Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2769, del 5 giugno 2015
Urbanistica.Parcheggi pertinenziali in area a verde pubblico

La giurisprudenza di questo Consiglio ha già risolto favorevolmente la questione relativa alla possibilità di far coesistere la destinazione a verde pubblico di un’area con quella di realizzarvi nel sottosuolo parcheggi pertinenziali, stante l’evidente inidoneità della destinazione a parcheggio del sottosuolo a sottrarre l’area sovrastante alle sue finalità di interesse pubblico. Per le medesime ragioni, la richiamata compatibilità resta ammessa solo a condizione che la realizzazione dei parcheggi interrati non sottragga né in tutto, né in parte aree tipicamente destinate, sul soprasuolo, a verde attrezzato. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 02769/2015REG.PROV.COLL.

N. 01470/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1470 del 2013, proposto dai signori Giuseppe Russo, Francesco Russo, Alessandro Russo, Raffaele Russo, Pierina D'Antonio e dalla società Vincenzo Russo & Figli s.n.c., rappresentati e difesi dagli avvocati Teresa Perone e Aldo Lembo, con domicilio eletto presso Rosario Lembo in Roma, Via B. Brecht, 15

contro

Comune di Pagani, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Raffaele Marciano, con domicilio eletto presso Nicola Bultrini in Roma, Via Germanico, 107

per la riforma della sentenza del T.A.R. della Campania – Sezione staccata di Salerno, Sezione II, n. 2127/2012

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Pagani;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 febbraio 2015 il Cons. Claudio Contessa e uditi per le parti gli avvocati Aldo Lembo e Claudia De Curtis per delega dell'avvocato Raffaele Marciano;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue

 

FATTO

I signori Giuseppe Russo, Francesco Russo, Alessandro Russo Raffaele Russo e Pierina D’Antonio riferiscono di essere titolari (i primi quattro) della società Russo Vincenzo & Figli s.n.c. e di essere eredi (tutti) del signor Vincenzo Russo il quale, con sua moglie Pierina D’Antonio, era proprietario, alla via Carmine del Comune di Pagani, di un lotto di terreno e di un corpo di fabbrica in muratura (già fabbricato rurale) comprendente un piano interrato cantinato e un piano terra (locali, questi, adibiti sin dal 1981 a servizio dell’attività commerciale esercitata dalla società Russo Vincenzo & Figli s.n.c.).

Riferiscono altresì che con ricorso proposto dinanzi al T.A.R. della Campania – Sezione staccata di Salerno e recante il n. 196/2012 ebbero ad impugnare il silenzio serbato dal Comune di Pagani a fronte della diffida a provvedere (notificata il 18-19 ottobre 2011) volta alla definizione di un complesso iter amministrativo avente ad oggetto l’annunciato annullamento in autotutela: a) della concessione edilizia in sanatoria rilasciata nel corso del 2005 (concessione n. 551/05); b) della D.I.A. esaminata dagli Uffici del Comune di Pagani con il n. 21746/06 (d’ora innanzi: ‘la D.I.A. del 2006’) e c) della D.I.A. esaminata dei medesimi Uffici con il n. 5277/08 (d’ora innanzi: ‘la D.I.A. del 2008’).

Con successivo ricorso per motivi aggiunti gli odierni appellanti impugnavano l’ordinanza n. 16/2012 del 10 febbraio 2012 con cui il Settore Pianificazione del Territorio del Comune di Pagani aveva annullato gli atti dinanzi richiamati sub a), b) e c).

E ancora, con ulteriore ricorso per motivi aggiunti essi impugnavano il provvedimento con cui il responsabile del Settore Pianificazione del Territorio del Comune di Pagani li aveva diffidati dall’eseguire i lavori di cui alla S.C.I.A. prot. 18425A/12 presentata in data 15 giugno 2012 al fine di completare i lavori sul fabbricato.

Con la sentenza in epigrafe il Tribunale adito

- ha accolto il ricorso limitatamente al disposto annullamento della concessione edilizia in sanatoria (ritenendo carenti i presupposti per procedere all’adozione di un atto di ritiro) e

- lo ha respinto per il resto.

La sentenza in questione è stata impugnata in appello dai signori Russo i quali ne hanno chiesto la riforma articolando plurimi motivi.

