TAR Piemonte Sez. I 0rd. 79 del 3 settembre 2009
Ambiente in genere. Questione legittimità costituzionale TU ambientale

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte, Prima Sezione dichiara rilevante e non manifestamente infondata:
1. in relazione all’art. 76 della Costituzione e in riferimento alla violazione degli artt. 17, co. 25, lett. a) della L. 15.5.1997, n. 127 e 16, co.1, n. 3, T.U. 26.6.1924, n. 1054, la questione di legittimità costituzionale di tutto il d.lgs.3.4.2006, n. 152 e, in particolare, dell’art. 153 stesso decreto, nella parte in cui stabilisce: “Le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi dell\'articolo 143 sono affidate in concessione d\'uso gratuita, per tutta la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato” per non avere il Governo richiesto e acquisito il previo obbligatorio parere del Consiglio di Stato;
2. 1. in relazione all’art. 76 della Costituzione e in riferimento alla violazione del principio e criterio direttivo definito all’art. 1 commi 1 e 8 lett. c) della legge di delegazione, ossia del principio di “invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica” (comma 8, lett.c. cit.) e di quello sull’impossibilità che le disposizioni del decreto legislativo, con cui il Governo doveva esercitare la delega, determinino “nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” (art. 1, comma 1 L. cit.), la questione di legittimità costituzionale dell’art. 153 del d.lgs. 3.4.2006, n. 252, nella parte in cui stabilisce: “Le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi dell\'articolo 143 sono affidate in concessione d\'uso gratuita, per tutta la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato”;
2.2. in relazione all’art. 119, comma 1 della Costituzione in ossequio al quale, per quanto qui interessa, “I Comuni (…) hanno autonomia finanziaria di entrata”, la questione di legittimità costituzionale del citato art. 153, nell’inciso sopra riportato, che comprime e lede la predetta “autonomia finanziaria di entrata”;
3. la questione di legittimità costituzionale dell’art. 153 del d.lgs. 3.4.2006, n. 252, nella parte in cui stabilisce: “Le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi dell\'articolo 143 sono affidate in concessione d\'uso gratuita, per tutta la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato”, in relazione all’art. 3 della Costituzione e al correlativo principio di ragionevolezza, logicità e coerenza interna della legge, per la sua manifesta collisione con il disposto di cui all’art. 2 del medesimo d.lgs. n. 152/2006 che definisce con norma di principio le finalità del testo unico sull’ambiente nei perentori termini in forza dei quali “Le disposizioni di cui al presente decreto sono attuate nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” (art. 2, comma 3, d.lgs. n. 152/2006).
N. 00079/2009 REG.ORD.COLL.

N. 00031/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

Sul ricorso numero di registro generale 31 del 2008, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Federconsumatori Piemonte, Gruppo Iniziativa di Base Vercelli, Gilberto Valeri, rappresentati e difesi dagli avv. Edmondo Dibitonto e Fausto Raffone, con domicilio eletto presso il secondo in Torino, piazza della Consolata, 5;

contro

Autorita\' D\'Ambito N. 2-Biellese-Vercellese-Casalese, rappresentata e difesa dall\'avv. Claudio Vivani, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Torino, corso Duca degli Abruzzi, 15; Comune di Vercelli, rappresentato e difeso dagli avv. Enrico Inserviente, Ludovico Szego, con domicilio eletto presso il primo in Torino, corso G. Ferraris, 120;

nei confronti di

Atena Patrimonio S.p.A.E e Atena S.p.A., rappresentate e difese dagli avv. Francesca Dealessi, Giorgio Santilli, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Torino, via Paolo Sacchi, 44;

per l\'annullamento, previa sospensione dell\'efficacia,

- dell\'atto n. 211 dell\'8.10.2007 della Conferenza dell\'Autorità d\'Ambito n. 2, pubblicato dal 24.10.07 all\'8.11.07, avente per oggetto: "Riconoscimento in tariffa del servizio idrico integrato del canone per l\'uso delle reti idriche e fognarie del Comune di Vercelli. Approvazione atto di indirizzo.";- della deliberazione del Consiglio Comunale di Vercelli n. 91 in data 12.11.07, pubblicata dal 17.11.07 all\'1.12.07, avente per oggetto: "Tariffa servizio idrico integrato - Indirizzi in materia di canone per l\'uso delle infrastrutture idriche";- di eventuali atti anteriori e consequenziali ignoti ai ricorrenti;

- dell\'atto n. 214 in data 5.12.2007, della Conferenza dell\'Autorità d’Ambito n. 2, pubblicato dal 4 al 18.2.2008,avente per oggetto "Comune di Vercelli. Assunzione di impegno di azzeramento del Canone di concessione per l\'uso delle reti idriche e fognarie. Presa d\'atto, Indirizzi";

- dell\'atto n. 215 in data 5.12.2007, della Conferenza dell\'Autorità d’Ambito n. 2, pubblicato dal 4 al 18.2.2008, avente per oggetto "Piano economico-finanziario in stralcio al Piano d\'Ambito per il triennio 2007/2009 riguardante la gestione della S.p.A. ATENA Approvazione modifiche ed integrazioni";

- dell\'atto n. 216 in data 5.12.2007, della Conferenza dell\'Autorità d’Ambito n. 2, pubblicato dal 4 al 18.2.2008, avente per oggetto " Articolazione tariffaria per il servizio idrico integrato per l\'anno 2007. Approvazione", limitatamente alla tariffa applicabile nel territorio del Comune di Vercelli (pag 7 dell\'allegato B).


Visto il ricorso ed i motivi aggiunti, con i relativi allegati;

Esaminate le memorie difensive tutte versate in giudizio;

Visti tutti gli atti della causa;

Esaminato l\'atto di costituzione in giudizio e le memorie difensive dell’Autorità d\'Ambito N. 2-Biellese-Vercellese-Casalese;

Esaminato l\'atto di costituzione in giudizio del Comune di Vercelli;

Visto l\'atto di costituzione in giudizio di Atena Patrimonio S.p.A. e Atena S.p.A.;

Relatore nell\'Udienza pubblica del giorno 3/4/2009 il Referendario Avv. Alfonso Graziano e udita la discussione dei procuratori delle parti generalizzati nel Verbale di pubblica Udienza;

Considerato in fatto e in diritto quanto segue.


1. Il gravame oggi sottoposto all’attenzione del Tribunale prospetta una tematica di grande rilevanza giuridica e di non lievi implicazioni sociali, investendo la questione della immediata applicabilità del principio di gratuità della concessione in uso delle infrastrutture afferenti al servizio idrico integrato (rete idrica, acquedotti, rete fognaria, manufatti accessori e strumentali) dai Comuni alle società di gestione dei servizi idrici.

Ebbene, il principio in questione è scolpito all’art. 153 del d.lgs. n. 3.4.2006,n. 152 - di approvazione del nuovo c.d. codice dell’ambiente – il quale stabilisce che “le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi dell\'articolo 143 sono affidate in concessione d\'uso gratuita, per tutta la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato, il quale ne assume i relativi oneri”.

La norma, segnala la Sezione, reca un’assoluta innovazione rispetto alla pregressa disciplina contenuta all’art. 12 della L. 5 gennaio 1994, n. 36 (c.d. Legge Galli) oggi abrogata, atteso che questa norma non stabiliva alcunché al riguardo, non precisando la natura, gratuita ovvero onerosa, della concessione in uso delle reti idriche.

La gratuità si atteggia, pertanto, ad elemento di sicura novità rispetto al passato.

Il dato letterale pressoché categorico della disposizione di cui al’art. 153, d.lgs. n. 152/2006 ha indotto infatti la dottrina ad affermare che la stessa sancisce la necessaria gratuità della concessione, discendendone l’illegittimità di deroghe in sede di convenzione, dovendo, pertanto, le infrastrutture essere obbligatoriamente concesse in uso gratuito al gestore del servizio.

Può al riguardo convenirsi con tale opzione ermeneutica, stante il tenore all’evidenza tassativo e perentorio della norma in analisi, quale emergente dalla scansione lessicale e sintattica con la quale è formulata: “le infrastrutture (…) sono affidate in concessione d\'uso gratuita”, rimarcandosi anche l’arco temporale di riferimento: “ per tutta la durata della gestione”.

La quaestio iuris che, quindi, la Sezione è richiesta di dipanare concerne l’applicabilitào meno del predetto principio di gratuità - e correlativamente la sua portata e i suoi effetti - ai rapporti concessori già sorti al momento della sua entrata in vigore e, in particolare, alle convenzioni di gestione del servizio idrico già stipulate e perduranti fino alla scadenza convenuta.

Il nodo da districare è, dunque, se il principio sancito dall’art. 153 del Codice, della necessaria gratuità della concessione delle reti e delle infrastrutture del servizio idrico integrato si imponga o meno, attraverso il noto meccanismo civilistico dell’inserzione automatica di clausole secondo il paradigma definito all’art. 1339 c.c., anche alle convenzioni accessive a provvedimenti concessori già in essere e contenenti, invece, la previsione di un corrispettivo a favore degli Enti locali e a carico dei gestori del servizio, cessionari quindi anche dell’uso delle infrastrutture strumentali al servizio idrico integrato.

2.1. Necessita al riguardo premettere una rapida illustrazione degli atti generali adottati dell’Amministrazione resistente e rilevanti nella fattispecie che occupa.

Con deliberazione della Giunta Comunale di Vercelli n. 63 del 20.12.2000 veniva approvata una nuova convenzione quadro che all’art. 7 conteneva la previsione della possibilità che la società di gestione del servizio idrico integrato corrispondesse all’Ente locale un canone, sulla base di un “atto di concessione amministrativa nel quale verrà stabilito il canone a favore del Comune” per l’uso dei beni strumentali costituenti le dotazioni del servizio idrico. Veniva contestualmente approvato il relativo contratto di servizio e la concessione si presentava dunque come onerosa, in linea con il dettato dell’art. 9,co. 5 della L. Reg. Piemonte n. 13/1997, a mente del quale “la convenzione determina l’ammontare del canone di concessione del servizio idrico integrato che i soggetti gestori sono tenuti a corrispondere per l’affidamento delle predette infrastrutture”.

