457 del 1978, sulla base del quale – infatti - “nell’ambito delle zone, con la deliberazione di cui al precedente comma o successivamente con le stesse modalità di approvazione, possono essere individuati gli immobili, i complessi edilizi, gli isolati e le aree per i quali il rilascio della concessione è subordinato alla formazione dei piani di Recupero di cui al successivo articolo 28”, non potendo l’inosservanza medesima essere assunta a motivo di nullità o di annullabilità del Piano di Recupero tardivamente approvato: e ciò in quanto non è dato ricavare dalla sopradescritta disciplina legislativa, al di fuori del regime di salvaguardia testè richiamato, alcun legame necessario tra il Piano stesso e la deliberazione di individuazione delle zone.

Va inoltre tenuto in considerazione che gli attuali appellanti non hanno allegato circostanze di avvenuta modificazione dello stato dei luoghi successivamente allo scadere dell’anzidetto termine triennale, con la conseguenza della legittimità – nella specie - dell’avvenuta approvazione del Piano di Recupero anche in epoca successiva al giugno 2000, come per l’appunto avvenuto.

5.2.4. Per quanto attiene all’affermazione degli appellanti della sussistenza una loro proprietà pro parte del mappale n. 551 ricadente nel Piano di Recupero, va invece evidenziato quanto segue.

Nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado i Ferrario hanno – tra l’altro - affermato di essere proprietari dei mappali nn. 8983 e 551, inclusi entrambi nel Piano di Recupero: assunto, questo, dedotto al fine di inficiare la legittimità del Piano stesso.

Nello stesso grado di giudizio C.S.T., a sua volta, ha contraddetto l’affermazione dei Ferrario mediante la produzione di vari supporti documentali costituiti da contratti di compravendita immobiliare dai quali – a dire di tale Società – emergerebbe la comprova della sua proprietà dei mappali anzidetti (cfr. i doc.ti di C.S.T. nn. 2, 3 e 4 nel fascicolo del giudizio proposto innanzi al T.A.R.).

Orbene, questo Collegio denota che in effetti il giudice di primo grado ha respinto la relativa censura dei Ferrario in forma alquanto breviloquente se non addirittura in via del tutto apodittica, affermando che “in realtà, dalla documentazione in atti – e dalle stesse affermazioni” dei Ferrario medesimi, “contenute nelle memorie successive al ricorso introduttivo – si ricava l’insussistenza in capo agli stessi del diritto di proprietà” (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata): e in dipendenza di ciò, quindi, e sia pure agli effetti dell’accertamento incidenter tantum già contemplato dall’art. 8, primo comma, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 e ora dall’art. 8, primo comma, cod. proc. amm., necessita ora spendere qualche parola in più sulla questione.

In primo luogo va evidenziato che nei loro motivi d’appello i Ferrario nulla deducono in ordine alla loro dianzi asserita proprietà del mappale n. 8983, dimodochè l’appartenenza di tale mappale a C.S.T. non forma più oggetto di contestazione.

Gli attuali appellanti seguitano invece ad affermare anche nel presente giudizio d’appello la loro perdurante proprietà (o, più esattamente, la loro perdurante comproprietà) sul mappale 551, attualmente distinto come mappale 32587, e la cui superficie, inclusa nel Piano di Recupero assomma a complessivi mq. 23, come si evince dal doc. 10 prodotto dal Comune in primo grado.

A comprova di ciò gli stessi Ferrario affermano che nel contratto di compravendita Prot. 52017 dd. 28 aprile 1956, a rogito del dott. Ezechiele Zanzi, avente ad oggetto il trasferimento della proprietà dell’immobile di cui ai mappali 557 e 558 dai signori Lorenzo, Fausto e Domenico Tosi alla signora Piera Tosi, già in parte prodotto in copia nel giudizio di primo grado, si legge – tra l’altro, e per quanto qui segnatamente interessa, che “si allega altresì alle note di voltura dipendenti dal presente atto, certificato censuario rilasciato dall'Ufficio Imposte di Busto Arsizio il 7 marzo 1956 n. 3243, da cui risulta che l’immobile distinto con il mappale 557 pro quota venduto con il presente atto si estende anche sul finitimo mappale n. 551”.

Ad avviso di questo Collegio, mediante tale dicitura il mappale 551 è indicato solo tra le coerenze dei mappali 557 e 558, non venendo quindi configurato quale corte comune ai mappali 557 e 558.