In sede di stesura del ricorso (pagine da 10 a 38), gli appellanti hanno riproposto in modo pressoché testuale gli argomenti già profusi dalle pagine da 8 a 37 del primo ricorso per motivi aggiunti articolato in primo grado.

Invece, alle pagine 40 e successive dell’atto di appello i signori Russo e D’Antonio hanno proposto (sei) motivi di doglianza avverso le statuizioni rese dai primi Giudici.

Con il primo motivo essi chiedono la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui ha ritenuto legittimo l’annullamento della D.I.A. del 2006 sul presupposto che i lavori in questione dovessero necessariamente essere assentiti con permesso di costruire.

In tal modo decidendo il T.A.R. avrebbe omesso di considerare che gli interventi in questione (si tratta di interventi di ristrutturazione edilizia ai sensi dell’articolo 10, comma 1, lettera c) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) fossero invece assentibili con D.I.A., giusta l’espressa previsione di cui all’articolo 22, comma 3, lettera a) del medesimo d.P.R.

Con il secondo motivo gli appellanti chiedono la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i primi Giudici hanno affermato che la D.I.A. del 2006 avrebbe avuto ad oggetto la fusione degli immobili e il cambio di destinazione d’uso degli stessi (in tal modo rendendo applicabile la previsione dell’articolo 10, comma 1, lettera c) del d.P.R. 380 del 2001 il quale assoggetta a permesso di costruire – fra gli altri – gli interventi di ristrutturazione edilizia i quali “limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso”).

In tal modo decidendo essi avrebbero omesso di considerare che, già prima della D.I.A. del 2006, era stata già sanata una sola unità immobiliare (l’originario corpo di fabbrica e il relativo ampliamento), contraddistinta dalla p.lla 1151/sub 1, adibita a deposito per attività commerciale C/2 e ricadente nella zona omogenea residenziale A del vigente Piano regolatore comunale.

Con il terzo motivo gli appellanti chiedono la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i primi Giudici hanno affermato che la D.I.A. del 2006 fosse illegittima per essere stata assentita in carenza dei relativi presupposti legittimanti (i quali imponevano, al contrario, di richiedere il rilascio di un permesso di costruire), Al riguardo i primi Giudici hanno ritenuto rilevante ai fini del decidere il fatto che gli appellanti avessero già chiesto un permesso di costruire per i medesimi interventi nel luglio del 2005 (istanza che era stata tuttavia rigettata dal Comune sull’assunto che essa comportasse altresì il cambio di destinazione d’uso e non fosse quindi compatibile con il regime della D.I.A.).

In tal modo decidendo i primi Giudici avrebbero omesso di considerare che gli interventi di cui alla D.I.A. del 2006 (oggetto di annullamento con il provvedimento impugnato in primo grado) fossero ben diversi da quelli di cui all’istanza di permesso di costruire del 2005 e che, in particolare, non avessero ad oggetto – anche – il cambio di destinazione d’uso (l’istanza del 2005 aveva previsto – contrariamente a quella del 2006 il cambio di destinazione d’uso da commerciale a residenziale).

Non sarebbe quindi corretto affermare che gli appellanti fossero al corrente del fatto che l’intervento dovesse essere assentito con permesso di costruire.

Con il quarto motivo gli appellanti chiedono la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i primi Giudici hanno affermato l’illegittimità della D.I.A. del 2008 laddove ammetteva la realizzazione di una rampa di accesso al piano seminterrato dell’immobile andando ad incidere su un’area destinata a verde attrezzato (e sulla quale, quindi, insisteva un vincolo di tipo conformativo, non soggetto a decadenza, che era noto agli appellanti).