In data 22.1.2003 con atto notarile a repertorio n.195 la convenzione suindicata veniva modificata prevedendosi la corresponsione a favore del Comune di Vercelli di un canone annuo pari ad € 2.435.000 da adeguare sulla base degli indici ISTAT.

Successivamente, effettuata la privatizzazione della società di gestione Atena S.p.A. entro il 1.10.2003, ricorrendo all’uopo le condizioni della salvaguardia della gestione imposte dall’art. 113, co. 15-bis del d.lgs. n. 267/2000, l’Autorità d’Ambito competente deliberava con atto n. 149 del 13.3.2006, di riconoscere la prosecuzione della gestione fino alla data del 31.12.2023 in considerazione delle esigenze di ammortamento degli ingenti investimenti previsti dal Piano d’Ambito. Il canone concessorio di € 2.435.000 con relativo aggiornamento ISTA doveva essere pertanto corrisposto dal gestore al Comune per venti anni, coacervando, quindi, alla fine dei predetti venti anni, la considerevole somma di € 48.700.000.

Conseguentemente, l’Autorità d’Ambito deliberava con atto n. 211 del 8.10.2007 il “riconoscimento in tariffa del servizio idrico integrato del canone per l’uso delle reti idriche e fognarie del Comune di Vercelli”, approvando un atto di indirizzo che vincolava tutti gli uffici competenti a rispettare la delineata previsione nella predisposizione del piano economico e finanziario per il triennio 2007-2009. Dal canto suo il Comune di Vercelli con atto consiliare n. 91 del 12.11.2007 deliberava di concorrere alle esigenze di sostenibilità tariffaria dei servizi pubblici attraverso l’azzeramento graduale e quinquennale del canone d’uso delle reti e delle infrastrutture con varie modalità.

2.2. Insorgevano davanti a questo T.A.R. avverso le due ultime delibere del 2007 la Federconsumatori Piemonte, un comitato di base ed un privato cittadino, chiedendone l’annullamento per violazione dell’art. 153 del Codice dell’ambiente, il quale stabilisce che le infrastrutture, reti ed impianti afferenti al servizio idrico integrato sono concesse in uso gratuito alle società incaricate della gestione del servizio.

A dire dei ricorrenti tale norma costituisce disposizione che si inserisce automaticamente nelle concessioni – contratto in corso, in virtù del noto meccanismo civilistico dell’inserzione automatica di clausole o norme di diritto di cui modulo delineato all’art. 1339 c.c., applicabile anche ai rapporti stipulati da privati con la P.A. Parte ricorrente ritiene di giovarsi anche del sistema civilistico delle nullità c.d. parziali di cui all’art. 1419 c.c.. Invocava sul punto varia giurisprudenza che ha predicato l’applicazione di siffatto autoritativo inserimento di clausole anche ai negozi contratti con l’Amministrazione.

2.3. Si costituivano in giudizio sia il Comune di Vercelli che l’Autorità d’Ambito n. 2 “Biellese, vercellese e casalese” con memoria del 2.2.2008 contestando l’applicazione retroattiva della norma invocata, che non sarebbe atta a incidere negozi già in fase di esecuzione alla data della sua entrata in vigore, pena la violazione dei diritti quesiti.

Alla Camera di Consiglio del 6.2.2008 la Sezione respingeva l’incidente cautelare contestualmente frapposto, sul rilievo della non immediata lesività degli atti impugnati, che rimandavano a successivi previsti provvedimenti applicativi, adottati i quali parte ricorrente interponeva ricorso per motivi aggiunti con ulteriore richiesta cautelare.

L’Autorità d’Ambito produceva poi corposa memoria defensionale il 6.5.2008.

Alla Camera di Consiglio del 4.9.2008 fissata per la trattazione della predetta domanda di sospensione, la stessa veniva abbinata al merito.

2.4. Pervenuto l’affare alla pubblica Udienza del 3.4.2009, nel corso della discussione orale i patroni dell’Autorità d’Ambito sollevavano questione di legittimità costituzionale dell’art. 153 del c.d. Codice dell’ambiente per violazione dell’art. 76 della Costituzione per non essere stato domandato dal Governo il parere del Consiglio di Stato sull’intero schema di decreto delegato, come sarebbe provato da vari dati testuali, tra cui le stesse affermazioni espresse dal Consiglio di Stato, Sezione Consultiva Atti normativi nell’Adunanza del 5.11.2007, che nella parte iniziale riferisce che “il parere in discorso, richiesto ex art. 17, co. 25, lett. a) della L. n. 127/1997, nonché ex art. 16, co. 1, n. 3 t.u. n. 1054/1924, va circoscritto allo schema di decreto correttivo trasmesso e non può estendersi al testo base del d.lgs. n. 152/2006 né al primo decreto legislativo corretti, testi sui quali il parere del Consiglio di Stato non è stato richiesto”.

Nella tesi dell’Autorità d’Ambito, dunque, se il Governo avesse acquisito il parere del Consiglio di stato, il Supremo Consesso amministrativo avrebbe invitato il Governo ad eliminare dal testo dell’art. 153 l’inciso contenente il principio di gratuità - assolutamente non previsto dalla legislazione precedente - a motivo dell’impatto che il principio stesso produce sugli assetti della finanza locale e, in particolare, come tra breve si illustrerà, sul principio di autosufficienza del sistema di alimentazione delle risorse finanziarie degli enti locali, con connessa violazione anche del principio e criterio direttivo generale dell’invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica, fissato all’art. 1, comma 8, lett. c) della L. n. 308/2004 di delegazione (su questo tema, infra amplius).

Comportando un decremento di entrata per gli Enti locali, quindi, il principio di gratuità vulnererebbe la regola dell’autofinanziamento, che, pur temperata dall’intervento integrativo e di soccorso dello Stato centrale, resta comunque un principio cardine della finanza locale.

Già nella memoria depositata il 6.5.2008 (pagg. 18-21) l’Autorità d’Ambito resistente sosteneva che l’interpretazione e l’applicazione dell’art. 153 del d.lgs. n. 152/2006 caldeggiata dai ricorrenti rinvenisse un limite nell’art. 76 Cost., poiché il principio di gratuità scolpito nella predetta norma del Codice violerebbe uno dei criteri direttivi di cui alla legge delega del 15.12.2004, n. 308, il cui art. 1, comma 8 stabiliva che i decreti delegati di riordino della legislazione in materia di ambiente dovessero informarsi ai criteri direttivi specificati nella legge delega e tra i quali alla lett. c) del medesimo art.1, comma 8 consta quello di “invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica”. Identico limite e’ inoltre, in via generale fissato all’art. 1, comma 1 delle legge di delegazione, che conferiva al Governo la potestà di emanare uno o più decreti legislativi di riordino e riassetto normativo in materia ambientale, purché ciò avvenisse “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

In proposito il Comune di Vercelli nella relativa memoria sosteneva che l’esclusione della possibilità di contemplare un canone per l’uso delle infrastrutture idriche sostanzia una minore entrata, che ha lo stesso effetto finale e sostanziale di una nuova spesa.

Le predette parti pubbliche, pur argomentando nei sensi ora riassunti, non prospettano tuttavia al Tribunale una questione di legittimità costituzionale della norma in analisi per i cennati aspetti inerenti il conflitto con il principio di invarianza della finanza locale definito all’art. 1 delle L. n. 308/2004, configurandone piuttosto un limite interno alla sua applicazione ai rapporti concessori già in corso alla sua entrata in vigore.

2.4. Tanto premesso in ordine allo svolgimento del processo e alla sintesi delle posizioni delle parti litiganti, alla pubblica Udienza del 3.4.2009 udita la discussione dei procuratori delle costituite parti e la Relazione del Referendario Avv. Alfonso Graziano, il gravame è stato trattenuto in decisione.

3.1.1. Ritiene il remittente Collegio che la prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 153 del d.lgs. n. 152/2006 come sollevata dalla difesa dell’Autorità d’Ambito per violazione dell’art. 76 della Carta fondamentale a causa dell’omessa richiesta e acquisizione del parere del Consiglio di Stato sullo schema di decreto legislativo, sia rilevante e non manifestamente infondata per le ragioni che vengono in appresso illustrate e corroborate di ulteriori considerazioni di diritto costituzionale.

3.1.2. Sulla scia, inoltre, dell’argomentare sopra riassunto della difesa dell’Autorità d’Ambito relativamente al limite, dianzi lumeggiato, prospettato dalle parti pubbliche come interno all’interpretazione dell’art. 153 sostenuta dai ricorrenti, direttamente discendente dall’art.1 della L. n. 308/2004 e costituito dall’impossibilità di incisione della finanza pubblica, ritiene invece propriamente questo Giudice di dover sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’invocata – dai ricorrenti - norma del c.d. Codice dell’Ambiente.

Il delineato incidente costituzionale, elevato d’ufficio dal remittente Tribunale a carico dell’art. 153 del d.lgs. n. 152/2006 è determinato dalla patente sua collisione con uno degli ineludibili e cogenti criteri e principi direttivi intagliati nell’art. 1 commi 1 e 8 lett. c) della legge di delegazione, ossia con il principio di “invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica” (comma 8, lett.c. cit.) e con quello contermine dell’impossibilità che le disposizioni del decreto legislativo, con cui il Governo doveva esercitare la delega, producessero “nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” (art. 1, comma 1 L. cit.).

3.1.3. Opina altresì il remittente Collegio che debba predicarsi e prospettarsi al supremo sindacato di costituzionalità affidato dalla Carta fondamentale alle attribuzioni di codesta sovrana Corte, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 153 del Testo unico sull’ambiente limitatamente al ridetto principio di gratuità della concessione in uso delle infrastrutture afferenti al servizio idrico integrato, anche per un profilo di intrinseco e interno contrasto di questa disposizione con le stesse finalità generali dell’articolato complessivo, definite all’art. 2 del medesimo d.lgs. n. 152/2006 – con norma che, quindi, per la sua stessa collocazione e numerazione deve qualificarsi di principio – e colà ribadite nei perentori termini per cui “Le disposizioni di cui al presente decreto sono attuate nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” (art. 2, comma 3, d.lgs. n. 152/2006).

