Consiglio di Stato Sez.IV n.4992 del 30 ottobre 2017
Urbanistica.Distanza minima tra edifici
Le norme di cui al D.M. n. 1444/1968, emanate in forza dell’art. 17 L. 765/67, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata. Trattasi di presidi normativi che, all’evidenza, non sono dettati a tutela e salvaguardia di singole posizioni soggettive, ma nell’interesse generale della corretta pianificazione.
Pubblicato il 30/10/2017
N. 04992/2017REG.PROV.COLL.
N. 08972/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8972 del 2016, proposto dalla Signora Rosanna De Virgiliis, rappresentata e difesa dall'avvocato Carmine Petteruti, con domicilio eletto presso lo studio Francesca Lalli in Roma, via Lucio Sestio n. 12;
contro
Comune di Maddaloni, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato Domenico Letizia, con domicilio eletto presso lo studio Antonio Cosimo Cuppone in Roma, piazza D'Ara Coeli, n.1;
Matilde Maria Rosaria Pietropaolo, Cristina Lucia Pietropaolo, rappresentati e difesi dagli avvocati Antonio Romano, Eduardo Romano, Guglielmo Romano, con domicilio eletto presso lo studio Ennio Luponio in Roma, piazza Don Minzoni, n. 9;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per la Campania – Sede di Napoli- SEZIONE VIII n. 4092/2016, resa tra le parti, concernente annullamento del permesso di costruire.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del comune di Maddaloni della Signora Matilde Maria Rosaria Pietropaolo e della Signora Cristina Lucia Pietropaolo;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 luglio 2017 il consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati C. Petteruti, D. Letizia, A. Romano;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe appellata, n. 4092 del 23 agosto 2016 il Tribunale amministrativo regionale per la Campania -Sede di Napoli–ha accolto in parte il ricorso proposto dalle Signore Matilde Maria Rosaria Pietropaolo e Cristina Lucia Pietropaolo, (odierni appellanti incidentali), volto ad ottenere l’annullamento del permesso di costruire n. 40 del 2015 del comune di Maddaloni rilasciato alla odierna appellante principale Signora Rosanna De Virgiliis.
2. L’originaria parte ricorrente aveva prospettato plurime censure di violazione di legge ed eccesso di potere
3. Il comune di Maddaloni e la Signora Rosanna De Virgiliis si erano costituiti in giudizio, chiedendo la declaratoria di inammissibilità (in quanto tardivamente proposto) ovvero la reiezione del ricorso in quanto infondato.
4. Il Ta.r. con la predetta sentenza n. 4092 del 23 agosto 2016 ha anzitutto:
a) respinto l’eccezione di irricevibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per tardività della notifica, formulata dalle parti originarie resistenti, facendo presente che non veniva ivi ipotizzata l’assoluta inedificabilità dell’area (mentre ci si doleva della circostanza che erano stati effettuati interventi qualificabili come nuova costruzione, in una zona che consentiva solo opere di manutenzione straordinaria) e che pertanto il ricorso (notificato il 6 novembre 2015) non appariva intempestivo, avuto riguardo alla circostanza che il permesso di costruire era stato rilasciato il 18 maggio 2015 e non era stata provata la data di ultimazione dei lavori (né la pubblicazione sull'albo pretorio dell’atto abilitativo poteva determinare la decorrenza del termine per impugnare);
b) nel merito, ha parimenti respinto:
I) il primo motivo di ricorso, con il quale ci si era doluti che la progettazione dell’intervento era stata effettuata da un geometra (per un opera almeno in parte in cemento armato, e ricadente in area sismica);
II) il secondo ed il terzo motivo di ricorso, incentrati sulla circostanza che l'edificio oggetto dell'intervento assentito con il permesso di costruire impugnato era ubicato nel centro storico di Maddaloni, ricadeva in zona A ed era assoggettato al Piano di Recupero e allo stesso non sarebbero state applicabili le previsioni di cui alla legge regionale della Campania n. 19/2009;
III) il quarto motivo di ricorso incentrato sulla asserita violazione dell'art. 2 della legge regionale della Campania n. 19/2009 ove si prevedeva che l'edificio oggetto d'intervento debba essere destinato ad uso residenziale nella misura minima del 70% (dall'esame delle tabelle allegate al progetto risultava che l’intervento in questione rispettava questo parametro solamente qualora si considerasse adibito a destinazione residenziale anche il garage - deposito, pari a 192,85 metri cubi, risultando altrimenti violato il rapporto del 70% indicato in quanto risulterebbe superiore a quanto dichiarato per la parte a destinazione non residenziale -molta della quale ad uso commerciale) e dell'art. 4 della medesima legge regionale della Campania n. 19/2009, che imponeva che l'intervento non potesse essere realizzato su edifici residenziali privi del relativo accatastamento ovvero per i quali al momento della richiesta non fosse in corso la procedura di accatastamento (inoltre era stato lamentato che nel volume residenziale fosse stato computato anche quello del sottotetto, pari a 219,41 metri cubi, che invece non sarebbe stato computabile, sia perché non integrante destinazione residenziale, sia perché ne era stata comprovata la legittimità urbanistica).