In tal modo decidendo i primi Giudici avrebbero omesso di considerare:

- che, in realtà, la possibilità che la rampa di accesso all’autorimessa incidesse sull’area destinata a verde attrezzato era stata prevista già dalla D.I.A. del 2006 (e non dalla D.I.A. del 2008);

- che lo stesso Comune di Pagani con delibera consiliare n. 32/2005 aveva rivolto agli Uffici indirizzi volti ad incentivare la realizzazione di parcheggi con vincolo pertinenziale (inter alia) su aree destinate a ‘verde attrezzato’. Se, dunque, il Comune favoriva la realizzazione di autorimesse al di sotto delle aree destinate a verde attrezzato, necessariamente doveva ammettere che anche le rampe di accesso (le quali costituiscono parte integrante delle rimesse) potessero essere realizzate nelle medesime aree, e senza preclusioni di sorta;

- che, se lo stesso Comune era ignaro della non decadenza del vincolo (conformativo) in parola, a maggior ragione non si poteva pretendere una siffatta consapevolezza in capo agli appellanti i quali in buona fede avevano ottenuto il positivo vaglio della D.I.A. da parte del Comune;

Con il quinto motivo gli appellanti chiedono la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i primi Giudici hanno escluso la possibilità di riconoscere in favore degli appellanti il legittimo affidamento sulla correttezza dell’operato del Comune.

Ed infatti, contrariamente a quanto ritenuto dal T.A.R., sia la D.I.A. del 2006 che quella del 2008 erano state assentite in modo del tutto pacifico dal Comune, in tal modo determinando un indubbio stato di legittimo affidamento in capo ai richiedenti.

Con il sesto motivo gli appellanti chiedono la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i primi Giudici hanno omesso di considerare che l’inibitoria degli interventi di cui alla S.C.I.A. del 15 giugno 2012 non tenesse conto del contenuto della favorevole ordinanza cautelare di primo grado n. 147/2012 la quale – al contrario – consentiva il completamento degli interventi di cui alla medesima S.C.I.A.

Inoltre, la sentenza in epigrafe dovrebbe essere riformata per avere i primi Giudici erroneamente escluso la sussistenza di un danno ingiusto quale effetto del contegno serbato dall’amministrazione nel corso della complessiva vicenda (al contrario, il complesso degli atti impugnati in primo grado aveva determinato la crisi economica dell’impresa, la sua messa in liquidazione e il licenziamento dei dipendenti).

Oltretutto, i primi Giudici hanno omesso di considerare che la sentenza di primo grado (per la parte in cui annulla le D.I.A. del 2006 e del 2008) non potrebbe in concreto essere eseguita – con rimozione degli interventi assentiti - senza comportare la materiale compromissione dell’originario corpo di fabbrica.

Si è costituito in giudizio il Comune di Pagani il quale ha concluso nel senso della reiezione dell’appello.

Alla pubblica udienza del 17 febbraio 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dai proprietari di un immobile parzialmente abusivo sito in Pagani (SA) avverso la sentenza del T.A.R. della Campania – Sezione staccata di Salerno con cui è stato definito il ricorso avverso i provvedimenti con cui il Comune appellato aveva annullato in autotutela sia l’atto di sanatoria rilasciato nel corso del 2005 a fronte dell’ampliamento dell’immobile utilizzato per l’esercizio dell’attività commerciale di interesse degli appellanti, sia le successive D.I.A. del 2006 e del 2008 relative al medesimo immobile.

2. Deve in primo luogo essere rilevata la pressoché totale coincidenza fra le pagine da 10 a 38 dell’atto di appello e le pagine da 8 a 37 del primo ricorso per motivi aggiunti articolato in primo grado.

Al riguardo, dall’esame dell’atto di appello non è neppure agevole stabilire se, attraverso la pressoché testuale riproposizione dei medesimi argomenti già articolati in primo grado, gli appellanti abbiano semplicemente inteso fornire una più compiuta (e invero ridondante) ricostruzione delle vicende di causa, ovvero se abbiano inteso articolare nuovamente i motivi di ricorso già proposti in primo grado e non (integralmente) accolti dal T.A.R.

Laddove, tuttavia, ci si muovesse nella seconda delle prospettive indicate, allora i motivi in parola dovrebbero essere dichiarati inammissibili alla luce del consolidato orientamento secondo cui poiché nel processo amministrativo il giudizio di appello non è un iudicium novum– in quanto la cognizione del giudice è limitata alle deduzioni dedotte dall'appellante mediante l'enunciazione di specifici motivi di erroneità della statuizione del giudice di primo grado -, è inammissibile l’atto di appello che si limita alla mera riproposizione dei motivi diretti avverso i provvedimenti impugnati in primo grado, senza sviluppare alcuna confutazione volta ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, VI, 16 gennaio 2015, n. 106; id., V, 2 ottobre 2014, n. 4893; id., IV, 25 settembre 2014, n. 4821).