Al riguardo, pone in luce il remittente Tribunale che la rilevata contraddizione della delineata finalità di salvaguardia sia degli oneri a carico della finanza pubblica che delle risorse “finanziarie a legislazione vigente”, scolpita ed elevata dall’art. 2 del decreto delegato al livello dei principi guida della potestà legislativa delegata, contraddizione generata dal confliggente disposto di cui all’art.153 e dal relativo principio gratuità, equivale, in termini di sindacato di legittimità costituzionale, ad un evidente profilo di irragionevolezza, incongruenza, contraddittorietà interna ed illogicità intrinseca dell’articolato legislativo censurato, ridondando quindi nella violazione dell’art. 3 della Costituzione sub specie di infrazione del principio di ragionevolezza della legge.

4. Quanto al preliminare requisito della rilevanza delle prospettate questioni di legittimità costituzionale, lo stesso è agevolmente ravvisabile sol che si rifletta sulla circostanza che qualora codesta sovrana Corte dovesse ritenere l’illegittimità costituzionale dell’art. 153 del Codice dell’Ambiente, la norma non potrebbe essere applicata al caso al vaglio della Sezione, conseguendone il rigetto dell’interposto gravame demolitorio, il quale si fonda su di un unico articolato mezzo deduttivo, con cui si lamenta la violazione del principio di gratuità recato dal predetto censurato articolo del testo unico in analisi.

La questione è, pertanto, assai rilevante nel presente giudizio in quanto l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della denunciata normativa importerebbe eo ispo il rigetto nel merito del ricorso in epigrafe.

5.1.1. Dovendo ora argomentarsi e dimostrarsi il requisito della non manifesta infondatezza delle soggette questioni di legittimità costituzionale e dovendosi principiare dalla disamina di quella appuntata sugli accennati profili di diritto costituzionale che alimentano l’invocazione dell’art. 76 della Carta costituzionale ritenuto vulnerato dall’omessa richiesta di parere al Supremo Consesso consultivo dello Stato, non può il remittente Collegio non prendere le mosse da una brevissima riflessione sulla natura e sullo spettro dei poteri di legificazione che l’Ordinamento repubblicano riconosce e commette al Governo.

Al riguardo è fin troppo noto che lo Stato repubblicano è imperniato e riposa sul principio democratico della rappresentatività e della sovranità popolare, in ossequio al quale la Carta fondamentale attribuisce in via principale e generale il potere legislativo al Parlamento, in quanto diretta espressione dello Stato – comunità attraverso il sistema delle libere elezioni democratiche dei rappresentanti del Popolo.

Non può obliterarsi che la cennata logica democratica si pone, del resto, in armonia e in linea di massiccio sviluppo e incremento, con taluni segmenti di disciplina istituzionale dello Statuto Albertino che, pur nell’impianto monarchico dei poteri di allora, già concepivano il Parlamento albertino (costituito delle due Camere rappresentante dal Senato, con sede a Palazzo Carignano e dalla Camera dei Deputati, con sede a Palazzo Madama a Torino) come un interlocutore necessario del Re su alcuni momenti cruciali e fondamentali dell’azione normativa e della vita del regno.

5.1.2. Al potere esecutivo, nell’attuale forma di Governo repubblicano e costituzionale, è riconosciuto, com’è noto, la potestas legiferandi solo nei due noti istituti della decretazione d’urgenza e della decretazione delegata, la quale ultima, sede in cui si esalta anche un’istanza di snellimento e semplificazione normativa, è, peraltro, astretta a precisi limiti, disegnati tassativamente dall’art. 76 della Carta fondamentale.

Trattasi di norma cruciale che permea tutto il sistema della legislazione delegata e che ha indotto la più avvertita dottrina costituzionalistica ad affermare, ad esempio, che non può essere delegata al Governo la formazione di quelle leggi che incidono sullo stesso nucleo fondamentale dei suoi poteri, quali le leggi di bilancio, oppure le leggi di conversione di precedenti decreti legge assunti da tale organo costituzionale in via d’urgenza. Leggi tutte la cui emanazione non può quindi formare oggetto di delega legislativa al Governo.

5.1.3. Orbene, la cogenza e la portata dell’art. 76 della Costituzione risiedono primieramente nel principio democratico della sovranità popolare e nell’eccezionalità dell’intervento legislativo del Governo, composto da membri espressione della maggioranza politica e quindi in ultima analisi da una sola parte dell’elettorato, quella riuscita vincitrice della competizione elettorale.

Il carattere eccezionale e derogatorio dell’attribuzione al Governo della potestà legiferante risalta, del resto, ictu oculi dalla stessa formulazione dell’art. 76 Cost., non a caso enunciato ed espresso in termini negativi: “L’esercizio della funzione legislativa NON può essere delegato al Governo SE NON con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.

La determinazione dei principi e dei criteri direttivi assurge, dunque, a precondizione e presupposto ineludibile e fondante del legittimo esercizio da parte del Governo della potestà di emanare atti aventi forza di legge.

5.2. Rimarca all’uopo il remittente Collegio che la fissazione dei prefati principi e criteri direttivi riveste un ruolo così dirimente, rilevante e condizionante nella dinamica e nel dipanarsi dell’esercizio del potere di normazione delegata, che la dottrina costituzionalistica più accreditata ha da tempo affermato che la legge di delegazione (c.d. legge delega), che è la sede della elaborazione dei predetti principi e criteri direttivi, non può essere approvata con lo strumento c.d. deliberante, ossia in sede di Commissioni parlamentari, nelle loro varie configurazioni (referente, deliberante o legislativa) ma deve essere discussa ed approvata in aula, proprio perché i principi e i criteri direttivi da assegnare al Governo devono originare e scaturire dal più ampio e democratico confronto e dibattito parlamentare, che solo la discussione in Aula può assicurare.

E’ consapevole sul punto il Tribunale che non si sta diffondendo in più o meno dotte o trite digressioni di teoria generale del diritto costituzionale, ma in necessarie puntualizzazioni della cogenza e della portata vincolante dei menzionati principi e criteri direttivi, almeno due dei quali opina il remittente Collegio essere stati infranti in occasione della redazione del testo unico del’ambiente: ovverosia, conviene anticipare, quello della necessaria richiesta ed acquisizione del parere del Supremo Organo consultivo dello Stato e quello dell’invarianza degli oneri a cario della finanza pubblica.

6.1. Approdando, dunque, in medias res, il remittente Tribunale indubita di infrazione costituzionale per violazione dell’art. 76 Cost. l’art. 153 del d.lgs. n. 152/2006, quale conseguenza dell’incostituzionalità di tutto il decreto delegato recante il testo del c.d. Codice dell’ambiente, per avere il Governo in carica nell’aprile 2006, violato la predetta norma di rango costituzionale là dove non ha domandato al Consiglio di Stato l’espressione del parere, richiesto dalla legge quale principio dell’esercizio della potestà governativa di redazione dei testi unici.

6.2. Rammenta a tal riguardo la Sezione che il fenomeno dell’ elaborazione di Testi unici, nella sua versione ricognitiva (detta anche compilativa) o innovativa, ha antiche origini, ove si ricordi e consideri che lo stesso Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, di cui al R.D. 26.6.1924, n. 1054, esso stesso, appunto, già un Testo Unico, all’art.16, comma 1, sanciva con norma tuttora in vigore, l’obbligatoria acquisizione del parere del Supremo Consesso “sopra tutti i coordinamenti in testi unici di leggi o di regolamenti, salvo che non sia diversamente stabilito per legge”.

Ma la più moderna tipizzazione del potere di redazione di testi unici da parte del Governo va individuata nell’art. Art.17, co.25, della L. 15.5.1997, n. 127. Tale legge, c.d.. Legge Bassaniani 2, dedicata alla semplificazione e allo snellimento dell’attività amministrativa ha dettato disposizioni per favorire anche lo snellimento e la semplificazione normativa, contemplando all’uopo la facoltà per il Governo di procedere alla predisposizione di testi unici di sistemazione e riassetto normativo, subordinandone, peraltro l’adozione, alla previa obbligatoria acquisizione del parere del Consiglio di Stato.

6.3. In tale ottica e a tal fine, dunque, la legge 127/1997 ha stabilito all’art. 17, comma 25, con diposizione imperativa e ineludibile, che “il parere del Consiglio di Stato è richiesto in via obbligatoria: a) per l\'emanazione degli atti normativi del Governo e dei singoli ministri, ai sensi dell\'articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, nonché per l\'emanazione di Testi unici”.

Com’è noto ed è stato tramandato alla tradizione e alla prassi redattiva di siffatti articolati normativi, i testi unici possono constare di due tipologie: il testo unico ricognitivo o compilativo, che si limita a raccogliere disposizioni disparate, recate da fonti diverse e che pertanto non assume caratteri di innovatività dell’ordinamento.

Vi è poi il testo unico c.d. innovativo, il quale, in uno con l’obiettivo di sistemazione e raccolta di varie disposizioni, reca anche norme nuove, non presenti nella pregressa cornice legislativa.

6.4. Orbene, ritiene a tal riguardo il remittente Collegio di dover evidenziare e di poter fondatamente affermare che la ratio della necessità della preventiva richiesta e conseguente acquisizione del parere del Consiglio di Stato sullo schema di un testo unico, specie se di natura innovativa, si spiega proprio in virtù dell’attitudine di siffatta seconda tipologia di testi unici ad innovare il panorama normativo, con l’aggiunta di disposizioni nuove, non presenti nel pregresso quadro legislativo.