4.2. Nella seconda parte dell’impugnata decisione il T.a.r. ha preso in esame congiuntamente –ed ha accolto – le censure contenute nel quinto motivo di ricorso, deducendo che:
a) in seno a detta complessa censura, era stato evidenziato che gli interventi della legge sul piano casa erano consentiti su edifici residenziali ubicati in aree urbanizzate, nel rispetto delle distanze minime e delle altezze massime dei fabbricati di cui al decreto Ministeriale n°1444/1968, e si assumeva che sarebbe stato violato l'art. 9, ultimo comma, dell’indicato decreto ( che prevedeva che, qualora le distanze tra fabbricati risultassero inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le stesse fossero maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa) in quanto:
1) il fabbricato della parte originaria ricorrente era alto 14,88 metri e presentava pareti finestrate, munite anche di balconi, sul fronte contrapposto all'edificio in corso di realizzazione che risultava inammissibilmente posizionato a “soli” 12,07 metri di distanza;
2) inoltre, l'edificio avversato risultava posizionato a 3,15 metri dal confine della parte originaria ricorrente, in violazione dell'art. 9 del d.M. n°1444/1968 (che prevedeva la distanza minima di 10 metri fra gli edifici, comportando, per dato logico, l'obbligo di rispettare anche la distanza minima di 5 metri dal confine)
3) era stata denunciata anche la violazione dell'art. 7 del richiamato d.M. n.1444/1968 (che prevedeva in zona A una densità fondiaria per le eventuali nuove costruzioni ammesse che, in base alla tipologia dell’intervento assentito, non poteva superare in ogni caso i 5 metri cubi a metro quadrato) in quanto l'indice fondiario risultante dal permesso di costruire assentito era pari a 7,30 metri cubi a metro quadrato, ben superiore ai 5 consentiti;
4) infine, il piano regolatore generale del comune di Maddaloni prevedeva, per la zona A1, che il rapporto tra altezza del fabbricato e larghezza dello spazio pubblico o privato antistante fosse pari a 1, ma il permesso di costruire rilasciato prevedeva la sopraelevazione del corpo del fabbricato prospiciente Via Marconi, che raggiungeva un'altezza di oltre 11 metri: posto che la Via Marconi era larga circa 7 metri pertanto, l'altezza assentita superava la larghezza della strada, violando così il rapporto specificamente dettato dal Piano regolatore generale;
b) la censura si rivelava fondata in quanto i limiti posti alle distanze degli edifici dal comma in questione si dovevano applicare anche alla zona A e nelle stesse ipotesi previste dal n. 1 del primo comma dell’art. 9: ciò comportava che le distanze in questione si applicassero indipendentemente dalla presenza o meno di pareti finestrate, in quanto il punto n.1 del primo comma dell’art. 9 si riferiva alle distanze tra edifici senza altre specificazioni; nel caso di specie la distanza intercorrente con l’edificio vicino era minore dei 14,88 metri corrispondenti all’altezza del fabbricato della parte originaria ricorrente che risultava posizionato a 12,07 metri di distanza e non rilevava, a tal fine, la circostanza che la parete da cui era stata misurata la distanza fosse stata solo di recente dotata di aperture e che, quindi, non potesse essere considerata come parete finestrata;