3. Tanto premesso in via generale, si ritiene ora di passare all’esame dei (sei) motivi di censura effettivamente rivolti avverso le statuizioni della sentenza in epigrafe.

4. Il primo motivo di appello (con il quale si è chiesta la riforma della sentenza in epigrafe per avere i primi Giudici ritenuto che gli interventi di cui alla D.I.A.21746 del 2006 avrebbero dovuto necessariamente essere assentiti con permesso di costruire) non può trovare accoglimento.

Si osserva al riguardo che la questione relativa alla possibilità di procedere alla realizzazione degli interventi per cui è causa con D.I.A./S.C.I.A. ovvero con permesso di costruire e la connessa questione relativa alla controversa applicabilità nel caso in esame della previsione di cui all’articolo 22, comma 3, lettera a) del d.P.R. 380 del 2001 non è stata proposta con i motivi di primo grado, ragione per cui la proposizione di tale motivo per la prima volta nella presente sede di appello viola il generale divieto di nova in appello di cui al comma 1 dell’articolo 104 del cod. proc. amm.

Si osserva in primo luogo al riguardo che tale questione non è stata sollevata né con i primi motivi aggiunti (si tratta dell’atto in data 13 marzo 2012 con cui è stata impugnata l’ordinanza n. 16 del 10 febbraio 2012), né con i secondi motivi aggiunti (si tratta dell’atto in data 7 agosto 2012 con cui è stata impugnata la diffida comunale in data 20 giugno 2012).

Si osserva in secondo luogo il provvedimento di annullamento n. 16 del 10 gennaio 2012 (impugnato dinanzi al T.A.R. con i primi motivi aggiunti) aveva espressamente affermato (pag. 3) che i previsti interventi di “demolizione e ricostruzione, fusione di unità immobiliari (ex capannone e fabbricato rurale), realizzazione di un piano interrato per garage di pertinenza di un deposito” non potessero essere realizzati con D.I.A.

Si osserva, infine, che la parte appellante non ha proposto alcun motivo di ricorso volto a denunziare l’eventuale difetto di ultrapetizione o extrapetizione che avrebbe potuto viziare in parte qua la sentenza in epigrafe per avere i primi Giudici posto a fondamento della sentenza (anche) il motivo relativo alla non assentibilità dei richiamati interventi attraverso lo strumento della D.I.A./S.C.I.A.

5. Il secondo motivo di appello (con il quale si è chiesta la riforma della sentenza in epigrafe per avere i primi Giudici affermato che la D.I.A. 21746/2006 avesse ad oggetto sia la fusione del preesistente fabbricato rurale e del capannone – tettoia - realizzato abusivamente in aderenza al primo nel corso del 1988, sia il cambio di destinazione d’uso degli stessi) non può trovare accoglimento.

5.1. Va premesso al riguardo che, una volta respinto il primo motivo di ricorso, non permane a ben vedere uno specifico interesse alla coltivazione del motivo in questione.

Ciò, in quanto la questione relativa alla controversa sussistenza di un cambio di destinazione d’uso connesso al perfezionamento della D.I.A. n. 21746/2006 risulta connessa, nell’ambito della motivazione della sentenza in epigrafe, alla questione dell’applicabilità al caso in esame della previsione di cui al comma è 1, lettera c) dell’articolo 10 del d.P.R. 380 del 2001 (si tratta, come è noto, della disposizione secondo cui sono ordinariamente assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire “c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente (…) ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso”).

Ma una volta respinto il primo motivo di ricorso - con il quale si era contestata sotto altro profilo l’assoggettabilità degli interventi in parola al regime del permesso di costruire – e una volta rilevata l’autonoma valenza di tale circostanza al fine di supportare in parte qua la sentenza in epigrafe, ne risulta la carenza di uno specifico interesse a coltivare l’impugnativa della sentenza in parola per la parte in cui i primi Giudici hanno ritenuto che tale assoggettabilità derivasse altresì dall’intervenuto mutamente di destinazione d’uso di un immobile ricadente in zona omogenea ‘A’.