Ecco quindi spiegata la ratio che ispira l’obbligo del potere esecutivo di domandare e acquisire previamente il parere del supremo organo consultivo dello Stato ai fini della compilazione di un testo unico. Detto obbligo è imposto, per le ragioni poc’anzi lumeggiate, da due fonti legislative di livello primario, molto distanti nel tempo ma ambedue parimenti ineludibili quanto attuali: l’art. 16 del R.D. n. 1054/1924 recante approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato e l’art. 17 della L. n. 127/1997.

Non può trascurarsi inoltre che l’istituto dei testi unici è stato di recente riproposto dal Legislatore quale strumento di semplificazione e razionalizzazione normativa. L’art. 5 della recente l. 18 giugno 2009, n. 69 ha infati introdotto nel corpo della nota legge 23.8.1988 n.. 400, un art. 17-bis, rubricato “testi unici compilatici”, il ossequi al quale il Governo provvede, mediante testi unici compilativi, a raccogliere le disposizioni aventi forza di legge regolanti materie e settori omogenei.

Ebbene, va opportunamente evidenziato che a norma del comma 2 del neonato art. 17-bis della L. n. 400/1988, “Lo schema di ciascun testo unico è deliberato dal Consiglio dei ministri, valutato il parere che il Consiglio di Stato deve esprimere entro quarantacinque giorni dalla richiesta”.

A parere del denunciante Tribunale, dunque, essendo indubbio il valore interpretativo dell’ordinamento che va annesso a quest’ultima norma di legge, il parere del Consiglio di Stato, se, in forza della stessa è obbligatorio per la formazione di un testo unico meramente compilativo, deve a frotiori predicarsi necessario e imprescindibile per la redazione di un testo unico innovativo, qual è inconfutabilmente il d.lgs. n. 152/2006 censurato.

6.5.1. Orbene, dal combinato disposto dell’art. 16, co. 1 del R.D. n. 1054/1924 e dell’art. 17, comma 25, lett.) a della L. n. 127/2007, nonché sulla scorta del rilievo ricostruttivo e interpretativo dell’ordinamento da riconoscersi all’art. 17-bis, comma 2 della L. n. 400/198 come introdotto dall’art. 5 della L. n. 69/2009, discende dunque, a parere della denunciante Sezione, che l’obbligo di richiesta del parere del Consiglio di Stato trascende e supera il livello formale – di legge ordinaria – della fonte che lo ha istituito, dovendo a detto obbligo attribuirsi il valore di un principio e criterio direttivo a cui deve necessariamente conformarsi l’esercizio della potestà normativa delegata al Governo, alla stregua e allo stesso livello di uno di quei principi (oltre che criteri direttivi) additati dall’art. 76 della Carta costituzionale a limite della potestà legislativa delegata all’Esecutivo.

6.5.2. Il Tribunale è quindi dell’avviso che i principi che costringono la potestà normativa delegata al Governo debbano rintracciarsi non solo in quelli specificamente definiti e precisati dalle singole leggi di delegazione, ma anche in tutte le altre leggi ordinarie recanti, appunto, disposizioni di principio che informano di se stesse l’ordinamento giuridico nel suo complesso.

6.6. Rammenta all’uopo il remittente Collegio che codesta sovrana Corte ha già avuto modo di affermare, con una pronuncia più che mai pertinente al caso che occupa, che il sindacato di costituzionalità in materia di delega legislativa e di legislazione delegata va puntualizzato sui principi e sui criteri direttivi contenuti nella legge di delegazione, principi che però debbono essere ricostruiti in un’ottica di più ampio raggio, avendo, cioè, anche riguardo al complesso delle norme in cui si collocano. Codesto supremo Giudice delle leggi ha infatti qualche anno fa insegnato che “Il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa postula, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, un processo interpretativo relativo all\'oggetto, ai principi ed ai criteri direttivi della delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano”(Corte Costituzionale, 28 luglio 2004, n. 280).

A stare all’illuminante chiarimento di cui alla riportata eminente decisione di codesta sovrana Corte, dunque, i principi e criteri direttivi vincolanti il legislatore delegato devono essere ricostruiti e desunti “dal complessivo contesto di norme in cui si collocano”, potendo e dovendo quindi anche essere dedotti da altre leggi ordinarie, di pari livello rispetto alla legge di delegazione, leggi che, all’evidenza, concorrono a comporre il ridetto “complessivo contesto di norme i cui si collocano” i principi e criteri direttivi in parola.

A parere del Tribunale esponente, dunque, gli artt. 17, coma 25, lett.a) della L. n. 127/1997,e 16, co. 1 del R.D. n. 1054/1924, nonché l’art. 17-bis, co. 2 dela l.n. 400/1988, come introdotto dall’art. 5, co. 2 della L. n. 69/2009, sono norme di principio nella disciplina della materia e del fenomeno normativo della formazione e redazione dei testi unici, siano essi compilativi o innovativi.

6.7. Del resto, non va sottaciuto che a diversamente opinare, a voler cioè differenziare i principi recati dalla legge delega e quelli rivenienti, invece, da altre fonti legislative anch’esse contenenti norme di principio e a voler, quindi, reputare limitata l’attitudine vincolante e conformativa dell’esercizio della potestà normativa del Governo ai soli principi specificamente contenuti nella legge di delegazione, si determinerebbe un’evidente aporia nel sistema, producendosi l’effetto, davvero discriminatorio, di attribuire un regime giuridico differenziato e una valenza deteriore ai principi recati da altre fonti legislative rispetto a quelli definiti specificamente nella legge delega.

Ma stenta il remittente Collegio ad individuare superiori ragioni di rango costituzionale idonee a fondare e legittimare siffatta operazione di discriminazione tra fonti poste sullo stesso piano.

Si deve pertanto ritenere che la delega legislativa debba dispiegarsi nel rispetto non solo dei principi e criteri direttivi espressamente indicati nella relativa legge di delegazione, ma anche, come insegnato da codesta sovrana Corte con la sentenza suindicata, nell’osservanza dei principi che riposano in altre norme di legge, le quali concorrono a costituire il “complessivo contesto di norme in cui si collocano” i principi in parola.

6.8. Orbene, nell’ottica delle illustrate coordinate ermeneutiche, è convinto, in particolare, il remittente Tribunale, come sopra appena accennato, che tra i principi equiordinati a quelli menzionati nella legge delega, rivenienti da altre leggi, vadano precipuamente annoverati, individuati e tenuti in debita considerazione quelli dettati dalla legge sulla procedura di adozione dei testi unici, principi, questi ultimi, che si attestano ad un livello almeno pari a quelli specificamente intagliati nella legge delega.

Dei principi enucleati dalle leggi regolanti il procedimento di formazione e redazione dei testi unici, ossia dall’art. 16, punto 3 del R.D. n. 1054/1924 e dall’art. 17, comma 25 della L. n. 127/1997, interpretativamente rinvigoriti dall’art. 17-bis comma 2 della L. n. 400/1988, va, dunque, predicata l’attitudine conformativa della potestà normativa delegata del Governo, poiché essi disciplinano proprio il modus agendi del potere esecutivo nel momento di cui si fa Legislatore esercitando, in via eccezionale e per delega del Parlamento, il potere di produrre norme giuridiche che andranno poi a collocarsi, nella gerarchia delle fonti del diritto, allo stesso livello di quella stessa legge ordinaria che li scolpisce e definisce.

Non è chi non veda come, altrimenti verrebbe a prodursi l’antinomico e, a parere del remittente Collegio, incostituzionale fenomeno ed effetto per il quale il Governo adotta un testo normativo di rango legislativo (avente cioè forza di legge) violando una norma di legge che regola proprio il modo di formazione della potestà legislativa che si estrinseca nell’adozione del testo unico stesso.

E tra le regole, assurgenti a disposizioni di principio che disciplinano il procedimento di adozione dei testi unici e che come tali si impongono al potere esecutivo nel momento in cui in via derogatoria ed eccezionale esercita la funzione legislativa, vanno con sicurezza annoverate l’art. 16, co. 1 del R.D. n. 1054/1924 e l’art. 17, co. 25, lett. a) della L. n. 127/1997, ribaditi dal’art. 17-bis della L. n. 400/1988 introdotto dall’art. 5 della L. n. 69/2009, i quali, con disposizione di principio, stabiliscono l’obbligo della previa richiesta e conseguente acquisizione del parere del Supremo Organo consultivo dello Stato ai fini dell’esercizio della potestà normativa del Governo di redazione di testi unici.

L’omissione del descritto incombente ridonda, conseguentemente, in una diretta o indiretta collisione con l’art. 76 Cost. sub specie di infrazione di uno dei principi – portati da leggi diverse ma aventi la stessa forza di quelle di delegazione – ai quali a mente della citata norma costituzionale deve essere assoggettato l’esercizio della potestà normativa delegata al Governo.

7.1.1. Non sfugge peraltro al remittente Collegio che per poter ragionevolmente porre all’attenzione di codesto Supremo Giudice delle leggi la prima delle divisate questioni di legittimità costituzionale, ossia quella che si è appena illustrata, occorre acclarare con rigore due circostanze. La prima è se il c.d. Codice dell’ambiente è un testo unico. La seconda è se il Governo ha realmente omesso di chiedere ed acquisire il parere del Consiglio di Stato. La prima resta ancora una quaestio iuris, la seconda assume invece i contorni di una quaestio facti, non per questo, peraltro, da accertare in modo meno rigoroso.

Quanto alla prima, che il Codice dell’ambiente sia un Testo Unico a tutti gli effetti, è provato da molteplici dati testuali, oltre che dalla stessa veste formale dell’articolato.

In merito al primo ordine di fattori – quelli testuali – appare fondamentale ed ineludibile e depone nel delineato senso, anzitutto il tassativo e chiaro tenore dispositivo della legge delega.

Invero, l’art.1, L. 15 dicembre 2004, n. 308, rubricata “Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l\'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione” stabilisce che “Il Governo è delegato ad adottare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, uno o più decreti legislativi di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative nei seguenti settori e materie, anche mediante la redazione di TESTI UNICI:

a) gestione dei rifiuti e bonifica dei siti contaminati;

b) tutela delle acque dall\'inquinamento e gestione delle risorse idriche;

c) difesa del suolo e lotta alla desertificazione (…)”.