La surriportata espressione “l’immobile distinto con il mappale n. 557 ... si estende anche sul finitimo mappale 551” non si riferisce infatti all’estensione del diritto di proprietà del mappale 557 al mappale 551, ma è letteralmente mutuata dalla relazione di stima del Geom. Carlo Ruspa dd. 31 ottobre 1922, allegata all’atto di compravendita Rep. 9386/9732 dd. 13 gennaio 1923 a rogito del Notaio dott. Vittorio Porro ove descrive l’estensione strutturale del mappale 557, ossia specifica che la costruzione del mappale 557 sovrasta in parte l’andito sottostante al mappale 551; detto altrimenti, l’espressione stessa illustra la circostanza che l’andito di porta per l’accesso alla corte comune, contraddistinto dal mappale 551, era sovrastato dal fabbricato corrispondente a sua volta al mappale 557.

In effetti, nel susseguente atto Rep. n. 9857/10203 dd. 26 giugno 1923, sempre a rogito del Notaio dott. Porro, l’oggetto della compravendita, costituito tra l’altro anche dal mappale 551, è identificato come “lo stabile posto in territorio di Busto Arsizio, descritto con altri stabili nella perizia 31 ottobre 1922 asseverata di giuramento con verbale 30 novembre 1922 dal Geom. Carlo Ruspa ... allegata all’istromento 13 gennaio 1923 n. 9386/9732” (cfr. in tal senso il doc. n. 17 del fascicolo di primo grado), e nel seguito dello stesso rogito n. 9857/10203 dd. 26 giugno 1923 si specifica espressamente che esso determina il trasferimento di proprietà dello stabile distinto nel Catasto di Busto Arsizio come segue:

- mappale 555 sub. i porzione di fabbricato urbano con diritto all'andito e corte al n. 551:

- mappale 555 sub 2 porzione di fabbricato urbano con diritto all'andito e corte al n. 551;

- mappale 553 fabbricato urbano con diritto all'andito e corte al n. 551;

- mappale 557 sub 2 locale sopra l'andito di porta al mappale 557.

Tutti i successivi atti di compravendita del medesimo stabile sono del tutto conformi ai surriferiti contenuti dell’atto Prot. 9857/10203 dd. 26 giugno 1923 a rogito del Dott. Porro, e confermano quindi che il mappale 551 si compone di andito e corte comune ai mappali 552, 553 555 sub 1, 555 sub 2, 557 sub 2 (ora 8993) acquistati da C.S.T.: e in conseguenza di ciò, pertanto, lo stesso mappale n. 551 non attiene invece ai mappale 557 di proprietà dei Ferrario.

Nel loro atto d’appello, i Ferrario sostengono invece che anche dai documenti prodotti da C.S.T. in Comune, ed in particolare dallo stesso atto Rep. 9857/10203 dd. 26 giugno 1923 a rogito del Dott. Porro si ricaverebbe che la corte di cui al mappale 551 era ceduta con tale atto solo in parte all’acquirente, rimanendo quindi in parte ancora in comproprietà del venditore, e che la corte comune è stata successivamente ceduta in parte nel 1956, in occasione della vendita del mappale 557, alla loro dante causa Piera Tosi, rilevando in tal senso i punti 2, 3, e 4 dei patti speciali contenuti nello stesso atto Rep. 9857/10203.

Ciò posto, il Collegio concorda con la tesi dell’appellata secondo la quale gli attuali appellanti travisano il contenuto di tale atto notarile.

In effetti, in tali “Patti Speciali” si legge, tra l’altro, che “ai Venditori è riservato il diritto attivo di passo con carri carretti ed altri veicoli sia carichi che vuoti dall'andito di porta e dalla Corte al n. 551 per poter accedere alla porzione rimastagli del mappale 557 e distinta dal n. 557 sub. 2 …

Il godimento della Corte al n. 551 da parte del Compratore viene limitato alla porzione delimitata a ponente dall'esistente murello di cinta con il suo prolungamento rettilineo fino sul paramento esterno cioè verso il cortile stesso. Questo muretto di cinta ed il muro di fabbrica a sud del medesimo rimangono di ragione del Venditore ... Alli Venditori è in facoltà di porre in opera il cancello in ferro, apribili verso la sua proprietà lungo la tratta del muretto di cinta ...” (cfr. ibidem).