c) risultava altresì fondata la censura relativa alla violazione dell'indice volumetrico di 5 mc/mq, contenuta nell’art. 7 del d.M. 1444/68, non potendosi convenire con la tesi del comune secondo cui tale previsione non costituisse un limite per l'assentibilità degli interventi di cui all'articolo 4 della legge regionale n.19/2009, giusta la previsione espressa della lettera c) del secondo comma della medesima norma, che circoscriveva tale limite alla disciplina delle distanze: la normativa regionale attuativa dell'intesa sul piano casa doveva essere infatti, interpretata in termini letterali e rigorosi, senza possibilità di estensione a fattispecie derogatorie non espressamente consentite e previste ed il principio da applicare era quindi quello secondo cui la deroga avrebbe potuto semmai, trovare applicazione solo ove espressamente prevista; la circostanza che la lettera c) del comma 2 dell'art. 4 della disciplina regionale sul Piano Casa prevedeva che gli ampliamenti previsti dal primo comma fossero consentiti “su edifici residenziali ubicati in aree urbanizzate, nel rispetto delle distanze minime e delle altezze massime dei fabbricati di cui al decreto ministeriale n. 1444/1968”, non autorizzava a ritenere (mancando espressa deroga in tal senso) che i medesimi ampliamenti potessero derogare ai limiti di densità edilizia di cui all'art.7 del medesimo d.m.;
d) era invece infondata, l’articolazione della censura relativa alla asserita violazione delle disposizioni del Piano regolatore generale del comune di Maddaloni (che prevedeva, per la zona A1, che il rapporto tra altezza del fabbricato e larghezza dello spazio pubblico o privato antistante dovesse essere pari a 1), in quanto l’applicazione della normativa sugli interventi straordinari di ampliamento, dettata dall’art. 4 della L.R. 28/12/2009, n. 19, poteva trovare applicazione, anche in deroga agli strumenti urbanistici comunali.
5. La Signora Rosanna De Virgiliis originaria controinteressata rimasta soccombente ha proposto appello, sostenendo che la sentenza di primo grado fosse errata, deducendo in particolare che:
a) il ricorso di primo grado era irricevibile in quanto tardivo;
b) il permesso di costruire era immune dai riscontrati vizi: la sentenza di primo grado – che correttamente aveva respinto la maggior parte delle censure proposte – inspiegabilmente non aveva colto che si trattava di un intervento di ristrutturazione (e non di una nuova costruzione) ed aveva erroneamente applicato gli artt. 7 e 9 del d.M. 1444/68.
6. In data 28.12.2016 la parte originaria ricorrente di primo grado si è costituita depositando una memoria contenente anche un appello incidentale chiedendo che:
a) l’appello venisse respinto, in quanto infondato;
b) in via subordinata, venissero accolti i primi quattro motivi del ricorso di primo grado, inesattamente disattesi dal T.a.r.
7. Alla camera di consiglio del 19 gennaio 2017 fissata per la trattazione dell’incidente cautelare, su richiesta di tutte le parti è stato disposto il differimento dell'esame delle domande cautelari all'udienza pubblica di merito.
8. In data 16.6.2017 l’appellante principale ha depositato una memoria puntualizzando e ribadendo le proprie difese.
9. In data 19.6.2017 l’amministrazione comunale di Maddaloni ha depositato una memoria sostenendo la regolarità del titolo ampliativo da essa rilasciato, e la infondatezza ed inammissibilità del ricorso di primo grado.
10. In data 18.6.2017 la parte appellante incidentale ha depositato una memoria puntualizzando e ribadendo le proprie difese.
14. Alla odierna pubblica udienza del 20 luglio 2017 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. L’appello principale è infondato e va respinto, mentre l’appello incidentale deve essere dichiarato improcedibile.