5.2. Ma a prescindere dal carattere assorbente di quanto appena osservato ai fini del decidere, il Collegio osserva che il motivo in questione è altresì infondato nel merito, risultando in atti che la D.I.A. n. 21746/06 avesse comportato un effettivo mutamento della pregressa destinazione d’uso del preesistente immobile ad uso agricolo.

Va premesso al riguardo che, in base a un consolidato orientamento, alle risultanze catastali non può essere riconosciuto un autonomo valore probatorio anche ai fini dell’individuazione dell’effettiva destinazione d’uso, bensì – e in una con gli ulteriori atti processuali – una valenza meramente sussidiaria.

Ma anche a volersi soffermare sulle risultanze catastali in atti, non risulta confermata in atti l’affermazione degli appellanti secondo cui, sin dal 1981 (anno di acquisto del compendio da parte dei signori Russo e D’Antonio), anche all’originario fabbricato rurale sarebbe stata impressa una destinazione d’uso C/2 (deposito).

Ed infatti, al di là dell’eventuale uso di mero fatto impresso al fabbricato in questione nel corso degli anni, il punto è che esso non aveva perduto nel corso del tempo la sua originaria connotazione di fabbricato rurale (in tal senso – ad esempio – l’estratto di mappa in data 7 dicembre 1996, in atti).

Del resto, dall’esame della concessione edilizia in sanatoria n. 551 del 2005 e dei relativi allegati, non emerge in modo univoco che l’unità oggetto di sanatoria (indicata “capannone adibito ad uso deposito”) inglobasse ad ogni effetto il preesistente fabbricato rurale (al contrario, la concessione in sanatoria in questione aveva ad oggetto – in modo espresso ed esclusivo – la sola “realizzazione di un Capannone adibito ad uso deposito per attività commerciale” e non menzionava in alcun modo il preesistente fabbricato rurale).

Ne consegue che risulta condivisibile l’affermazione dei primi Giudici secondo cui la D.I.A. per ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione del 15 settembre 2006 abbia comportato, e per la prima volta, un cambio di destinazione d’uso del fabbricato rurale, da ultimo adibito – al pari del capannone adiacente – all’uso proprio della categoria catastale C/2 (magazzini e locali di deposito).

Si osserva in conclusione che non si può giungere a conclusioni diverse da quelle appena delineate in considerazione del fatto che l’originario fabbricato rurale e il successivo intervento abusivo fossero stati successivamente accomunati in un’unica particella catastale (la n. 1151/1). Al riguardo il Comune di Pagani ha condivisibilmente obiettato che l’intervenuta modifica catastale non giustifica in alcun modo la conformità urbanistica, la quale può discendere unicamente dal rilascio di un valido titolo abilitativo.

Anche per tale motivo il secondo motivo di ricorso non può trovare accoglimento.

5.3. Fermo restando il carattere dirimente ai fini del decidere di quanto già osservato sub 5.1 e 5.2, si osserva altresì che le tesi degli appellanti non risultano condivisibili per un ulteriore ordine di ragioni.

Ci si riferisce al fatto che gli stessi appellanti, a seconda delle evenienze e delle esigenze difensive, sembrano assumere un atteggiamento diverso (e, per così dire, ‘ondivago’) in ordine ai rapporti fra la destinazione d’uso del pregresso fabbricato ad uso agricolo e quello del capannone abusivo di cui alla concessione in sanatoria n. 551 del 2005.

Ed infatti:

- laddove si tratta di invocare la più favorevole disciplina di Piano che, per i fabbricati inclusi in zona omogenea ‘A/2 – Vecchi insediamenti’, ne ammette il recupero ai fini urbanistici, gli appellanti ne richiedono la puntuale applicazione. Si tratta, tuttavia, di una previsione di Piano evidentemente finalizzata al recupero dei pregressi fabbricati e con le pregresse destinazioni (nel caso di specie: fabbricato rurale), e non certo di una previsione che ammette un sostanziale sviamento delle finalità di recupero in favore di destinazioni del tutto nuove e diverse rispetto a quelle proprie dei ‘vecchi insediamenti’ (come, nel caso di specie, la destinazione commerciale);

- al contrario, laddove si tratta di affermare che il pregresso fabbricato ad uso agricolo avesse ormai da tempo perduto la sua originaria vocazione (e fosse stato in qualche misura ‘inglobato’ nel nuovo edificio abusivo condonato nel corso del 2005), gli appellanti perseguono con decisione tale tesi, all’evidente fine di negare che l’intervento di cui alla D.I.A. del 2006 avesse determinato un cambio nell’originaria destinazione d’uso del richiamato manufatto ad uso agricolo.