Il Legislatore delegante ha dunque inteso imprimere al decreto delegato recante coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative in materia ambientale, la natura di Testo Unico.

E da questa precisa direttiva del Parlamento ritiene il denunciante Tribunale che l’interprete non possa ibn alcun modo prescindere nelle operazioni di qualificazione e ricognizione del regime giuridico-formale del d.lgs. n. 152/2006, specie laddove a dette qualificazioni conseguano rilevanti effetti che, come nel caso della rilevata omessa acquisizione del parere del Consiglio, refluiscano al livello del giudizio costituzionale in punto all’infrazione o meno dei dettami fissati dall’art. 76 della Costituzione.

7.1.2. Ad colorandum, inoltre, va pure debitamente considerata la veste formale del decreto legislativo in esame. Sotto questo profilo va all’uopo adeguatamente e attentamente valorizzata l’intitolazione stessa dell’articolato legislativo de quo, la quale non reca affatto la dizione “Codice dell’Ambiente”, com’è dato riscontrare negli altri Codici (della strada, dei contratti, del consumo, delle assicurazioni private, etc.) bensì la generica locuzione “norme in materia ambientale”.

L’intitolazione del decreto delegato è infatti la seguente “Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n.152 (in Suppl. ordinario n. 96 alla Gazz. Uff., 14 aprile, n. 88). - Norme in materia ambientale”.

Opina il Tribunale che anche siffatto dato formale sia illuminante e risolutivo.

7.1.3. Non può, per converso, deporre in senso contrario e, cioè, che non siamo al cospetto di un testo unico, la circostanza che di seguito alla rubrica di ogni articolo e alla sua indicazione numerica non compare tra parentesi l’elenco delle altre norme, di cui alle leggi precedenti, che vengono raccolte o innovate con gli articoli del decreto.

Va infatti osservato che la presenza di siffatta indicazione e quindi il ricorso alla suindicata tecnica redattiva, non è tratto distintivo e qualificante dei testi unici, riscontrandosi una simile tecnica di compilazione anche nel caso di vari nuovi codici. Basti pensare, quale caso più risonante, al Codice dei contratti (d.lgs. 16.4.2006, n. 163), nel quale, dopo la rubrica e la numerazione di ogni articolo, figura tra parentesi l’indicazione delle varie norme della L. n. 109/1994 e del relativo regolamento di attuazione (D.P.R. n. 554/1999) nonché dei decreti legislativi n. 358/1992 sulle forniture pubbliche e 157/1995 sugli appalti di servizi, che vengono volta a volta sostituite o innovate dai singoli articoli del codice.

La medesima tecnica compilativa è dato poi riscontrare, ad esempio, anche relativamente al c.d. Codice delle pari opportunità di cui al d.lgs. 11.4.2006, n. 198, il quale dopo la menzione della rubrica e del numero di ogni articolo espone tra parentesi anche le varie norme delle leggi precedenti innovate o raccolte.

E’ convinto, pertanto, il remittente Collegio che il d.lgs. n. 152/2006 sia un Testo Unico.

Per concludere sul tema, suffraga e alla fine comprova questa convinzione anche un’espressa ammissione fatta dal Governo nell’agosto dello scorso anno mediante un comunicato diramato dal Consiglio dei Ministri in data 1.8.2008 in esito ad una seduta dedicata proprio al testo di legge in analisi. Ebbene, il suindicato comunicato, citato in uno dei più recenti commentari al testo unico in materia di ambiente in sede di commento all’art. 1, ove sono anche riportati i riferimenti della rivista telematica che pubblicò il comunicato in questione, testualmente affermava: “il Consiglio ha approvato un disegno di legge, di iniziativa del Ministro dell’Ambiente, contenente una delega al Governo di riordino delle norme in materia ambientale in un TU (testo unico)”. Nel medesimo contesto, a sua volta, il Ministro dell’Ambiente comunicava che “è stato approvato un provvedimento che prevede la riapertura dei termini per revisioni e integrazioni (…) essendo numerose le ragioni di opportunità che consigliano ulteriori modifiche e revisioni del testo unico”.

Nessun ragionevole dubbio può dunque prospettarsi in merito alla qualificazione del d.lgs. n. 152/2006 come testo unico, per pi più con evidente carattere di innovatività.

7.2.1. Conviene ora appurare la seconda delle cennate questioni, ossia la quaestio facti dell’omessa acquisizione del parere del Consiglio di Stato.

A tal riguardo, la prima fonte di prova che il remittente Tribunale ritiene di dover porre all’attenzione di codesta sovrana Corte è fornita dalle stesse affermazioni rese sul punto dal Consiglio di Stato nell’Adunanza della Sezione Consultiva per gli Atti Normativi del 5.11.2007, n. 3838/2007, in occasione della redazione del parere sul secondo correttivo poi apportato con il d.lgs. 16.1.2008, n. 4.

Orbene, a pag. 7 della Relazione di parere del supremo Consesso consultivo dello Stato, si legge la seguente categorica affermazione: “La Sezione osserva, anzitutto, che il parere del Consiglio di Stato deve intendersi richiesto ai sensi dell’art. 17, comma 25, lett.a), legge 15 maggio 1997, n. 127 (nonché dell’art. 16, comma 1, n. 3, t.u. n. 1054 del 1924)”. Segue una rilevante precisazione, a tenore della quale il parere “va circoscritto allo schema del decreto correttivo trasmesso, e non può pertanto estendersi, ora per allora, né al precedente d.lgs. n. 152 del 2006, né al primo decreto legislativo correttivo, testi sui quali il parere di questo Consesso non è stato richiesto”.

Giova rimarcare, quindi, che il Consiglio di Stato sottolineava sia che il parere richiesto sul secondo decreto correttivo non poteva intendersi riferito anche al primo o al testo base originario del d.lgs. n. 152/2006 e che pertanto non poteva configurare una sorta di parere in sanatoria, sia che sullo steso d.lgs. n. 152/2006 (come sul primo suo correttivo) il parere del Consesso consultivo non è stato mai richiesto. Trattasi di fonte assolutamente incontestabile oltre che autorevolissima.

7.2.2. In ogni caso evidenzia il remittente Collegio che ulteriore prova, assolutamente dirimente, della mancata acquisizione del parere del Consiglio, è offerta dalla lettura dello stesso Preambolo al d.lgs. n. 152.2006, il quale, mentre richiama tutte le preliminari deliberazioni e dà conto dell’acquisizione dei pareri delle competenti Commissioni parlamentari, non menziona affatto l’avvenuta acquisizione del parere del Consiglio di Stato. Si legge infatti nel preambolo stesso: “(…) Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 18 novembre 2005; Acquisito il parere della Conferenza unificata di cui all\'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281;Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica;Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 19 gennaio 2006;Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica;Viste le deliberazioni del Consiglio dei Ministri, adottate nelle riunioni del 10 febbraio e del 29 marzo 2006;

Sulla proposta del Ministro dell\'ambiente e della tutela del territorio (…)

Emana il seguente decreto legislativo”.

Anche l’argomento in parola si profila dunque decisivo a dimostrare la denunciata omissione.

7.3. Preme inoltre al rimettente Tribunale rammentare che all’epoca della promulgazione del decreto legislativo 152/2006 riecheggiò sulla stampa, suscitando intuitivo scalpore e connesse preoccupazioni istituzionali, la reazione del Presidente della Repubblica Ciampi, il quale rinviò al Governo il testo dell’articolato, rifiutandosi di firmarlo, proprio a motivo della omessa acquisizione del parere del Consiglio di Stato oltre che per la mancata considerazione del parere negativo della Conferenza Stato – Regioni e delle associazioni ambientaliste.

Ebbene, si ricordi che il Governo rispose ai rilievi del Capo dello Stato con affermazioni di tenore meramente interlocutorio incentrate sugli ambiti della delega legislativa, assumendo, come si legge in reports della pubblicistica dell’epoca, tuttora disponibili sulla rete Internet, che il parere del Consiglio di Stato non era obbligatorio in quanto il Codice, non contenendo la disciplina relativa alle aree protette, all’inquinamento acustico e all’energia, non può essere considerato un Testo Unico.

E’ peraltro agevole opporre sul punto che l’ampiezza del contenuto della delega come definito all’art. 1 alle lett.a) –g del comma 1 della L. n. 308/2004, non consentiva, né consente, peraltro, di dedurre che il testo unico ambientale dovesse necessariamente abbracciare tutte le materie dettagliate alle lettere a)-g) dell’art. 1, comma 1 della legge, come si arguisce dalla formulazione della norma stessa, secondo cui il Governo era delegato ad adottare “uno o più decreti legislativi” nelle predette materie, conseguendone che la delega poteva anche essere attuata mediante un solo decreto, relativo ad alcuno o alcuni dei settori e materie de quibus.

Ma, oltretutto, giova rimarcare che l’assunto del Governo non convince già in punto di fatto. L’inquinamento acustico e l’energia non figurano, invero, tra i settori e le materie oggetto di delega, per cui il Governo non era neanche legittimato ad inserire nel testo unico la disciplina di detti settori e materie. Soltanto la “gestione delle aree protette”, materia la cui disciplina il Governo lamentava non essere stata inserita nel corpo del testo unico ambientale, è annoverata (lett. d) tra i possibili oggetti dell’emanando testo unico.

Ma a tal riguardo, appare davvero difficile sul piano giuridico poter ragionevolmente sostenere che il testo unico di cui al d.lgs. n. 152/2006 censurato non possiede la natura di testo unico solo perché non disciplina le aree protette.

Auspica, pertanto, il remittente Collegio l’intervento di codesta sovrana Corte, unica suprema Istituzione depositaria del potere di ripristinare, con l’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale, l’ordine giuridico violato con la rilevata infrazione dell’art. 76 della Carta fondamentale, vulnerato con la denunciata omissione della richiesta e conseguente acquisizione del parere del supremo Consesso consultivo dello Stato.