Semmai, da tutto quanto sopra si ricava l’avvenuta costituzione a favore della parte venditrice (alla quale sono subentrati i Ferrario), sul mappale 551 di una servitù di passo per l’accesso al mappale 557, con possibilità di posizionare un cancello, nonché l’avvenuto trasferimento della proprietà del mappale 551 alla parte compratrice (cui è subentrata da ultimo C.S.T.).

La tesi dei Ferrario secondo cui alla parte venditrice sarebbe stata riconosciuta la comproprietà del mappale 551 non trova quindi riscontro né per il profilo testuale, né per il profilo funzionale, posto che risulta ictu oculi illogica l’imposizione su di un fondo di una servitù a favore del proprietario del fondo medesimo: notazione, questa, che proprio in quanto fondata sull’esegesi degli atti di compravendita rilevanti ai fini della disposizione e della costituzione dei diversi diritti delle parti, non è smentibile da eventuali risultanze catastali difformi a tale stato di cose.

Da tutto ciò discende, pertanto, che non sussiste un diritto di proprietà dei Ferrario che inficia la legittimità del Piano di Recupero in questione, ma soltanto un loro diritto di servitù di passaggio idoneamente compatibile con il Piano medesimo e che può pertanto essere convenientemente disciplinato tra le parti.

5.2.5. Per quanto attiene alla censura con la quale gli appellanti – con riferimento all’insieme dei titoli edilizi rilasciati a C.S.T. - sostengono l’avvenuta violazione dell’art. 7.3.29 delle N.T.A. del P.R.G. e, ove del caso, dell’art. 9 del D.M. 1444 del 1968, va innanzitutto considerata la circostanza per cui la parete dell’edificio di proprietà dei Ferrario frontistante all’edificio costruito da C.S.T. è priva di finestre.

Il Collegio non sottace a tale riguardo che la giurisprudenza, laddove afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, impone l’applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 12 luglio 2007 n. 3094), posto che l’interesse pubblico presidiato dalla norma è infatti quello della salubrità dell’edificato, da non confondersi con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva (cfr. ibidem).

Tuttavia, dall’esame del dato letterale dell’art. 9 risulta che per le zone di tipo A, in cui ricade l’ambito del Piano di Recupero contemplante la realizzazione dell’edificio da parte di C.S.T., “per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”, nel mentre soltanto per i “nuovi edifici ricadenti in altre zone …è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.

A questo punto il Collegio evidenzia pure che la giurisprudenza ritiene applicabile in via analogica la norma della distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate anche nelle zone A nelle ipotesi di nuova edificazione (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 27 gennaio 2003 n. 419): ipotesi che, peraltro, ragionevolmente non può estendersi ai casi nei quali - come, per l’appunto, nell’evenienza in esame - l’edificazione avviene nel contesto di un Piano di Recupero, atteso che gli edifici preesistenti di cui si è già detto al § 5.2.2. erano addossati all’anzidetta parete non finestrata dell’edificio di proprietà dei Ferrario.

Tale circostanza risulta puntualmente comprovata dalla posizione delle parti residue dei muri perimetrali delle costruzioni abbattute, ricoprenti le fronti cieche dell’edificio medesimo (cfr. doc. 22 prodotto in primo grado da C.S.T.).

Se così è, nella specie non trova applicazione la regola della distanza di 10 metri, nel mentre rileva quella specificatamente contenuta nell’anzidetto art. 7.3.29 delle N.T.A., in forza della quale deve sussistere tra le due costruzioni “un distacco minimo assoluto dai confini di proprietà pari alla metà dell’altezza e comunque non inferiore a 5 metri”, nel caso rispettati poiché gli stessi appellanti affermano che la distanza tra i due edifici è pari a m. 5,65.

In conseguenza di ciò, quindi, tutti i richiami giurisprudenziali degli appellanti risultano inconferenti al caso di specie, dovendo la relativa censura essere respinta.

5.2.6. Parimenti infondato è l’assunto dei Ferrario secondo il quale il giudice di primo grado – sempre per quanto attiene alle legittimità dei titoli edilizi rilasciati a C.S.T. - non avrebbe statuito sulla censura da loro dedotta dell’avvenuta violazione dell’art. 7.3.31. delle N.T.A. del P.R.G. nel presupposto che il progetto di C.S.T. non rispetterebbe il limite di 3 metri previsto per i confini dalle aree adibite a standard.