2. Seguendo la tassonomia propria delle questioni (secondo le coordinate ermeneutiche dettate dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015), e fatto presente che a mente del combinato disposto degli artt. artt. 91, 92 e 101, co. 1, c.p.a.,il Collegio farà esclusivo riferimento alle censure poste a sostegno del ricorso in appello e già proposte in primo grado (senza tenere conto di motivi “nuovi” e ulteriori censure sviluppate nelle memorie difensive successivamente depositate, in quanto intempestive, violative del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e della natura puramente illustrativa delle comparse conclusionali- cfr. ex plurimis Cons. Stato Sez. V, n. 5865 del 2015) al fine di definire il thema decidendi si osserva che:
a) posto che non v’è contrasto sulla ricostruzione fattuale, anche cronologica - e giuridica - della vicenda processuale, e posto che il Collegio condivide in via di principio la ricostruzione normativa e giurisprudenziale contenuta nella sentenza impugnata, il Collegio farà integrale riferimento in parte qua alle affermazioni del primo Giudice, in ossequio al principio di cui all’art. 64, comma 2 del cpa, ed al principio di sinteticità dei provvedimenti giurisdizionali;
b) la parte appellante nel proprio atto di appello ha svolto considerazioni unicamente giuridiche e non ha contestato né che le distanze siccome quantificate nella impugnata sentenza fossero inesatte (la contestazione di tale dato di cui alle pagg.1 e 2 della memoria depositata il 16.6.2017 è irrimediabilmente tardiva ed in quanto tale integra censura inammissibile) né che fosse stato superato il limite massimo di densità di 5 mc/mq.
3. Venendo al merito delle censure proposte, ritiene il Collegio che entrambi i motivi dell’appello siano infondati e debbano essere respinti, per le considerazioni – che rivestono portata assorbente - che seguono.
3.1. Per giurisprudenza consolidata le previsioni di cui all’art. 9 DM 1444/68, riguardanti la distanza minima da osservarsi tra edifici, essendo funzionali a garantire non tanto la riservatezza, quanto piuttosto l’igiene e la salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini dannose (tra le più recenti, Cass. Civ., sez. II, 03/03/2008 n. 5741, Cons. Stato, sez. V, 26/10/2006, n. 6399), debbono considerarsi assolutamente inderogabili da parte dei comuni, che si debbono attenere ad esse in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici; inoltre, traendo le norme del DM 1444/68 la propria efficacia dall’art. 41 quinquies, comma 8, L. 1150/42 – in tale parte non abrogato dal DPR 380/01 – le relative previsioni debbono considerarsi avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore ad esse non conformi (tra le tante, Cass. Civ. 22495/2007 e 20574/2007; Cons. Stato, sez. IV, 2094/2007; 1206/2007; in particolare, la sentenza n. 3094/2007 della IV sezione del Consiglio di Stato così testualmente statuisce: “Tanto chiarito e venendo all’esame della normativa urbanistica comunale, si premette che per consolidata giurisprudenza le norme di cui al D.M. in questione, emanate in forza dell’art. 17 L. 765/67, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata”).
Trattasi di presidi normativi che, all’evidenza, non sono dettati a tutela e salvaguardia di singole posizioni soggettive, ma nell’interesse generale della corretta pianificazione.
3.2. La censura accolta dal T.a,r., si strutturava nella dedotta violazione dell’articolo 9, comma 1, n.2 e comma 3 del d.m. 2.4.1968 n. 1444, in quanto il progetto autorizzato avrebbe violato le distanze minime inderogabili.
3.3. La disposizione di cui all’articolo 9, comma 1, n. 2 e comma 3 del d.m. 2.4.1968 n. 1444, così prevede: “le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) - debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.”.
3.3. La tesi dell’appellante sulla quale si fonda la asserita legittimità del titolo edilizio annullato dal T.a.r. è quella per cui, dal combinato-disposto delle disposizioni del Prg comunale (che non prevede limiti di distanze per le ristrutturazioni) e dalle disposizioni di legge regionale attuative del c.d. Piano casa, discendesse che i limiti di cui al citato art. 9 (nel caso di specie, distanza pari all’altezza del fabbricato degli originarii ricorrenti, e quindi mt. 14,88) non trovassero applicazione.