Le inconfutabili fonti di prova finora ricostruite devono, pertanto,indurre a concludere che l’art. 153, nonché l’intero testo unico ambientale, c.d. Codice dell’Ambiente, di cui al d.lgs. n. 152/2006 e al primo suo decreto correttivo, sono stati varati senza la prescritta necessaria previa acquisizione del parere del Consiglio di Stato, mancanza che concreta la violazione di uno dei principi – e criteri direttivi – discendenti dal combinato disposto della legge di delegazione n. 308/2004, dell’art. 17, comma 25, lett. a), legge 15 maggio 1997, n. 127 nonché dell’art. 16, comma 1, n. 3, t.u. n. 1054 del 1924.

L’infrazione di tutte le citate norme di principio sostanzia, come più sopra meglio e diffusamente sviscerato, la diretta violazione dell’art. 76 della Costituzione che fissa i limiti cui il potere esecutivo deve rigorosamente attenersi nell’esercizio della funzione legislativa delegata dal Parlamento, espressione dello Stato – Comunità e del corpo elettorale nelle sue multiformi e variegate espressioni e manifestazioni che consente il principio democratico su cui è intelaiata la Costituzione repubblicana.

8.1. Può ora approdarsi alla disamina del secondo sospetto di collisione costituzionale, del quale più specificamente ritiene afflitto il remittente Tribunale l’art. 153 del d.lgs. n. 152/2006, che appare vulnerare il principio di invarianza della finanza pubblica locale, espressamente annoverato all’art. 1, comma 1 e coma 8, lett. c) della legge di delegazione, L. n. 308/2004, tra gli specifici principi e criteri direttivi vincolanti l’esercizio della delega legislativa al Governo.

Riprendendo la focalizzazione della problematica in parola già tratteggiata in apertura, va ricordato che il principio di gratuità della concessione in uso delle reti e delle infrastrutture complessive strumentali alla gestione del servizio idrico integrato, scolpito nella predetta inderogabile norma del testo unico, appare al remittente Collegio urtare frontalmente con uno dei criteri direttivi di cui alla legge delega del 15.12.2004, n. 308, il cui art. 1, comma 8 stabiliva expressis verbis che i decreti delegati di riordino della legislazione in materia di ambiente dovessero informarsi ai criteri direttivi dettagliati al comma 8 dell’art. 1, tra i quali alla lett. c) consta quello della “invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica”.

Identico limite è, inoltre, in via generale fissato all’art. 1, comma 1 delle legge delega, che conferiva al Governo la potestà di “adottare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, uno o più decreti legislativi di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative” in materia ambientale, purché ciò avvenisse “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

Come sopra anticipato, ritiene il remittente Tribunale che la norma scaturente da entrambe le suindicate disposizioni definisca il principio direttivo, vincolante il legislatore delegato, in ossequio al quale la novella disciplina di tutti i settori e le materie indicati alle lettere a) – g) dell’art. 1 della l. n. 308/2004 quali contenuti del nuovo testo unico ambientale, potesse essere riordinata, innovata, coordinata e integrata a patto di non determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, in particolare, rispettando il canone definito all’art. 8, lett.c) come “invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica”.

8.2. Sembra al riguardo opportuna una precisazione circa il concetto e la nozione di finanza pubblica additata nelle norme in esame, onde delinearne il raggio di azione e il confine applicativo. Appare sul punto intuitivo che l’elemento soggettivo delle finanza pubblica vada definito con riferimento all’Ente pubblico sul quale va ad incidere la novella disciplina, potendo tale profilo soggettivo mutare a seconda del soggetto titolare della funzione, dell’attività o della competenza via via disciplinata dalle singole norme, potendo correlativamente tale soggetto, identificarsi con lo Stato, con le Regioni ovvero con gli Enti locali.

Altrimenti detto, non è finanza pubblica, rispetto alla quale opera il delineato principio di tutela e di salvaguardia, solo quella che fa capo allo Stato centrale; lo è anche quella che ha il suo centro di imputazione negli altri Enti pubblici e in specie in quelli territoriali (Regioni) e locali. Potenziale destinatario della clausola di salvaguardia scolpita ai commi 1 e 8, lett. c) dell’art. 1 della legge delega è, pertanto, ogni Ente pubblico titolare di un’entrata tributaria patrimoniale e lato sensu finanziaria e come tale centro di imputazione e gestione di un gettito finanziario.

Un operatore pubblico è infatti, secondo le teoriche della scienza delle finanze, un soggetto attivo dotato di potestà finanziaria.

In tal senso, non è revocabile in dubbio che un Comune è un soggetto titolare di entrate tributarie e centro di imputazione e gestione di un gettito finanziario, di un bilancio che contempla poste attive e passive, voci di entrata e voci di spesa.

E’ quindi un Ente locale, uno dei soggetti pubblici a favore dei quali deve ritenersi operare il principio di salvaguardia dell’invarianza degli oneri per la finanza pubblica, fissato all’art. 1, commi 1 e 8, lett. c) della L. n. 308/2004 ed assurgente a vincolante principio e criterio direttivo che il Governo doveva necessariamente rispettare nell’elaborazione delle norme di attuazione della legge di delegazione.

8.3. Del pari si impone una breve riflessione sull’ambito oggettivo della nozione di finanza pubblica. Al riguardo appare al remittente Collegio illuminante ai fini esegetici che qui interessano e in particolare allo scopo di far luce sui confini della nozione di “finanza pubblica” alla cui salvaguardia il Legislatore delegante ha predisposto il vincolante principio e criterio direttivo contenuto all’art. 1, commi 1 e 3, lett. c) della legge delega, la definizione che della nozione in analisi offrono le moderne e ormai dominanti teorie della scienza delle finanze, che (discostandosi in parte dalle tesi griziottiane) identificano la finanza pubblica in quell’attività posta in essere dagli enti pubblici per l’ottenimento delle risorse necessarie all’adempimento delle loro funzioni.

Deve, pertanto, fornirsi della norma de qua un’interpretazione rispettosa della riportata definizione, operandosene una lettura finalistica e di risultato, ovverosia puntualizzata non su singoli elementi o voci della c.d. finanza pubblica (locale, nel nostro caso), bensì muovendo l’osservazione da un angolo visuale complessivo e di insieme.

Con l’ausilio di siffatta ampia prospettiva di indagine, suffragata anche dal concetto tecnico di finanza pubblica accreditato dalle moderne ricordate sistemazioni della scienza delle finanze, deve quindi affermarsi che il Legislatore con il cennato principio di tutela della finanza pubblica da aggravio di oneri, aveva inteso bandire e scongiurare l’introduzione, attraverso le emanande disposizioni delegate e i loro meccanismi ed effetti applicativi, non solo di nuove voci di spesa e cioè di nuovi esborsi a carico degli enti pubblici titolari di centri di entrata finanziaria, ma altresì la produzione di minori entrate mediante la radicale eliminazione di poste attive di bilancio, o la loro riduzione.

Evenienze che, intuitivamente, equivalgono, nella divisata prospettiva di indagine complessiva e di insieme, a un maggiore onere per la finanza locale.

In proposito il Comune di Vercelli nella memoria per l’Udienza pubblica ha infatti opportunamente affermato che l’esclusione della possibilità di stabilire nella convenzione di affidamento un canone per l’uso delle infrastrutture idriche, concreta una minore entrata, che ha lo stesso effetto finale e sostanziale di una nuova spesa. Opzione che collima con quanto dianzi argomentato in ordine al profilo oggettivo della nozione di finanza pubblica riguardata nella prospettiva di insieme più sopra definita.

8.4. Sulla scorta delle riflessioni ora ora svolte sul punto deve, quindi, concludersi che l’art. 153 del d.lgs. n. 152/2006 infrange il principio e il criterio direttivo (ex art. 1, co. 8, lett. c) della L. n. 308/2004) dell’invarianza degli oneri per la finanza pubblica poiché se quest’ultima è l’attività dispiegata degli enti locali per conseguire le risorse economiche atte a far fronte all’adempimento delle loro funzioni, la denunciata norma introduttiva della necessaria gratuità della concessione delle infrastrutture idriche vulnera ed incide negativamente quell’attività pubblica intesa al reperimento delle risorse necessarie ai fini istituzionali degli enti pubblici - nel che consiste come ricordato la “finanza pubblica” - poiché priva i Comuni di una non indifferente fonte di entrata e di autofinanziamento costituita dal corrispettivo della cessione in uso dei beni afferenti alle infrastrutture idriche. Si ricordi che il canone per cui è causa ammontava ad € 2.345.000 annue, da corrispondersi al Comune di Vercelli da parte del gestore del servizio idrico, per ben vent’anni.

9.1. La norma di cui all’art 153 del testo unico che il Tribunale indubita di infrazione costituzionale nella parte in cui istituisce il principio della necessaria gratuità delle infrastrutture impatta, tra l’altro, anche con una delle finalità del decreto delegato indicate al suo art. 2, dedicato appunto alle finalità generali della novella normativa e come tali collocantesi ad un livello di primarietà rispetto alle diposizioni di dettaglio contenute nei successivi articoli del c.d. Codice dell’ambiente.

Invero, rimarca il remittente Collegio che la censurata norma contrasta anche con la finalità espressamente enunciata all’art. 2, comma 3 del d.lgs. n. 152/2006, a mente del quale “Le disposizioni di cui al presente decreto sono attuate nell\'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

Dalla menzione del principio dell’immodificabilità in peius degli oneri per la finanza pubblica nel corpo dello stesso decreto delegato e tra le disposizioni di principio e di scopo, risulta quindi rafforzato il carattere di principio ineludibile e vincolante, ai sensi e per gli effetti dell’art. 76 della Costituzione, che va riconosciuto al canone imperativo dell’invarianza della finanza pubblica (nella specie, locale) e a quello dell’impossibilità di creare nuovi o maggiori oneri per la stessa.