L’assunto stesso non risponde al vero in quanto nella sentenza impugnata si legge al riguardo che “si tratta di censura che, ancora una volta, attiene al problema delle distanze e che, pertanto, risulta tardiva alla luce di quanto sopra detto circa la sua rilevabilità sin dalla fase iniziale dei lavori” (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata): ossia, il giudice di primo grado non ha omesso di statuire sulla censura di cui trattasi, ma ha reputato la stessa irricevibile.

A loro volta, gli attuali appellanti non hanno contestato, relativamente a tale specifica statuizione del giudice di primo grado, la tardività da quest’ultimo rilevata e non hanno quindi riproposto espressamente nel presente grado d’appello la relativa censura da loro formulata innanzi al T.A.R. al fine di ottenere da questo giudice una pronuncia sul merito della stessa; né a quest’ultimo fine può essere evocato l’effetto devolutivo del ricorso in appello, posto che a’ sensi del fondamentale principio enunciato dall’art. 329, secondo comma, c.p.c. ed applicabile anche al processo amministrativo l’effetto devolutivo dell’appello non si verifica per il capo della sentenza di primo grado che non sia stato specificatamente investito dai motivi d’impugnazione, con conseguente formazione sul punto del giudicato (tantum devolutum quantum appellatum: cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 21 ottobre 2011 n. 5650).

Pertanto, il relativo motivo d’appello, proprio poiché esclusivamente incentrato nella deduzione di un vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado rivelatosi insussistente, non può che essere respinto.

5.2.7. Va anche respinta, sempre con riguardo ai titoli edilizi anzidetti, la censura relativa all’asserita violazione della disciplina di fonte comunale sui limiti di altezza dei fabbricati nella zona considerata (subarea Al) ed in ispecie degli artt.8.2.1 e 8.3 delle N.T.A. del P.R.G., da cui si ricaverebbe che devono essere rispettati i limiti di altezza “esistenti nel vecchio contesto di interesse storico ambientale”, nonché la sussistenza di una violazione dell’art.8 del D.M. n.1444 del 1968, laddove dispone che l’altezza delle costruzioni in zona A non sia superiore a quella degli edifici circostanti di carattere storico-artistico.

A tale proposito il giudice di primo grado ha affermato che tale censura non risultava “coadiuvata da sufficienti elementi probatori. … In proposito, infatti, in sede di ricorso introduttivo gli interessati si limitano, in maniera del tutto generica, a sostenere che l’altezza dell’edificio contestato che stimano in circa mt. 11 “risulta superiore al contesto”, con un’affermazione apodittica, non supportata, si ripete, da alcun elemento probatorio. In sede di memoria conclusiva, poi, menzionano gli edifici campiti in nero individuati nella planimetria prodotta al doc. n. 6, asserendo che si tratta di edifici di valore storico-artistico, che sarebbero superati dal fabbricato in costruzione (donde l’illegittimità della relativa concessione). Una tale affermazione, però, si rivela ancora una volta non supportata da alcun riscontro sul piano probatorio, in quanto dall’analisi del doc. n. 6 prodotto dai ricorrenti è possibile ricavare informazioni sulla sagoma degli edifici di cui si discute, non certo sulla loro altezza, né tantomeno sul loro interesse storico-artistico, con la conseguenza che deve reputarsi che, sotto il profilo ora in esame, i ricorrenti non abbiano assolto all’onere probatorio su di essi ricadente ai sensi dell’art. 2697 c.c.: ciò, anche a voler prescindere dalla perizia giurata depositata dalla controinteressata. Né a diversa conclusione possono indurre le fotografie depositate dai ricorrenti sub doc. 12 (cfr. pag. 7 e ss. della sentenza impugnata).

Questo Collegio, nel confermare la fondatezza delle surriportate notazioni del giudice di primo grado, rileva a sua volta che – comunque – l’apoditticità della tesi degli attuali appellanti risulta ben evidente dal contenuto oltremodo puntuale della perizia giurata prodotta in primo grado da C.S.T. quale proprio doc. 24, dalla quale consta l’esistenza, nelle vicinanze dell’edificio da realizzare, di altri fabbricati con altezza superiore all’edificio medesimo e inoppugnabilmente inclusi nell’elenco degli “Edifici di interesse storico-artistico-monumentale” di cui all’Allegato A alle N.T.A. del P.R.G. richiamato dall’art. 35 dello stesso testo normativo.