3.4. Osserva in contrario senso il Collegio, che:
a) innanzitutto (si veda Cons. Stato, sezione IV n. 856 del 29 febbraio 2016, in particolare dal considerando 3.2.1.) la deroga di cui al comma 3 potrebbe essere ammessa soltanto nel caso di realizzazione contestuale di “gruppi di edifici” e cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi dalla quale sembra esulare il caso in esame, in cui si ha realizzazione di un unico edificio che si va ad inserire nel contesto di un isolato già edificato;
b) la dizione contenuta nel citato ultimo comma dell’art. 9 d.m. 1444/68 implica che alla deroga ivi menzionata possa accedersi soltanto laddove ricorra la compresenza di tutte e tre le condizioni contenute nel detto comma (e non può invece affermarsi che le stesse integrino prescrizioni alternative) ed esse non ricorrevano, a tacere d’altro perché non ci si trova al cospetto di un gruppo di edifici, e perché non si rinviene alcuna tavola plano-volumetrica relativa ad un gruppo di edifici tra i quali sarebbe ricompreso quello erigendo;
c) la giurisprudenza già in passato ha costantemente interpretato in senso rigido detta disposizione affermando che (ex aliis Consiglio di Stato, sez. IV, 12 marzo 2007n. 1206 “l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, purché siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio. Tali principi si ricavano dall'art. 873 c.c. e dall'ultimo comma dell'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 emesso ai sensi dell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1941, avente efficacia precettiva ed inderogabile, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale -cfr. Corte cost., 16 giugno 2005, n. 232; Cass., sez. un., 22 novembre 1994, n. 9871; T.a.r. Bari, sez. III, 22/06/2012, n. 1235 “la disposizione di cui all'art. 9 comma 1, n. 2, d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante con il muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907 comma 3, c.c.. Le prescrizioni di cui al d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 mt. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.”).
d) non sembra persuasiva neppure la ulteriore articolazione della censura, secondo cui vi sarebbe una assoluta assenza di limiti per le ristrutturazioni in zona A: il d.m. fa riferimento, ovviamente, al concetto “classico” di ristrutturazione (id est: senza ampliamento); il c.d. Piano-casa consente in ipotesi di ristrutturazione, un ampliamento fino al 20% della volumetria esistente; ma il piano casa non deroga ai limiti dell’art. 9 a più riprese richiamato, che, in quanto norma cogente ed inderogabile (salva apposita prescrizione legislativa, nel caso di specie insussistente) deve trovare attuazione piena;
e) invero, in disparte tutti gli altri profili (riproposti dalla parte originaria ricorrente con il proprio appello incidentale) asseritamente ostativi alla realizzazione della contestata ristrutturazione, deve osservarsi che:
I) la disposizione “fondante” l’avversato atto abilitativo (art. 4 della Legge regionale della Campania 28 dicembre 2009, n.19, così statuisce: “1. In deroga agli strumenti urbanistici vigenti è consentito, per uso abitativo, l’ampliamento fino al venti per cento della volumetria esistente per i seguenti edifici:
a) edifici residenziali uni-bifamiliari;
b) edifici di volumetria non superiore ai millecinquecento metri cubi;
c) edifici residenziali composti da non più di tre piani fuori terra, oltre all’eventuale piano sottotetto.