9.2. Ravvisa, pertanto, il Tribunale rimettente anche una intrinseca contraddittorietà e antinomia, operante all’interno dello stesso corpus normativo delegato, tra l’art. 153 del testo unico e l’art. 2, comma 3 appena riportato e assurgente a norma di principio, affatto prevalente rispetto alla prima.

Invero, non è chi non veda che se lo stesso Governo delegato ha inserito tra le finalità del decreto la salvaguardia dell’invarianza della finanza pubblica, già efficacemente peraltro elevata dal Parlamento delegante a principio e criterio direttivo cogente del legittimo esercizio della delega legislativa, l’opzione insita nell’art. 153 del testo unico, di eliminare una consistente fonte di entrata e di autofinanziamento dei Comuni per effetto dell’abolizione del canone di concessione dell’uso delle reti ed infrastrutture idriche, si profila manifestamente illogica, irragionevole e intrinsecamente contraddittoria e, come detto, confliggente con lo stesso art. 2, co. 3 del decreto.

9.3. Per tali ragioni il remittente Collegio solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 153 anche per violazione del canone costituzionale della ragionevolezza, logicità e interna coerenza della legge, stante il delineato contrasto della censurata norma con lo stesso art. 2 del decreto, recante la disposizione di principio inerente alle finalità del decreto legislativo stesso.

10.1. Vale la pena, inoltre, conclusivamente evidenziare come la norma sospettata di collisione costituzionale, nell’introdurre con tratti di assoluta novità il principio di gratuità, conseguentemente sopprimendo una ragguardevole fonte di entrata e di autofinanziamento degli enti locali, si ponga in controtendenza ed in antitesi con le linee di evoluzione dell’ordinamento finanziario degli enti locali, che muovono sempre più nel senso del rafforzamento dell’autonomia impositiva e dell’autosufficienza finanziaria degli enti stessi, nella prospettiva costituzionale di incoraggiamento delle autonomie locali e di perseguimento della loro autonomia finanziaria di entrata, attribuita a Comuni e Province dall’art. 119 della Costituzione.

Autonomia ed autosufficienza che previamente postulano il rafforzamento della potestà impositiva di tali enti e l’incentivazione della loro autonoma potestà finanziaria.

Conviene ora procedere ad una rapida ma necessariamente inesaustiva ricostruzione dell’evoluzione dell’ordinamento finanziario degli enti locali, onde far risaltare come l’art. 153 denunciato si ponga in assoluta controtendenza rispetto alle cennate linee evolutive del sistema in subiecta materia.

10.2. Va in proposito rammentato che già l’art. 54 della L. 8.6.1990, n. 142 (abrogata, come noto, dal d.lgs. n. 267/2000), nella complessiva ottica di valorizzazione e incentivazione delle autonomie locali, gettava le basi per una completa rivisitazione in materia di , dettando taluni principi informatori e rinviando a successiva specifica legge ordinaria la fissazione di analitiche disposizioni di dettaglio.

Il prevalente principio informatore tracciato dal legislatore del 1990 era quello del riconoscimento di autonomia finanziaria agli enti locali, fondata oltre che sui trasferimenti erariali, anche e soprattutto su “risorse proprie”. In armonia ed iniziale attuazione di siffatto innovativo principio, l’art. 54 della Legge sulle autonomie locali aveva previsto tra i fattori e gli elementi che dovevano costituire le fonti della finanza degli enti locali, “altre entrate proprie, anche patrimoniali”.

Il riferimento era, all’evidenza, alle entrate patrimoniali costituenti il corrispettivo (in chiave sinallagmatica) dell’uso dei beni patrimoniali produttivi, suscettibili di utilizzazione economica da parte di privati. Tra tali beni campeggiavano proprio le infrastrutture strumentali all’erogazione dei servizi pubblici e, in particolare, le reti idriche, fognarie, i metanodotti, etc.. Tant’è che nel concreto operare del modulo gestionale dei servizi pubblici locali, definito all’art. 22, co. 3, lett. e), della citata L. n. 142/90, dell’affidamento della gestione a società miste pubblico – privato, il collegamento negoziale adoperato contemplava la sottoscrizione di un contratto di servizio o di una convenzione accessiva, - benché non necessaria nel modello gestorio dell’affidamento diretto a società a prevalente o integrale capitale pubblico, come subito chiarito dalla giurisprudenza - contestuale alla clausola pattizia mediante la quale il Comune non cedeva in proprietà i relativi beni strumentali – incedibili siccome appartenenti al suo patrimonio indisponibile – ma li concedeva in uso al gestore per tutta la durata dell’atto di affidamento e della correlativa convenzione.

Quei beni, quindi, rappresentavano una posta attiva, che generava il corrispettivo di un prezzo a favore dell’Ente locale. Persisteva, del resto, il fenomeno della concessione di aree del patrimonio comunale a privati dietro corrispettivo di una tariffa, poi divenuta canone, anche ad evidenziarne la derivazione da una vicenda sinallagmatica, nella sostanza assimilabile ad un diritto personale di godimento.

10.3. Tra le leggi specifiche di cui, come avvertito, la L. n. 142/90 preconizzava l’adozione, fu approvata la l. 23.10.1992, n. 421 (nota per avere delegato il Governo ad attuare la privatizzazione del pubblico impiego poi avviata con il d.lgs. n. 29/1993) che attribuiva all’Esecutivo la delega per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza territoriale. Il relativo art. 4 contemplava l’istituzione di nuove entrate locali e quindi, in attuazione di tale mandato parlamentare, il Governo emanò il d.lgs.30.12.1992, n. 504, con il quale sono state attribuite nuove risorse a regioni, province e comuni mediante la diretta creazione di nuovi tributi, quali l’ICI.

Seguivano il D.Lgs. 15.12.1997, n. 447 attuativo della delega contenuta nel c.d. collegato alla Legge Finanziaria per il 1997 (L. 23.12.1996, n. 662) ed istitutivo dell’IRAP. Con questo decreto delegato è stata attuata una profonda e strutturale modifica del sistema tributario, procedendosi ad un riordino dei tributi locali nonché delle relative competenze spettanti agli enti locali.

Lo scopo principale di siffatta novella, come evidenziato dalla dottrina, era da individuare nell’intento di rafforzare l’autonomia degli enti locali onde consentire loro una maggiore capacità di autofinanziamento, compiendo un significativo passo in avanti sul sentiero, del quale già la L. n. 142/1990 era timidamente antesignana, del c.d. federalismo fiscale.

Il ricostruito corpus normativo faceva, dunque, consistentemente profilare sull’orizzonte delle fonti di finanziamento degli enti locali la macrocategoria di entrata non tributaria rappresentata dall’utilizzazione per finalità di pubblico servizio e con indiretti ritorni economici dei beni patrimoniali. Coerentemente con questa cornice normativa, il D.P.R. 31 gennaio 1996, n. 194 recante il “Regolamento per l\'approvazione dei modelli di cui all\'art. 114 del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77, concernente l\'ordinamento finanziario e contabile degli enti locali” definiva infatti cinque categorie di entrate extratributarie degli enti locali, la seconda delle quali (accanto ai proventi dei servizi pubblici, ai proventi finanziari – ossia interessi su depositi, su capitale conferito ad aziende speciali e società partecipate – ai proventi per utili da aziende speciali partecipate a alla residuale categoria dei proventi diversi) era individuata nei “proventi dalla gestione patrimoniale”.

Tra questi ultimi la sistematica di teoria della finanza locale suole annoverare sia il canone per l’occupazione dei suoli ed aree pubbliche (COSAP) che ha sostituito la pregressa entrata, di natura tributaria, della TOSAP, sia, per evidente affinità sostanziale oltre che funzionale, il canone per la concessione in uso di beni patrimoniali, che viene talora incluso nelle classificazioni della finanza locale nella categoria contermine dei proventi per utili da aziende speciali e partecipate.

E’ di tutta evidenza, pertanto, che le infrastrutture idriche vanno sussunte nella categoria dei beni patrimoniali, ancorché afferenti al patrimonio indisponibile o addirittura al “demanio”egli enti locali, di cui sono parte gli acquedotti, che per il combinato disposto degli art. 822, comma 2 e 824 c.c. sono soggetti alla disciplina dei beni demaniali.

10.4. Dalla ricostruzione in tal modo riepilogata nei suoi tratti essenziali della cornice ordinamentale della finanza locale, può inferirsi che le infrastrutture idriche sono state sempre concepite come un fattore di alimentazione del circuito della finanza locale, in nome dell’autofinanziamento e dell’autosufficienza, profili rilevanti di quella “autonomia finanziaria di entrata” che l’art. 119, comma 1 della Carta costituzionale riconosce ai Comuni.

Ne consegue, a parere del rimettente Tribunale, che l’opzione legislativa che sottende il principio di gratuità che questo Giudice indubita di infrazione costituzionale, vulnera e infirma, dunque, tutto il ricostruito corpus normativo della finanza locale, il quale appare attraversato e permeato da un obiettivo di rafforzamento del canone dell’autofinanziamento, enucleabile dal complesso delle disposizioni sopra sommariamente passate in rassegna.

10.5. Orbene, non può sottacersi che siffatto vulnus sarebbe apparso sicuramente criticabile ma probabilmente sarebbe stato costituzionalmente legittimo qualora fosse scaturito da una consapevole scelta del Legislatore ordinario, che con norma equiordinata a quelle, poc’anzi segnalate, espressive del principio di autofinanziamento, avrebbe legittimamente potuto derogarvi, apportandovi anche un significativo temperamento, individuabile nella sottrazione delle infrastrutture idriche dal novero delle possibili fonti di autofinanziamento derivanti dalle entrate patrimoniali dei Comuni.