Si tratta, come è evidente, di prospettazioni difensive forse comprensibili nella loro ispirazione di fondo, ma poste fra loro in evidente contraddizione e quindi evidentemente inidonee a supportare in modo adeguato una coerente linea difensiva.

6 Non rileva ai fini della presente decisione l’esame puntuale del terzo motivo di appello (con il quale si contesta il passaggio della sentenza in epigrafe con cui si è dato rilievo al diniego del permesso di costruire già opposto dal Comune agli odierni appellanti nel corso del 2005).

Si osserva al riguardo che il richiamato passaggio assume – nell’ambito del complessivo ordito motivazionale – la mera valenza di un argomento ad abundantiam, che nulla sottrae all’autonoma valenza degli ulteriori argomenti sui quali si fonda la reiezione del ricorso di primo grado.

Si intende con ciò dire che non rileva ai fini della presente decisione l’eventuale consapevolezza che gli odierni appellanti potevano avere del tipo di titolo abilitativo necessario nel caso dell’istanza formulata nel 2005.

Si tratta di un dato (sostanzialmente relativo al foro interno degli stessi appellanti) che non rileva ai fini della presente decisione e che non aggiunge – o sottrae – alcun elemento di rilievo in ordine a quanto già osservato in relazione ai primi due motivi di appello.

7. Deve essere ora esaminato il quarto motivo di ricorso con cui si è chiesta la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i primi Giudici hanno respinto il motivo di ricorso relativo all’illegittimità della D.I.A. del 2008 in quanto –inter alia - ammetteva la realizzazione di una rampa di accesso all’immobile andando ad incidere su un’area destinata a verde attrezzato sulla base di un vincolo non decaduto.

7.1. Il motivo non può trovare accoglimento.

7.1.1. Ora, va premesso che la sentenza in epigrafe è certamente meritevole di conferma per la parte in cui afferma che la destinazione a ‘Verde attrezzato’ impressa all’area per cui è causa dalla pertinente disciplina di piano, atteso il suo carattere conformativo, non è soggetta a decadenza.

Al riguardo ci si limita a richiamare il consolidato – e qui condiviso – indirizzo secondo cui in materia urbanistica costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio. Tali non sono, tra gli altri, le previsioni di un piano regolatore che destinano un’area a verde pubblico attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, che incidono su una generalità di beni, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui questi ricadono (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, IV, 6 maggio 2013, n. 2432;id., IV, 23 aprile 2013, n. 2254; id., IV, 29 novembre 2012, n. 6094).

7.1.2. Neppure può essere condivisa la tesi dell’appellante secondo cui, anche ad ammettere la persistenza del richiamato vincolo conformativo, sarebbe comunque consentita la realizzazione, nell’ambito di aree destinate a ‘verde attrezzato’, di rampe destinate all’accesso a parcheggi interrati.

La giurisprudenza di questo Consiglio ha già risolto favorevolmente la questione relativa alla possibilità di far coesistere la destinazione a verde pubblico di un’area con quella di realizzarvi nel sottosuolo parcheggi pertinenziali (in tal senso, Cons. Stato, VI, 19 ottobre 2006, n. 6256).

Nell’occasione, la richiamata coesistenza è stata ammessa stante l’evidente inidoneità della destinazione a parcheggio del sottosuolo a sottrarre l’area sovrastante alle sue finalità di interesse pubblico.

Ma è altresì evidente che – per le medesime ragioni – la richiamata compatibilità resti ammessa solo a condizione che la realizzazione dei parcheggi interrati non sottragga né in tutto, né in parte aree tipicamente destinate, sul soprasuolo, a verde attrezzato.

Si tratta esattamente della situazione che si riscontra nel caso in esame, in cui la realizzazione delle rampe d’accesso nel soprasuolo è idonea a sottrarre porzioni apprezzabili di superficie alla destinazione tipica di Piano (anche in considerazione dell’estensione non rilevante dell’area).