2. L’ampliamento di cui al comma 1 è consentito:
a) su edifici residenziali come definiti all’articolo 2, comma 1, la cui restante parte abbia utilizzo compatibile con quello abitativo;
b) per interventi che non modificano la destinazione d’uso degli edifici interessati, fatta eccezione per quelli di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b) di cui al decreto ministeriale n. 1444/1968;
c) su edifici residenziali ubicati in aree urbanizzate, nel rispetto delle distanze minime e delle altezze massime dei fabbricati;
d) su edifici residenziali ubicati in aree esterne agli ambiti dichiarati in atti formali a pericolosità idraulica e da frana elevata o molto elevata;
e) su edifici ubicati in aree esterne a quelle definite ad alto rischio vulcanico;
f) su edifici esistenti ubicati nelle aree sottoposte alla disposizioni di cui all’ articolo 338, comma 7, del Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) e successive modifiche, nei limiti di tale disciplina;
g) su edifici regolarmente autorizzati ma non ancora ultimati alla data di entrata in vigore della [presente] legge regionale 18 gennaio 2016, n.1 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione finanziario per il triennio 2016-2018 della Regione Campania – Legge di stabilità regionale 2016).
3. Per gli edifici a prevalente destinazione residenziale, nel rispetto delle prescrizioni obbligatorie di cui al comma 4, è consentita, in alternativa all’ampliamento della volumetria esistente, la modifica di destinazione d’uso da volumetria esistente non residenziale a volumetria residenziale per una quantità massima del venti per cento.
4. Per la realizzazione dell’ampliamento sono obbligatori:
a) l’utilizzo di tecniche costruttive, con criteri di sostenibilità e utilizzo di materiale eco-compatibile, che garantiscano prestazioni energetico-ambientali nel rispetto dei parametri stabiliti dagli atti di indirizzo regionali e dalla vigente normativa. L’utilizzo delle tecniche costruttive ed il rispetto degli indici di prestazione energetica fissati dalla Giunta regionale sono certificati dal direttore dei lavori con la comunicazione di ultimazione dei lavori. Gli interventi devono essere realizzati da una ditta con iscrizione anche alla Cassa edile comprovata da un regolare Documento unico di regolarità contributiva (DURC). In mancanza di detti requisiti non è certificata l’agibilità, ai sensi dell’articolo 25(R) del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia -Testo A), dell’intervento realizzato;
b) la conformità alle norme sulle costruzioni in zona sismica;
[c) il rispetto delle prescrizioni tecniche di cui agli articoli 8 e 9 del decreto ministeriale 14 giugno 1989, n.236 (Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche), al fine del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche.]
5. Per gli edifici[ residenziali ]e loro frazionamento, sui quali sia stato realizzato l’ampliamento ai sensi della presente legge, non può essere modificata la destinazione d’uso se non siano decorsi almeno cinque anni dalla comunicazione di ultimazione dei lavori.
6. L’ampliamento non può essere realizzato su edifici residenziali privi del relativo accatastamento ovvero per i quali al momento della richiesta dell’ampliamento non sia in corso la procedura di accatastamento. L’ampliamento non può essere realizzato, altresì, in aree individuate, dai comuni provvisti di strumenti urbanistici generali vigenti, con provvedimento di consiglio comunale motivato da esigenze di carattere urbanistico ed edilizio, nel termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore della presente legge.
7. E’ consentito su edifici non residenziali regolarmente assentiti, destinati ad attività produttive, commerciali, turistico-ricettive e di servizi, fermi restando i casi di esclusione dell’articolo 3 della presente legge, la realizzazione di opere interne finalizzate all’utilizzo di volumi esistenti nell’ambito dell’attività autorizzata, per la riqualificazione e l’adeguamento delle strutture esistenti, anche attraverso il cambio di destinazione d’uso, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti.