Difetta invece nella vicenda che si prospetta a codesta sovrana Corte, la necessaria norma di legge ordinaria abilitante, poiché non è consentito al remittente Tribunale individuarla negli art. 153 del testo unico e 1, commi 1 e 8 della Legge delega. Dal raffronto e dalla lettura sinottica della citata norma del decreto delegato in uno con le due predette disposizioni di principio della legge delega, emerge infatti un patente conflitto e traspare che la scelta di introdurre il principio di gratuità di cui all’art. 153 del decreto delegato, in tal modo sottraendo le infrastrutture idriche dal novero dei beni patrimoniali produttivi di entrata, non è stata autorizzata dal Parlamento e non trova quindi supporto nella legge di delegazione n. 308 del 2004 ma origina da un’autonoma voluntas del Governo.

La quale oblitera il limite e il vincolo della “invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica” fissato dall’art. 1, comma 8 punto c) della Legge delega ed espressamente qualificato tra i “principi e criteri direttivi generali” dall’ultimo periodo del predetto comma 8.

A tal proposito giova ribadire il concetto espresso dal Comune di Vercelli nella memoria per l’Udienza e aderente all’argomentare fin qui diffusamente trattato: sopprimere un’entrata equivale a, o meglio, ha lo stesso effetto di creare una nuova spesa.

Effetto, lo si rimarca, espressamente bandito dal Legislatore delegante.

10.6. Oltretutto, come più sopra evidenziato, lo stesso Legislatore delegato ha stabilito all’art. 2 del decreto legislativo, dedicato proprio alle finalità del testo unico, la norma, cui pure va annesso, ad avviso del remittente Collegio,carattere di diposizione di principio, secondo la quale: “Le disposizioni di cui al presente decreto sono attuate nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” (art. 2, comma 3, d.lgs. n. 152/2006).

Il principio di gratuità della concessione in uso delle infrastrutture idriche con la connessa incisione della finanza pubblica comunale concreta pertanto, oltre che una violazione dei “principi e criteri direttivi generali” - giusta l’espressa qualificazione in tal senso contenuta all’art. 1, comma 8, ultima alinea della l. n. 308/2004 della “invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica” (lett. c) comma cit.) - e l’infrazione del vincolo definito all’art. 1, comma 1l.cit. in ossequio al quale la delega avrebbe dovuto esercitarsi “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, anche un intrinseco vizio di irragionevolezza, incongruenza e illogicità interni al decreto stesso, per via della rilevata collisione con la finalità generale assegnata con norma di principio dall’art. 2 del decreto delegato e che ripete il criterio direttivo impartito all’art.1 commi 1 e 8 lett.c) della legge delega, ribadendolo nell’impossibilità di determinare “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

10.7. Appare pertanto al remittente Collegio infranto con l’art. 153 del d.lgs. n. 152/2006 sia l’art. 1, commi 1 e 8, lett. c) della L. 15.12.2004, n. 308 che l’ineludibile canone della ragionevolezza, della logicità e della coerenza legislativa, parimenti soggetto al sindacato di codesta sovrana Corte al lume dell’art. 3 della Carta costituzionale.

10.8. Va quindi in definitiva considerato che il decremento economico derivante dall’impossibilità per i Comuni di stabilire un canone nelle convenzioni di concessione in uso delle infrastrutture idriche importa conseguentemente che viene in parte qua a ridursi la possibilità di autofinanziamento che quei proventi comunque assicurano, inducendo corrispondentemente i Comuni a ricorrere ad aiuti statali o all’indebitamento per colmare quella lacuna finanziaria attraverso mutui più o meno onerosi o il ricorso al debito pubblico.

Il tutto genera, all’evidenza, una corrispondente compressione del quantum di autonomia di entrata che le fonti di reddito in questione concorrevano in parte qua ad assicurare, discendendone che dalla norma del testo unico indubitata di violazione costituzionale, risulta infranto anche l’art. 119, comma 1 della Carta costituzionale, in forza del quale “i Comuni (…) hanno autonomia finanziaria di entrata” e di spesa.

11.1. In conclusione, qui richiamando le considerazioni tutte svolte ai punti che precedono, ritiene il remittente Tribunale che l’art. 153 del d.lgs. n. 152/2006, unitamente all’intero decreto delegato, violi l’art. 76 della Costituzione per aver disatteso i principi e criteri direttivi discendenti dal complesso delle disposizioni vigenti in materia di approvazione dei testi unici e, in particolare, dagli art. 17, co. 25, lett. a) della L. n. 127/1997, 16, co. 1, n. 3, t.u. n. 1054/1924 poi ribaditi dall’art. 17-bis della L. n. 400/1988 come inserito dall’art. 5, comma 2 della L. 18.6.2009, n. 69, e ormai costituenti principi e criteri direttivi immanenti al sistema riferibile all’intero contesto in cui si collocano (giusta Corte Cost. n. 280/2004) e integrativi dei principi e criteri direttivi specificamente enunciati dalle singole leggi di delegazione, quali, nel caso che occupa, la L. 15.12.2004, n. 308).

11.2. Opina altresì il remittente Collegio che l’art. 153 del d.lgs. n. 152/2006, nella parte in cui dispone che le infrastrutture tutte afferenti al servizio idrico sono concesse in uso gratuitamente al gestore del medesimo, configuri una patente infrazione di uno degli ineludibili e cogenti criteri e principi direttivi intagliati nell’art. 1 commi 1 e 8 lett. c) della legge di delegazione, ossia del principio di “invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica” (comma 8, lett.c. cit.) e di quello dell’impossibilità che le disposizioni del decreto legislativo, con cui il Governo doveva esercitare la delega, determinino “nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” (art. 1, comma 1 L. cit.).

Il che si traduce in ulteriore violazione dell’art. 76 della Costituzione.

E’, oltretutto, anche indirettamente vulnerato l’art. 119 della Carta Costituzionale, che scolpisce il principio e il canone in ossequio al quale, per quanto qui interessa, “I Comuni (…) hanno autonomia finanziaria di entrata”

11.3. Reputa, infine, il remittente Tribunale, che il denunciato disposto di cui all’art. 153 del d.lgs. n. 152/2006 nella censurata sua parte sopra riportata, integri anche un ulteriore profilo di intrinseco e interno contrasto con le stesse finalità generali dell’articolato normativo complessivo, definite all’art. 2 del medesimo d.lgs. n. 152/2006 – con norma che, quindi, per la sua stessa collocazione e numerazione deve qualificarsi di principio – e ivi precisate nei perentori termini per cui “Le disposizioni di cui al presente decreto sono attuate nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” (art. 2, comma 3, d.lgs. n. 152/2006).

Il cennato contrasto si traduce in un evidente profilo di irragionevolezza, incongruenza, contraddittorietà interna ed illogicità intrinseca dell’articolato legislativo censurato, ridondando quindi nella violazione dell’art. 3 della Costituzione sub specie di infrazione del principio di ragionevolezza, logicità e coerenza interna della legge.

Per le ragioni tutte finora investigate, sul fondamento delle argomentazioni che precedono ed alla stregua della ritenuta e illustrata rilevanza e non manifesta infondatezza delle tre prospettate questioni, si rimette la loro decisione alla Corte Costituzionale con sospensione del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte, Prima Sezione, letto l’art. 23 della L. 11.3.1953 n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata:

1. in relazione all’art. 76 della Costituzione e in riferimento alla violazione degli artt. 17, co. 25, lett. a) della L. 15.5.1997, n. 127 e 16, co.1, n. 3, T.U. 26.6.1924, n. 1054, la questione di legittimità costituzionale di tutto il d.lgs.3.4.2006, n. 152 e, in particolare, dell’art. 153 stesso decreto, nella parte in cui stabilisce: “Le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi dell\'articolo 143 sono affidate in concessione d\'uso gratuita, per tutta la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato” per non avere il Governo richiesto e acquisito il previo obbligatorio parere del Consiglio di Stato;

2. 1. in relazione all’art. 76 della Costituzione e in riferimento alla violazione del principio e criterio direttivo definito all’art. 1 commi 1 e 8 lett. c) della legge di delegazione, ossia del principio di “invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica” (comma 8, lett.c. cit.) e di quello sull’impossibilità che le disposizioni del decreto legislativo, con cui il Governo doveva esercitare la delega, determinino “nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” (art. 1, comma 1 L. cit.), la questione di legittimità costituzionale dell’art. 153 del d.lgs. 3.4.2006, n. 252, nella parte in cui stabilisce: “Le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi dell\'articolo 143 sono affidate in concessione d\'uso gratuita, per tutta la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato”;

2.2. in relazione all’art. 119, comma 1 della Costituzione in ossequio al quale, per quanto qui interessa, “I Comuni (…) hanno autonomia finanziaria di entrata”, la questione di legittimità costituzionale del citato art. 153, nell’inciso sopra riportato, che comprime e lede la predetta “autonomia finanziaria di entrata”;

3. la questione di legittimità costituzionale dell’art. 153 del d.lgs. 3.4.2006, n. 252, nella parte in cui stabilisce: “Le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi dell\'articolo 143 sono affidate in concessione d\'uso gratuita, per tutta la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato”, in relazione all’art. 3 della Costituzione e al correlativo principio di ragionevolezza, logicità e coerenza interna della legge, per la sua manifesta collisione con il disposto di cui all’art. 2 del medesimo d.lgs. n. 152/2006 che definisce con norma di principio le finalità del testo unico sull’ambiente nei perentori termini in forza dei quali “Le disposizioni di cui al presente decreto sono attuate nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” (art. 2, comma 3, d.lgs. n. 152/2006).

Sospende medio tempore il presente giudizio con rinvio al definitivo per ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese di lite.

Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Ordina che, a cura della Segreteria del Tribunale, la presente Ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della conseguente pronuncia della Corte Costituzionale decorrerà il termine perentorio di mesi sei per la riassunzione davanti a questo Tribunale Amministrativo Regionale del giudizio medio tempore con la presente Ordinanza sospeso.

Così deciso in Torino nella Camera di Consiglio del giorno 3 aprile 2009 con l\'intervento dei Magistrati:

Paolo Giovanni Nicolo\' Lotti, Presidente FF

Alfonso Graziano, Referendario, Estensore

Paola Malanetto, Referendario



L\'ESTENSORE IL PRESIDENTE




DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 03/09/2009

IL SEGRETARIO