Poiché i Ferrario non hanno contrapposto a tale deduzione avversaria alcuno specifico argomento di contestazione, né in primo grado né nel presente giudizio d’appello, il Collegio non reputa di dover disporre al riguardo verificazioni o consulenze tecniche di sorta.

5.2.8. Va pure respinta la censura - riproposta anch’essa in appello – secondo la quale non sarebbero state indicate da C.S.T. nelle proprie domande di rilascio dei titoli edilizi necessari per la costruzione dell’edificio in questione le distanze dal confine o dalle costruzioni (a loro volta neppure indicate a loro volta nel permesso di costruire e negli elaborati progettuali) e sarebbero stati - altresì - violati gli artt.8 e 12 del Regolamento edilizio comunale laddove impongono di indicare nello stato di fatto l’ubicazione degli edifici in rapporto agli edifici confinanti e di chiedere l’assegnazione dei punti fissi.

A ragione il giudice di primo grado ha evidenziato, infatti, che il P.R.G. del Comune di Busto Arsizio del 1997 aveva già definito le linee di edificazione del fabbricato e l’involucro edilizio, con l’effetto che l’indicazione ditali dati negli elaborati progettuali avrebbe avuto al più una mera valenza riproduttiva (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata): circostanza , questa, già verificabile in fatto dai medesimi Ferrario già durante il giudizio di primo grado del ricorso e che era pertanto già a quel momento da loro utilmente deducibile innanzi al T.A.R. con apposito ed autonomo motivo di ricorso.

Il fatto che i medesimi Ferrario abbiano contestato soltanto nel presente grado di giudizio una pretesa “incompetenza”al riguardo da parte dello strumento di pianificazione primaria del Comune sostanzia pertanto, come già precisato al § 4.2. della presente sentenza, la proposizione di un motivo d’appello di per sé inammissibile.

5.2.9. Da ultimo, i Ferrario hanno pure dedotto l’ingiustizia della condanna al pagamento delle spese di giudizio pronunciata a loro carico dal giudice di primo grado, stante l’asserita “scarsità ovvero contraddittorietà” degli elementi fattuali utilizzabili per il giudizio, ivi segnatamente compresi quelli attinenti alla proprietà dell’anzidetto mappale n. 551 e alle distanze mancanti negli elaborati progettuali.

Anche tale motivo di ricorso va respinto, posto che – come anche di recente statuito da questa stessa Sezione – il giudice amministrativo ha ampi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per escluderla, con il solo limite, in pratica, che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio; tale discrezionalità è sindacabile in sede di appello nei limiti in cui la statuizione sulle spese possa ritenersi illogica o comunque errata, alla stregua della eventuale motivazione adottata, ovvero tenendo conto, da un lato, in punto di diritto, dell’anzidetto principio in base al quale, di regola, le spese seguono la soccombenza e dall’altro, in punto di fatto, della vicenda e delle circostanze emergenti dal giudizio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16 febbraio 2012 n. 823).

In dipendenza di ciò, questo giudice d’appello a sua volta non ravvisa la sussistenza, nella disamina delle opposte deduzioni delle parti nel corso del giudizio di primo grado, di apprezzabili motivi per assoggettare il regime delle spese del giudizio medesimo a una disciplina diversa rispetto a quella propria della regola della soccombenza di lite.

Viceversa, il maggiore approfondimento nella cognizione dei vari aspetti della causa, richiesto dall’intervenuta proposizione dell’appello da parte dei soccombenti in primo grado giustifica per il presente giudizio la pronuncia dell’integrale compensazione delle spese e degli onorari di causa tra tutte le parti.

Peraltro, va dichiarato irripetibile il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e successive modifiche corrisposto per il presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge come da motivazione.

Compensa integralmente tra tutte le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.

Dichiara irripetibile il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e successive modifiche corrisposto per il presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 maggio 2012 con l’intervento dei magistrati:

Sergio De Felice, Presidente FF

Diego Sabatino, Consigliere

Guido Romano, Consigliere

Andrea Migliozzi, Consigliere

Fulvio Rocco, Consigliere, Estensore

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 09/10/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)