I medesimi interventi possono attuarsi all’interno di unità immobiliari aventi una superficie non superiore a millecinquecento metri quadrati, non devono in alcun modo incidere sulla sagoma e sui prospetti dell’edificio, né costituire unità immobiliari successivamente frazionabili.”;
II) è agevole riscontrare che la disposizione in parola, non soltanto non deroga al regime dell’art. 9 del d.M. n. 1444/1968, ma, anzi, ne presuppone il rispetto;
III) nel caso di specie, è fondamentale rammentare che l’intervento prevede anche la trasformazione e ricostruzione in cemento armato di un volume pari a circa 35 mq, e quindi superiore al 10% della volumetria complessiva (come peraltro ammesso dalla parte appellante alla pag. 11 del proprio atto di appello, pur svalutandosene la portata) destinato ad essere unito al preesistente fabbricato: trattasi di modifica sostanziale, tale da indurre a ritenere che non ci si trovi al cospetto di una ristrutturazione (l’immobile diviene oggettivamente diverso dal preesistente) e si sia trasmodando in una nuova costruzione, che come tale prevede in ogni caso il rispetto dei cogenti limiti di cui al d.m. citato;
IV) il Collegio, sul punto, non ritiene di dovere decampare dai principi a più riprese espressi dalla Sezione (tra le tante, si veda la sentenza n. 5552 del 30 dicembre 2016 resa proprio con riferimento al c.d. “piano casa” della regione Campania) che hanno puntualizzato la necessità di una rigida interpretazione della prescrizione secondo la quale il citato art. 9 del d.m. nr. 1444/1968 non potrebbe trovare applicazione nelle ipotesi di intervento di demolizione e ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova edificazione: ciò in quanto opera in materia l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9 secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un immobile già esistente può essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 luglio 2002, nr. 3929); in particolare, a parere della giurisprudenza civile ed amministrativa, proprio in ragione della sensibilità dei valori tutelati dalla disposizione, la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere comunque rispettata, e ciò anche in caso di interventi riconducibili alla categoria della ristrutturazione edilizia (cfr. Cassazione civile, sez. II, 3 marzo 2008, n. 5741; Consiglio di Stato, sez. IV, 12 giugno 2014, n. 2995; TAR Sardegna, sez. II, 5 luglio 2016, n. 566); ciò, salve ovviamente le ipotesi in cui tali interventi si sostanzino in un mero recupero di beni - realizzati prima dell’entrata in vigore della norma - che già non rispettavano tale prescrizione, non essendo possibile dare alla norma stessa applicazione retroattiva (ma tale circostanza non è stata dedotta); la richiamata sentenza della Cassazione civile, sez. II, 3 marzo 2008, n. 5741 è perentoria nello stabilire che “rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies l. 17 agosto 1942 n. 1150, anche ai fini dell'applicabilità dell'art. 9 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente”. Il Collegio condivide e fa proprio tale orientamento.
4. Quanto sinora chiarito, consente di respingere anche la seconda censura: l’art. 4 comma 2 lett. c della legge regionale surrichiamata non fa riferimento all’art. 7 del d.m. n. 1444/1968 in punto di rispetto, per le nuove costruzioni in zona A del limite massimo di densità di 5 mc/mq; non richiama detta norma, né vi deroga: e non derogandovi espressamente, è ovvio che la stessa debba essere rispettata, il che non è avvenuto (nell’appello principale non è stato contestato, in punto di fatto, l’esubero rispetto al limite massimo di densità di 5 mc, mentre il comune nella propria memoria ha sostenuto tale circostanza, ma non avendo impugnato il relativo capo di sentenza detta “critica” in punto di fatto non è scrutinabile, come ancora di recente ribadito dalla giurisprudenza –si veda Consiglio di Stato, sez. III, 14 febbraio 2017, n. 656).
5. Conclusivamente, l’appello principale va integralmente respinto sotto tali assorbenti profili, il che consente la declaratoria di improcedibilità dell’appello incidentale condizionato proposto dalle originarie ricorrenti.
5.1.Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, tra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
6. Quanto alle spese processuali del grado, esse seguono la soccombenza e pertanto l’appellante deve essere condannata al pagamento delle medesime nei confronti unicamente delle parti private originarie ricorrenti nella misura che appare congruo determinare in Euro duemila (€ 2000//00) oltre oneri accessori, se dovuti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, respinge l’appello principale e dichiara improcedibile l’appello incidentale.
Condanna l’appellante al pagamento delle medesime nei confronti unicamente delle parti private originarie ricorrenti nella misura che appare congruo determinare in complessivi Euro duemila (€ 2000//00) oltre oneri accessori, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 luglio 2017 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Troiano, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Leonardo Spagnoletti, Consigliere
Daniela Di Carlo, Consigliere
Nicola D'Angelo, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Fabio Taormina Paolo Troiano