In siffatte ipotesi, la coesistenza fra il vincolo conformativo e la realizzazione dei parcheggi interrati può infatti essere ammessa, ma solo a condizione che la realizzazione dei secondi non alteri la piena estensione del primo, neppure in modo parziale e neppure per la realizzazione degli interventi accessori e strumentali i quali dovranno in via di principio trovare collocazione esternamente all’area.

Né a conclusioni diverse da quelle appena delineate può giungersi in relazione al contenuto della delibera consiliare n. 32 del 2005, pure richiamata dagli appellanti a sostegno delle proprie tesi.

A tacere d’altro, si osserva che la delibera in questione ha sancito la richiamata compatibilità/coesistenza (e ha dettato prescrizioni per la realizzazione delle rampe d’accesso), ma non sembra aver affermato il principio secondo cui la superficie destinata alle rampe possa essere sottratta a quella destinata alla fruizione del verde pubblico attrezzato.

8. Il quinto motivo di appello (con il quale si è lamentata la mancata considerazione, da parte dei primi Giudici, dello stato di affidamento incolpevole ingenerato nei ricorrenti dagli atti adottati e dai comportamenti serbati nel corso degli anni dal Comune) non può trovare accoglimento.

E’ vero che la giurisprudenza di questo Consiglio ha riconosciuto che l’affidamento incolpevole in ordine alla legittimità di atti amministrativi fatti oggetto di interventi in autotutela possa essere valutata al fine di vagliare la legittimità del provvedimento finale (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, V, 12 gennaio 2005, n. 29).

D’altra parte, secondo un orientamento più che consolidato, la valutazione del richiamato affidamento rappresenta una soltanto fra le molteplici circostanze che devono essere valutate dall’amministrazione al fine di operare il vaglio comparativo di interessi pubblici e privati che può condurre all’atto finale di ritiro.

Ebbene, nel caso in esame, si ritiene che il richiamato giudizio di bilanciamento fosse stato svolto secondo modalità non irragionevoli o incongrue e che, in ogni caso, non potesse risultare dirimente l’apprezzamento dello stato di affidamento avente ad oggetto atti i quali – per le ragioni dinanzi evidenziate – erano comunque illegittimi e, in via di principio, meritevoli di annullamento.

9. E’ altresì infondato il sesto motivo di appello.

9.1. Quanto al primo argomento (con cui si è lamentata la mancata considerazione – da parte del Comune prima e del T.A.R. poi – della favorevole ordinanza di primo grado n. 147/2012), ci si limita ad osservare che la correttezza sostanziale di un atto amministrativo non può essere incisa dall’adozione di un provvedimento giurisdizionale di carattere interinale (peraltro, correttamente riformato in sede di delibazione finale).

9.2. Stante la rilevata legittimità dei provvedimenti impugnati in primo grado, ne resta confermata, altresì, l’infondatezza della domanda risarcitoria già articolata in primo grado e nella presente sede puntualmente riproposta.

Al riguardo ci si limita ad osservare che, per le ragioni dinanzi esposte, non possono ravvisarsi nella presente vicenda gli elementi della fattispecie oggettiva di un illecito foriero di danno né risultano adeguatamente dedotti e comprovati i danni derivanti dall’autotutela.

Né può essere condivisa la tesi degli appellanti secondo cui, anche in caso di ritenuta illegittimità degli atti abilitativi (e quindi di correttezza degli atti di ritiro), in loro favore dovrebbe essere comunque riconosciuto un ristoro di carattere patrimoniale.

Ed infatti, laddove si aderisse a tale prospettazione si giungerebbe alla conseguenza – invero, inammissibile – di individuare un illecito foriero di danno nell’operato in sé dell’amministrazione la quale (utendo iuribus e al ricorrere di tutte le condizioni legittimanti) abbia deciso di rimuovere in autotutela un provvedimento illegittimo in precedenza rilasciato.

10. Per i motivi sin qui esposti il ricorso in epigrafe deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna gli appellanti alla rifusione delle spese di lite che liquida in complessivi euro 3.000 (tremila), oltre gli accessori di legge

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

 

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 febbraio 2015 con l'intervento dei magistrati:

Filippo Patroni Griffi, Presidente

Sergio De Felice, Consigliere

Claudio Contessa, Consigliere, Estensore

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere

Carlo Mosca, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 05/06/2015

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)